scrittori stranieri, italiano degli
I primi esempi di uso letterario dell’italiano da parte di uno scrittore straniero sono i due componimenti del trovatore provenzale Raimbaut de Vaqueiras (che tra il 1180 e i primi del Duecento vive e opera in Italia settentrionale e muore poco dopo il 1205 nel corso della quarta crociata): un contrasto con una donna genovese (incipit: Domna, tant vos ai preiada), a strofe alternatamente provenzali e italiane; la strofa italiana (incipit: Io son quel che ben non aio) del discordo Eras quan vey verdeyar, scritto in cinque lingue, una per strofa.
Sono qui presenti in nuce due fra le principali modalità stilistiche di assunzione dell’italiano da parte di scrittori alloglotti, due modalità destinate a perpetuarsi fino al Novecento: da un lato l’uso stilizzato dell’italiano per la poesia aulica, principalmente amorosa, iperletteraria e ipercodificata: ché tale è la strofa italiana del discordo, in cui il trovatore è già in grado di giocare sapientemente sul polimorfismo di una nascente lingua di ➔ koinè (per es., per la prima persona singolare di avere viene usato sia aio che ò: «Io son quel che ben non aio / […] / se per ma donna non l’ò»); dall’altro, nel contrasto, l’uso mimetico-espressivo della lingua ‘altra’ – legato spesso al gusto per il plurilinguismo giocoso, la parodia verbale – e insieme l’attenzione per le varietà diatopiche e il parlato: la parte italiana del contrasto con la donna genovese (cioè le strofe messe in bocca a quest’ultima, in risposta a quelle rivolte a lei dall’interlocutore provenzale) è un vero archetipo, con le sue esplicite caratterizzazioni fonomorfologiche e lessicali (in primo luogo, il tipico esito dialettale ligure di pl- latino e provenzale in /ʧ/ – reso col digramma ‹ch› –, tipo chu per «più»; e poi le uscite in -ao, -ò, -ei, -ì, che, collocate in rima, individuano efficacemente i dialetti liguri antichi; infine l’espressività sanguigna di parole quali scanerò, malaurao «del malaugurio», escalvao «delinquente» o di termini e sintagmi comunque caratterizzati in senso basso-colloquiale: negota, apeso, per un gato, mala cosa, roncì, ecc.; il fraseggiare secco e incalzante, fortemente paratattico, caratterizzato quasi soltanto da esclamative e interrogative retoriche; infine gli spunti ironicamente metalinguistici (per es., nella sesta strofa, con l’implicita opposizione tra l’artefatto e manierato proenzalesco del giullare e il più diretto e genuino dialetto della donna genovese).
Si tratta dunque di un uso stilisticamente connotato dell’italiano come lingua ‘altra’, con cui confrontarsi e in cui rispecchiarsi per riconoscere meglio la propria (Brugnolo 1983: 11-65). Del resto il «bilinguismo di poesia illustre e poesia dialettale», che per Contini «è assolutamente originario, costitutivo della letteratura italiana» (Contini 1970: 614), trova proprio nello ‘straniero’ Raimbaut de Vaqueiras la sua primissima attestazione.
Bisogna aspettare il pieno Quattrocento per trovare altri esempi di un uso letterario dell’italiano da parte di scrittori stranieri, nella fattispecie spagnoli: ciò che non sorprende, dati gli strettissimi contatti, anche politici, tra Spagna e Italia all’epoca.
La produzione italiana di Carvajal (uno dei poeti più rappresentativi della lírica cancioneril del Quattrocento: Compagna Perrone Capano & Vozzo Mendìa 1993) è legata certamente al suo soggiorno a Napoli tra 1457 e 1460 alla corte di Alfonso V d’Aragona. Lo si vede anche dai napoletanismi e meridionalismi (matre, ape «ebbi», vidiray, poczan, symo «siamo», ecc.) che screziano i suoi quattro componimenti in italiano o in cui compare l’italiano. Rincalzati come sono anche da spiritosi giochi di parole, essi rivelano che l’eteroglossia letteraria dell’autore ha a che fare più con le circostanze occasionali della sua biografia che con un’imitatio programmatica. Il caso di Carvajal del resto non è unico: gli spagnoli che soggiornano in Italia e scrivono occasionalmente in italiano – o lo adottano integralmente, come nel caso del catalano Benedetto Gareth, il Cariteo –, sono, nel Quattrocento e nel Cinquecento, innumerevoli: da Bertolomé Torres Naharro a Francisco de Aldana a Francisco de Figueroa (Canonica 1996; ➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’). Tuttavia, quello della letteratura italiana prodotta da stranieri è un fenomeno che va ben al di là del contatto diretto con l’Italia e che affonda invece le radici in una pratica antica e consolidata fin dal medioevo, quella degli usi linguistici alternativi a seconda non della nazionalità, ma dei generi e delle convenzioni letterarie.
Non risulta, per es., che Íñigo López de Mendoza, marchese di Santillana (1398-1458), uno dei padri dell’italianismo letterario di Spagna, abbia mai soggiornato in Italia. E tuttavia la sua conoscenza della lingua e della letteratura italiana è ben attestata dalle due ottave in italiano messe in bocca a Giovanni Boccaccio nella Comedieta de Ponça. Conoscenza tutta letteraria dunque (anche per quel che riguarda la specifica ‘verosimiglianza’ linguistica), e in cui l’elemento iberico persiste, oltre che in qualche interferenza lessicale, nella configurazione metrica (si tratta di coplas de arte mayor in dodecasillabi, ossia senari doppi, e non di ottave di endecasillabi).
Anche i due notevoli sonetti in italiano di Francisco de Quevedo sono del tutto indipendenti dal soggiorno italiano dell’autore (1613-1619), rappresentando piuttosto il cosciente tentativo di saggiare nella lingua ‘altra’ i due registri tematici e stilistici più cari all’autore: la poesia satirico-burlesca (Dove, Ruceli, andate col piè presto, contro il cardinal Richelieu) e quella amorosa, col sonetto Diviso il sole partoriva il giorno, un superbo esercizio di stile in cui non si sa se ammirare di più il pieno dominio della lingua, malgrado le difficoltà concettuali e l’esuberanza metaforica, o la capacità del poeta di conservare ed esibire anche in italiano le tipiche ossessioni tematiche della sua produzione lirica nella lingua madre, utilizzando gli stessi meccanismi retorici e lessicali (parole come ardente o fulminante sono vocaboli quevediani ampiamente ricorrenti anche in castigliano). Con minimi adattamenti il sonetto potrebbe facilmente essere ritradotto in castigliano, senza alcuna perdita di senso, ma proprio l’uso dell’italiano contribuisce a mettere a nudo, per così dire disautomatizzandoli, i principali meccanismi del codice lirico petrarchista.
Il petrarchismo è il principale vettore della diffusione dell’italiano letterario fuori d’Italia nel Cinquecento e nel Seicento e della conseguente sua adozione da parte di scrittori stranieri.
Tra questi, oltre agli spagnoli (tra cui anche il grande Lope de Vega, con un’elegante ottava italiana inserita nel poema Filomena), spicca lo stuolo dei francesi italianisants (Picot 1906-1907): autori minori per lo più (da Pernette du Guillet a Pierre Bricard, da Odet de la Noue a Jean-Edouard du Monin, da François Perrot a Jean-Claude Bachet), ma con alcune significative eccezioni (non ultima il bel sonetto italiano di Louise Labé, la maggiore poetessa del Cinquecento: Brugnolo 2008), la più importante delle quali va cercata però fuori della poesia. Si tratta della parte italiana del Journal de voyage di Michel de Montaigne, risalente al 1580-1581 e riferita al soggiorno dello scrittore soprattutto in Toscana e nel Lazio. Colpisce in questa sorta di diario di viaggio in Italia non solo la sicura competenza della nostra lingua, ma anche la speditezza di un dettato tanto secco e conciso quanto intenso e rettilineo, agli antipodi dell’imperante tradizione boccacciano-bembesca (Brugnolo 2009a: 66-72; Cavallini 2009).
Principale tratto costitutivo è l’energica ➔ paratassi (che giunge spesso al puro ➔ stile nominale, molto più accentuato che nella parte francese del testo: «Puzzore niuno, o odore»; «Caldezza molto mediocre. Agevolissima a bere»; «Le stanze quadre tutte. L’edificio molto grande. Sale bellissime»; «mare, isole, Livorno, Pisa»; «e poi botteghe, chiese, piazze») e la rinuncia a qualsiasi abbellimento retorico o preziosismo lessicale o forzatura espressionistica (uniche concessioni i frequenti diminutivi: casettuccia, piccinina, castellucci, boschettucci, empiastretto, barchetelle: «una bellina terra», persino «una voltetta»).
La funzione comunicativa è costantemente in primo piano, e si ha l’impressione di trovarsi di fronte non a una lingua appresa dai libri, ma all’idioma parlato dell’uso vivo e contemporaneo. Non è un caso che fin dall’inizio Montaigne metta in relazione il suo italiano con l’esperienza diretta dell’oralità: «Assaggiamo di parlar un poco questa altra lingua massime essendo in queste contrade dove mi pare sentire il più perfetto favellare della Toscana, particolarmente tra li paesani che non l’hanno mescolato et alterato con li vicini». Di qui i non rari ➔ prestiti lessicali o fonomorfologici desunti dalle parlate locali: a parte i settentrionalismi, quali buso, indrìo «indietro», darente «accanto», sbadacciava «sbadigliava», forse giobbia «giovedì», si tratta soprattutto dei vernacoli toscani e dell’Italia mediana: mezzedima «mercoledì» (ma anche mercordì), bambi e bambe per «ragazzi e ragazze», bode «rospi», anguistara «caraffa», gensole «giuggiole», e così via, con emergenze anche sul piano grafico-fonetico (casci «caci, formaggi») e morfologico, con i vari suto, potti, m’avveddi (accanto a m’avvidi), bebbi, mi messi, fussino, ecc., e con i frequenti passati remoti di prima persona plurale del tipo, ben noto al romanesco ma anticamente anche settentrionale, passassimo, andassimo, seguitassimo, capitassimo, ecc.
Anche nel campo del lessico Montaigne si muove con grande naturalezza, e disponendo di un ampio ventaglio di sinonimie, fra patrimonio dotto tradizionale e patrimonio popolare tecnicizzato, in particolare nell’ambito che è al centro, quasi ossessivamente, delle sue annotazioni e dei suoi resoconti, quello della malattia di cui soffre («mal della pietra» e disturbi intestinali) e delle terapie cui si affida: calculo, flegma, arenella, pietrella, gravella, sabbio (al maschile, in analogia con il fr. le sable), colica, buttare, buttare fuori, spingere fuori, smaltire, scaricare, venti, ventosità, flati, ventricolo, intestino, stomaco, stitichezza, cristiero, deflussione, sonaglio «testicolo», bulle, docciare, adocciare, migrena (accanto a mal di testa, gravezza di testa), grancio «crampo».
Ma il tratto principale della prosa italiana di Montaigne è la straordinaria efficacia descrittiva raggiunta attraverso uno stile di scrittura che assume, man mano che si procede nella stesura del diario, forme sempre più raffinate, talora preziose nell’attenta scelta dell’aggettivazione: «alla cima giusto del colle ertissimo, ma pertutto cultivatissimo. E qui per li balzi strabocchevoli, per li dirupi, e lochi ripidi, e scoscesi colli …».
La scrittura prosastica del Montaigne ‘italiano’ è quanto di più lontano dal tipo di prosa più diffuso nell’Italia cinquecentesca, e certo non solo per l’ovvia influenza del francese, né perché si tratta della lingua dell’immediatezza diaristica. Solo in certe pagine più pacate e meditative, dove anche il dettato si innalza, pare di avvertire l’intima eco delle letture che Montaigne andava conducendo sulle pagine degli autori italiani a lui formalmente più consentanei: Machiavelli e Guicciardini (Della Terza 1994).
Nell’ambito del manierismo petrarchista si situa l’esperienza di John Milton, che incluse nella raccolta dei suoi Sonnets (pubblicati nel 1645 all’interno dei Poems) ben sei componimenti in italiano: cinque sonetti e una stanza di canzone. Pare certo che essi siano anteriori, e non di poco, a quel suo viaggio in Italia, tra 1638 e 1639, che viene considerato un momento cruciale della formazione intellettuale del poeta, e dunque anche della sua formazione linguistica (già avviata dal padre in senso poliglotta).
A maggior ragione appare stupefacente il saldo dominio della lingua poetica e della metrica italiana e la vastità delle conoscenze letterarie del giovane poeta, che non si limitano affatto al solo Petrarca, ma coinvolgono autori quali ➔ Pietro Bembo, ➔ Benedetto Varchi, Della Casa, ➔ Torquato Tasso (Baldi 1966).
Dai due ultimi in particolare Milton desume anche l’arte del sonetto ‘eroico’, particolarmente evidente nella struttura sintattica ampia e sostenuta dei testi, con il frequente superamento delle tradizionali partizioni strofiche del sonetto (quartine e terzine), nella versificazione nervosa e disarmonica (per es.: «fuor di sua natìa alma primavera») e nelle combinazioni lessicali e stilematiche insolite e risentite, che suscitano altrettante immagini inconsuete: l’«herbetta strana», la «disusata spera» (cioè un clima diverso, cui non si è abituati), la «lingua snella», il «cuor lento», la «faticosa luna», l’«insanabil ago [d’Amore]»; e ancora: il «disio amoroso» che «al cuor s’invecchia» (cioè «inveterato»), il «sereno fulgor d’amabil nero» (detto degli occhi), il «gran mondo» (ossia il «cielo») che rugge (a indicare il tuono); fino al gusto per le formazioni parasintetiche (s’infiora, s’ingiela) o per la sostantivazione di aggettivi (il duro) e persino avverbi (il forse). Milton sa calarsi perfettamente nella tradizione italiana del fare letteratura a partire dalla letteratura e nello stesso tempo investire tale sofisticata esperienza di sostanza vitale.
Quello di Milton è in realtà un episodio pressoché unico nella storia della cosiddetta letteratura italiana fuori d’Italia: non solo per la qualità dei suoi sei componimenti e per il loro carattere ‘chiuso’ e insieme relazionale (sono le sue uniche poesie di carattere erotico, quasi che la scelta del contenuto dipendesse direttamente dalla scelta della lingua, e viceversa), ma anche perché in essi il tema amoroso è condizionato dalla riflessione sul poetare, e sul poetare in un’altra lingua, nella lingua della donna amata che è insieme la lingua eletta della poesia d’amore: sicché l’incontro con la «donna leggiadra» del primo sonetto, esplicitamente identificata come italiana, diviene trasposizione o figurazione dell’incontro con la lingua e la poesia italiana, e le poesie che lo narrano non sono altro che poesie «che narrano se stesse, il loro farsi» (Melchionda 2002: 99).
Un posto a sé nella storia dell’italiano dei grandi scrittori (e artisti) stranieri occupano gli epistolari. Spiccano, tra Settecento e Ottocento, quelli di Voltaire (Folena 1983: 397-431; ➔ italiano in Europa) e di Byron, che nelle loro lettere in italiano piegano la nostra lingua alla loro personalissima scrittura, insofferente spesso dei nessi grammaticali (e caratterizzata ovviamente da vistosi fenomeni di contaminazione col francese e con l’inglese), sapendo però adattarsi alle attese e ai registri espressivi degli interlocutori (che in Byron si riducono alla sola contessa ravennate Teresa Guiccioli, l’ultima amante del poeta).
Ecco così, in Voltaire, il saporoso impasto stilistico delle missive alla nipote-amante Marie-Louise Denis, in cui il tono galante e melodrammatico («vi amerò insino alla mia morte», «l’anima vi apartiene per sempre», «la vostra tenerezza mi risana», «Sono indegno di voi mia anima», «ma più che mai incapricito di voi», ecc.) è temperato dalla trascuratezza grafica e dagli improvvisi scarti verso il basso («Baccio il vostro gentil culo»); o l’italiano più aulico e sorvegliato delle lettere a Francesco Algarotti, l’«Ovidio veneziano», il suo «cigno del canal’ grande»; o l’affettuoso omaggio idiomatico a ➔ Carlo Goldoni, parzialmente in veneziano («mi dispiase che la sia degustada, e che non habbia avu la volonta de vegnir, e xe un pezzo che l’aspettava»).
L’impetuoso italiano epistolare di Byron – affascinante anche nella sua consapevole trascuratezza e nelle sue idiosincrasie (Cartago 2002) – è invece, una volta di più, l’appassionata ‘lingua dell’amore’, mobile e franta, «imposta dalla necessità di alimentare una corrispondenza privatissima» (Bruni 1999: 105-106): colpisce la nervosa immediatezza dello stile sintattico, tutto a scatti e sussulti, per nulla legato a modelli scritti e tanto meno letterari: «Tutto dipende da te – la mia vita – il mio onor – il mio amor, – amami dunque – il mio sentimento per te merita di esser corrisposto: – io soffro tanto nel’amare – che cercai ad evitare le passioni forti – per i ultimi tre anni – ma invano come ora tu vedi».
Difficile infine trovare qualcosa di più gogoliano della lettera italiana di Nicolaj Gogol’ da Roma del 2 marzo 1838, con le sue forzature espressionistiche (crepacce, uomicio «ometto»), le antropomorfizzazioni (del Colosseo, per es.), i paragoni imprevedibili, i giochi di parole, accanto allo sfoggio scherzoso e compiaciuto di locuzioni ed espressioni idiomatiche: musica in senso figurato, essere nei panni di, mostrare il calcagno, palmo di naso, tornare a bomba, ecc., fino a bere a crepagozza che ha tutta l’aria di una neoformazione sul tipo crepapelle, crepastomaco.
In casi come questi l’italiano degli stranieri tende a diventare quasi una lingua speciale da plasmare e manipolare: e ciò è particolarmente evidente nel vivacissimo e disinvolto italiano epistolare di Mozart, ampiamente caratterizzato – così come in fondo il suo tedesco – «dalla freschezza e dalla grazia della spontaneità e dell’improvvisazione, fuori di ogni preoccupazione letteraria e normativa» e posto spesso e volentieri «sotto il segno dello sperimentalismo giocoso, del ludismo verbale e del plurilinguismo» (Folena 1983: 435, 442).
L’ultimo grande epistolario ‘italiano’ di uno scrittore straniero ci porta al pieno Novecento, ed è quello di James Joyce. Qui il plurilinguismo (➔ mistilinguismo) e il pluristilismo dell’autore di Ulysses trovano modo di esplicarsi, per così dire, naturalmente e spontaneamente (l’italiano, appreso e praticato specialmente nei fondamentali anni triestini dello scrittore, era la lingua dei più intimi affetti familiari di Joyce, la lingua dei figli in primo luogo: cfr. Melchiori 1994: 99-199) e nello stesso tempo con estrema consapevolezza retorica e anzi metalinguistica, attraverso una stupefacente scala di registri che vanno dal livello formale elevato (per es., la lettera del 9 aprile 1932 al podestà di Firenze per declinare un invito, con gustose sprezzature stilistiche che denotano un sovrano dominio del ‘gioco’ linguistico) a quello medio-alto-intellettuale (le varie lettere a Carlo Linati, tra cui quella del 21 settembre 1920 con lo ‘schema’ di Ulysses, il «mio maledettissimo romanzaccione») a quello colloquiale-familiare (le numerosissime lettere ai figli) a quello colloquiale-giocoso (le lettere a Alessandro Francini Bruni, ma anche il carteggio con ➔ Italo Svevo), a quello infine prettamente parlato-dialettale, in quei piccoli capolavori che sono, per es., la lettera dell’8 settembre 1920 a Francini Bruni, con la sua irrefrenabile colata sintattica, tutta fondata sul parlato triestino:
Dunque, caro Franzin, te prego, dai domanda a lori se i sa andove ze sta roba parché mi go mandasto da un zerto sior Driatiko che ze proprio rente alla posta granda sta cassa el mi ga dito che i sui omini i la mandaria cul caro e che iera pulido proprio ma esso i me dise che qualchedun le ga menà in condoto e ga messo sora non so che cossa o che i ga sbregà cul fero cossa so mi
A questa lettera si possono aggiungere quella del 5 gennaio 1921 a Svevo e quella del 15 maggio 1939 a Livia Svevo, in cui preannuncia fra l’altro, con sottile sfoggio di giochi verbali (Uibaldo, terriestini per «triestini», moniga, lett. «monaca», per mona «sciocco»), la pubblicazione di Finnegans Wake.
Molte delle lettere ai figli, e soprattutto alla figlia Lucia, affetta da gravi problemi nervosi, a prima vista possono lasciare delusi, con il loro frequente allineamento discontinuo e paratattico – certo condizionato anche dalla particolare situazione della destinataria – di frasi brevi e irrelate, continuamente intercalate da inserti fraseologici e locuzioni paremiologiche (fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, sono cose che succedono, chi va piano va sano, cosa fatta capo ha, mandare vasi a Samo, non tutto il male viene per nuocere, chi più ne ha più ne metta, e così via, a volte con ironici ribaltamenti: molto fumo e poca acqua, dare un calcio alla miseria, acqua in bocca o piuttosto succo d’uva in bocca), sì che pare spesso di leggere uno di quei vocabolarietti o prontuari di frasi fatte destinati a un turista o a un principiante in una lingua straniera; ma anche questo – questa sorta di grado zero dello stile epistolare – è solo uno dei tanti registri abilmente sfruttati dallo scrittore e messi poi a frutto nell’autotraduzione da Finnegans Wake (cfr. § 7).
Nell’Ottocento l’adozione dell’italiano letterario da parte di scrittori stranieri di prim’ordine si fa sempre più rara, e altrettanto declina il filoitalianismo che aveva animato, tra fine Settecento e primo Ottocento, l’attività letteraria e pubblicistica in italiano del tedesco Christian Joseph Jagemann (editore ed estensore unico nel 1788-1789 di una «Gazzetta di Weimar» interamente in italiano: cfr. Kofler & Albrecht 2006; ➔ italiano in Europa) o dell’inglese Thomas James Mathias (accademico arcade col nome di Larisio Salaminio: cfr. Lindon 2009). L’una e l’altro diventano invece componenti fondamentali nella formazione stessa dei maggiori promotori delle ‘nuove’ letterature dell’Europa di sud-est: quella romena, con Gheorge Asachi e Ion Eliade Rădulescu, e quella neo-greca, con Andreas Kalvos e Dionisios Solomòs: tutti autori in cui la pratica dell’italiano costituisce un’indispensabile premessa alla successiva produzione nelle rispettive lingue madri (cfr. Cepraga 2009; Peron 2009; Peri 2009).
Un caso particolare è quello rappresentato da una delle maggiori poetesse dell’Ottocento, che è forse anche la maggiore poetessa ‘italiana’ del secolo: l’inglese Christina Rossetti (1830-1894), figlia dell’esule abruzzese Gabriele Rossetti, poeta ed erudito, trapiantato a Londra dopo i moti del 1820-1821, e sorella del non meno celebre Dante Gabriel (cui si devono anche due notevoli sonetti in italiano). Delle ventuno poesie che compongono la raccolta Il rosseggiar dell’Oriente (1862-1868) alcune sembrano ariette da melodramma, ma di un melismo spontaneo e quasi popolare, depurato dei tratti più aulici e letterari:
Che fai lontan da me,
Che fai, cor mio?
Quel che facc’io
È ch’ognor penso a te.
Pensando a te sorrido,
Sospiro a te …
In altri casi si tratta di sonetti più indicativi dello stile poetico della Rossetti, caratterizzato dal gusto della ripetizione e da una sintassi spesso colloquiale e familiare. Le strutture iterative, anaforiche e parallelistiche – che caratterizzano del resto anche la sua poesia in inglese – costituiscono il tratto più evidente dello stile poetico della Rossetti ‘italiana’, così come l’irriflessa mescolanza dell’aulico-antiquato (cfr. guiderdon, virtude, pensiere, veritade, lassuso, a me non lece, ecc., e le varie spruzzature di fia, fiata, fur, languiro, u’ per «dove», il per lo pronome, ecc.) col quotidiano (anche a rischio di cadute o di stridenti ibridazioni: «Pur mi rassegnerò, quel che fue fue»): e spesso le due cose vanno insieme: «rimembranze / tante e poi tante»; «Quando ti rivedrò, cor mio diletto, / Quando ma quando?». Le cadenze anaforiche sono ora di tono decisamente popolareggiante, quasi da stornello («Giorno d’amor, giorno di gran delizia, / Giorno che spunta non per tramontare»), ora più letterariamente intonate: «Per te mia vita mezzo morta giace, / Per te le notti veglio e bagno il letto»; «Momento che verrà, momento estremo»; e lo stesso vale per annominationes del tipo «Che già m’uccise il core / Amato amante»; «Quel Fiore […] / Fiorisce ognor per te»; «Ché passerà il passato»; «Fido all’infido», ecc.
Pur in presenza di una grande varietà metrica, prevalgono i metri brevi e cantabili, con la tipica quartina di settenari o quinari piani suggellata da un verso tronco. Prevale insomma Metastasio (da Christina certo frequentato attraverso la mediazione del padre poeta, e da lei tradotto e imitato anche in inglese), ma un Metastasio, come già accennato, più spigliato, più colloquiale e domestico; e con slittamenti forse verso i più consentanei Da Ponte e Romani. Sicché, se non mancano alcuni dei più vieti stilemi melodrammatici:
Ché se nell’alma ingrata
Pensi ad abbandonarmi,
Anch’io saprò scordarmi
D’un amator crudel,
il tono è per lo più quello, deliziosamente straniante e quasi prosastico, di questo leggiadro envoi:
Ti do l’addio,
Amico mio,
Per settimane
Che paion lunghe:
Ti raccomando
Da quando in quando
Circoli quadri,
Idee bislunghe.
Incantevoli sono infine le poesiole familiari di Christina, occasionali, brevi e spesso epigrammatiche, sorta di agili filastrocche o, all’inglese, di nursery rhymes:
Oibò, piccina
Tutto atterrita;
La medicina
Bever si de’: –
Uno, due, tre, –
Ed è finita!
Capo che chinasi, –
Occhi che chiudonsi, –
A letto, a letto,
Sonnacchiosetto!
Dormi, carino,
Fino al mattino,
Dormi, carino.
E infatti si tratta per lo più proprio di traduzioni (o meglio parafrasi) di testi tratti da uno dei best seller dell’autrice, il Sing-Song: A Nursery Rhyme Book (1872). La freschezza infantile e la semplicità d’accenti non devono dunque trarre in inganno, trattandosi di un’operazione di secondo grado condotta con accorta sensibilità linguistica (Bottalla 2009: 355-357).
L’esempio forse più celebre e stupefacente di letteratura italiana fuori d’Italia è l’autotraduzione di due passi di Finnegans Wake (che fanno parte del capitolo Anna Livia Plurabelle) che James Joyce eseguì, in collaborazione con Nino Frank, tra 1938 e 1939, di cui ecco l’inizio:
Raccontami di Anna Livia. Tutto sapere vo’ di Anna Livia. Beh, conosci Anna Livia? Altro che, conosciamo tutte Anna Livia! Dimmi tutto, e presto presto. Roba da chiodi! Beh, sai quando il messercalzone andò in rovuma e fe’ ciò che fe’? Sì, lo so, e po’ appresso? Lava pulito e non sbrodolare! Rimboccamaniche e scioglilinguagnolo. Ma la zucca per te se mai ti pieghi! O cosa mai fece bifronte o triforo in quell’infenice di porco nastro? Oibo’, quel lughero malandrone! Che sudiciume di camiciaccia!
Trasponendo nella nostra lingua l’arduo e composito tessuto linguistico della sua opera estrema, Joyce fornisce un inarrivabile esempio di come si possa reinventare radicalmente la lingua d’arrivo sia restando profondamente fedele alla lingua di partenza, o più esattamente ai suoi principi ispiratori, sia attingendo a piene mani ai filoni e alle potenzialità espressive della stessa lingua d’arrivo e persino alle sue variegate tradizioni (Risset 1979; Eco 1996; Zanotti 2002; Bacigalupo 2009).
Al di là della programmatica e pervasiva deformazione linguistica (rovuma, lughero malandrone, macchiavuol, gangerenoso, arcimandritta, ecc.) e della continua forzatura della norma, ai limiti del nonsense, le componenti espressive del testo sono infatti spesso riconducibili a tecniche ben radicate nella tradizione del plurilinguismo e dell’espressionismo letterario italiano: ricchezza ed esuberanza di formazioni prefissali o suffissali (camiciaccia, fattorelletta, maritazzuccia, sbrindelloncini, ecc.), nominalizzazioni verbali (rimboccamaniche, scassavillani, vacillavimine, pappapanforte, ecc.), composti giustappositivi (messercalzone, lucciolanterna, alberoccia, cioè albero + roccia, ecc.), neoformazioni su base onomatopeica o paronomastica (pipigolare, ordovico e viricordo, gargarigliano, postribolazioni, ecc.), abbondanza di espressioni idiomatiche spesso deformate (indovinalagrillo, roba da chiodi, tirar la cinghia, che cozzo ha fotto per che cazzo ha fatto, a ratto di colle per a rotta di collo, ecc.), accostamenti di forme auliche (fe’ ciò che fe’, e po’ appresso, periglio, quel desso, egro, vada in madore, di foia satolle, ecc.) e forme colloquiali, quando non plebee (sbrodolare, trippe in fumo, sbatacchiali, ecc., e naturalmente le continue interiezioni: beh, oh, eh, ecc.), inserzioni e spruzzature dialettali e gergali (piccia, ramengo, battere le brocche, ganghera, orcodindio, ecc.) e, in generale, un’esaltazione quasi parossistica dell’espressività.
L’eccezionalità di questo esperimento, e anzi proprio la sua cifra intrinseca, il fatto cioè di essere al contempo la negazione e l’esaltazione suprema della traduzione, ha comportato, assieme a una certa sopravvalutazione dell’episodio (in cui il trattamento dell’italiano, per quanto libero e originale, è pur sempre influenzato dalla lingua di partenza: che magari non è l’inglese, ma il finneganese), anche la relativa obliterazione di quel documento notevolissimo dell’italiano di Joyce che è il suo epistolario in tale lingua, sopra ricordato (cfr. § 6).
Tra i poeti stranieri del Novecento che hanno scritto versi in italiano (tra cui il greco Yorgos Sarandaris e il brasiliano Murilo Mendes, nonché, autotraducendosi, il russo Vjačeslav Ivanov: per tutti, cfr. Brugnolo 2009a: 85-90, 111-119) il più importante è certamente l’americano Ezra Pound, che all’inizio del 1945 pubblicò in un periodico della Repubblica Sociale Italiana due testi in italiano successivamente accolti come canto LXXII e canto LXXIII nella sua opera maggiore, i Cantos.
Nati nel momento più tragico della seconda guerra mondiale, i due canti sono dichiaratamente e sciaguratamente fascisti: e ciò spiega in parte sia l’adozione da parte di Pound dell’italiano anziché dell’inglese, sia la lunga reticenza della critica letteraria su di essi. Si tratta peraltro, una volta messe da parte le pregiudiziali ideologiche, di due straordinari esempi – forse gli unici nel Novecento – di poesia ‘epica’ in italiano: in un senso che si colloca all’incirca tra il sirventese provenzale e l’epos dantesco della Commedia.
Quest’ultimo è del resto il modello principale cui s’ispira Pound: sia perché i due canti sono all’incirca concepiti come visioni dantesche (piuttosto ‘infernale’ la prima, in cui compaiono gli spiriti di Filippo Tommaso Marinetti e di Ezzelino da Romano a interloquire sulle vicende in corso; più ‘purgatoriale’ la seconda, che ha come protagonista e unico interlocutore la spirito di Guido Cavalcanti), sia perché il dantismo investe e permea tutti i livelli del testo, a cominciare da quello lessicale e perfino da quello metrico e da quello sintattico. Direttamente prelevate dalla Commedia sono infatti parole quali combusti, ragna, Ciprigna, ingombra, lurchi e bugiardi, ecc., cui s’aggiungono interi sintagmi (grido forte, pose fine, aere perso, vidi e sentii, città dolente, ecc.).
Quanto alla metrica, a parte l’uso frequente dell’endecasillabo («ch’io faccia il canto della guerra eterna», «In molto seguii vuota vanitade», ecc.), vi sono intrecci di rime, spesso e volentieri ‘aspre’, che sembrano in qualche modo alludere all’incatenamento delle terzine dantesche: Romagna : Bologna : bagna : vergogna : agogna; piccione : gioia : religione : boia : pastoia; trambusto : legge : giusto : schegge : Augusto; ecc.
L’imitazione e l’allusione metrica fanno da pendant a quelle più propriamente legate all’inventio e all’elocutio dantesche, con la riproposizione o l’evocazione di situazioni, episodi e stilemi della Commedia: l’invettiva di Ezzelino si modella, per es., su tante invettive dantesche; Marinetti, che «mi pare che di codesta risposta ebbe pace», è un po’ come Bonagiunta da Lucca che «quasi contentato, si tacette» (Purg. XXIV, 63); e così via, fino ai tipici moduli di autopresentazione: «Placidia fui …» (cfr. «Iacopo Rusticucci fui …», «Lombardo fui …», ecc.), «Io son quell’Ezzelino …».
Va messo qui anche il gusto dell’anastrofe e dell’inversione sintattica, tanto più frequente quanto più il dettato si conforma a misure metriche tradizionali e, appunto, dantesche: «Spettacolo amai …», «all’interno io mancai …», «Ambi in eccesso amaste …», ecc.
Più che l’imitatio, è dunque l’assimilazione sistematica e profonda di uno ‘stile’ dantesco che colpisce. Se è vero che in «Lo fece senza forma e contra legge / scindendo sé da sé e dallo giusto» sono, per es., ancora evidenti le rimodulazioni formali del «pastor sanza legge» di Inf. XIX, 83 o dell’enunciato famoso di Pier della Vigna (Inf. XIII, 72): «ingiusto fece me contra me giusto» (e dantesco è anche il costrutto «scindere da sé»), in passi come «Ma il primo spirito impaziente / Come chi porta notizia urgente / E non sopporta affare di minore urgenza», lo stile dantesco viene metabolizzato e attualizzato senza quasi ricorrere ad ammiccamenti allusivi o a forzature virtuosistiche; forzature che pure non mancano, ma che sono in realtà altrettanti segni della terribile ‘serietà’ del dantismo poundiano: che non è mai mera emulazione epigonica o reminiscenza erudita e decorativa, ma sempre trasposizione creativa e, appunto, attualizzazione.
Ed è difficile misconoscere il tono o il ‘sapore’ dantesco – senza che siano allegabili precisi passi paralleli della Commedia – di versi quali:
E parlava a me
In parte solamente, né al vicino,
Una parte di sé con sé dialogava
E non di sé il centro …
o «Sovra-voler produce sovra-effetto / Purtroppo troppo …», o di espressioni quali «di Pietro negator’ degni seguaci», «Ma io ebbi la pelle convulsa», «la voglia è antica, ma la mano è nuova».
Ma è poi tutto il plurilinguismo e il pluristilismo dei due canti che si rifà ad Alighieri, con forme e costrutti arcaizzanti (clamare, vanidade, fé, sepolto polvere maschile, «udii in strido crepitar», ecc., e le varie apocopi e aferesi) alternanti con termini tecnici e settoriali moderni (prototipo, scafo, trasmittente, zoologo, ecc.), con parole rare ed espressive (scrocchio, pastocchia), neoformazioni (bi-nascita, ninna-nannare, mangia-foglia), forme colloquiali e popolari (pupa, pupetta), ripercussioni foniche («Ragna, ragnaccia!»), disfemie varie da lingua ‘maschia’ fascista o militare (guerra di merda, quel mezzo-feto, «far … boia»); fino alla – talora approssimativa – mimesi dialettale (ziorni, pìgiate … ziovinozz, fiol, perfino la pronuncia romagnola qvesta); insomma un «gergo rozzo», che va messo in relazione con certe contemporanee riflessioni di Pound sull’italiano letterario, una lingua in decadenza che secondo lui avrebbe assoluto bisogno di nuova energia (sintattica in primo luogo): di «carta vetrata» (cfr. Zanotti 2009).
Qui si vede anche la consonanza di Pound con il futurismo; e indubbiamente elementi futuristi, indotti anche dall’omaggio a Marinetti, sono presenti in abbondanza specie nel canto LXII.
Siamo dunque lontani dal dantismo lirico e ‘d’atmosfera’, più alluso che intimamente rivissuto anche nei suoi strumenti espressivi, di tanta poesia novecentesca; i due canti sono piuttosto degni di stare a fianco, mutatis mutandis, al passo famoso dell’ultimo dei Four Quartets di Thomas S. Eliot, con l’incontro, in una Londra cupa e distrutta dai bombardamenti (la temperie e lo scenario sono dunque gli stessi di Pound), con lo spirito di un trapassato, che si modella su quello con Brunetto Latini nel XV canto dell’Inferno. Il dantismo e il medievalismo sono in definitiva sottratti a una dimensione puramente letteraria e diventano – fermo restando il loro carattere superbamente ‘formale’ – materia vitale: tragicamente e cupamente vitale, dato il contesto in cui i due canti nascono, ma non meno affascinante.
Questi canti non rappresentano un ricercato esercizio di stile, un manieristico (o viceversa ingenuo) pastiche di stilemi danteschi da inserire nel quadro, ormai collaudato, del medievalismo novecentesco. Così non è: il contenuto si riversa sulla forma linguistica e stilistica, e ciò fa dell’esperimento poundiano l’estrema e forse irripetibile conferma che la scelta dell’italiano da parte degli scrittori stranieri è sempre stata una scelta deliberata e consapevole, in qualche modo provocatoria, fortemente connotata, spesso ardua: una pratica difficile, insomma, che convoglia significati ulteriori, aggiuntivi rispetto al senso primo del testo di volta in volta prodotto. Diversamente da quello che accade per gli usi eteroglotti del francese (dominanti per secoli), e oggi forse dell’inglese, ogni scrittore straniero in italiano ha dovuto affrontare, volente o nolente, consapevole o meno, una sua personale ‘questione della lingua’: si è dovuto costruire il ‘suo’ italiano, anche là dove lo trovava apparentemente bell’e pronto (cfr. Brugnolo 2009a: 26-29, 95-111).
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