Scoto Eriugena (o Erigena o Ierugena), Giovanni (lat. Iohannes Scotus Eriugena o Erigena o Ierugena)
(o Erigena o Ierugena), Giovanni (lat. Iohannes Scotus Eriugena o Erigena o Ierugena) Filosofo e teologo (9° sec.) di origine irlandese (da cui i soprannomi Scotus ed Eriugena, che nel 9° sec. significavano la stessa cosa, cioè «irlandese»).
Già noto alla corte di Carlo il Calvo, nell’850-51 fu sollecitato a intervenire nella controversia sulla predestinazione contro Gotescalco; intorno all’860-62 lavorò alla traduzione degli scritti dello pseudo-Dionigi, poi degli Ambigua di Massimo il Confessore e del De imagine id est de hominis conditione di Gregorio di Nissa; tra l’862 e l’866 lavorò al De divisione naturae; quindi commentò la Gerarchia celeste dello pseudo-Dionigie il IV Vangelo. All’attività giovanile risalgono le Annotationes in Martianum Capellam ove larga è la cultura letteraria latina (S. E. aveva allora scarsissime conoscenze di greco). La prima opera di notevole impegno è il De praedestinatione (o Periphyseon): qui S. E., combattendo la dottrina della doppia predestinazione e quella, più tradizionale, della condanna dei reprobi alle eterne pene infernali (da S. E. risolte nel perpetuo rimorso della coscienza), inaugura il procedimento «razionale», tipico della sua opera maggiore, mediante una fine ermeneutica delle auctoritates tradizionali.
Il capolavoro di S. E. resta comunque il De divisione naturae, l’opera maggiore del suo secolo e tra le massime della storia della filosofia cristiana. Tema centrale della speculazione di S. E. è il ritmo circolare della processione (descensus) dall’Uno e del ritorno (reditus) all’Uno del molteplice. Questo tema, caratteristico del neoplatonismo e recuperato attraverso la patristica greca (Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore, ma soprattutto lo pseudo-Dionigi Aeropagita) è inserito, come già nei Padri, entro i momenti salienti della speculazione cristiana: creazione, redenzione e finale prospettiva escatologica. In tale processo si scandisce la visione unitaria e ininterrotta della universitas, il «tutto» in cui S. E. include Dio e creatura (universitatem dico, Deum et creaturam) e in cui distingue anzitutto quattro nature: la natura che crea e non è creata, la natura creata e creante, la natura creata e non creante, la natura non creata e non creante (la prima ‒ Dio come principio ‒ e la quarta ‒ Dio come fine ‒ coincidono). Mediante tale distinzione la mente umana tenta di cogliere i momenti del descensus e del reditus, seguendo i due procedimenti della dialettica: la διαιρετική (metodo della divisione) e l’ἀνάλυσις (metodo risolutivo che riconduce al principio); tale dialettica non è una costruzione soggettiva, ma è struttura oggettiva, ontologica, proprio in quanto s’identifica con i processi del descensus e del reditus. In questa compatta visione del Tutto ordinato nei successivi momenti delle nature, S. E. individua tuttavia, coerentemente alla tradizione neoplatonica, una radicale contrapposizione tra essere (ciò che cade sotto i sensi e l’intelletto) e non essere (ciò che eccede le distinzioni categoriali della comprensione umana, e cioè Dio e le cause primordiali), che apre un abisso tra creatore e creatura e fonda la tematica della teologia negativa. Ispirandosi allo pseudo-Dionigi, S. E. distingue tra teologia catafatica o affermativa e apofatica o negativa: la prima parla di Dio attribuendogli solo impropriamente e in forma metaforica gli optima, cioè i valori umani che l’intelletto è capace di comprendere; la teologia negativa invece nega tutto ciò che di Dio la teologia catafatica afferma ed è perciò più adatta a un discorso su Dio; migliore discorso si avrà però unendo e superando affermazione e negazione attraverso l’uso del prefisso super (traduzione del greco ὑπέρ): sicché di Dio non si dirà che è o non è, ma che è superesse, non che è bontà ma che è superbonitas, non essentia ma superessentialis. Si tratta di modi umani per designare una realtà che è oltre ogni distinzione logica, oltre gli opposti contraddittori, e di fronte a cui somma conoscenza è la dotta ignoranza, vertice della conoscenza di Dio, «cuius ignorantia vera est sapientia». Va notato che per S. E. la derivazione del molteplice dall’Uno non è origine del molteplice-temporale, ma origine extratemporale delle forme costituenti l’unica e vera struttura ontologica del reale di cui il molteplice spazio-temporale è pallida e caduca immagine. Pertanto il creare è coessenziale e coeterno a Dio, e si realizza nella posizione delle idee nel Verbo, identificandosi con la generazione del Verbo. Il pensiero divino contiene in assoluta unità la molteplicità delle idee, in quanto in esso atto di intelligenza è atto di creazione e la realtà è tutta simultaneamente posta nel Verbo. Se con questo la creazione è conclusa, non è terminato il processo di discesa: la posizione delle idee o cause primordiali nel Verbo ne è solo il primo momento (in quanto factae, le cause primordiali sono peraltro inferiori al Verbo e non del tutto coeterne). Se le idee, in quanto fissate nel Verbo costituiscono un’unità ineffabile e inconoscibile, da un punto di vista dinamico diventano i principi della derivazione del molteplice spazio-temporale, che in esse ‒ in quanto cause primordiali ‒ trova il suo fondamento ontologico ed esistenziale secondo un rapporto di partecipazione (da intendere come gratuito dono divino). Il molteplice spazio-temporale si definirà pertanto come manifestazione o teofania delle cause e, tramite esse, di Dio.
Questa ulteriore fondazione del molteplice sensibile, fuori del Verbo, è in rapporto alla dottrina del peccato di Adamo: se la creazione infatti era per sé conclusa nel Verbo, l’ulteriore processione nel sensibile deriva da un atto provvidenziale di Dio che, in vista della caduta di Adamo, costituì le condizioni per il ritorno dell’uomo peccatore a Lui. Di qui la centralità in S. E. della dottrina del peccato originale e della redenzione: senza il peccato, l’uomo sarebbe rimasto come pura essenza ideale, nel mondo della realtà intelligibile. Caduto nella sensibilità per la prima colpa (ma per S. E. peccato e creazione del mondo sensibile coincidono) l’uomo dovrà vivere in un mondo adeguato alla sua nuova ma transitoria condizione. Transitoria infatti è anche la condizione della realtà spazio-temporale destinata, come l’uomo, a ritornare al suo vero essere nelle cause primordiali, in Dio. Questo ritorno di ogni essere al suo principio è la restauratio o adunatio naturarum in Christo, resa possibile dall’incarnazione. Col ritorno radicale e totale degli esseri molteplici a Dio si chiude il processo circolare Uno-molteplice. Tale identificazione di essere e bene escludeva dunque la perpetuità del male e, come già i Padri greci (anzitutto Origene e Gregorio di Nissa) concepirono l’apocatastasi come definitiva liberazione dal male, anche S. E. afferma la finale soppressione del male, pur conservando una pena interiore per i dannati. La visione beatifica è risolta nella deificatio, per cui ogni creatura tende a tornare e a identificarsi con Dio.
L’ineffabile presenza di Dio nel creato, fondamentale nel rapporto Uno-molteplice e resa da S. E. con formule schiettamente neoplatoniche (Dio è «sostanza» della creatura, creatura e creatore unum sunt), facilitò interpretazioni monistico-panteistiche del suo pensiero (probabilmente già alla fine del sec. 12° con Amalrico di Bene). Ma se viste all’interno dell’assoluta eterogeneità del creatore, creatura della stessa teologia negativa, tali formule, nel loro fondo platonico, riconfermano una metafisica dove l’essere delle creature, in quanto idea concepita e posta da Dio, trova il suo fondamento ontologico nelle idee o ragioni poste nel Verbo. Non dunque, come S. E. sottolinea fortemente, risoluzione del molteplice in Dio o di Dio nel molteplice (se l’essere è predicato di Dio, non può esserlo delle creature, e viceversa) ma piuttosto assoluta e radicale dipendenza delle creature dal creatore, quale può concepirla una visione platonico-cristiana. Oltre che a temi neoplatonici, il sistema di S. E. resta fortemente ancorato alla lettura della Bibbia. Essa è non solo fonte di sollecitazioni speculative, ma oggetto di tecniche interpretative, che, assumendo gli schemi del neoplatonismo e della esegesi alessandrina, danno larghissimo spazio alla riflessione razionale e spesso sembrano risolvere la stessa storia sacra nell’intemporale schema del descensus e del reditus. Notevole l’importanza data alla ratio (superiore a ogni auctoritas umana) e alla filosofia (nemo intrat in coelum nisi per philosophiam): una ratio e un intellectus, però, radicati nella luce del Verbo e pertanto non eterogenei alla rivelazione, e una philosophia identificata, come già nei Padri, con la religio. Ricerca e contemplazione della verità, nella misura possibile alle creature, filosofia e religione, intellectus e fides, sono momenti di uno stesso processo e hanno fondamenti omogenei per la loro comune sorgente divina. Di qui la grande fiducia nelle possibilità della speculazione, nell’altior theoria, che coglie il senso vero della Scrittura al di là del linguaggio simbolico e allegorico; di qui la possibilità di utilizzare tutte le tecniche del discorso razionale nell’edificazione di un sistema, che vuole restare pur sempre radicato nell’insegnamento divino quale si manifesta attraverso la natura e la Scrittura.
Biografia