GAMBARA, Scipione
- Nacque, a Brescia o nel Bresciano, nel 1569 da Giulia Maggi e dal nobile bresciano Lucrezio, figlio di Lucrezio, condottiero al servizio della Repubblica veneta distintosi col fratello Niccolò nel 1570-71 nella lotta contro gli Ottomani durante la guerra di Cipro e nella battaglia di Lepanto, mettendo a disposizione di Venezia alcune compagnie di fanti da lui stipendiate.
Questo ramo della influente famiglia Gambara aveva proprietà e godeva di diritti feudali a Gambara, Verola Alghise - attualmente Verolanuova -, Pralboino, Milzano, Castel Medino e Vescovado, del cui feudo la famiglia era stata investita dall’imperatore Ferdinando. Con testamento del 15 sett. 1570 Lucrezio nominò suoi eredi il G. e il nascituro Annibale, lasciando al primo il feudo e la rocca di Vescovado, Castel Medino e Verola Alghise. Con i fratelli Lucrezio (detto Ancilao), Uberto, Ippolito, ma soprattutto con Francesco e Annibale condivise l’educazione, improntata ai tradizionali valori di una nobiltà di Terraferma riottosa e incline all’esercizio della violenza.
Il G. era a capo, così come - poco più tardi - il fratello Annibale, che ne seguì ben presto l’esempio, di bande di uomini armati e facinorosi che vedevano la partecipazione aperta anche di patrizi amici o parenti, e la sua breve vita fu scandita da efferati delitti anche contro suoi consanguinei, in particolare contro il ramo di Ranuccio Gambara, e da violenze continue verso le Comunità a lui subordinate.
Della vita del G. si conosce ben poco, essendosi gli storici occupati soprattutto della ricostruzione del nefando assassinio del cugino Brunoro, da lui compiuto, né i documenti d’archivio contribuiscono a fare maggior luce.
Il G. non si sposò, non ebbe eredi diretti e quella parte dei suoi beni che non venne confiscata dallo Stato veneto e di cui comunque pare essersi occupato dal punto di vista economico solo sporadicamente, confluì alla sua morte nelle mani del fratello Annibale e in seguito, con la morte di questo senza eredi, non essendo gli i figli sopravvissuti, anche i beni del G., come tutto il patrimonio della famiglia, si concentrarono nelle mani di Carlo Antonio, figlio di Francesco, nominato erede universale nel testamento redatto da Annibale il 5 giugno 1632.
Come tutti i Gambara, anche il G. viveva lontano da Brescia, avendo fatto del castello e della rocca di Vescovado la sede della residenza sua e della banda di amici e bravi di cui usava circondarsi. Dovette compiere tuttavia dei viaggi all’estero e servire come paggio alla corte dell’imperatore Rodolfo II e nel febbraio del 1585 era a Praga in compagnia di altri nobiluomini lombardi. Il G. sembra dunque se le orme del padre e soprattutto dello zio Niccolò, che avevano fedelmente servito gli Asburgo, ricevendone in cambio riconoscenza e feudi.
Negli anni seguenti e fino alla morte, la sua vita è segnata dai reiterati tentativi di assassinare il cugino Brunoro. Il fatto che lo zio Niccolò, testando il 16 ag. 1585, lasciasse suoi eredi i figli del fratello Lucrezio (Annibale, Francesco e Ancilao con l’eccezione del G. che fu privato del tutto dell’eredità) fa ritenere che già allora il suo comportamento avesse travalicato i confini delle regole nobiliari.
Certo è che l’odio verso Brunoro, di cui si ignorano i motivi, doveva spingerlo a tentare contro questi ripetute azioni intimidatorie, provocando ostilità profondissime in seno alla famiglia, recuperate solo dopo molti anni. Allo scopo di uccidere il cugino, il G. aveva riunito una banda (il Litta parla di sessanta persone), costituita per lo più da bravi raccolti tra gli uomini e i fuggitivi delle Comunità a lui sottoposte, ma tra i quali spiccavano i nomi di alcuni patrizi come Cesare Picinardo, Teodosio Piacentino, il conte Alessandro Gambara, Sforza degli Sfondrati e Pedrino Defano di Carmino. Dopo vari tentativi, il2 nov. 1587 il G. riuscì con una ventina dei suoi, a sorprendere Brunoro e il conte Gian Galeazzo Gambara nella terra di Alfianello; li uccise derubandoli delle armi e dei denari e ferendo alcuni uomini della scorta.
Al G. fu quindi intimato il4 genn. 1588 di presentarsi davanti al Consiglio dei dieci e il 2 marzo, lui contumace, il Consiglio lo bandi in perpetuo da Venezia e dal dominio, con la condanna a morte in caso di mancata osservanza del bando. Il Consiglio mise sul suo capo una taglia di 1000 ducati e decretò che solo dopo venti anni avrebbe potuto fare domanda di attenuazione della pena. La sentenza prevedeva anche la confisca dei suoi beni, compresi quelli feudali e sottoposti a fedecommesso, l’impossibilità per i fratelli del G. - e i loro discendenti - di ereditare i beni dello zio Ranuccio e l’obbligo per la madre e i fratelli di rispondere con le loro proprietà nel caso che il G. stesso o i suoi seguaci colpissero ancora i membri del ramo di Ranuccio. La stessa condanna colpiva alcuni suoi seguaci, tra i quali Giovanni da Covo e i fratelli Marchiani, anch’essi latitanti, ma veniva loro concessa la possibilità di liberarsi del bando previa uccisione del Gambara.
Dal punto di vista economico l’assassinio di Brunoro apri una lunga vertenza tra il ramo di Lucrezio e quello di Ranuccio, che si protrasse per molti anni ed ebbe una prima soluzione provvisoria con l’accordo del 17 maggio 1599 tra Ranuccio e Pietro Gambara da una pane e i fratelli Annibale, Francesco e Lucrezio dall’altra con l’intermediazione del cardinale Lorenzo Priuli, patriarca di Venezia. La questione si compose in seguito, stavolta definitivamente, nel 1617.
La condanna del Consiglio dei dieci non sembrò comunque influenzare in alcun modo la vita del G. e dei suoi bravi, che non fermarono le violenze contro Ranuccio e in generale nelle terre del Bresciano e del Milanese. Così nell’aprile del 1589 il G. e la sua banda assaltarono la casa di Ranuccio, commettendo violenze di ogni genere, e il 25 sett. 1589 i rettori di Brescia informavano i Dieci delle continue minacce e sopraffazioni del G. contro gli Ugoni, gentiluomini bresciani le cui terre vennero per vendetta incendiate. Non molto tempo dopo il G. colpì, sulla strada verso il Mantovano, il nobiluomo genovese Agostino Lomellini, spogliandolo di tutti i suoi beni: l’audacia di tale azione fu tale che nel 1590 il tribunale di Milano condannò il G. all’impiccagione. Non si conoscono le circostanze e l’anno esatto della sua morte, probabilmente da collocarsi tra il 1590 e il 1592.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Consiglio dei dieci, Deliberazioni criminali, reg. 15, cc. 77, 159; Capi del Consiglio dei dieci, Lettere dei rettori. Brescia, b. 24: 25 sett. 1589; Avogaria di Comun, Miscellanea civile, bb. 181, n. 2; 301, n. II; 364, n. 17; 3581; Arch. di Stato di Brescia, Arch. Calini-Carini, b. 342; Arch. Gambara, Privilegi, t. I, cc. Il7-136.; F. Odorici, Storie bresciane dei primi tempi sino all’età nostra, IX, Brescia 1860, p. 252; P. Molmenti, I banditi della Repubblica veneta, Firenze 1896, p. 180; Storia di Brescia, 111, Brescia 1964, p. 5; P. Lirta, Le famiglie celebri italiane, S.v. Gambara di Brescia, tav. V.