MERCURIO, Scipione
MERCURIO (Mercuri), Scipione (Girolamo). – Nacque a Roma presumibilmente tra il 1540 e il 1550.
Lodato ma anche aspramente criticato dai suoi contemporanei, il M. fu ritratto da molti come un personaggio curioso, «di spirito tutto svegliato e perspicace» (Picinelli) ma anche «instabile ed inquieto nelle sue risoluzioni», tanto da essersi procurato, in alcune circostanze, «molti inimici» (Brambilla, p. 77). Eclettico e dal carattere indipendente, così si descrisse: «Io nacqui libero. E posso perciò operare a mio modo» (La comare, Venetia, G.B. Ciotti, 1596, Prefatione). La sua vita, densa di avvenimenti, presenta molti punti oscuri, omessi forse volutamente da alcuni suoi biografi o citati in modo vago, talora discordante. Egli stesso ricordò alcuni episodi, spesso brevemente o tralasciando molti particolari «com’uom che fugge dal riaprire le sue piaghe» (Teza, p. 189).
Dopo il 1568, istruito nelle arti liberali, il M. si trasferì a Bologna e a Padova per dedicarsi allo studio della medicina; a Bologna seguì le lezioni di anatomia di Giulio Cesare Aranzio, discepolo di Andrea Vesalio, e fu allievo di Giovanni Zecca (o Zecchi), di cui più tardi pubblicò alcune lezioni. Decise poi di prendere i voti ed entrò nell’Ordine dei frati predicatori nel convento di S. Eustorgio di Milano dove assunse il nome di Girolamo (ma nelle sue pubblicazioni continuò a usare il nome Scipione) e dove fu supplente negli anni 1577-78 per diventare reggente negli anni 1579-80 e 1582-83. Si dedicò alla teologia, alla letteratura e soprattutto alla medicina; forse insegnò anche la logica e la matematica. Per qualche tempo tornò a studiare a Padova, dove fu medico sotto la guida di Ercole Sassonia, che magnificò come «uno dei primi prattichi dello Studio di Padova» (La comare, 1596, I, p. 64). Secondo quanto il M. ricorda, nel 1578 fu a fianco di Aranzio a Bologna in occasione dell’estrazione di un neonato dal ventre di «una sfortunata donna gravida» non sopravvissuta al parto (ibid., p. 12). Tornato a Milano, esercitò la professione medica e chirurgica, diventando «uno dei primi medici della città» (Brambilla, p. 77). Il suo successo, secondo alcuni, gli avrebbe valso l’invidia dei colleghi medici, che cominciarono a sollevare dubbi sulle sue molteplici attività «poiché il Frate e il Medico non andavano bene insieme» (ibid., p. 77; Quétif - Échard, p. 398). In seguito a dissapori con i confratelli, forse per aver più volte disobbedito alla regola anche a causa della sua attività di medico, «oppresso da molti oltraggi» (De gli errori…, 1603, dedica a Giovanni Ambrogio Barbavara), lasciò il chiostro.
Non è noto con esattezza quando il M. abbia abbandonato il convento; secondo alcuni intorno al 1570 (Quétif - Échard, p. 398), data che non sembra compatibile con la reggenza del M. a S. Eustorgio. D’altro canto, appare quanto meno singolare che da reggente potesse esercitare la professione e in particolare l’assistenza al parto, rarissima anche tra i medici fisici, i quali, in genere, non intervenivano direttamente ma per interposta persona, attraverso una comare; in ogni caso l’attività medica e chirurgica era proibita ai frati dalle bolle di Innocenzo III e Onorio III (Decretalium Compilatio, l. III, tit. L, cap. IX; l. V, tit. XII, cap. XIX). Il M. potrebbe però aver goduto di una speciale licenza papale che alcuni biografi gli riconoscono e che gli avrebbe permesso di «esercitar quest’arte veramente necessaria fuori della Religione» (Ghilini, p. 122; Plodius).
Certo è che, dal momento in cui lasciò l’Ordine, il M. iniziò una lunga peregrinazione attraverso l’Italia e l’Europa, della quale, forse esagerando, ricordava di aver veduto «la maggior parte» (La commare, Venetia 1601 [ma 1606], p. 122). Nel 1590 fu nel Sud della Francia come medico al seguito del conte Jerôme de Lodron, capitano delle truppe mercenarie inviate da Filippo II di Spagna in aiuto della Lega cattolica. Il M. risulta inoltre attivo in vari luoghi dell’Italia centrosettentrionale: fu lettore di medicina nello Studio bolognese nell’anno accademico 1584-85 e lavorò a Peschiera, a Cento di Ferrara e a Lendinara nel Polesine, con un passaggio anche a Civitavecchia, stipendiato come medico condotto.
Nel 1596, quando era medico a Lendinara, pubblicò a Venezia il suo trattato più famoso, La comare o ricoglitrice, destinato a rimanere, sino agli anni Venti del Settecento, l’unico manuale di ostetricia in volgare, con numerose edizioni anche in lingua non italiana. Nelle edizioni successive alla prima (se ne conoscono in tutto ventitré, di cui due a Lipsia e una a Wittenberg) il titolo è La comare o raccoglitrice e poi La commare o raccoglitrice.
La comare si colloca nel filone cinquecentesco inaugurato dal De partu hominis di E. Rhodion (Roesslin), la cui prima pubblicazione in volgare tedesco risaliva al 1508 e quella in latino (Venezia) al 1537; nel 1563 era anche uscito un trattato del modenese Giovanni Marinello dal titolo Le medicine partenenti alle infermità delle donne (Venezia). L’opera del M., scritta in lingua «romana intesa da tutti» e non toscana, si differenzia in modo originale e innovativo rispetto a quelle dei suoi predecessori soprattutto perché dedicata all’istruzione non tanto dei medici, che «mai o rarissime volte sono chiamati a questa attione», quanto a quella delle commari, le quali, «per il poco sapere», rischiavano spesso di mettere in pericolo «ne’ parti vitiosi le madri, e i figli» (Prefatione, in La comare, 1596). E a chi avesse voluto criticarlo per aver fatto «tanti discorsi di filosofia con le femminucce, e con la commare», il M. replicava che il suo libro poteva essere utilizzato non soltanto dalle levatrici ma anche «da padri di famiglia, e da qualche altro, il quale non intenda latino, che in bisogni di questa sorte potrà porgere aiuti importanti» (ibid.). Il suo trattato rispondeva dunque a un preciso programma culturale nel quale l’uso della lingua volgare voleva soddisfare la crescente domanda di informazione, ma anche di controllo, di un ambito tradizionalmente riservato alle donne. Scritto con linguaggio colorito, talvolta polemico, arricchito da qualche racconto personale e molti consigli pratici, il manuale è suddiviso in tre libri: il primo riguarda il parto normale con consigli per la donna gravida e per il neonato, il secondo è dedicato all’assistenza al parto difficile, alle gravidanze che non arrivano a termine e al parto cesareo; il terzo riguarda le malattie ostetriche e ginecologiche e quelle della prima infanzia. Sotto il profilo scientifico, La comare si colloca nel solco di una tradizione medica bimillenaria, che da Ippocrate, Aristotele, Galeno, attraverso la trattatistica araba, arriva fino al De humano foetu (Bologna 1564) di Aranzio, ad Ambroisé Paré e alle scoperte di Vesalio e Gabriele Falloppia. Il M. cita ampiamente i classici, sottoponendoli però a revisione sulla base delle osservazioni e delle tecniche chirurgiche più recenti. Tuttavia, analogamente a molta trattatistica coeva, le sue descrizioni del corpo femminile, così come le ipotesi sulla generazione umana, risentono di pregiudizi anatomici e fisiologici di origine aristotelico-tomistica. Non mancano inoltre riferimenti a credenze medievali e rinascimentali – il M. suggerisce più volte l’uso di talismani e amuleti operanti «per proprietà occulta» (La commare, 1654, p. 156) –, soprattutto là dove la medicina era più incerta, riguardo per esempio alla durata della gravidanza o alla determinazione del sesso del nascituro.
Intorno al 1602 il M. rientrò nell’Ordine domenicano, affiliato presso i conventi di Murano e Venezia, dove era stato accolto dal priore Giulio Landriano che, intercedendo per lui presso le alte gerarchie dell’Ordine, lo aveva convinto, insieme con altri confratelli, a ritornare sui suoi passi. Nella nuova sede il M. si dedicò alla spezieria e alla costruzione o ristrutturazione a proprie spese della sacrestia, su richiesta dell’inquisitore di Bologna, il teologo domenicano Pietro Festa dagli Orzi. Nel 1603 pubblicò a Venezia, su invito dei suoi confratelli, De gli errori popolari d’Italia, opera che aveva già composto e avviato alle stampe due anni prima, quando era medico a Monselice, nel Padovano.
Gli Errori, approvati alla stampa il 4 maggio 1602 dal Consiglio dei dieci sulla base del giudizio positivo espresso dai «Signori Reformatori dello Studio di Padoa» (Tavola delle cose notabili, ibid.), sono suddivisi in sette libri preceduti da alcune lettere dedicatorie, datate tra il 9 e il 26 luglio 1603, indirizzate a Domenico Bollani, priore domenicano a Venezia con incarichi presso la Curia romana, all’inquisitore di Bologna, a G.A. Barbavara priore della provincia di S. Pietro Martire a Milano, a Landriano, a Bonifacio Fontana priore del convento dei Ss. Giovanni e Paolo a Venezia, al padre domenicano di Alessandria Ludovico Gentile di Nouis e al capitano Alvigi Trotto, nipote di Lodron. Le lettere, espunte nelle successive edizioni, testimoniano le protezioni ricevute dal M. e i suoi rinnovati rapporti con l’Ordine. Vi è inoltre, sempre nella prima edizione, una dedica al M. del domenicano Jacopo Acuto d’Affinati, priore del convento di S. Maria delle Grazie di Padova, autore di opere religiose e di alcuni dialoghi. L’opera del M. è suddivisa in due parti: la prima, che comprende i primi sei libri, tratta degli errori commessi «contro la medicina», «contro il medico», «contro gli ammalati in letto», «contro gli infermi nelle piazze», «contro le donne gravide e le partorienti» e «contro i fanciulli»; la seconda è composta dal settimo libro e riguarda gli errori commessi nel modo di vivere e si richiama all’antica tradizione dei trattati del viver sano.
Più in generale gli Errori si collocano in un filone della letteratura medica di grande diffusione che ebbe come esempio più noto il trattato di Laurent Joubert, cancelliere della facoltà di medicina di Montpellier e medico di Enrico III, dal titolo Erreurs populaires au fait de la médecine et regime de santé, pubblicato a Parigi nel 1578, al quale più volte il M. si richiama. L’opera del M., a differenza di quella di Joubert, non era indirizzata soltanto a correggere gli errori dei medici, ma aveva anche uno scopo divulgativo più ampio, che riguardava insieme «volgo» e nobiltà (ibid., pp. 2 s.). I medici, sia che fossero chirurghi, barbieri o medici fisici, si diceva che dovessero intervenire coerentemente con le loro specialità, distinte gerarchicamente e riconosciute da collegi e corporazioni. I medici fisici, in particolare, avrebbero dovuto non soltanto studiare la medicina sui testi ma anche praticare la chirurgia e formarsi in anatomia. In molti punti l’opera risente del clima culturale e sociale postridentino e sotto questa luce vanno lette le pagine contro gli ebrei, verso i quali il M. manifestava diffidenza e intolleranza, o contro i ciarlatani e gli astrologi, anche se per talune malattie non mancava di suggerire, tra i tanti rimedi, quelli di origine magica o popolare. Significativo del nuovo clima di cui il M. risente è anche il mutato atteggiamento nei confronti delle donne e in particolare delle levatrici, ne La comare guardate con benevolenza e ora definite invece ignoranti e «balorde» (ibid., p. 253), propagatrici di errori (dall’aborto al mancato battesimo dei neonati), da richiamare all’obbedienza del medico e del parroco.
Da Venezia il M. si spostò occasionalmente ad Alessandria e a Milano, dove nel 1603 visitò i confratelli, forse anche per «dar manforte a quaresima» (ibid., lettere dedicatorie a G.A. Barbavara e a L.G. di Nouis); risulta di nuovo reggente nello Studio di S. Eustorgio di Milano dal 1604 al 1607, come confermato non solo dai registri dell’istituzione e dalla lettera dedicatoria a Ottaviano Malipiero nella terza edizione de La commare (Venezia 1601 nel frontespizio ma 1606), ma anche da Plodius che scriveva nel 1613, quando il M. era ancora vivo ed esercitava l’attività medica grazie alla licenza papale.
L’anno della morte del M. pare essere il 1615, ma il luogo è controverso. Secondo alcuni morì a Venezia, sepolto nel convento di S. Domenico (Ghilini, p. 123), ma nel registro dei morti del convento veneziano non risulta il suo nome per l’anno 1615; secondo altri morì invece a Roma, dove sarebbe stato sepolto nella «chiesa della sua religione» (Picinelli; Mortier).
Nella prefazione della prima edizione de La comare il M. affermò di aver «molti anni prima» dato alle stampe «alcune sue fatiche», senza specificare quali fossero. I biografi antichi elencano i seguenti titoli: Del mal francese, Alcuni scritti sopra la prima parte degli aforismi d’Hippocrate, L’orologio della sanità, Il cortigiano catholico e I commenti sopra le sette giornate della creazione del mondo di Torquato Tasso (Ghilini, p. 122; Picinelli). L’orologio della sanità non è altro che la seconda parte de Gli errori, dove compare come sottotitolo, mentre Del mal francese e gli Aforismi d’Hippocrate sono in realtà le trascrizioni, a opera del M., delle lezioni tenute dal suo maestro Giovanni Zecchi. Le due opere letterarie non sono invece rintracciabili nei repertori bibliografici.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Corporazioni religiose soppresse, Ss. Giovanni e Paolo, XII, Registri capitoli e consigli, 1591-1617, 2 febbr. 1602, c. 78r; Roma, Arch. generale dell’Ordine dei predicatori, XIV, Lib. FF: In fastos provinciae divi Petri martyris olim superioris Lombardiae sacri Ordinis fr. praedicatorum commentarii, c. 118; G.M. Piò (Plodius), De gli uomini illustri di San Domenico, II, Pavia 1613, col. 340; G. Ghilini, Teatro d’uomini letterati, Venetia 1647, pp. 122 s.; F. Picinelli, Ateneo dei letterati milanesi, Milano 1670, p. 346; P. Mandosio, Bibliotheca Romana seu Romanorum scriptorum centuriae, I, Romae 1682, pp. 191 s.; J.-I. Mangeti, Bibliotheca scriptorum medicorum veterum, et recentiorum, Genevae 1731, II, p. 316; A. Portal, Histoire de l’anathomie et de la chirurgie, II, Paris 1770, pp. 258 s.; G.A. Brambilla, Storia delle scoperte fisico-mediche-anatomico-chirurgiche fatte dagli uomini illustri italiani…, II, 2, Milano 1782, pp. 77-79; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VIII, 1, Milano 1824, pp. 173 s.; S. Muzzi, Annali della città di Bologna…, Bologna 1844, p. 197; S. De Renzi, Storia della medicina in Italia, III, Napoli 1846, pp. 680 s.; E. Teza, S. M. e «Gli Errori popolari d’Italia», in Atti e memorie della R. Accademia di Padova, XVII (1902), pp. 189-205; A. Guzzoni degli Ancarani, I trattati di ostetricia pubblicati in Italia sino al 1900, Napoli 1903; Id., Il più antico trattato di ostetricia per levatrici, Siena 1912; R.P. Mortier, Histoire des maîtres généraux de l’Ordre des frères prêcheurs, VII, 1650-1904, Paris 1914, p. 72; F. La Torre, L’utero attraverso i secoli. Da Erofilo ai giorni nostri…, Città di Castello 1917, p. 316; S.M. Vallaro, Del ristabilimento della provincia domenicana di S. Pietro Martire nel Piemonte e Liguria dopo la soppressione francese: fascicolo di memorie storiche e biografiche 1821-1850, Chieri 1929, pp. 111-141; C. Pancino, Il bambino e l’acqua sporca. Storia dell’assistenza al parto dalle mammane alle ostetriche (secoli XVI-XIX), Roma 1984, pp. 27-76; M.L. Altieri Biagi, Introduzione, in Medicina per le donne nel Cinquecento. Testi di Giovanni Marinello e di Girolamo M., a cura di M.L Altieri Biagi et al., Torino 1992, pp. 7-40; C. Pancino, S. M. Il pensiero e la carriera di un medico nella prima Età moderna, in Modernità: definizioni ed esercizi. Seminario sulla modernità, a cura di A. Biondi, Bologna 1998, pp. 247-270; Id., «I medicamenti sono di tre sorti»: magia, scienza e religione ne Gli errori popolari d’Italia di S. M. (1603), in Il piacere del testo. Saggi e studi per Albano Biondi, a cura di A. Prosperi, Roma 2001, pp. 385-421; J. Quétif - J. Échard, Scriptores Ordinis praedicatorum recensiti notisque historicis et criticis illustrati, II, pp. 398-400.
L. Roscioni