ERRICO (Enrico), Scipione
Nacque nel 1592 a Messina, come si può anche rilevare da numerosi passi della sua stessa opera. Il padre, di nobile condizione, era originario di Napoli; e forse per questo il Toppi (Bibl. nap. ..., p. 280) annovera tra le glorie di quella città l'E., pur ritenendolo "per nascita messinese o cosentino". A Messina, comunque, rimasto ben presto orfano, egli compì i suoi studi, e nel locale seminario conseguì la laurea in teologia, che gli consentì di abbracciare la carriera ecclesiastica. Dedicatosi precocemente all'attività poetica, pubblicò intorno al venti anni i due idilli Endimione e Arianna (Messina 1611), cui fecero seguito altri componimenti lirici di vario genere, che gli assicurarono una vasta rinomanza nazionale.
Questa prima fase della sua produzione letteraria è confluita in una raccolta di Rime (Messina 1619), curata da F. Rodella su testi editi e manoscritti, e comprendente sonetti, madrigali, odi, egloghe, idilli, capitoli, un epitalamio, il poemetto La via lattea e il panegirico Il ritratto di bella donna. L'E., che fa sovente ricorso allo pseudonimo di "Opico pastore", è palesemente influenzato dalla recente esperienza della lirica mariniana, che egli mostra di conoscere e condividere sia nella ricerca di nuovi temi poetabili, sia nell'assunzione delle moderne soluzioni stilistiche. Ed infatti tutto intriso della "retorica" marinista è il tessuto poetico di queste Rime, dove abbondano chiasmi e paronomasie, metafore e calembours; e dove soprattutto la pratica del concettismo dà vita ad inattese pointes finali. All'interno del tema amoroso, l'E. gioca tutte le sue carte di paladino della modernità, ora puntando sull'effetto delle situazioni escogitate (gli arditi paragoni con il bombice oppure con il mito di Ercole e Anteo, o, ancora, con la neve e il fuoco dell'Etna); ora, invece, mirando alla valorizzazione peregrina di inconsuete sorgenti di erotismo (la "pozzetta" del mento, la puntura di una zanzara), ora infine alla demistificazione di una passione dove si annida la venalità mercenaria ("de lo strale / Onde ferisce Amor, la punta è d'oro"). A questo tipo di manipolazione letteraria, che non raramente mostra la corda di una forzosa ingegnosità (come nel paragone della "palla" e del "core"), l'E. aggiunse una genuina disposizione melodica, che si avverte, oltre che nella scelta di certi temi destinati ad incontrarsi (come quello del mito di Arianna) con la rinnovata musica barocca, anche nell'abbandonata sensualità delle immagini e nella sonorità timbrica di certi aggettivi ("rugiadosi", "liquefatto", ecc.). Anzi è proprio questa vena sensuale, sapientemente accordata all'edonismo della parola, la nota più a lungo tenuta dalla poesia dell'Errico. Nel voyeurismo del nudo femminile egli scatena tutta la lussuria di un'immaginazione ossessionata dalle inibizioni e dai veli, trovando ora questo peregrino concetto: "le mamme, amati scogli à i naviganti"; ora con più dilatata fantasia, inventando un poemetto come La via lattea, stillante di affettate ingenuità e di maliziose e represse brame. Il topos della nuotatrice si moltiplica in questo caso in una ridda di Nereidi nude, che si abbandonano dapprima alla voluttà del nuoto, immergendo nelle onde "gli scoperti e tremoli candori", dispiegando poi, senza le "odiose vesti", una danza conturbante e sensuale. Dalla vista di questi "avori saltanti", che "nel teatro de' petti" sembrano provare "i balli", anche Giove è profondamente turbato; e perciò, decretando l'assunzione in cielo di quelle donzelle, ordina che "dal candor di quelle nevi intatte / Si figuri nel ciel strada di latte" (str. 27, vv. 7-8).
L'esplorazione dei segreti del corpo femminile, che nella Via lattea approda, grazie alla complicità del mito, all'abbagliante disvelamento del nudo en plein air, procede con più castigata ricognizione nel panegirico in sestine Il ritratto di bella donna, dove il poeta si rivolge al ceraiuolo Ardemio, perché gli foggi un'immagine di donna di perfetta bellezza. Ma in effetti anche questi versi sono percorsi da una spasimante lascivia, che si rivela, oltre che nella raccomandazione di far sporgere "sotto il noioso ammanto" le "mamme vezzose e tumidette alquanto", anche nell'invito a coprire le altre zone della sessualità femminile, ma per far destare più avvolgenti le spire dell'immaginazione: "Fingila fino al cinto e quel ch'avanza / De l'avido amator formi il pensiero" (str. 49, vv. 1-2).Ma l'interesse dell'E., come già risulta nell'introduzione del Rodella alle Rime, fu ben presto attratto da più ambiziosi disegni letterari, che lo portarono a cimentarsi nel poema eroico e, più tardi, ad intervenire nel dibattito teorico che aveva suscitato la composizione dell'Adone.
Nel 1623 uscì a Messina il poema La Babilonia distrutta, in dodici libri, dove viene celebrata la vittoria dei Tartari cristiani sui califfi Abassidi, avvenuta nel sec. XIII.
Il fondamento storico degli avvenimenti, il carattere di "guerra santa", con cui vengono vissute le principali vicende, si richiamano all'epica seria e celebrativa del Tasso, di cui sono saccheggiati episodi e figure, ma l'E. è pure vistosamente influenzato dal "profano" Marino, che, oltre ad agire con il suo esempio sulla struttura selvosa e aggrovigliata dell'opera, gli insegnava a mescolare "l'amorosa Ciprigna" a Marte, eroicizzando "quella che era la sostanza poetica dell'Adone" (C. Varese, p. 842). Nel poema, infatti, le scene di seduzione amorosa (con il loro vertice nello sfinimento agonico di Filindo e Persina) oppure i viaggi in esotiche contrade occupano l'attenzione dell'autore ancor più dei duelli e dell'assedio di Babilonia, che, tra l'altro, si conclude positivamente per i cristiani grazie all'uso di bombarde date loro, antistoricamente, in dotazione. Ma l'E. non si accontentò di assolvere ai suoi doveri religiosi solo mediante aggiustamenti contenutistici e un unidirezionale patrocinio della causa cristiana; conformemente ai bisogni edificanti della letteratura controriformistica, egli premise al suo poema un'Apologia, che doveva avere la funzione di svelare "gl'interni misteri e sensi loro" di quelle "altissime cose, che nella filosofia naturale e morale si dichiarano". Attribuendo a ciascun episodio e personaggio del poema un valore etico-religioso soggiacente alla lettura, l'E. si sforzava di dimostrare l'osservanza dei "cristiani costumi" e lo "zelo" del buon credente e di allontanare, quindi, ogni sospetto da un'opera che, per vastità di mole e macchinosità di struttura, poteva incontrare disapprovazione.
Ad analoghe esigenze di contemperamento tra morale e libertà espressiva - per di più sforzandosi di adattare il regolismo aristotelico alla vocazione innovatrice del barocco cui in larga misura aderiva - l'E. informò gli scritti critici successivi, per i quali adottò tra l'altro singolari forme letterarie. È infatti una commedia Le rivolte di Parnaso (1626), ripartita in cinque atti e ambientata, secondo la moda dei Ragguagli del Boccalini, sul monte caro ad Apollo.
La commedia è una satira letteraria, dove, come è detto nella dedica a don Diego d'Aragona, vengono introdotti "uomini conosciuti e veri" sull'esempio "d'Eupolio, di Cratino, d'Aristofane"; essa si propone di "censurar gli errori delli Poeti", evitando le ambizioni di critica sociale della commedia antica, che fu tolta dalle scene "per la soverchia licenza". Il nucleo centrale dell'opera verte intorno al dibattito sul poema eroico, i cui principali esponenti moderni (Ariosto, Tasso, Trissino, Marino) corteggiano Calliope, la musa dell'epica, accampando dei precisi diritti in forza dei meriti dei loro scritti. Ma nessuno dei pretendenti appare degno di sostituire l'antico Omero, pur se con una gradualità di giudizi, che permette all'E. di mostrare la sua predilezione per il Tasso rispetto all'Ariosto e di esprimere la sua disapprovazione del conformismo aristotelico del Trissino e nello stesso tempo la diffidenza verso le eccessive licenze del Marino. Alla fine, grazie a uno "stratagemma", Calliope può conservare la coniugale fedeltà ad Omero, mentre ciascuno dei quattro poeti moderni celebrerà le sue nozze con un'altra musa, più corrispondente alle sue naturali attitudini. L'E. mostra con questa soluzione di preferire l'epica classica, individuando i difetti delle diverse maniere moderne, che gli appaiono come vocazioni sbagliate di poeti destinati a brillare in altri generi letterari (Ariosto viene apprezzato per le commedie e le satire; Tasso, sposo di Urania, come autore del Mondo creato; Trissino per lo stile tragico, mentre Marino viene invitato a sposare Erato). Ma contemporaneamente la commedia, nella sua fitta rete di allusioni alla letteratura contemporanea, vuol proclamare la libertà dell'espressione poetica, concedendo "ampissima licenza che intorno alle regole della lingua non abbino autorità alcuna le Grammatiche e vocabolarii"; e a tal proposito viene rifiutato l'indirizzo arcaizzante della Crusca, che, secondo l'E., è responsabile dell'imbarbarimento della lingua, in quanto ha voluto "autenticare tutte le scorrezioni del volgo e li più goffi vocaboli siciliani e lombardi".
Ma la visione critica dell'E. non obbediva ad un'ottica passatista. Il ridimensionamento della pretesa epicità del Marino non gli impediva - anche nelle Rivolte - di apprezzare le invenzioni disseminate nella sua opera, con particolare riguardo alla varietà del suo esercizio poetico, di cui è debitrice "tanto la poesia toscana, avendola infiorita e riccamata d'argutezza di concetti, di vaghezza di traslati e di gentilezza in esprimer gli affetti specialmente amorosi". Dopo la pubblicazione dell'Occhiale dello Stigliani l'E. si lanciò in una difesa accanita dell'Adone con una decisione a cui non erano estranei risentimenti e asti privati. Nel Cannocchiale appannato (Messina 1629), composto in forma di dialogo fra G. Trissino e C. B. Arbora, egli appare preoccupato di far rientrare l'Adone entro gli schemi di un certo aristotelismo critico, ma nello stesso tempo deciso a confutare le acri censure dello Stigliani, che cercava, secondo lui, con il "lanternino", i plagi e le imitazioni.
L'asse della difesa dell'E. è costituito dalla ricerca di una corretta definizione del genere letterario dell'Adone. Sostenendo infatti che esso non è un poema eroico ma amoroso, ispirato com'è alle Metamorfosi di Ovidio piuttosto che ad Omero, egli pensava di sottrarlo alle accuse di deviazione dalla poetica classica mossegli dai suoi detrattori. Assegnandolo invece al genere idillico, l'E. poteva giustificare la sua varietà contenutistica e "la libertà di usar metafore ardite, di confondere i tempi, di intesser parole nove, forastiere, e latine e insomma di far quelle cose che le composizioni epiche, tragiche e liriche (che per natura soglion essere più gravi o più purgate) pochissimo si confanno" (p. 17). L'Adone, insomma, non si può ascrivere all'epica tradizionale, ma non si può nemmeno classificare, per la sua discendenza dall'egloga, come genere nuovo; perciò la sua forma è perfettamente legittima anche alla luce della precettistica dei generi e rappresenta un'innovazione e un ampliamento dell'idillio, perché esso è "similissimo allo stile di Teocrito e di Virgilio", dai quali "diferisce solo nella quantità, essendo assai lunga", ma ha "più del piacevole e del vago" delle Metamorfosi, benché con esse "convenga in aver un vario inesto di favole" (p. 6).
La polemica contro lo Stigliani proseguì anche, ma incidentalmente, nella commedia Le liti di Pindo (Messina 1634), un'opera di complicata struttura, che si voleva ispirata a Luciano e in cui vengono inserite l'altra commedia Del maritaggio di Venere e la tragicommedia Della Cariclea.
Nell'opera vengono introdotte come postulanti al tribunale di Apollo l'Italia e la Sicilia; la prima, infatti, esige che vengano rimosse dal cielo le tre stelle che riproducono la forma dell'isola; la Sicilia perora la sua causa attraverso le due opere inframmezzate, che celebrano dei momenti della sua remota civiltà. L'E., che è tra i primi a costruire il mito della passata grandezza letteraria ed economica della Sicilia, non prospetta però l'ipotesi di un suo isolamento culturale, ma ne rivendica l'identità nel contesto della civiltà nazionale. E del resto l'assenza di un verdetto mostra che l'E. preferiva la conciliazione alla possibilità di uno sviluppo separato. Accanto alla questione del rapporto tra la rinata poesia siciliana e la tradizione nazionale ritorna la polemica con lo Stigliani- qui criticato come autore del poema Il mondo nuovo -, che viene denunciato da Colombo presso Apollo, per aver trattato la sua "eroica azione con uno stile simile a quello di Bovo d'Antona" (a. I, sc. IV); e questa polemica si estende ancora allo scritto in forma di romanzo Le guerre di Parnaso (Venezia 1643), dove viene narrata la disgraziata ventura dello Stigliani che, mossosi alla testa di una schiera di scrittori contro il Marino, viene infine definitivamente battuto.
Una così intensa partecipazione ai dibattiti letterari del tempo assicurò all'E. largo credito, tanto che venne accolto da alcune prestigiose accademie, come quella degli Umoristi di Roma, degli Oziosi di Napoli, degli Incogniti di Venezia, oltre che da quella messinese della Fucina, in cui assunse lo pseudonimo di Occupato. Del resto egli soggiornò a Roma, dove conobbe L. Allacci e fu amico e commensale del cardinale B. Spada, e a Venezia, dove frequentò G. F. Loredano, P. Michiele e A. Aprosio (con cui entrò in rapporti epistolari nel 1629); in questa città venne rappresentato nel 1644 e '47 al teatro Novissimo il melodramma Deidamia con musica di P. F. Caletti detto Cavalli, che venne accolto "con meraviglioso applauso" e fu replicato a Firenze. Ritornato a Messina, l'E. compare come docente di teologia nel locale Studio dal 1652 al 1656 e di filosofia morale nel 1665-66; nominato canonico, sembra che abbia rifiutato il vescovado che gli era stato offerto, per l'insorgere di una malattia agli occhi.
In questa fase della sua attività tornò all'epica e pubblicò nel 1640 il poema Della guerra troiana (Messina 1640), in venti canti, ognuno dei quali è preceduto da un argomento in ottava rima composto da A. Gotho. Un'uggiosa Allegoria, che pretende di interpretare gli episodi e le figure significative del poema in chiave di conformismo etico-religioso, invita a leggere l'opera come una metafora di "quella continua e mistica guerra tra la ragione e 'l senso", attribuendo ai vari personaggi improbabili valenze moralistiche. Il poema, appesantito da digressioni e invenzioni (come la sosta di Achille a Cipro, dove trafigge il cinghiale uccisore di Adone), è in sostanza un cattivo prodotto del compromesso teorico dell'E., che cerca di innestare l'alessandrinismo marinista su un impianto epico di derivazione omerica.
Nel 1653 l'Accademia della Fucina, per rivendicare alle patrie lettere il vanto di un ingegno ormai riconosciuto in tutta Italia, pubblicò una silloge di poesie, comprendente, oltre alla Babilonia distrutta e a rime varie in parte apparse nella raccolta del '19, liriche di contenuto sacro (come la Lettera alla Madonna, dove è cantata la conversione di Messina al cristianesimo) e celebrativo (come il Nettuno dolente, per la morte del principe Filiberto di Savoia, e il poemetto in ottave La Croce stellata, ovvero La navigazione del Mosto sulla scoperta di Alvise da Mosto), che testimoniano di una più accentuata propensione al serio e all'agiografia controriformistica.
In questa ottica si devono leggere gli interventi contro la Istoria del Concilio tridentino di P. Sarpi, la Censura theologica et historica adversus P. Soavi Polani de Concilio tridentino, pseudo historiam (Dilingae 1654) e il De tribus scriptoribus historiae Concilii tridentini (Amstelodami et Antverpiae 1656).
Nella Censura, divisa in due parti, l'E. definisce l'opera del Sarpi una "satira" per il suo carattere violentemente anticattolico e si impegna a confutare lo storico veneziano, perché gli appare animato da livore e odio verso il sommo pontefice piuttosto che da disinteressato amore per la verità. Anche l'uso del volgare viene contestato dall'E., che scrive in un solenne latino ecclesiastico e scorge nella lingua del Sarpi un tentativo di ingannare gli incauti e gli ignoranti. Tuttavia egli si tiene prudenzialmente lontano dalla discussione dei dogmi e dei principi dottrinari, rinunciando a scrivere "adversus Lutherum vel Zwinglium" già giudicati dalla Chiesa, per attaccare il mendace e calunniatore Sarpi. Malgrado queste cautele, l'E. andò incontro ad un malaugurato infortunio con il secondo opuscolo, che, contrario alle tesi ufficiali di Sforza Pallavicino, fu messo all'Indice dal S. Offizio.
A questo clima di scrupoli religiosi, a cui si sottomettono interamente le pretese del dilettare, è da riconnettere anche il poema L'Iliade ovvero Achille innamorato (Roma 1661), che appare come un rifacimento della Guerra troiana, ma con evidenti intenzioni di regolarità classica come nella misura canonica di dodici canti. Oltre che nell'Apologia dedicata all'Allacci le preoccupazioni moralistiche si colgono anche nella Protesta, dove l'E. avvisa il lettore che "le parole Fato, Fortuna, Sorte, Deità e Divinità ed altre di simil senso sono dette solo poeticamente, e non intende l'autore pregiudicare in cosa alcuna alla verità cattolica".
L'E. morì ormai cieco a Messina il 18 sett. 1670.
Gran parte delle sue opere, oltre a quelle singolarmente indicate, si possono leggere nelle due citate raccolte: Rime (Messina 1619) e La Babilonia distrutta con altre poesie (ibid. 1653). Poche sono invece le raccolte antologiche moderne che ripropongono, peraltro assai parzialmente, alcuni di quei testi; segnaliamo: Lirici marinisti (a cura di B. Croce, Bari 1910, pp. 137-47); Poesia del Seicento (a cura di C. Muscetta e P. P. Ferrante, Torino 1964, I, pp. 624-35); G. B. Marino e i marinisti, Opere scelte (a cura di G. Getto, Torino 1966, 11, pp. 329-31). Un'edizione delle Rivolte di Parnaso (con ampia intr.) è stata curata da G. Santangelo (Catania 1974).
Fonti e Bibl.: G. F. Loredano, Lettere, Venezia 1684, I, p. 337; II, p. 378; A. Aprosio, Sferza poetica, Venezia 1643, p. 19; Id., Le vigilie del Capricorno, Venezia 1667, pp. 199, 269; Id., Bibliotheca aprosiana, Bologna 1673, pp. 88, 164; Id., Visiera alzata, Parma 1689, pp. 78, 87; Le glorie degl'Incogniti, Venezia 1647, p. 398; L. Allacci, Poeti antichi, Napoli 1661, p. 29; Id., Dramaturgia, Venezia 1755, ad Indicem; N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1678, p. 280; A. Mongitore, Bibliotheca sicula, Panormi 1714, II, pp. 210 ss.; G. M. Crescimbeni, Istoria della volgar poesia, Venezia 1730, V, p. 150; P. Samperi, Messana illustrata, Messanae 1742, I, p. 601; G. E. Ortolani, Biografia degli uomini illustri della Sicilia, Napoli 1819, pp. n.n.; G. M. Mira, Bibliografia siciliana, Palermo 1875, 1, pp. 325 s.; M. Menghini, T. Stigliani, Modena 1892, pp. 95 ss.; F. Corcos, Appunti sulla polemica suscitata dall'Adone di G. B. Marino, Cagliari 1893; F. Foffano, Ricerche letterarie, Livorno 1897, passim; G. Arenaprimo di Montechiaro, I lettori dello Studio messinese dal 1636 al 1674, Messina 1900, p. 46; G. Nigido Dionisi, L'Accademia della Fucina di Messina, Catania 1903, ad Indicem (rec. di F. Marletta, in Arch. stor. per la Sicilia Orient., 1 [1904], pp. 146-56); C. Trabalza, La critica letterar. nel Rinascimento, Milano 1915, pp. 230-34, 40; E. Carmagnola, La critica letter. nelle "Rivolte di Parnaso" di S. E., Torino 1919; A. Belloni, Il poema epico e mitologico, Milano s.d., pp. 270 s.; Id., IlSeicento, Milano 1943, pp. 365 s. e ad Indicem; I. Sanesi, La commedia, Milano 1944, II, pp. 161-67 e ad Indicem; G. Santangelo, S. E. critico del Seicento, difensore dell'"Adone", in Studi letterari. Misc. in onore di E. Santini, Palermo 1956, pp. 441-81; Id., Un capitolo del barocco marinistico meridionale: S. E., Palermo 1976; Id., La "siepe" Sicilia, Palermo 1985, pp. 27-49 e passim; C. Iannaco, IlSeicento, Milano 1963, pp. 42 s., 67, 457 s. e ad Indicem; C. Varese, Teatro, prosa, poesia, in Storia della letter. ital. [Garzanti], V, Milano 1967, pp. 842 s.; M. Sacco Messineo, Poesia e cultura nell'età barocca, in Storia della Sicilia, Napoli 1980, IV, pp. 427-76 passim; G. Nicastro, Ilteatro dal Quattro al Settecento, ibid., pp. 600 s.; G. Finocchiaro Chimirri, IlParnaso a teatro, in Cinque pretesti sul teatro, Acireale 1985, pp. 57-61.