REBIBA, Scipione
REBIBA, Scipione. – Nacque il 3 febbraio 1504 a San Marco d’Alunzio (Messina), nella diocesi di Patti, secondogenito di Francesco e della nobile Antonia Filingeri dei conti di San Marco. Il palazzo di famiglia si trovava nel quartiere di S. Pantaleo.
Compì gli studi giuridici a Palermo dove si laureò in utroque iure. Tra il 1524 e il 1528 prese gli ordini maggiori e ottenne un canonicato nella chiesa di S. Maria dei Miracoli che resignò quando, tra il 1536 e il 1537, da Palermo si recò a Roma.
Non sappiamo come né quando entrò a far parte dell’entourage del napoletano Gian Pietro Carafa, fondatore dei teatini e cardinale nel dicembre del 1536, sotto l’ala del quale si sarebbe svolta la sua successiva carriera ecclesiastica. Il 13 marzo 1541 fu nominato vescovo di Amicle nel Peloponneso, in partibus infidelium, e nel contempo vescovo suffraganeo di Carafa nella diocesi di Chieti, che lasciò nel 1549, quando ne divenne titolare il teatino Bernardino Scotti. Tornato in Curia e creato protonotario apostolico, il 12 ottobre 1551 Rebiba ebbe il vescovato pugliese di Mottola (resignato nel 1556). Qualche mese prima (27 giugno 1551) era stato nominato vicario di Carafa nella sede arcivescovile di Napoli. A questa carica, dal 30 maggio 1553, si affiancò quella di ministro delegato del S. Uffizio romano a Napoli, che fu il primo a ricoprire.
La designazione a vicario di una delle arcidiocesi più importanti della penisola riflette la considerazione di cui ormai godeva al servizio di Carafa, diventato nel frattempo potente cardinale della congregazione dell’Inquisizione (fondata nel 1542). Nelle mani di Carafa il S. Uffizio divenne in breve tempo, grazie anche allo zelo di uomini come Rebiba, un formidabile strumento istituzionale per la rigorosa repressione non solo dell’eresia, ma anche delle posizioni di dissenso interne alla Chiesa che erano in contrasto con gli orientamenti degli intransigenti.
A Napoli Rebiba – il cui nome compare tra gli iscritti alla locale Compagnia dei Bianchi della Giustizia (Romeo, 1993, p. 321) – guidò una dura campagna antiereticale contro i seguaci dello spagnolo Juan de Valdés, morto a Napoli nel 1541. La vasta azione inquisitoriale allargata al Viceregno fece emergere la ramificata diffusione delle dottrine valdesiane (già condannate dal S. Uffizio) tra personaggi di spicco dell’aristocrazia meridionale ed esponenti delle alte gerarchie ecclesiastiche. Da Napoli a Roma, dove commissario generale del S. Uffizio era stato intanto nominato il domenicano Michele Ghislieri, altra «creatura» di Carafa, furono così inviate in quel periodo «barcate de carcerati» dell’Inquisizione (A. Caracciolo, Vita di Paolo IV, cit. in Amabile, 1892, I, p. 215).
L’11 dicembre 1552 l’agente di Ferrante Gonzaga a Napoli definiva Rebiba «persona temeraria senza alcun rispetto», che «procede inconsideratamente contra ognuno» (Marcatto, 2003, p. 165). In realtà, l’offensiva inquisitoriale concertata tra Napoli e Roma da Carafa e dai suoi collaboratori era il segnale di un cambiamento che stava investendo tutta la penisola italiana dove appartenenze di ceto, rango e protezioni influenti non bastavano più ad arrestare l’azione giudiziaria del S. Uffizio.
Nel maggio del 1555, con l’elezione di Carafa al pontificato con il nome di Paolo IV, la politica dell’Inquisizione diventava politica del papato: Rebiba, che a Napoli aveva dato ampia dimostrazione delle proprie capacità, fu subito richiamato in Curia e il 5 luglio fu nominato governatore di Roma.
In questa veste, nell’estate del 1555, alle dipendenze del papa e del cardinal nepote Carlo Carafa, diresse il processo contro Giovanfrancesco Lottini, segretario del cardinale Guido Ascanio Sforza. Lo scopo era dimostrare l’esistenza di una congiura contro Paolo IV organizzata da cardinali, principi italiani, baroni romani e agenti asburgici con l’appoggio di Carlo V e del figlio Filippo. Le deposizioni di Lottini, estorte con la tortura, resero possibile l’offensiva papale contro gli esponenti del partito filoimperiale che si scatenò a Roma nei mesi successivi.
Il 20 dicembre Rebiba fu creato cardinale e gli fu concesso di abitare nel palazzo apostolico. Nel frattempo, le radicate posizioni antiasburgiche del neoeletto pontefice portarono al deterioramento delle relazioni con imperiali e spagnoli. Con la sua formazione di canonista e la granitica fedeltà, Rebiba fu allora collaboratore prezioso nel complesso gioco politico-diplomatico condotto da papa Carafa. «Sua Beneditione [non ha] persona in questo Sacro collegio più intima et più consapevole della santissima mente sua che noi dui», affermava l’11 aprile 1556 il cardinal nepote (Nuntiaturberichte aus Deutschland, 1971, p. 339). «Carafarum arcanorum conscius», lo definì Antonio Caracciolo, il biografo teatino di Paolo IV (cit. in Aubert, 1999, p. 174)
Dopo la tregua di Vaucelles (5 febbraio 1556) tra Filippo II di Spagna e il re di Francia, il 10 aprile 1556 Rebiba fu designato legato papale a Bruxelles. L’11 maggio ricevette la croce legatizia, a fine mese lasciò Roma alla volta della corte asburgica, incaricato di una missione ambigua e strumentale che lo vedeva latore della fittizia promessa di convocazione del concilio, mentre contemporaneamente il cardinal nepote Carlo Carafa, inviato alla corte di Enrico II, tentava di coinvolgere la Francia in un’alleanza antispagnola. La missione di Rebiba non fu portata a termine per l’aggravarsi delle relazioni tra la S. Sede e la Spagna, tra il maggio e il luglio del 1556, sino allo scoppio della guerra l’anno successivo.
Il coinvolgimento di Rebiba nella politica antiasburgica di Paolo IV continuò anche in seguito. Nel maggio del 1558 fece parte della commissione cardinalizia che doveva provare l’invalidità dell’abdicazione al titolo imperiale fatta da Carlo V a favore del fratello Ferdinando. In luglio fu nominato legato in Polonia dove si temeva uno scisma guidato dalla monarchia, ma il vero scopo della missione era incontrare a Vienna l’imperatore e comunicargli le pesanti condizioni stabilite dal papa per risolvere la controversia. La ferma posizione di Ferdinando, che intanto aveva convocato la Dieta imperiale, rese inutile la partenza del legato: il riconoscimento papale della trasmissione del titolo imperiale avvenne soltanto sotto il successore di Paolo IV.
Oltre che nella sfera politico-diplomatica, Rebiba coprì sotto Paolo IV incarichi di alto profilo nel governo ecclesiastico. Il 10 gennaio 1556, insieme con i cardinali Bernardino Scotti e Jean Reuman, fu assegnato alla commissione cardinalizia per la riforma della Dataria, una commissione papale di collaboratori fidati che secondo la visione di Carafa doveva da allora innanzi portare avanti le riforme «come un concilio senza chiamarsi concilio» (Aubert, 1999, p. 81). Tra il 1557 e il 1558 fece parte del consiglio ristretto per il governo di Roma e dello Stato della Chiesa appositamente creato durante l’assenza del cardinal nepote inviato a Bruxelles.
Il 13 aprile 1556 fu nominato arcivescovo di Pisa (da cui il nome «cardinale di Pisa»), nonostante Cosimo de’ Medici avesse chiesto l’investitura per il figlio Giovanni; il 3 dicembre 1557 ricevette il pallio. La scelta di un cardinale fidato e ormai potente come Rebiba per governare l’arcidiocesi posta nello Stato mediceo si inseriva nel quadro delle pessime relazioni politiche tra Paolo IV e il duca di Firenze. Pressato dagli incarichi curiali, Rebiba governò la Chiesa pisana per mezzo di vicari (Giacomo Lomellino e Antonio de’ Cartignano, che nel 1557 condusse la visita pastorale) salvo un breve periodo di residenza nell’agosto del 1558. Nel 1560 sotto Pio IV, della cui elezione Cosimo fu principale artefice, Rebiba dovette resignare il beneficio pisano in cambio del piccolo vescovato pugliese di Troja (19 giugno 1560).
Già da governatore di Roma nel 1555 aveva fatto parte della commissione sui giudaizzanti portoghesi di Ancona. Il suo impegno nella lotta contro l’eresia proseguì a livello centrale con la nomina a cardinale del S. Uffizio nell’autunno del 1556. Il 25 novembre 1557 a lui e a Ghislieri furono affidate anche le cause riguardanti il delitto di sodomia, che così diventò competenza del S. Uffizio (Pastor, 1912, p. 501). Insieme con Ghislieri, Reuman e Virgilio Rosario fece parte del collegio inquisitoriale incaricato nel 1557 di istruire il processo di eresia contro il cardinale Giovanni Morone, il più autorevole esponente degli «spirituali». Oltre a esserne uno dei giudici più inflessibili, cercò di accelerare l’iter processuale perché Morone fosse condannato prima della fine del pontificato dell’anziano Paolo IV, in modo da impedirne per sempre l’eventuale elezione al papato.
La morte di Carafa nel 1559 e l’elezione di Pio IV rappresentarono per Rebiba una svolta. Alla riabilitazione di Morone fece seguito l’offensiva giudiziaria del neoeletto pontefice contro nipoti e collaboratori del papa defunto, in realtà un regolamento di conti con Paolo IV e la sua eredità politico-religiosa. Dopo l’esecuzione del cardinal nepote Carlo Carafa e del fratello Giovanni duca di Paliano, la notte del 7 febbraio 1561 Rebiba fu arrestato. Subì l’umiliazione del carcere in Castel S. Angelo per quasi un anno, accusato di coinvolgimento nell’assassinio della moglie di Giovanni Carafa, di avere contraffatto dei brevi riguardanti gli spogli dell’arcivescovato di Pisa, di aver sabotato la missione di pace a Bruxelles nel 1556 e di avere illegalmente condotto da governatore di Roma il processo contro Lottini fabbricando false prove d’accusa. «Si tiene per fermo che ’l cardinal di Pisa sarà privato del cappello et della vita», era la notizia diffusa il 20 settembre 1561 dagli avvisi (Firpo - Marcatto, 1998-2000, I, p. LXXXIV).
Di fronte al tribunale del governatore, Rebiba si trincerò dietro un contegno reticente e sprezzante, senza mai tradire i Carafa. Fu scarcerato il 31 gennaio 1562 con un non luogo a procedere. Nel settembre dello stesso anno fu reintegrato nel S. Uffizio. Nell’estate del 1564 ne fu di nuovo estromesso insieme con altri cardinali carafeschi per ordine di Pio IV che ne limitò i poteri e ne mutò la composizione allo scopo di riportare il dicastero sotto il controllo papale. Dal 12 gennaio 1565 al 13 gennaio 1567 rivestì la carica di cardinale camerlengo, l’8 dicembre 1565 fu nominato patriarca di Costantinopoli.
Il 7 gennaio 1566 l’elezione dell’inquisitore Ghislieri con il nome di Pio V segnò la ripresa in grande stile della politica di Paolo IV. Rebiba tornò ad abitare nel palazzo apostolico e ricevette dal nuovo papa l’incarico di far progettare la tomba di Paolo IV, poi eretta nella chiesa domenicana della Minerva. In febbraio fu reintegrato nel S. Uffizio, i cui poteri erano stati ripristinati da Pio V che l’aveva ridotto a quattro fedelissimi cardinali e ne presiedeva regolarmente le riunioni.
Nel 1567-68 diresse i processi inquisitoriali mantovani che coinvolsero personaggi della corte e stretti collaboratori dei Gonzaga come Endimio Calandra, l’antico segretario del defunto cardinale Ercole. «Questi heretici così antichi c’hanno conversato con grandi, sanno di molte cose», scriveva nel 1568 al cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, inviato a dirigere la repressione a Mantova alle dipendenze dell’Inquisizione (Pagano, 1991, p. 146). Nelle intenzioni di Rebiba, la dura repressione antiereticale mantovana scandita da torture, roghi, abiure e autodafé, portata (non senza resistenze) sin nel cuore della corte di un principe italiano doveva mostrare alle autorità civili della penisola come non fosse più tempo per loro di opporsi all’Inquisizione.
In quel periodo fece parte del collegio inquisitoriale nel processo romano contro il protonotario fiorentino Pietro Carnesecchi, valdesiano e legato agli «spirituali», conclusosi con la condanna a morte dell’imputato nell’ottobre del 1567. Altre inchieste e processi da lui condotti, tra cui quello a Niccolò Franco (1568-70), volti a ricostruire complicità e orientamenti eterodossi di «prelati grandi e cardinali vivi e morti» (lettera a Borromeo, cit. in Pagano, 1991, p. 153), costituirono l’ultima grande offensiva giudiziaria contro il movimento valdesiano e il partito degli «spirituali», ossia contro i protagonisti di una stagione di dissenso interno alla Chiesa che si stava ormai chiudendo.
Morto Pio V, sotto il successore Gregorio XIII (1572), Rebiba godette degli ampi margini di manovra accordatigli dal papa e di una preminenza indiscussa entro il S. Uffizio, di cui era ormai il decano. In quegli anni, da un lato consolidò l’ideologia e l’uso politico dell’Inquisizione secondo le linee fissate da Carafa e Ghislieri, dall’altro lato organizzò la macchina inquisitoriale e ne plasmò dall’alto le procedure. Impose il coordinamento tra le inquisizioni periferiche nella caccia agli imputati e nella formazione dei processi; obbligò gli inquisitori locali a inviare informazioni al centro sui procedimenti in corso e a redigere inventari dei beni confiscati. Nel 1569 scatenò una contesa con vescovi e autorità venete sulla custodia dei processi, sino a quel momento conservati nei palazzi episcopali, che Rebiba pretendeva ora fossero consegnati agli inquisitori.
Il suo contributo alla definizione dello «stile» dell’Inquisizione si coglie non solo nella rete della corrispondenza con gli inquisitori locali, ma anche nelle lettere per mezzo delle quali guidò l’azione repressiva di vescovi e nunzi, si trattasse del potente Borromeo impegnato nella campagna contro la stregoneria diabolica, o del nunzio in Savoia Vincenzo Lauro alle prese con gli eretici in un’area di confine, o del vescovo di Modena Sisto Visdomini, successore di Morone, al quale nel 1571 Rebiba inviava lettere che sono state giustamente paragonate a piccole summae di pratica inquisitoriale (Al Kalak, 2008, p. 145). Se, quindi, nel 1574 Rebiba poteva richiamarsi all’«antico et continuato uso dell’ufficio» (Bonora, 2007, p. 137) riferendosi alla congregazione dell’Inquisizione che dopotutto esisteva solo da un trentennio, ciò era anche frutto della sua instancabile attività svolta nell’arco di un quarto di secolo al servizio dell’istituzione.
Morì a Roma il 23 luglio 1577 soffocato da un boccone durante il pasto. Nel concistoro del 31 luglio Gregorio XIII lo commemorò ricordandone il ruolo di inquisitore. Fu sepolto nella chiesa teatina di S. Silvestro al Quirinale.
Fonti e Bibl.: Alla documentazione citata o pubblicata nelle opere segnalate in bibliografia occorre aggiungere alcuni fascicoli superstiti del copialettere di Rebiba in Roma, Archivio della Congregazione per la Dottrina della fede, Sant’Offizio, Stanza Storica, N3-f. L. Amabile, Il santo Officio della Inquisizione in Napoli, I, Città di Castello 1892, pp. 214 s.; R. Ancel, La disgrâce et le procès des Carafa (1559-1567), in Revue bénédictine, XXVI (1909), pp. 206 s.; G. van Gulik - C. Eubel, Hierarchia catholica, III, Münster 1910, pp. 35, 107, 177, 251, 274; L. von Pastor, Allgemeine Dekrete der Römischen Inquisition aus den Jahren 1555 bis 1597, in Historische Jahrbuch, XXXIII (1912), p. 501; L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, VI-IX, Roma 1950-1964, ad indices; Nunziature di Savoia, I, a cura di F. Fonzi, Roma 1960, ad ind.; R. De Maio, Alfonso Carafa. Cardinale di Napoli (1540-1565), Città del Vaticano 1961, ad ind.; Nuntiaturberichte aus Deutschland, Erste Abteilung, 1533-1559, XIV, Nuntiatur des Girolamo Muzzarelli. Sendung des Antonio Agustin. Legation des S. R. (1554-1556), a cura di H. Lutz, Tübingen 1971, ad ind.; S. Pagano, Il processo di Endimio Calandra e l’Inquisizione a Mantova nel 1567-1568, Città del Vaticano 1991, ad ind.; G. Romeo, Aspettando il boia. Condannati a morte, confortatori e inquisitori nella Napoli della Controriforma, Milano 1993, p. 321; A. Aubert, Paolo IV. Politica, Inquisizione e storiografia, Firenze 1999, ad ind.; M. Firpo - D. Marcatto, I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi (1557-1567). Edizione critica, I-II, Città del Vaticano 1998-2000, ad ind.; P.C. Ioly Zorattini, Ancora sui giudaizzanti portoghesi di Ancona (1556): condanna e riconciliazione, in Zakhor. Rivista di storia degli ebrei d’Italia, V (2001-2002), pp. 41, 46 s.; P. Scaramella, Le lettere della Congregazione del Sant’Ufficio ai tribunali di fede di Napoli, 1563-1625, Trieste 2002, ad ind.; D. Marcatto, «Questo passo dell’heresia». Pietro Antonio di Capua tra valdesiani, spirituali e Inquisizione, Napoli 2003, ad ind.; G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma, Firenze 2004, ad ind.; E. Bonora, Inquisizione e papato tra Pio IV e Pio V, in Pio V nella società e nella politica del suo tempo, a cura di M. Guasco - A. Torre, Bologna 2005, pp. 50 s., 54, 64 s., 72; M. Firpo, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone e il suo processo d’eresia, Brescia 2005, ad ind.;E. Bonora, Giudicare i vescovi. La definizione dei poteri nella Chiesa postridentina, Roma-Bari 2007, ad ind.; B. Rinaudo - S. Miracola, Il cardinale S.R. (1504-1577). Vita e azione pastorale di un vescovo riformatore, Patti 2007; M. Al Kalak, Gli eretici di Modena. Fede e potere alla metà del Cinquecento, Milano 2008, ad ind.; P. Portone, in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. Prosperi, III, Pisa 2010, pp. 1303 s.; M. Al Kalak, L’eresia dei fratelli. Una comunità eterodossa nella Modena del Cinquecento, Roma 2011, ad ind.; E. Bonora, Roma 1564. La congiura contro il papa, Roma-Bari 2011, ad indicem.