Sciuscià
(Italia 1946, bianco e nero, 93m); regia: Vittorio De Sica; produzione: Paolo William Tamburella per Alfa Cinematografica; sceneggiatura: Sergio Amidei, Adolfo Franci, Cesare Giulio Viola, Cesare Zavattini, Vittorio De Sica; fotografia: Anchise Brizzi; scenografia: Ivo Battelli; montaggio: Nicolò Lazzari; musica: Alessandro Cicognini.
Giuseppe e Pasquale sono due ragazzi che, per sbarcare il lunario, puliscono le scarpe ai soldati americani. Vivono alla giornata, allo sbando, senza famiglia né fissa dimora. Il fratello di Giuseppe e un suo compare li mandano a vendere un paio di coperte a una chiromante, ma si tratta di una trappola: infatti, sopraggiungono improvvisamente i loro mandanti, intenzionati a derubare la donna. Giuseppe e Pasquale, che grazie al 'lavoretto' compiuto sono riusciti a comprarsi un cavallo bianco, finiscono al riformatorio e sono condannati dal tribunale. Durante l'interrogatorio, infatti, Pasquale è portato a credere con l'inganno che il suo amico sia brutalmente picchiato e confessa. La sua denuncia e la vita nella prigione, disciplinata da regole disumane e fetida quanto un penitenziario dei secoli scorsi, incrinano il sodalizio affettuoso che aveva unito i due amici. Qui spadroneggiano i detenuti più violenti e l'aspirazione alla fuga è il desiderio più accarezzato. Giuseppe si associa a un gruppo che, approfittando di un piccolo incendio, sega le sbarre di una stanza e scappa. Sarà Pasquale a guidare i sorveglianti e i poliziotti sulle tracce di Giuseppe, che è ritornato in possesso del cavallo. È inevitabile che i due si accapiglino, ma nella colluttazione Giuseppe perde l'equilibrio, precipita da un ponticello, batte la testa e muore, mentre il cavallo si allontana.
Nato da uno spunto di Giulio Cesare Viola e da un'inchiesta condotta da Cesare Zavattini e Vittorio De Sica tra gli sciuscià romani, il film ebbe un costo modesto (circa un milione di lire). Distribuito in America, riscosse a New York un successo sensazionale e nel 1947 vinse un Oscar onorario. In Italia, un pubblico distratto dal ritorno sugli schermi della produzione hollywoodiana lo accolse senza particolare interesse, e la critica non fu unanime nell'apprezzarne il coraggio e il valore. Riserve vennero espresse anche da "L'Osservatore Romano" del 29-30 aprile 1946, scosso dall'ambientazione inusuale, dalla cupezza del racconto e dai dialoghi che mimavano il linguaggio parlato. Recitato soprattutto da attori non professionisti e da caratteristi sapientemente scelti, Sciuscià segnò l'esordio di Franco Interlenghi, che avrebbe avuto poi una lunga carriera cinematografica, mentre avviò al declino quella di Emilio Cigoli, ottimo doppiatore che solo De Sica ha saputo valorizzare in qualità di attore. In mezzo a difficoltà anche di carattere tecnico, le riprese ebbero luogo nella Roma postbellica e nei teatri della Scalera ove venne ricostruito il correzionale San Michele.
Storia di un'amicizia drammaticamente infranta, Sciuscià riapre il discorso poetico già avviato da De Sica in I bambini ci guardano (1944). Questa volta, la visuale si amplia, dagli egoismi e dalle insensibilità di un interno domestico e piccolo borghese a una società che la guerra ha sconvolto, abbattendo tabù e menzogne ma anche seminando lacerazioni materiali, morali e psicologiche. Vittime di una spietata solitudine sociale, ma pervasi dai miraggi del benessere che la borsa nera e mille traffici leciti e illeciti hanno acceso, Giuseppe e Pasquale inseguono il sogno di un'infanzia in cui vi sia posto per la fantasia. Il cavallo bianco, 'Bersagliere', che i ragazzi comprano, incarna, insieme a un naturale istinto di libertà, un bisogno che l'immaginazione ha nutrito. Zavattini e De Sica partecipano di questi sentimenti e disegnano gli sciuscià del loro film come piccoli uomini precocemente cresciuti alla dura scuola della vita. Abbandonati a se stessi, traditi, umiliati, ingannati, uccisi dal mondo degli adulti. La requisitoria è aspra e investe, oltre al cinismo e all'indifferenza degli individui, le istituzioni: la giustizia ingiusta degli adulti, il reclusorio come scuola di delinquenza dominata da un autoritarismo di stampo fascista (chi denota un pizzico di umanità e mitezza soccombe).
Sciuscià colpisce per la vivezza di uno sguardo che non concede nemmeno un'unghia al bozzetto, al pittoresco, alle cadenze melodrammatiche che costellano alcuni film coevi del neorealismo emergente. Uno svolgimento asciutto e secco, indenne da sottolineature patetiche e da indugi di commiserazione, volge spedito allo scioglimento di una tragedia che De Sica osserva con sguardo crudo, alieno da accenti moralistici, non meno di quanto lo sarà quattro anno dopo Luis Buñuel in Los olvidados. Un De Sica, quello di Sciuscià, immune da qualsiasi forma di 'buonismo' e di pietismo, quale si vedrà anche nei successivi Ladri di biciclette, Miracolo a Milano (1951), Umberto D.. Disadorna, la regia poggia sulla semplicità compositiva delle inquadrature, sulla incisività dei volti, sulla misuratezza dei movimenti della macchina da presa, su un montaggio piano e su una intensità che raggiunge la poesia e rischiara il fondo disperato di un film illuminante.
Interpreti e personaggi: Franco Interlenghi (Pasquale), Rinaldo Smordoni (Giuseppe), Aniello Mele (Raffaele), Bruno Ortensi (Arcangeli), Emilio Cigoli (Staffera), Gino Saltamerenda (il 'Panza'), Anna Pedoni (Nannarella), Leo Garavaglia (commissario di Pubblica Sicurezza), Enrico De Silva (Giorgio), Antonio Lo Nigro (Righetto), Angelo D'Amico (il siciliano).
A. Pietrangeli, Un film esplosivo di Vittorio De Sica, in "Star", n. 17, 27 aprile 1946, poi in Il cinema di Antonio Pietrangeli, a cura di P. Detassis, T. Masoni, P. Vecchi, Venezia 1987.
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