CASALE, Scipione Giuseppe
Manca ogni dato sulla sua nascita e sulla sua formazione. Nel 1740 era a Roma quale impiegato nella segreteria del rappresentante diplomatico della Repubblica di Genova presso la corte pontificia. In tale anno il C., durante un'adunanza degli arcadi romani, per alcuni suoi componimenti poetici fu incoronato con l'alloro dall'abate Francesco Lorenzini, custode generale dell'Arcadia.
Resta documentata soltanto la sua attività più importante, quella diplomatica, nel cui adempimento si distinse per zelo e avvedutezza, sì che il governo della Repubblica di Genova con provvedimento del 13 apr. 1753 lo elevò al grado di proprio agente ordinario a Roma.
Nelle istruzioni che accompagnarono la nomina gli fu raccomandata "l'affezione in specie dei cardinali e prelati nostri nazionali i quali nelle occasioni possono giovarvi, e fra gli altri mons. Saverio Giustiniani sotto datario" e il cardinal Valenti segretario di Stato. Dopo aver rivelato che la nomina era dovuta anche alla raccomandazione del p. Luigi Centurione, assistente generale per l'Italia della Compagnia di Gesù, il governo della Repubblica aggiungeva: "E poiché il predetto P. Luigi, dotato di un genio superiore, e più atto al ministero, di cui ci siamo valsi in qualche passato riscontro con somma sua lode e nostro profitto, potrebbe molto contribuire al felice maneggio e indirizzo dei pubblici affari non disapproveremo che conferiate e consultiate il P. Luigi Centurioni... avendolo perciò noi ammesso al segreto delle pubbliche pratiche".
Il 5 maggio successivo il C., comunicando al suo governo il ringraziamento per la nomina, dava i primi ragguagli politici, che, essendo in atto una ripresa dell'attività antigenovese in Corsica, vertevano prevalentemente su questo argomento. Giacinto Paoli, padre di Pasquale, il capo della ribellione corsa, era a Roma, nel convento degli agostiniani, e cercava di influenzare la corte pontificia contro Genova. Il C. cercò di ostacolarne le trame insieme con il padre Centurione, che diventò il vero manovratore della politica genovese a Roma. Questa dipendenza, che era anche economica, sembrò offuscare definitivamente l'opera del C. quando, il 7 maggio del 1755, il Centurione venne elevato al grado di generale della Compagnia. Grande fu comunque la gioia espressa dal C. nelle sue lettere a Genova, e maggiori le speranze da lui concepite per un miglioramento dei rapporti con la S. Sede che si contava di indurre ad una esplicita condanna della ribellione corsa. In effetti per alcuni anni sembrò che il pontefice fosse favorevole alla causa genovese e disposto a far udire almeno la sua disapprovazione per quella parte del clero che, contravvenendo alle disposizioni dei vescovi di Corsica, parteggiava apertamente per i rivoltosi. Ma due avvenimenti decisivi sconvolsero l'attività diplomatica del C.: una grave malattia del Centurione (marzo 1757) e la successiva morte dello stesso (2 ott. 1757), seguita poco dopo dalla morte di Benedetto XIV (3 maggio 1758).
Il mutamento di clima nei rapporti diplomatici avvenne già durante il conclave del 1758, ma il C. stentò a percepirne la reale portata.
Ancora nel settembre egli sperava che Roma potesse condannare i ribelli corsi e il 16 settembre scriveva che "qualunque sia il modo con cui si voglia rimediare al disordine nell'ecclesiastico, debbasi anche nello stesso tempo dal papa dimostrare la sua disapprovazione dei tumulti nel civile" (Fonzi, p. 131). Egli giunse persino a ritenere utile la nomina a segretario di Stato di un uomo risoluto come il Torrigiani, che, secondo lui, avrebbe affrettato una decisione circa tale problema. Il C. si accorse finalmente nel novembre, e più nel dicembre, dell'avversione del nuovo segretario di Stato agli interessi genovesi: "Questo signore negli affari di Corsica è alquanto o nell'intelletto pregiudicato, o nella volontà prevenuto... Forse il papa avrebbe già dato qualche passo, per dar rimedio ai disordini ecclesiastici di quel regno. Egli al contrario anche in questo manda la cosa in dilazione..." (disp. del 16 dic. 1758, Fonzi, p. 131).
Dopo la morte del cardinale Doria, che aveva tentato di premere sul Torrigiani per ottenere un breve pontificio ai vescovi corsi gradito alla Repubblica, Clemente XIII creò una congregazione particolare formata dai cardinali Cavalchini, Galli, Carlo Rezzonico, Spinelli, Torrigiani (segretario mons. Antonelli), in cui prevaleva il partito zelante, poco disposto a tenere in considerazione le ragioni politiche di Genova. Nel maggio 1759 tale Congregazione decise l'invio nell'isola, come visitatore apostolico con ampi poteri (che in gran parte esautoravano l'autorità dei vescovi locali), di mons. C. De Angelis, vescovo di Segni, con la raccomandazione che egli non dovesse ingerirsi in questioni politiche. Questa ostentata neutralità di Roma, se non fu gradita molto neppure dai ribelli corsi, venne interpretata da Genova come un atto ostile che implicitamente preparava un riconoscimento di un eventuale governo indipendente corso.
Il C., mentre la S. Sede rinviava la partenza del visitatore nella speranza di giungere a un accordo con Genova, non esitava ad accusare la corte pontificia di malafede e di perseguire fini politici antigenovesi, e come controproposta faceva presentare al segretario di Stato, tramite il card. D'Elci, la richiesta di ristabilire nelle loro diocesi i vescovi corsi costretti dalla rivolta ad abbandonare le loro diocesi. Si facevano frattanto sempre più tesi i suoi rapporti con il card. Torrigiani, che lo accusò presso il papa di trasmettere al suo governo notizie false: "è autore di una doppia impostura ingiuriosa alla Santità Vostra, voglio dire, che sia stato spedito il visitatore nel tempo che pendeva su di ciò un trattato, e che il marchese Tanucci abbia scritto un biglietto con espressioni poco riverenti alla Sede Apostolica" (Fonzi, p. 143).
Fallito ogni tentativo di accordo e partito il De Angelis per la Corsica (7 apr. 1760), Genova emetteva il 14 aprile un editto che poneva una taglia di 5.000 scudi sul visitatore apostolico. Quale unica via di uscita alla grave situazione di attrito venutasi a creare tra Genova e Roma, il C. suggerì una mediazione esterna, quella del Regno di Napoli, nella persona del marchese Bernardo Tanucci, il quale solo avrebbe potuto risolvere la questione senza avvilire Genova. Saputo nel settembre che il Tanucci era disposto ad accettare l'incarico della mediazione, il governo di Genova il 22 nov. 1760 invitava il C., ricordando la sua "esperienza, abilità, talento e saviezza", a lasciare la famiglia a Roma e a partire frettolosamente per Napoli "col pretesto di qualche indisposizione" e di necessità "di respiro di qualche mese di un'aria diversa e salubre". In via eccezionale il governo della Repubblica gli elargiva una gratifica di lire 4.000 ed un supplemento di onorario di lire 1.200 al mese.
Il 13 dic. 1760 il C. inviò il suo primo dispaccio da Napoli con il resoconto dei colloqui iniziati con il Tanucci, che gli riferiva dei passi compiuti presso la corte di Roma. Il ministro napoletano sembrava al C. attivo e sincero, ma l'opposizione romana era salda e tenace; il 21 aprile 1761 la congregazione cardinalizia deputata per gli affari di Corsica respinse la proposta del Tanucci che suggeriva il contemporaneo ritiro del visitatore dall'isola e dell'editto genovese contro di lui. La mediazione napoletana continuò ancora ma senza grandi speranze di successo. Unico risultato concreto che il C. poté ottenere fu l'emanazione da parte del governo napoletano di un decreto, pubblicato in forma di manifesto, nel quale il sovrano dichiarava: "Per darsi da me una prova della mia amicizia, e della mia benevolenza verso la Ser. Repubblica di Genova, feci emanare... ordini generali e precisi coi quali si proibì seriamente a tutti i miei vassalli l'aver commercio co' malcontenti di Corsica" (4 luglio 1761). La buona armonia che regnava tra il C. e il Tanucci portò a un reale interessamento del ministro, che consigliò la creazione a Genova di una consulta di Corsi, come quella che i Siciliani avevano a Napoli; inoltre il ministro napoletano inviò in Corsica un prete corso, certo don Lorenzo, nel tentativo di intavolare trattative con i ribelli, e cercò di convincere Giacinto Paoli, trasferitosi a Napoli, ad adoperarsi per far cessare le turbolenze in Corsica. Questi successi venivano magnificati dal C., che li attribuiva alla propria abilità diplomatica, ma i risultati concreti delusero le aspettative: già alla fine di luglio del 1761 il Tanucci disapprovava seccamente il ritiro dalla Corsica della deputazione genovese incaricata di trattare con i ribelli e mostrava segni di stanchezza nella sua opera di mediazione infruttuosa e poco gradita da Roma che lo accusava di favorire Genova. Il C. appare sempre più sfiduciato. A Napoli i ribelli continuavano a sbarcare e a ricevere aiuti nonostante l'editto regio; il prete corso inviato nell'isola per le trattative non si era più interessato della questione. Genova da parte sua, espellendo i padri serviti dalla Corsica, continuava una politica di sfida contro l'autorità ecclesiastica che certamente non favoriva una soluzione di compromesso. Nelle lettere scritte dal C. nell'autunno si sente la stanchezza di chi vede crollare i sogni di una felice conclusione degli affari affidatigli; il 19 genn. 1762 egli inviò una completa relazione del proprio operato quasi a giustificare l'insuccesso. Nel marzo 1762 anche il Tanucci mostrò il desiderio di troncare le inutili trattative: "a mezza bocca" consigliò "l'arresto del vescovo di Segni ed il di lui decente trasporto" a Genova, quale unico modo per punire "la pessima condotta della corte di Roma". Delusioni e stanchezza dominano ormai il carteggio del Casale.
Nell'autunno 1763 rinacquero speranze per l'accettazione della vecchia proposta del Tanucci: Roma avrebbe richiamato il visitatore, mentre Genova avrebbe revocato l'editto emesso contro di lui, dando alcune garanzie; ma tutto svanì di nuovo nella sospettosa diffidenza delle due parti. Gravi avvenimenti intervennero comunque a distogliere l'attenzione esclusiva del C. per il problema della Corsica: una carestia nella primavera dell'anno 1764 sconvolse il Regno delle due Sicilie, scuotendo l'autorità e la potenza del Tanucci che si era addossato la responsabilità degli approvvigionamenti. Il grano che doveva essere imbarcato a Genova per Napoli fu bloccato dal governo della Repubblica, con la motivazione che anche la Liguria era affamata e non poteva permettere il transito del grano tanto richiesto dai suoi sudditi. Il console napoletano a Genova dovette intervenire energicamente. Il C. stesso venne accusato di aver tradito la fiducia riposta in lui dal Tanucci. Appena ottenuto un miglioramento della situazione alimentare, una micidiale epidemia, sempre nella primavera del '64, provocò migliaia di vittime. Il C. occupa molta parte della sua corrispondenza a dare notizie e dati sui malati e sui morti.
Nel settembre del 1764, mentre l'epidemia accennava a diminuire, il C. venne colpito dalla tisi polmonare. Il 13 nov. 1764 il segretario dell'ambasciata genovese a Napoli, Luigi Molinelli, scriveva che il proprio ministro era in cattiva salute: da allora il C. appose solo la propria firma ai dispacci. Egli si lamentava, nel gennaio 1765, di essere ormai trascurato dal governo genovese e di non ricevere particolari istruzioni. Il 27 maggio firmò il suo ultimo dispaccio: morì il 5 giugno 1765. Fu sepolto, come era suo desiderio, nella chiesa di S. Giorgio, affidata ai Genovesi residenti a Napoli.
Durante la sua permanenza a Napoli il C. trovò anche modo di interessarsi di poesia: il suo nome, accompagnato da quello arcade di Evagora, risulta tra quelli degli iscritti all'Accademia Aletina dell'Arcadia, fondata nel 1741 dai padri eremitani di S. Agostino, ma non ne conosciamo la produzione poetica.
Fonti e Bibl.:Il carteggio diplomatico del C. è in Arch. di Stato di Genova, Arch. Segreto, Lettere ministri Roma, buste 2396, 2397, 2398; Lettere ministri Napoli, buste 2331, 2331a, 2332, 2333; Copialettere Senato, n. 1002; Istruzioni a Ministri, n. 2711; V. Lancetti, Memorie intorno ai poeti laureati, Milano 1839, pp. 621, 638; V. Vitale, Diplomatici e consoli della Rep. di Genova, in Atti della Soc. ligure di storia patria, LXIII (1934), pp. 26, 105; F. Fonzi, Le relazioni fra Genova e Roma al tempo di Clemente XIII, in Ann. dell'Ist. stor. ital. per l'età moderna e contemp., VIII (1956), pp. 98, 109 s., 112, 131 s., 134-136, 143, 185, 190, 249; P. Giannantonio, L'Arcadia napol., Napoli 1962, p. 302.