RICCI, Scipione de'
RICCI, Scipione de’. – Nacque a Firenze il 9 gennaio 1741 da Pier Francesco, di nobile famiglia, auditore presidente dell’Ordine di S. Stefano, e da Luisa Ricasoli.
Dopo una breve educazione in famiglia, si trasferì a Roma per avviarsi alla carriera curiale. Qui frequentò il Seminario romano negli anni 1756-57 ed ebbe rapporti con i gesuiti, tanto da accarezzare l’idea di entrare nella Compagnia: inclinazione da cui fu distolto dallo stesso preposito generale Lorenzo de’ Ricci, parente del padre, e non zio, come spesso si è ritenuto. A Roma intessé legami, che rimasero fondamentali anche negli anni successivi, soprattutto con il circolo filogiansenista dell’Archetto, costituito da fiorentini (Giovanni Gaetano Bottari, Pier Francesco Foggini e altri) intorno al cardinale Neri Corsini, e con i padri filippini della Chiesa Nuova, anch’essi simpatizzanti di Port-Royal.
Tornato a Firenze, laureatosi in utroque iure nello Studio pisano nel 1762 e avviatosi al sacerdozio, che raggiunse nel 1766, fu sin dal 1762 coadiutore di un suo parente, Corso de’ Ricci, canonico della cattedrale fiorentina, acceso antigesuita – sebbene fosse fratello del generale della Compagnia – che morendo nel 1772 lo lasciò erede della sua biblioteca. Pressoché contemporaneamente divenne uditore della nunziatura fiorentina sotto il primo uditore, il canonico Filippo Martini. La frequentazione dei benedettini cassinesi di S. Maria della Badia Fiorentina e di Giovanni Lami, bibliotecario della Riccardiana e autorevole direttore delle Novelle letterarie, lo avvicinò maggiormente alla dottrina agostiniana, mentre prese a organizzare accademie ecclesiastiche con alcuni amici, il canonico Antonio Ricasoli e Antonino Baldovinetti. A quest’ultimo successe (1775-80) come vicario generale dell’arcivescovo di Firenze Francesco Gaetano Incontri, sollecitandolo a iniziative nei cui confronti il presule non apparve sempre convinto.
Così si adoperò per la pubblicazione di una traduzione ritoccata del catechismo giansenista di Charles-Joachim Colbert de Croissy, per un’edizione delle opere di Niccolò Machiavelli (apparsa a Firenze nel 1782-83 sotto il congiunto patrocinio del granduca Pietro Leopoldo e dello stesso Ricci), e per la traduzione della Histoire ecclésiastique del giansenista Bonaventure Racine (1778), dedicata al granduca. Al tempo stesso si impegnava nella diffusione di testi giansenisti e gallicani, grazie anche ai rapporti instaurati con diversi giansenisti francesi, in particolare con Gabriel Dupac de Bellegarde, conosciuto personalmente durante un viaggio di Bellegarde in Italia quale agente della Chiesa giansenista di Utrecht, alla quale indirizzò una ‘lettera di comunione’ nel 1779. Aveva già mostrato un forte coinvolgimento nella propaganda delle idee del movimento attraverso il favore accordato alla breve pubblicazione della Gazzetta ecclesiastica (1776), diretta da Reginaldo Tanzini, anticipazione dei più noti Annali ecclesiastici di Firenze.
La sua attenzione per la disciplina ecclesiastica e la sua preoccupazione per la formazione del clero spinsero il granduca a proporlo, ma senza successo, a Roma nel 1775 per il vescovato di Colle, e ancora nel 1778 per l’arcivescovato di Pisa, secondo la prassi vigente per le nomine vescovili tra la Toscana e Roma, finché la candidatura di Ricci fu accolta nel 1780, riguardo alle diocesi unite di Pistoia e Prato. Preconizzato vescovo nel Concistoro del 19 giugno 1780, fu consacrato a Roma dal cardinale Andrea Corsini il 25 giugno successivo.
Le due diocesi, unite dal 1653, presentavano strutture ecclesiastiche consolidate da forti tradizioni cittadine, che trovavano i loro centri nei capitoli delle rispettive cattedrali, nelle istituzioni ecclesiastiche regolari maschili e femminili, oltre che in un gran numero di confraternite laicali e di istituzioni assistenziali.
Fu inizialmente sui monasteri femminili che si rivolse l’opera riformatrice di Ricci, nell’intento di risolvere problemi di disciplina interna: a Pistoia nel monastero femminile domenicano di S. Lucia e a Prato in quello, anch’esso femminile domenicano, di S. Vincenzo. A questi si aggiunse, al momento, la vicenda di un altro monastero femminile domenicano pratese, quello di S. Caterina, nel quale fu individuato un caso attardato di quietismo e di letture proibite (Voltaire, Rousseau), che aveva coinvolto due religiose dell’oligarchia pratese, suor Caterina Irene Buonamici e suor Clodesinda Spighi.
L’energia, e forse la durezza, con cui Ricci intervenne soprattutto in quest’ultimo caso, l’aspro scontro con Roma, che biasimò l’«imprudenza» da lui mostrata nella vicenda, l’appoggio del granduca segnarono non solo un rafforzamento del legame già operante con il sovrano, ma aprirono la strada a una serie di iniziative di più ampio respiro. Sottratti i monasteri alla direzione spirituale dei padri domenicani, operò con decisione nella direzione di sostanziali rimaneggiamenti del tessuto istituzionale regolare sia femminile sia maschile delle due diocesi, che divennero sin da subito il «campo sperimentale» (Rosa, 1969, p. 178) del riformismo ecclesiastico ricciano-leopoldino.
Soppressi a Pistoia numerosi conventi maschili tra il 1784-87, mentre i loro beni passavano nel Patrimonio ecclesiastico diocesano, i monasteri femminili vennero trasformati in conservatori o educandati sia in città sia nell’area della Montagna pistoiese. Congiuntamente si provvedeva alle soppressioni di alcuni conventi pratesi, con le stesse modalità e con la conseguente ristrutturazione delle parrocchie cittadine, come fu illustrato dallo stesso Ricci nella Istruzione pastorale […] in congiuntura della erezione delle nuove parrocchie di Prato (6 gennaio 1784): un vero manifesto delle sue concezioni ispirate dall’ecclesiologia e dalla religiosità giansenista e dal più recente apporto della ‘pietà illuminata’. In effetti, accanto alle soppressioni dell’apparato regolare, Ricci prendeva a riorganizzare il versante riguardante il clero secolare, nell’intento di assorbire, nel rinnovato contesto parrocchiale, il fenomeno negativo dei beneficiati senza cura d’anime e di un ‘proletariato’ ecclesiastico al di fuori della rete beneficiaria, e a migliorare le condizioni economiche e la cultura del clero, quest’ultima affidata a una nuova sede del seminario di Pistoia (1783) e ad accademie ecclesiastiche diocesane. Mentre Ricci operava non senza difficoltà sul tessuto parrocchiale, soppresse le confraternite laicali, trasformandole in un’unica confraternita di carità in ogni parrocchia, nel quadro delle riforme leopoldine, sancite da un motuproprio granducale del 1783 e da disposizioni del 1785.
Sull’onda di queste trasformazioni istituzionali, si era proceduto (21 luglio 1783) all’istituzione del Patrimonio ecclesiastico per le diocesi di Pistoia e Prato, affidato alla supervisione di Ricci, affiancato da un amministratore laico, Girolamo Gini. A esso erano destinati i beni degli enti soppressi, ed era anche attribuita la distribuzione delle rendite incamerate, per le congrue ai parroci, la dotazione di nuove parrocchie, il restauro e la trasformazione di edifici e chiese, le spese di culto e altro ancora. Una situazione peculiare che venne a complicarsi e ad apparire anomala quando un motuproprio granducale del 30 ottobre 1784 creò i Patrimoni ecclesiastici in tutte le diocesi toscane sotto il controllo del governo, rafforzando l’ostilità nei confronti di Ricci da parte dei più stretti consiglieri e ministri leopoldini, e alimentando uno scontro da tempo in atto, non ispirato da risentimenti personali, ma piuttosto da due diverse concezioni dello Stato, della società e della politica.
Intanto prendevano a delinearsi da parte di Ricci una serie di riforme sul piano della pratica religiosa e devozionale, della catechesi e della liturgia, che ebbero un impatto ben al di là dei confini diocesani.
Nel 1781 la celebre pastorale sulla ‘nuova’ devozione gesuitica al Sacro Cuore, scritta in realtà dal giansenista veneto Giuseppe Maria Pujati, portò di colpo Ricci alla ribalta del giansenismo europeo, insieme con la pubblicazione dell’Ordo divini officii, che avviava la riforma liturgica nell’ambito della diocesi pistoiese, completata nel 1786 con gli Officia propria per le due diocesi di Pistoia e Prato. L’Istruzione sulla necessità e sul modo di studiare la religione (1782) presentava, in sostituzione del catechismo romano, quello giansenista di Pierre-Sébastien Gourlin per gli adulti. A questo fu affiancato il Catechismo per i fanciulli (Prato 1786) dell’arcivescovo giansenista di Lione Antoine de Malvin de Montazet, che Ricci presentò insieme con i vescovi di Colle Niccolò Sciarelli e di Chiusi e Pienza Giuseppe Pannilini, suoi sodali, e con quello di Cortona Gregorio Alessandri. È ancora del 1782, con una lettera ai parroci, la presentazione di uno scritto di Pujati sulla Via Crucis, la ‘nuova’, ma in realtà antica, devozione francescana diffusasi rapidamente nell’Italia del Settecento, che Ricci non intese bandire, come quella del Sacro Cuore, ma ‘regolare’ muratorianamente sulla scorta delle proposte di Pujati. È infine del 1783 un commento a una pastorale del principe-vescovo di Salisburgo Gerolamo Colloredo, inoltratagli dal granduca, ispirata dalla «regolata devozione» di Muratori, ma anche dall’Aufklärung cattolica giuseppina.
La pietas asburgica, unita al riformismo muratoriano degli anni Quaranta, offriva ora nuova linfa al riformismo giansenista ricciano: dalla semplicità degli ornamenti delle chiese al rigorismo nella musica sacra, al canto devoto nella lingua nazionale, dalla «regolata devozione» verso i santi alla «regolata» applicazione delle indulgenze – che Ricci raccomandò con una circolare del 1786 ai vicari foranei, accompagnando il Trattato delle indulgenze commissionato al giansenista ligure Vincenzo Palmieri – alla lettura della Scrittura. Contemporaneamente venivano riordinate le funzioni ecclesiastiche, incentrando su un unico altare in ogni chiesa la celebrazione delle messe per favorire la partecipazione attiva dei fedeli al sacrificio eucaristico; veniva «regolata» la pietà mariana e richiamata a una sobria pietà quella rivolta alle reliquie dei santi, mentre era ripresa la prassi della primitiva Chiesa cristiana nell’amministrazione di alcuni sacramenti, come la penitenza e l’estrema unzione, per adeguarli giansenisticamente alla «venerabile antichità».
Seguì la riforma del breviario, di cui Ricci presentò uno specimen il 1° gennaio 1786, nella prospettiva di una più completa riforma a opera dell’ormai prossimo sinodo pistoiese, con l’eliminazione di diverse Lezioni, da quella di papa s. Gregorio VII a quella di s. Pio V, a quella di s. Ignazio di Loyola, sino al suggerimento dell’uso del volgare in talune pratiche devozionali pubbliche, con la traduzione del Pange lingua, del salmo 69 e del Miserere, e sino, come sembra, alla celebrazione della messa in italiano in alcune chiese della diocesi pistoiese.
L’attività riformatrice ricciana era sostenuta da un impegno continuo di propaganda religiosa-ecclesiale e politico-culturale. Essa era alimentata, da un lato, dalla pubblicazione settimanale degli Annali ecclesiastici di Firenze (1780-93) diretti da Tanzini, da tempo collaboratore del vescovo, che si misurava polemicamente, soprattutto dal 1785, con l’ufficioso e curiale Giornale ecclesiastico di Roma sui maggiori problemi politico-religiosi del momento; e dall’altro, sotto il personale controllo di Ricci, dalla stampa della Raccolta di opuscoli interessanti la religione (I-XVII, Pistoia 1783-1790), posti all’Indice in più occasioni tra il 1786-96, probabilmente suggerita a Ricci da Bellegarde, che raccoglieva brevi scritti della produzione giansenista franco-belga di carattere dottrinale, ma soprattutto disciplinare, morale ed ecclesiologico di intonazione episcopalista e parrochista, scaturita in particolare dal contesto radicale ‘appellante’ del giansenismo dopo la sua rinnovata condanna a opera della bolla Unigenitus (1713).
Tra gli anni 1784-86 si rese più stretto, sia pure con qualche significativa divergenza, il rapporto con il sovrano. È del 1784 infatti la lettera pastorale Sui doveri dei sudditi verso il sovrano, in polemica con il libro di Cosimo Amidei, La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, apparso in seconda edizione nel 1783. Rispetto agli orientamenti costituzionali dello scritto – cui non fu estraneo lo stesso Pietro Leopoldo con il suo progetto, in questi stessi anni, di una costituzione – Ricci, pur adombrando l’ipotesi di un patto sociale tra il popolo e il sovrano, finiva con il ribadire la concezione tradizionale dell’origine divina dell’autorità, con palese presa di distanza rispetto alla visione del granduca. Questo orientamento di Ricci non impedì che lo stesso Pietro Leopoldo gli facesse avere, nello stesso 1784, il primo abbozzo dei Punti in materie ecclesiastiche, che sarebbero diventati i Cinquantasette punti ecclesiastici del 1786. Anche se Ricci non fu mai il consigliere ecclesiastico del granduca, questo documento fondamentale della fase alta della politica ecclesiastica leopoldina è forse l’apice della sua collaborazione con il sovrano.
Rielaborato anche per suggerimento di Ricci, fu inoltrato all’intero episcopato toscano, secondo uno schema organico riguardante la formazione del clero, la materia beneficiaria, i diritti dei vescovi e dei parroci, il rigorismo morale e la ‘pietà illuminata’. Alcuni punti (1, 2 e 26) si collegavano più direttamente a un orientamento rilevante dell’azione riformatrice di Ricci: il significato da attribuire nei sinodi diocesani al voto dei parroci, non più consultivo, ma deliberativo secondo le teorie parrochiste che miravano a dar vita a una concezione sinodale della Chiesa, sul modello della Chiesa antica, nei confronti della struttura gerarchica e verticistica di quella romana.
In seguito a una circolare del 2 agosto 1785, con la quale il granduca aveva rivolto ai vescovi l’invito a celebrare ogni biennio il sinodo, Ricci aveva iniziato a organizzare quello di Pistoia (18-28 settembre 1786), che fu preceduto da una consultazione scritta dei parroci della diocesi. L’assise, cui parteciparono Pietro Tamburini, come teologo promotore, e Palmieri, e che riscosse particolare attenzione per la sua esemplarità da parte dell’intero giansenismo europeo, intese essere la punta di diamante di una riforma religiosa, affidata alle forze congiunte di una Chiesa locale e di uno Stato cattolico riformatore, come la Toscana leopoldina. Nonostante difficoltà sollevate in materia sacramentale, sulla penitenza e il matrimonio, e compromessi sulla riforma liturgica, il sinodo varò sostanzialmente un rifacimento dei decreti tridentini in senso episcopale-parrochista, e in particolare approvò le realizzazioni sino ad allora operate dal riformismo ricciano, lasciando aperte le prospettive di passi ulteriori. Una situazione incerta si aprì però all’indomani del sinodo, quando tra il settembre 1786 e il marzo 1787 si susseguirono il progetto di proseguire la linea intrapresa dei sinodi diocesani, l’idea di convocare un sinodo provinciale fiorentino, la proposta di indire un sinodo nazionale e infine, con una circolare granducale del 17 marzo 1787, la convocazione a Firenze di un’Assemblea degli arcivescovi e vescovi toscani preparatoria allo stesso sinodo nazionale. All’apertura dell’Assemblea (23 aprile - 5 giugno 1787) le sorti delle riforme ricciano-leopoldine erano tuttavia già segnate, grazie al ricompattamento decisivo, intanto verificatosi, della maggioranza moderata e antiriformatrice dell’episcopato toscano, e agli abili interventi di Roma attraverso l’azione diplomatica del nunzio pontificio a Firenze. Respinto dall’Assemblea il progetto di decisioni unitarie e uniformi valide per tutto l’episcopato, il quadro delle riforme fu riportato, da parte del potere politico, nei canali più tradizionali del giurisdizionalismo statale, seppure arricchito dall’esperienza delle trasformazioni degli anni Ottanta.
Il nuovo clima di reazione colpì Ricci, tanto più che durante l’Assemblea fiorentina (maggio 1787) erano esplosi tumulti a Prato contro il vescovo, fomentati anche dalla falsa voce che egli volesse cancellare la devozione alla Cintola della Vergine, simbolo dell’identità sociale e religiosa cittadina, e in misura minore più tardi, nel 1790, a Pistoia. Da parte degli organi di governo e dell’opposizione ministeriale si aprì un’inchiesta sulla gestione dei Patrimoni ecclesiastici pratese e pistoiese (agosto 1787 - settembre 1788), con le accuse allo stesso Ricci di un uso improprio delle risorse, da cui fu scagionato interamente con un motuproprio granducale del 13 settembre 1788. Se si cancellarono le anomalie istituzionali dei due Patrimoni diocesani, ora unificati in una sola amministrazione diretta da un funzionario regio, restavano tuttavia ancora aperte per Ricci le condizioni per una ripresa dell’azione riformatrice, in un contesto diverso però da quello precedente, non segnato da deroghe o da particolari poteri.
Già all’indomani dell’Assemblea di Firenze la fiducia personale di Pietro Leopoldo nei confronti di Ricci si era espressa in un testo elaborato insieme con Palmieri, datato 23 novembre 1787 da Rignana in Chianti, la villa dove si era ritirato in seguito alle vicende pratesi (Memorie, II, 1865, pp. 310-361), in cui venivano sistemati organicamente in un disegno di ‘legge normale’ tutti i problemi, in parte risolti, in parte da risolvere, nel contesto della politica ecclesiastica leopoldina, sì da garantire quella uniformità in tutto lo Stato che non era stata sancita dall’Assemblea fiorentina. La relativa schiarita comportò anche la stampa e la diffusione degli Atti del sinodo di Pistoia, che ebbero numerose edizioni nelle diverse lingue europee.
Nonostante la rinnovata fiducia da parte di Pietro Leopoldo, la posizione di Ricci si era indebolita. Con una lettera al granduca del 28 maggio 1787, all’indomani dei tumulti pratesi, aveva offerto le proprie dimissioni dal governo episcopale, che furono respinte; ma le difficoltà del momento politico, con gli avvenimenti di Francia e l’ascesa di Pietro Leopoldo al trono imperiale nel 1790, accentuarono l’isolamento del vescovo, come appare da lettere del 1790 di Ranieri Fulger, segretario del sovrano, a Ricci, nelle quali si faceva presente il nuovo prudente corso avviato dalla Reggenza toscana in attesa del passaggio dei poteri da Pietro Leopoldo al figlio Ferdinando.
Del resto, lo stesso granduca nelle Relazioni sul governo della Toscana, indirizzate al figlio, elaborate alla fine del 1789, per la parte relativa agli Affari ecclesiastici e alle Cose del vescovo di Pistoia, ricostruendo le passate vicende, aveva sottolineato il carattere di Ricci, «Vivo di natura sua, e fermo e non facile a cedere e che piuttosto s’irrita dalle opposizioni e resistenze», incline a prestare fiducia a collaboratori e consiglieri screditati e incapaci (a cura di A. Salvestrini, 1969, pp. 192 e 195 s.). Più dure le Aggiunte alle Relazioni, fatte redigere dal granduca al momento di lasciare la Toscana per Vienna, nei primi mesi del 1791, nelle quali risalta «la maniera troppo sollecita e qualche volta violenta e si può dire fanatica colla quale il vescovo di Pistoia, riscaldato dalle persone che aveva d’intorno, strapazzava, disprezzava e minacciava e perseguitava tutti quelli che non erano aderenti ai suoi principi e massime» (Lettere, a cura di B. Bocchini Camaiani - M. Verga, III, 1990, p. 1758 n. 24). Ricci non conobbe questi giudizi, ma le raccomandazioni di moderazione che gli furono rivolte da Fulger e dallo stesso sovrano da Vienna gli dovettero far comprendere come il tempo delle riforme e il proprio ruolo in esse fossero irrimediabilmente passati.
Inevitabile il suo allontanamento, che possiamo seguire attraverso le minute di lettere elaborate da parte del segretario del Regio diritto, Pompeo Signorini da Mulazzo, e della Segreteria di Stato, che Ricci accolse, sottoscrivendo il 3 giugno 1791, una rinuncia alle diocesi, accettata da papa Pio VI il 13 giugno successivo. Una lettera di Pietro Leopoldo a Ricci del 21 luglio, se confermava formalmente la stima del sovrano all’ormai ex vescovo per il suo operato e per aver compiuto un «passo degno di voi», sanciva di fatto la conclusione di un rapporto centrale nel decennio più significativo del riformismo ecclesiastico leopoldino.
Prossimo alle dimissioni, Ricci intervenne su due argomenti scottanti, innescati dagli avvenimenti rivoluzionari francesi, e in particolare dalla Costituzione civile del clero del 1790, con due lettere indirizzate a due corrispondenti francesi: la prima (28 febbraio 1791) a un laico, il cavaliere e capitano Le Long de Clâtres, l’altra (30 maggio) a un ecclesiastico, l’abate Jean Chrysostome Antoine Clément de Barville, zio del più noto giansenista Augustin-Jean-Charles Clément du Tremblay, vescovo di Versailles.
Con la prima Ricci rispondeva positivamente al quesito se fosse lecito giurare l’osservanza di una costituzione in cui si prescrivevano alcune riforme ecclesiastiche, soprattutto per l’amministrazione dei beni del clero e la riorganizzazione delle circoscrizioni diocesane, tacendo però sul nuovo sistema elettivo popolare dei vescovi e dei parroci; con la seconda, che fu tradotta e stampata in francese, ma edita anche in italiano (Foligno 1792) dall’ex gesuita Luigi Mozzi per confutarla, confermava in pieno la legittimità e l’obbligatorietà del giuramento del clero previsto dalla Costituzione civile, arricchendo però la tradizionale concezione di un clero utile allo Stato con il richiamo al «bene del popolo», superando come sembra, gli orientamenti espressi nella lettera pastorale del 1784 Sui doveri dei sudditi verso il sovrano.
Maturava intanto un momento capitale nella vita di Ricci. La bolla Auctorem fidei di condanna del sinodo di Pistoia (28 agosto 1794) fu il risultato di un intenso lavoro delle congregazioni romane svoltosi dal 1789 al 1793, che colpì attraverso l’elencazione di 85 proposizioni non solo il complesso dottrinale e disciplinare formulato dall’assise pistoiese, ma più specificamente gli aspetti fondanti della sua ecclesiologia antiromana. L’isolamento di Ricci si accentuò per le vicende legate alla reazione antifrancese in Toscana e alle insorgenze aretine del ‘Viva Maria’ del 1799, nel corso delle quali egli fu arrestato per sospetto di simpatie e connivenze filofrancesi. Relegato senza un regolare processo (luglio-settembre 1799) nella Fortezza da Basso, poi in una sorta di domicilio coatto a Firenze nel convento di S. Marco e infine nella sua villa di Rignana, fu riabilitato completamente dal governo provvisorio toscano nel giugno 1801. Durante queste vicende si erano determinate condizioni diverse per un suo riavvicinamento a Roma. Un primo passo fu compiuto da Ricci stesso già nel corso della sua relegazione del 1799, grazie alla mediazione dell’arcivescovo di Firenze Antonio Martini. Dopo la morte di papa Braschi, con l’elezione di Pio VII altri passi di Ricci, con la mediazione del cardinale Joseph Fesch, zio di Napoleone, e del cardinale Giuseppe Spina, arcivescovo di Genova, caddero anch’essi nel vuoto. Un incontro personale di Ricci con Pio VII, patrocinato a Firenze dalla regina reggente d’Etruria Maria Luisa di Borbone il 9 maggio 1805, durante il viaggio di ritorno del papa da Parigi a Roma dopo l’incoronazione di Napoleone, costituì finalmente l’episodio risolutore di una «riconciliazione», stando a quanto Ricci narrerà poi nelle Memorie, a difesa del proprio operato, soprattutto nei confronti delle polemiche che la sua riconciliazione aveva immediatamente suscitato. Nel corso dell’udienza Ricci sottoscrisse un documento presentatogli dal lazzarista Benedetto Fenaja, vicegerente di Roma, al seguito del pontefice, nel quale «professava» e «dichiarava» di accettare puramente e semplicemente tutte le costituzioni apostoliche, che avevano condannato il giansenismo fino all’Auctorem fidei, a conferma della sua «perfetta sottomissione e vera ubbidienza» al pontefice e ai suoi successori. Che queste affermazioni fossero ritenute da Ricci una «dichiarazione» è testimoniato dal fatto che tale termine si riscontra in calce al documento, nell’aggiunta ufficiale con la quale Fenaja ne attestava l’avvenuta sottoscrizione.
Le reazioni curiali furono immediate da parte dell’ala più intransigente, a partire dal cardinale segretario di Stato Ercole Consalvi, e se ne colgono gli effetti nell’allocuzione concistoriale di Pio VII del 26 giugno 1805, in cui si parla di «ritrattazione» (retractatio), e nella lettera del papa a Ricci del precedente 21 giugno, in cui vengono usati i termini di «riprovazione» e di «condanna» riguardo al gesto compiuto dall’ex vescovo. Ma ancora, in un’altra lettera di Pio VII a Ricci del 17 luglio 1805, quindi dopo l’allocuzione concistoriale, il termine «ritrattazione», indicato in una prima bozza della lettera, verrà sostituito, in una seconda stesura, da quello rimasto nel testo definitivo di «rattifica» (Il giansenismo in Italia, 1995, pp. 704 s.). Incertezze dunque nel pontefice e ambiguità nella stessa Curia, sebbene in questa rimanesse largamente prevalente l’ostilità nei confronti della doppiezza di Ricci, mentre nell’ambito dello stesso giansenismo si fecero strada un palese dissenso riguardo al suo gesto, come da parte di Eustachio Degola, o perplessità, come da parte di Henri Grégoire, che sembrò accontentarsi delle precisazioni fornitegli da Ricci in una lettera del 20 septembre 1806 (Correspondance, a cura di M. Vaussard, 1963, pp. 140-145). Più sfumata la posizione di Palmieri, nella convinzione che l’Auctorem fidei censurasse proposizioni, in senso generale o da intendere in sensi particolari, che i partecipanti del sinodo non avevano mai inteso sostenere. Era in realtà, questa posizione, una ripresa della distinzione tra la questione di diritto e quella di fatto che Antoine Arnauld aveva sostenuto durante la resistenza dei quattro vescovi di Angers, di Beauvais, di Pamiers e di Alet al formulario alessandrino, che imponeva la sottoscrizione della bolla di condanna di Giansenio (1653), distinzione che aveva portato alla pace di Clemente IX (1667-69), un precedente che lo stesso Ricci ricorda anche in diverse lettere a Grégoire, in particolare quella del 21 février 1801 (pp. 89 s.), e che adombra anche nelle Memorie a sostegno della sua convinzione, sino all’ultimo sostenuta, di aver sottoscritto una «dichiarazione» e non una «ritrattazione» nei confronti dell’Auctorem fidei.
Trascorse gli ultimi anni nella villa di Rignana, mentre alcuni sodali del movimento andavano scomparendo e altri venivano assorbiti in un contesto di restaurazione religiosa in senso romano. Proseguivano però i rapporti e la corrispondenza con gli ‘amici’, e sono particolarmente significative le già citate lettere a Grégoire, divenuto capofila della Chiesa costituzionale francese, tra il 1796 e il 1809, per lo scambio di informazioni, per l’adesione di Ricci a sue iniziative, soprattutto riguardo alla convocazione del primo sinodo nazionale della Chiesa costituzionale nel 1797, e poi a quella del secondo sinodo, che non ebbe però luogo, e per le speranze di una riforma della Chiesa, affidata a progetti illusori di una confederazione delle Chiese cristiane e persino a prospettive millenaristiche. È in questo arco di tempo che Ricci attese alla stesura e alla pubblicazione di talune sue opere.
Dopo la stampa a Pistoia nel 1788 di un volumetto di Omilie, pronunciate tra il 1784 e il 1788, che restano un raro esempio italiano di omiletica vescovile giansenista, si dedicò alla stesura delle Memorie, soprattutto dopo le vicende del 1799 e in parallelo ai primi passi compiuti per la sua riconciliazione con Roma, poiché le prime due parti furono concluse il 10 aprile 1801, mentre la terza parte fu terminata il 17 ottobre 1805, con la narrazione delle vicende legate all’incontro con Pio VII. Manca nelle Memorie la narrazione degli avvenimenti tra l’Assemblea fiorentina del 1787 e il periodo immediatamente precedente il 1799, che avrebbe comportato riflessioni e giudizi da parte di Ricci sui rapporti con il granduca e sulla crisi del riformismo. Sempre nel ritiro di Rignana tornerà sul problema del culto dei santi, che tanto lo aveva impegnato nel contesto della sua opera riformatrice. In questa direzione apparve anonima (Firenze 1797) una raccolta in 12 tometti di Vite de’ santi per ogni giorno dell’anno, elaborata sulla base di analoghe raccolte dell’agiografia giansenista. In essa è centrale il modello da imitare, in particolare nelle figure dei santi della primitiva Chiesa cristiana, che si erano opposti con energia alle deviazioni dottrinali o che, come vescovi, si erano distinti per il loro ruolo ecclesiastico. Molto recente l’identificazione (Schettini, 2016) di altri due scritti composti da Ricci in questo arco di tempo, Tridui e novene in preparazione alle principali feste di Maria sempre Vergine (Firenze 1804), che venne inviato in dono a Grégoire, e Istruzioni morali sopra i sacramenti, che, rimasto manoscritto, fu edito postumo a Firenze nel 1811. Mentre il primo si rifà allo specifico filone della pietà mariana giansenista, il secondo raccoglie una serie di istruzioni familiari sui sacramenti destinate ai domestici per le riunioni serali di preghiera.
Sono queste le ultime testimonianze riguardanti Ricci, che morì il 27 gennaio 1810 a Rignana, venendo sepolto nella cappella di famiglia annessa alla villa.
Assorbita da un lato nel silenzio sul versante dello stesso giansenismo, segnata dall’altro da una spesso astiosa polemica da parte della storiografia ecclesiastica cattolica, la figura di Ricci fu recuperata solo negli anni Venti dell’Ottocento, non nel quadro della storiografia italiana, ma a opera di uno studioso e uomo politico belga di orientamenti liberali, Louis de Potter, con una Vie de Scipion de Ricci (1825), elaborata nel corso di una lunga dimora in Toscana, attraverso una prima indagine archivistica tra le carte Ricci e le testimonianze di collaboratori e di corrispondenti ancora viventi, tra i quali Grégoire: un’opera che ebbe il merito di diffondere l’immagine riformatrice, anticuriale e illuminata di Ricci nel corso dell’Ottocento e di tener viva l’attenzione riguardo al problema del giansenismo sino alla formazione dello Stato unitario. Infatti è solo dopo l’Unità d’Italia che, con il deposito delle Carte Ricci nell’Archivio di Stato di Firenze, ripresero le ricerche con la pubblicazione delle sue Memorie (Firenze 1865), arricchite da importanti appendici documentarie a cura di Agenore Gelli, un patriota del Risorgimento che puntava a riabilitarne la figura nell’ambito della Chiesa cattolica, non senza echi giobertiani, come espressione del «necessario accordo della civiltà colla religione».
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Carte Ricci (una breve descrizione in B. Matteucci, S. de’ R. Saggio storico-teologico sul giansenismo italiano, Brescia 1941, pp. 289-293, con l’indicazione di altri archivi ecclesiastici e privati); S. de’ Ricci, Memorie, a cura di A. Gelli, I-II, Firenze 1865 (rist. Pistoia 1980); Carteggi di giansenisti liguri, I-III, a cura di E. Codignola, Firenze 1941-1942; Il giansenismo toscano nel carteggio di Fabio de Vecchi, I-II, a cura di E. Codignola, Firenze 1944; Correspondance S. de’ R. - Henri Grégoire (1796-1807), a cura di M. Vaussard, Paris 1963; Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, Relazioni sul governo della Toscana, I, a cura di A. Salvestrini, Firenze 1969, pp. 163-206; Atti e decreti del concilio diocesano di Pistoia dell’anno 1786, I-II, a cura di P. Stella, Firenze 1986; Lettere di vescovi e cardinali a S. de’ R. (1780-1793), a cura di C. Lamioni, Pistoia 1988; Lettere di S. de’ R. a Pietro Leopoldo 1780-1791, I-III, a cura di B. Bocchini Camaiani - M. Verga, Firenze 1990; Il giansenismo in Italia, II, 1, Roma, a cura di P. Stella, Roma 1995; G. Schettini, Venti lettere inedite dal carteggio di S. de’ R. - Henri Grégoire, in Rivista di Storia e letteratura religiosa, LII (2016), in corso di stampa.
N. Rodolico, Gli amici e i tempi di S. dei R. Saggio sul giansenismo italiano, Firenze 1920; A.C. Jemolo, Il giansenismo in Italia prima della Rivoluzione, Bari 1928; E. Codignola, Illuministi, giansenisti e giacobini nell’Italia del Settecento, Firenze 1947 (rist. Roma 2006); E. Passerin d’Entrèves, La politica dei giansenisti in Italia nell’ultimo Settecento, in Quaderni di cultura e storia sociale, I-III (1952-1954); Id., Corrispondenze francesi relative al Sinodo di Pistoia del 1786, in Rivista di storia della Chiesa in Italia, VII (1953), pp. 377-410; ibid., VIII (1954), pp. 49-92; Id., Il fallimento dell’offensiva riformista di S. de’ R. secondo nuovi documenti. 1781-88, ibid., IX (1955), pp. 99-131; Id., L’istituzione dei patrimoni ecclesiastici e il dissidio fra il vescovo S. de’ R. e i funzionari leopoldini (1783-1789), in Rassegna storica toscana, I (1955), pp. 6-27; M. Rosa, Riformatori e ribelli nel ’700 religioso italiano, Bari 1969; C. Fantappiè, Riforme ecclesiastiche e resistenze sociali. La sperimentazione istituzionale nella diocesi di Prato alla fine dell’antico regime, Bologna 1986; M. Pieroni Francini, Una iniziativa editoriale di S. de’ R.: le “Vite dei santi”, in Archivio storico italiano, CXLV (1987), pp. 611-649; C. Fantappiè, Per una rilettura del sinodo di Pistoia del 1786. Note in margine all’opera di Pietro Stella, in Cristianesimo nella storia, IX (1988), pp. 541-562; Lettere di S. de’ R., cit., I (in partic. M. Verga, Il vescovo e il principe. Introduzione alle lettere di S. de’ R. a Pietro Leopoldo (1780-1791), pp. 3-47; B. Bocchini Camaiani, Origine e poteri dell’autorità sovrana in S. de’ R., pp. 49-102); Il sinodo di Pistoia del 1786. Atti del Convegno internazionale per il secondo centenario, Pistoia-Prato... 1986, a cura di C. Lamioni, Roma 1991 (in partic. la parte II, pp. 33-221, con i saggi di M. Rosa, S. de’ R. tra pietà illuminata e religione popolare; E. Passerin d’Entrèves, S. de’ R. dalla formazione giovanile all’esperienza sinodale. Rileggendo le sue ‘Memorie’; C. Fantappiè, Strutture ecclesiastiche e nuovi assetti patrimoniali nella diocesi di Pistoia (1778-1790); P. Stella, 1, Il sinodo di Pistoia dai lavori preparatori ai decreti sinodali: l’organizzazione del consenso, 2, Il sinodo di Pistoia dalla pubblicazione degli atti alla bolla di condanna (1788-1794): documenti); B. Bocchini Camaiani, Gli «Annali ecclesiastici» e Pietro Tamburini, in Pietro Tamburini e il giansenismo lombardo. Atti del Convegno internazionale… 1989, a cura di P. Corsini - D. Montanari, Brescia 1993, pp. 307-330; P. Stella, Il giansenismo in Italia, I-III, Roma 2006; M. Rosa, Il giansenismo nell’Italia del Settecento. Dalla riforma della Chiesa alla democrazia rivoluzionaria, Roma 2014 (in partic. pp. 235-258 per la tradizione storiografica sul giansenismo italiano su Ricci, e pp. 275-284 per la bibliografia più recente).