Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Emigrazione, immigrazione ed esilio sono stati da sempre, e ognuno per sé, fonte di creatività letteraria. Ogni essere umano, che si sposta o che è costretto a spostarsi da uno spazio, da una storia, da una società, da una lingua a un’altra, si ricostruisce un contesto sociale per ridare dignità alla sua esistenza o per attuare il suo progetto di vita. Questa operazione di intensa creatività esistenziale sfocia a volte nella scrittura. Per il Novecento europeo emigrazione, immigrazione ed esilio vanno annoverati tra gli impulsi che hanno concorso in modo decisivo al rinnovamento delle letterature nazionali perché ne hanno smorzato l’autoreferenzialità entro la quale rischiavano di perdersi.
Letteratura e migrazioni
Giovanni Verga
I Malavoglia, Cap. XI
Le vicine venivano ad una ad una a salutare compare ’Ntoni, e poi stettero ad aspettarlo sulla strada per vederlo partire. Egli indugiava col fagotto sulle spalle, e le scarpe in mano, come all’ultimo momento gli fossero venute meno il cuore e le gambe tutt’a un tratto. E guardava di qua e di là per stamparsi la casa e il paese, ogni cosa in mente, e aveva la faccia sconvolta come gli altri. Il nonno prese il suo bastone per accompagnarlo sino alla città, e la Mena in un cantuccio piangeva cheta cheta. - Via! diceva ’Ntoni, orsù, via! Vado per tornare alla fin fine! e sono tornato un’altra volta da soldato. - Poi, dopo ch’ebbe baciata Mena e la Lia, e salutate le comari, si mosse per andarsene, e Mena gli corse dietro colle braccia aperte singhiozzando ad alta voce, quasi fuori di sé, e dicendogli: - Ora che dirà la mamma? ora che dirà la mamma? - Come se la mamma avesse potuto vedere e parlare. Ma ripeteva quello che le era rimasto più fitto nella mente, quando ’Ntoni aveva detto un’altra volta di voler andarsene, e aveva vista la mamma piangere ogni notte, che all’indomani trovava il lenzuolo tutto fradicio, nel rifare il letto:
- Addio, ’Ntoni! gli gridò dietro Alessi facendosi coraggio, come il fratello era già lontano; e allora la Lia cominciò a strillare. - Così se n’è andato mio padre, disse infine la Nunziata, la quale era rimasta sulla porta.
’Ntoni si voltò prima di scantonare dalla strada del Nero, cogli occhi lagrimosi anche lui, e fece un saluto colla mano. Mena allora chiuse l’uscio, e andò a sedersi in un angolo insieme alla Lia, la quale piangeva a voce alta. - Ora ne manca un altro della casa! disse lei. E se fossimo nella casa del nespolo parrebbe vuota come una chiesa.
Come se ne andavano ad uno ad uno tutti quelli che le volevano bene, ella si sentiva davvero un pesce fuori dell’acqua. E la Nunziata, là presente, colle sue piccine in collo, tornava a dire: - Così se ne è andato mio padre.
Dalla seconda metà dell’Ottocento alla fine della seconda guerra mondiale, la vita sociale dell’Europa occidentale è stata segnata da emigrazioni, aggressioni coloniali in Africa e Asia, e da flussi di esuli. Nella seconda metà del Novecento l’Europa stessa è stata trasformata in terra d’immigrazione da parte degli ex colonizzati e da altri flussi d’immigrazione, che si presentano come estremamente eterogenei. Nell’arco di questi 150 anni si è verificata un’interazione costante tra flussi migratori e letteratura e ovviamente anche tra flussi migratori e cinema, musica, teatro, danza, pittura e moda. L’intensità dell’interazione è percepibile in quattro sfere, diverse per intensità, visibilità e risultati. La prima sfera d’interazione tra emigrazione/esilio e letteratura è monolingue, perché l’interazione ha luogo solo all’interno della letteratura del Paese, in cui nasce l’emigrazione, e si concretizza in opere sparse e raramente nella continuità tematica di un autore. La seconda sfera d’interazione tra letteratura e immigrazione/esilio è bilingue, perché avviene all’interno del Paese di immigrazione, ed è promossa da autori che continuano a scrivere nella lingua madre e da autori che decidono di scrivere nella lingua della società in cui vogliono realizzare il loro progetto di vita. La terza sfera d’interazione tra immigrazione e letteratura si caratterizza per un ritorno al monolinguismo anche se ha luogo all’interno di un contesto d’immigrazione. La quarta sfera di interazione è piuttosto un flusso di ritorno, che ha contribuito e contribuisce a rinnovare le letterature nazionali di partenza. Pertanto si va da una prima sfera d’interazione non ancora esplorata con la dovuta attenzione, a una seconda e terza sfera ricche di icone delle letteratura mondiale contemporanea, per giungere a una quarta sfera che stenta a essere accreditata come tale dalle filologie nazionali anche se i suoi risultati sono più che evidenti.
Emigrazione e letteratura nazionale in Italia dal 1870 alla prima repubblica
Al di là dell’autoreferenzialità che caratterizza la ricerca scientifica all’interno delle filologie nazionali, il ritardo con cui la filologia italiana sta scoprendo la sfera d’interazione tra emigrazione e letteratura è dovuto al fatto che essa non ha accolto la diversità fondante, che separa l’emigrazione dall’immigrazione. Per emigrazione vanno intese le conflittualità subite o il progetto ideato che portano all’emigrazione. Per immigrazione vanno intese la ricostruzione di un contesto sociale e la realizzazione del progetto di vita all’interno di uno spazio, di una storia, di una società e di una lingua diversa da quella di appartenenza. Ad avere intuito la diversità fondante tra i due poli di un unico divenire sono stati i veristi Giovanni Verga e Luigi Capuana e la generazione a loro più vicina rappresentata da autori di novelle come Luigi Pirandello e Corrado Alvaro. A tornare sull’emigrazione in tempi repubblicani sono stati autori come Saverio Strati, Ignazio Silone e Pier Paolo Pasolini. Ma va fatto presente che non esistono gli autori d’emigrazione, cioè autori che hanno posto l’emigrazione al centro della loro scrittura. Ad eccezione di Saverio Strati (A mani vuote, 1960, ed È il nostro turno, 1975), gli altri si sono limitati a inserire l’emigrazione in una delle loro opere maggiori, ma sempre come tema secondario. Quello che accomuna autori così diversi e distanti nel tempo è l’argutezza con cui si sono limitati a trattare le conflittualità o il progetto di vita che spinge alla partenza, cioè all’emigrazione. A iniziare è stato Verga facendo vivere al suo ’Ntoni Malavoglia (1881) i conflitti e i progetti che preparano l’emigrazione. La stessa argutezza la si ritrova negli autori che hanno trattato il rifiuto dell’emigrazione che sfocia nella morte del contadino Santi Dimaura nel romanzo Il Marchese di Roccaverdina (1901) di Luigi Capuana o nell’ergastolo di Luca nel romanzo Il segreto di Luca (1956) di Ignazio Silone, mentre Pier Paolo Pasolini nel romanzo Il sogno di una cosa (1962) nega l’emigrazione come processo di diversificazione culturale, perché i suoi protagonisti alla fine del loro viaggio migratorio si ritrovano al punto di partenza. Dal canto loro gli autori di novelle Pirandello e Alvaro, avendo intuito che esteticamente è impossibile raccontare l’immigrazione come interazione con una culturale fuori dalla cultura d’origine, di cui si nutre la lingua nazionale, hanno capovolto la topografia immigratoria. Pirandello prima e Alvaro dopo si sono concentrati su un tema a cavallo tra emigrazione e immigrazione, che è l’arrivo del diverso in un paese d’emigrazione come in Lontano (1902) di Pirandello e in La donna di Boston (1929) di Alvaro, o il ritorno dell’ex emigrato come portatore di diversità ne Il vitalizio (1901) di Pirandello o ne Il rubino (1930) di Alvaro.
In realtà non è che autori italiani non abbiano provato a tematizzare l’immigrazione narrando la vita di immigrati italiani negli Stati Uniti. Lo hanno fatto tra gli altri Luigi Capuana con Gli “americani” di Ràbbato (1912), Corrado Alvaro in alcune novelle come Ventiquattr’ore (1930) e soprattutto Francesco Perri con il romanzo Emigranti (1928). Il loro progetto è fallito perché non hanno rispettato la diversità dei canoni narrativi nel tematizzare l’emigrazione e l’immigrazione, e perché hanno tentato di elaborare in una lingua nazionale, per un lettore nazionale una realtà interculturale. La prova del fallimento sono gli stereotipi a cui gli autori sono costretti a ricorrere nel rappresentare la diversità interculturale a cui va incontro chi parte da emigrato e scopre di doversi costruire un’appartenenza al futuro del paese in cui è giunto partendo dallo stato di immigrato.
Accanto a quelle opere che trattano aspetti circoscritti dell’emigrazione nella letteratura italiana del Novecento si è imposto il tema del ritorno dell’ex emigrato, ma in toni estremamente negativi. Chi ritorna, con o senza successo, torna per morire (Pirandello, Filo d’aria, 1914, o Nell’albergo è morto un tale, 1924); o è destinato a fallire nel tentativo di investire le competenze acquisite all’interno dell’altra cultura (Cesare Pavese, La luna e i falò , 1950, o Cesare De Marchi, Una crociera, 2002), o per diventare crumiro (Olindo in Metello, 1955, di Vasco Pratolini). Come se l’emigrazione italiana nel corso del Novecento fosse diventato un tabù collettivo, che di tanto in tanto insorge, e quindi va spiegato come una scelta che produce perdenti, per rassicurare i lettori stanziali.
Immigrazione e letteratura interculturale
Con la fine del colonialismo britannico, francese, portoghese, spagnolo, olandese e russo i relativi flussi immigratori hanno accelerato la trasformazione dell’Europa da continente di emigrazione a continente di immigrazione, nel senso che alle tradizionali migrazioni interne al continente si sono aggiunte immigrazioni da altri continenti. Queste ultime hanno conferito all’Europa uno spessore di interculturalità visibilmente più denso. Né va sottovalutato il fatto che l’Europa stessa si trova sulla via di un processo di integrazione che porterà a una identità interculturale dei suoi cittadini. Detto questo bisogna partire dalla fine dell’Ottocento per indicare in Joseph Conrad (1857-1924) il prototipo di un autore che, cambiando lingua, fonda il filone della letteratura interculturale, che nel corso del Novecento si estenderà a tutte le lingue europee indipendentemente dalla fama o dalla notorietà dei suoi autori. Nel frattempo il Novecento europeo dispone di icone letterarie più che visibili, dato il loro successo così assoluto, nato dalla scelta degli autori di fare interagire l’immigrazione con le letterature nazionali al livello più intenso, e cioè decidendo di cambiare lingua e di perseguire un progetto di scrittura in una lingua diversa dalla lingua della propria appartenenza culturale. È il caso del capostipite Joseph Conrad, ma anche di Vladimir Nabokov e di Samuel Beckett , i due grandi pendolari tra lingua diversa e lingua di appartenenza culturale. Per i tempi più recenti vanno ricordati Čingiz Ajtmatov, Albert Memmi, Jorge Semprún, Hector Bianciotti, V.S. Naipaul, Milan Kundera, Salman Rushdie, Assia Djebar o Tahar Ben Jelloun, passati a scrivere in russo, francese o in inglese. Per la letteratura interculturale in lingua italiana e in lingua tedesca, in cui l’interazione tra immigrazione e letteratura sta avvenendo a partire dagli anni Settanta vanno ricordati autori come Giorgio Pressburger, Fleur Jaeggy, Jarmila Očkayová, Julio Monteiro Martins, Helga Schneider, Gezim Hajdari giunti alla scrittura interculturale in lingua italiana provenienti da altre lingue e da altre culture. Tra gli autori interculturali di lingua tedesca vanno ricordati: Cyrus Atabay, Franco Biondi, Gino Chiellino, Zehra Cirak, György Dalos, Dante Andrea Franzetti, Adel Karasholi, Libuse Moníková, Emine Sevgi Özdamar, Ota Philip, Yüksel Pazarkaya, Said, Rafik Schami, Yoko Tawada, Galsan Tschinag, Natascha Wodin, in quanto autori che hanno una provenienza linguistica e culturale diversa della lingua in cui scrivono.
Che cosa rende interculturale la letteratura di questi autori rapportata alla letteratura nazionale che viene scritta nella stessa lingua? Al di là di quello che è percepibile a prima vista come può essere la diversità culturale delle metafore, dei personaggi, delle topografie e dei temi, in realtà l’operazione che li rende interculturali è l’interruzione del patto che lega scrittore e lettore all’interno delle letterature nazionali. Si tratta di un patto di lealtà alla propria appartenenza culturale, che consiste nel fatto che scrittore e lettore si riconoscono depositari di una lingua e di una memoria comune. Le opere, ma non per forza tutte, degli autori interculturali hanno la tendenza a sostituire il lettore nazionale con un lettore a-nazionale e di accostargli un interlocutore, che sia in grado di seguire lo svolgersi dell’opera al di là della lingua in cui essa è scritta. Per lettore a-nazionale si intende ogni lettore in grado di leggere la lingua in cui è composta l’opera, per interlocutore si intende chi, oltre che a leggere la lingua, riesce a seguire il racconto dove la lingua scritta attinge alla memoria storico-culturale della lingua dei personaggi. L’interlocutore è colui che, leggendo le opere degli autori in lingua inglese, francese, italiana o tedesca, riesce a seguire l’opera anche nel suo contesto storico-culturale indiano, tunisino, argentino, ceco, spagnolo, svizzero, brasiliano, italiano, iraniano, ceco, turco. Per cui il lettore nazionale spesso si trova di fronte a un’opera di cui sente che gliene sfugge una dimensione altrettanto determinante come quella che riesce a cogliere attraverso la sua lingua madre. In tal senso il lettore nazionale scopre che l’interculturalità lo confronta con dei limiti e gli richiede rispetto delle diversità all’interno della “sua” lingua.
Dissoluzione dell’immigrazione e continuità interculturale
Se l’immigrazione si dissolve come fatto generazionale essa viene “ereditata” da scrittori, che ne fanno il tema della loro scrittura e/o che la trasformano in percezione narrativa. Si tratta di scrittori che nascono nella lingua nazionale del Paese in cui sono immigrati i genitori, ma che da autori si contestualizzano nell’interculturalità. Per gli Stati Uniti è il caso di John Fante, Mario Puzo, Gay Talese o Don DeLillo. Per il Canada si potrebbero indicare autori anglofoni o francofoni come Antonio D’Alfonso, Antonino Mazza, Mary Melfi, Marco Micone o Nino Ricci. Per la Germania si tratta di una generazione che si è annunciata recentemente e di cui fanno parte: Zsuzsa Bánk, Marica Bodrozic, Catalin Dorian Florescu, Therésa Mora, José F.A. Oliver, Aglaja Veteranyi, Feridun Zaimoglu. La diversità e l’autonomia dei loro soggetti e modelli estetici hanno come fonte comune l’innovazione creativa scaturita dall’interazione iniziale tra immigrazione e letteratura nazionale.
Il flusso di ritorno
L’ultimo risultato dell’interazione tra immigrazione e letteratura è costituito da un riflusso innovativo a vantaggio della letteratura di appartenenza, che è ovviamente possibile quando alcuni degli autori immigrati decidono di scrivere nella lingua della loro appartenenza culturale, come nel caso di Costantinos Kavafis, che ha scritto in greco, e di Giuseppe Ungaretti, che ha scritto in italiano. È ormai un fatto condiviso che la poesia greca contemporanea e quella italiana degli inizi del Novecento debbano il loro rinnovamento l’una a Costantinos Kavafis e l’altra a Giuseppe Ungaretti, entrambi nati ad Alessandria di Egitto, figli di immigrati provenienti dalla Grecia e dall’Italia. A questo punto sarebbe di interesse generale dedicare più attenzione ai flussi di ritorno proprio perché si ha la possibilità di indagare su opere di due autori eccezionali come Costantinos Kavafis e di Giuseppe Ungaretti, a cui andrebbero aggiunte le teorie e attività riformiste del fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti, anche lui nato ad Alessandria di Egitto.
A modo di esempio
Per la sfera d’interazione tra letteratura nazionale ed emigrazione è particolarmente interessante osservare la strategia narrativa del capitolo XI dei Malavoglia con cui Verga fa stipulare un patto tra ’Ntoni e sua madre, la Longa, per definire i tempi della partenza di ’Ntoni. Egli potrà andare via, solo dopo la morte della madre, e quindi prima della chiusura del capitolo XI. Per liberare il figlio dalla sua insofferenza la Longa si infetta di colera per morire improvvisamente e per permettere al figlio di andare a realizzare il suo progetto di vita lontano da Trezza.
Alvaro invece si affida a un’ipotesi di ricerca, secondo la quale il diverso è integrabile, cioè narrabile, solo se si rende funzionale al consueto, al familiare, e solo così riesce egregiamente a cogliere la diversità culturale della sua protagonista in La donna di Boston. E “la donna di Boston” non si nega a nessuna curiosità da quella più innocente dei bimbi e delle giovani donne, a quella più ovvia, ma delusa dei maschi, fino a quella violenta delle donne/spose, che la iniziano alla vita di una diversa, ma in un contesto a loro familiare, accoppiandola alla “monaca”, che ha tutti i connotati di una lesbica.
Nella sfera immigrazione e letteratura interculturale le specificità narrative sono più diversificate. Di Joseph Conrad si può ricordare la novella Amy Foster, in cui l’autore ricorre a una serie di metafore, naufragio di un giovane polacco sulle coste britanniche, incontro con una giovane inglese, nascita di un figlio e morte dell’immigrato, come modello narrativo per descrivere il suo ingresso nella lingua inglese, per elaborare la contraddizione di esser scrittore in una lingua che non potrà mai fare parte del corpo dello scrittore, perché esso è definito dall’altra lingua: e quindi la necessità della morte del protagonista, per liberare la lingua da ogni corporeità.
Il romanzo Lolita di Vladimir Nabokov invece è un esempio eccellente per ossevare le tecniche con cui lo scrittore, che cambia lingua, si costruisce la lingua in cui compone l’opera. Se il lettore di Lolita astrae dai passaggi dedicati al rapporto tra Humbert Humbert e Lolita, noterà che il romanzo è un’accurata analisi della quotidianità nella provincia nordamericana, in cui domina il paesaggio anche come scansione del tempo. L’inglese di Nabokov in questo caso nasce dalle strategie, con cui l’autore osserva i suoi temi, per trasformarli in lingua. Si tratta di tecnica narrativa molto diffusa tra gli autori che cambiano lingua. Scrivere attraverso gli occhi porta alla scrittura di una lingua, che si nutre del presente come azione e come spazio in cui avviene l’azione.
Dall’interazione tra immigrazione e lingua della società in cui si immigra è nato il romanzo interculturale, che costituisce una novità in senso assoluto. Si tratta di un genere letterario sconosciuto ovviamente alle letterature nazionali prima che esse entrassero in contatto con l’immigrazione. Il romanzo interculturale è impostato sul viaggio, che il protagonista fa al luogo di nascita o sua o dei suoi genitori. L’intento narrativo del romanzo interculturale è quello di ricostruire l’unità interiore della biografia interculturale del suo protagonista o dell’io narrante. All’autore, invece, il viaggio del protagonista serve per crearsi una lingua a-nazionale dotandola di una memoria interculturale, in cui le due lingue dell’autore possono convivere dialogando. È il caso dei romanzi: Agar di Memmi, The Satanic Verses di Rushdie, Comme la trace de l’oiseau dans l’air di Hector Bianciotti, Die Unversöhnlichen di Biondi, Lasciami andare, madre di Schneider.
Per quanto riguarda la dissoluzione dell’immigrazione e la continuità interculturale nelle opere delle generazioni che succedono ai fondatori della letteratura interculturale eccellono romanzi come: The Godfather di Puzo, Avril ou l’anti-passion di D’Alfonso, Der Schwimmer di Bánk, ma anche Underworld di DeLillo, che inizia con un assalto a uno stadio, che in realtà si rivela al lettore interculturale come un assalto agli Stati Uniti d’America da quelli che oggi sono detti hispanics.
Un esempio per capire in cosa consiste l’incidere del flusso di ritorno sulle tradizioni letterarie del paese d’origine, è contenuto nel famoso distico “Mi illumino / d’immenso”, con cui Ungaretti introduce spazialità in una tradizione poetica in cui da sempre dominava profondità storica, sia come modello estetico che come memoria culturale della lingua italiana. Mentre l’illuminarsi nella cultura e nella letteratura italiana avveniva attraverso la profondità del sapere, della fede, della filosofia la poesia ungarettiana vi aggiunge l’atemporalità di uno spazio, che, come il deserto, rende totale l’illuminazione dell’io lirico.