scrittura elettronica
scrittura elettrònica locuz. sost. f. – Fino agli anni Ottanta del secolo scorso, il dominio dell’audiovisivo – dei media detti non alfabetici – faceva prevedere una progressiva perdita d’importanza della parola scritta a vantaggio delle varie forme di oralità ‘secondaria’ (telefono, radio, televisione). Poi, con il rapido sviluppo della telematica, il concetto di audiovisivo è stato riassorbito all’interno di quello più ampio di multimedialità. Nel giro di un decennio, l’evoluzione tecnologica ha abituato gli utenti a una fruizione integrata della comunicazione in cui la parola scritta ha riconquistato uno spazio molto importante. Dopo una fase ‘archeologica’, legata alla videoscrittura tramite i primi word processor, la s. e. è diventata anche (e via via soprattutto) scrittura in rete. In questo contesto è nato il discorso giornalistico sulla cosiddetta lingua di Internet (chiamata di volta in volta netlingo, weblish o webbish, netspeak, globespeak): una lingua globalizzata che avrebbe dovuto, in breve, scardinare l’impianto delle lingue nazionali. Si è molto insistito – anche in Italia – sulle conseguenze di questa presunta ‘rivoluzione linguistica’, diffondendo nei lettori una sensazione di allarme. Ma alla prova di un’analisi scientifica quasi tutti gli stereotipi si rivelano leggende e l’italiano di Internet non appare poi così diverso dall’italiano dell’uso scritto. Secondo i calcoli a campione fatti da Mirko Tavosanis, le grafie errate più frequenti (come anedottico, areoporto, esterefatto, efficenza e simili) risultano nel web meno del 5% rispetto a quelle corrette; nei blog, in particolare, rimangono al di sotto dell’1%: esattamente come nei siti dei giornali. Nei blog letterari, poi, verbi ricercati come espletare, esperire, vaticinare, ergere appaiono con una frequenza molto maggiore rispetto a quanto accade nel sito del quotidiano la Repubblica; anche nei forum la sintassi mostra una distribuzione tra frasi semplici e frasi complesse non dissimile da quella degli articoli del Corriere della sera. Certamente, parlare in assoluto di ‘italiano del web’ vuol dire inseguire un’astrazione. Le tipologie testuali che si trovano in rete sono le più disparate: da Wikipedia fino ai piccoli annunci in bacheca, dal forum dell’Accademia della Crusca fino ai blog degli adolescenti; è ovvio che le caratteristiche linguistiche non possono essere le stesse. Nelle pagine personali di Facebook, per es., i messaggi sono di solito più brevi e le emoticon (le faccine che servono a rendere gli stati d’animo) risultano più frequenti, soprattutto nel caso di utenti giovani o di sesso femminile. I messaggi di Twitter (lunghi al massimo 140 caratteri) sono ricchi di frasi monoproposizionali e quasi sempre privi di subordinate; la punteggiatura è in gran parte sostituita dai tipici simboli della chiocciola (@, che indica il rivolgersi a un utente specifico) e dell’hashtag (#, che indica l’argomento di discussione a cui il messaggio si riferisce). Tra le forme di s. e. più praticate dagli italiani, ci sono ancora oggi le e-mail (le usa circa un terzo della popolazione) e gli Short message service, SMS (circa i due terzi), a cui si aggiungono le varie forme di chat e di instant messaging (che oggi passano in gran parte attraverso Facebook: 20 milioni di iscritti nel 2012). Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti: grazie alle possibilità offerte dalla ‘neoepistolarità tecnologica’, moltissime persone che fino a qualche anno fa non scrivevano un rigo producono una mole impressionante di testi digitati. Nella ristrutturazione dei generi che è andata assestandosi durante l’ultimo decennio, le e-mail hanno via via occupato la casella del registro medio-alto, soppiantando di fatto la lettera cartacea (già nel 2004, negli Stati Uniti quasi la metà degli intervistati tra i 18 e i 27 anni dichiarava di considerare l’e-mail un mezzo vecchio). Più in generale, appare in bilico la tradizionale definizione di comunicazione mediata dal computer, ora che gran parte del traffico – posta elettronica, social network, instant messaging – si è spostato sul telefonino (nel 2012 quasi la metà degli italiani possedeva un cellulare di nuova generazione). Se si guarda in particolare agli SMS, la forma di comunicazione scritta più diffusa in Italia e nel mondo, ci si accorge che in realtà questi testi digitati sono molto diversi dai tradizionali testi scritti. E la differenza più profonda non sta nella loro presunta vicinanza all’oralità (anni di studi hanno dimostrato che mancano quasi del tutto, in questi messaggi, le marche sintattiche tipiche dell’italiano parlato); né tantomeno nelle soluzioni grafiche adottate (i vari xké, c 6, tvb; gli usi espressivi del maiuscolo; gli asterischi e le faccine), quasi tutte rispondenti a meccanismi vecchi, quando non antichi. Quello che rende diversi questi testi digitati dai testi scritti tradizionali è la loro frammentarietà. Non sono solo brevi, sono incompleti: singole battute di un testo molto più ampio costituito dall’insieme del dialogo a distanza (che può passare contemporaneamente per gli SMS, le telefonate, le e-mail, le foto, ecc.). Questo spiega perché li possono scrivere – e ovviamente leggere – anche i tanti italiani che non toccano mai la carta stampata (nel 2012, circa il 40%); anche i tanti che messi di fronte a un articolo di giornale non sono in grado di capire cosa dice (quasi i due terzi, stando a recenti ricerche internazionali). Forse, allora, saper digitare non equivale a saper scrivere: a differenza dell’italiano che si legge in gran parte dei siti web, quello digitato nelle e-mail, negli SMS, nelle chat potrebbe davvero diventare una varietà diversa dall’italiano scritto tradizionalmente inteso. Un ‘e-taliano’ (come qualcuno ha proposto di chiamarlo) che per le persone colte rappresenta solo uno dei tanti registri possibili; ma per tutti quelli che scrivono soltanto in queste occasioni potrebbe diventare l’unico modo di scrivere: l’unica scelta possibile, ghettizzante e socialmente deficitaria.