SIGHELE, Scipio
SIGHELE, Scipio. – Nacque a Brescia il 24 giugno 1868 da Gualtiero e da Angelica Pedrotti.
La famiglia era di origine trentina, un’appartenenza risalente al capostipite Lorenzo (1761-1829), nato a Nago (Trento), funzionario pubblico che nel periodo delle invasioni napoleoniche combatté contro le armate francesi come capitano di una compagnia di Schützen e che in seguito fu insignito da Francesco I d’Austria di una patente di nobiltà. Uno dei suoi figli, Scipione (Innsbruck 1804-Milano 1884), era pretore a Milano quando nel giugno del 1859 le truppe austriache abbandonarono la città; scelse di non rientrare nei confini dell’Impero e di rimanere nella città lombarda, dove fu riconfermato nel suo ruolo dalle nuove autorità italiane; nel 1870 venne nominato senatore e nel 1879 primo presidente onorario della Corte di cassazione. Suo figlio Gualtiero (Istria 1838 - Milano 1895) svolse l’attività di procuratore e poi di procuratore generale del re a Brescia, Milano, Trieste e Palermo e si sposò con Angelica Pedrotti, anch’essa di origine trentina e sua prima cugina; dalla coppia nacquero Emma (Brescia 1864 - Milano 1931) e Scipio; dopo la nascita dei figli la famiglia si trasferì da Brescia a Milano, dove rimase fino al 1887, quando il padre fu chiamato a Roma, a far parte della commissione che lavorava al nuovo codice penale.
Nel solco della tradizione familiare, Scipio Sighele mantenne un forte legame con il territorio trentino, dove era solito trascorrere prolungati soggiorni nella settecentesca villa di Nago, piccolo paese affacciato sopra il lago di Garda; qui, nel corso della vita, lavorò alle sue opere (il nonno e il padre avevano raccolto una ricchissima biblioteca di studi giuridici, sociali e letterari) e fu partecipe del mondo della cultura, della politica e dell’associazionismo di quello che era il ‘Trentino asburgico’.
Il giovane Sighele frequentò il ginnasio e il liceo a Milano e dopo la maturità (1886) si iscrisse a giurisprudenza a Roma, dove fu allievo del sociologo e penalista Enrico Ferri, con il quale si laureò nel 1890 discutendo una tesi sulla teoria positiva della complicità. La sua intensa attività di studioso e pubblicista si sviluppò subito, collocandosi pienamente nel vivace dibattito che animava il mondo della cultura positivista incrinata da nuovi, irrazionali fermenti; si trattò di un dibattito che vide gli intellettuali europei, e soprattutto i francesi, impegnati in un confronto serrato sugli elementi che andavano a comporre la crisi di fine secolo.
La riflessione sulle inquietudini sociali e sulle peculiarità dei comportamenti criminali propri di entità collettive (la folla, la coppia, la setta) fu al centro della sua prima stagione di studi. Già nel 1891 Sighele pubblicò il libro La folla delinquente, tradotto l’anno seguente in francese e poi in spagnolo, russo, polacco e tedesco, più volte edito in Italia e ripubblicato in un’edizione ampliata nel 1910 con il titolo I delitti della folla (studiati secondo la psicologia, il diritto e la giurisprudenza). A fronte dell’importanza crescente assunta, nella società otto-novecentesca, dalle azioni di individui variamente associati, ebbe il merito, come gli riconobbe Gabriel Tarde (Foules et sectes au point de vue criminal, in Revue des deux mondes, LXIII (1893), 120), di tematizzare per primo la psicologia collettiva come disciplina distinta dalla sociologia, anticipando il più celebre lavoro di Gustave Le Bon (La psychologie des foules, Paris 1895), che estese il concetto di folla delinquente a quello di folla senza ulteriori specificazioni.
Nel pensiero di Sighele la folla, colta di preferenza in comportamenti criminosi e violenti (la folla in tumulto), era caratterizzata dall’essere un aggregato eterogeneo e diseguale al suo interno, a differenza degli aggregati sociali spenceriani, più stabili e omogenei; tuttavia essa era in grado di darsi subitanee forme organizzative (l’anima della folla) nelle quali le volontà individuali si annullavano. Seguendo la metodologia propria della scuola positiva analizzò nelle sue opere casi concreti di cronaca sociale e politica, ricavandone prima specificità e tipologie, poi riflettendo sul tema che innerva tutta la sua analisi, quello dei meccanismi della suggestione. Se il potere suggestivo – che considerò nelle sue analogie con i fenomeni ipnotici – era la chiave per comprendere i comportamenti delle folle, la responsabilità del singolo veniva conseguentemente alleggerita e con essa la durezza delle pene da infliggere, che andavano commisurate non tanto alla gravità del reato quanto alla pericolosità di chi lo aveva commesso, «ponendo come fondamentale la distinzione fra chi istiga e chi è istigato, tra i capi e i gregari, fra i delinquenti abituali e quelli occasionali» (Gridelli Velicogna, 1986, p. 29). La misura dell’influenza esercitata dall’ambiente sulla propensione a delinquere delle folle fu un tema che di fatto lo distinse dalle teorie lombrosiane di antropologia criminale, lungo un percorso di continui confronti, aggiustamenti e integrazioni delle sue tesi; in ogni caso Sighele considerò l’ambiente in senso lato come un fattore determinante e, mosso da intenzioni progressiste, ne fece discendere la necessità di riformare il diritto. Osservò come, di fronte ai sempre più frequenti atti criminosi commessi da entità collettive, i giudici fossero costretti a ricorrere agli articoli che nel codice penale facevano riferimento alla parziale infermità di mente, un fattore inadeguato e non comparabile alla suggestione, essendo quest’ultima un evento transitorio e innescato da fattori esterni all’individuo.
Nel 1895 sposò Antonietta Rosmini (1872-1922), romana, ma anche lei di origini trentine e lontana discendente del filosofo roveretano Antonio Rosmini Serbati; non ebbero figli e furono sempre legati da una forte comunione e da un’esistenza intessuta di relazioni e amicizie, coltivate anche attraverso una fitta corrispondenza, come quella con il liberale trentino Giovanni Pedrotti. Sighele fu sempre molto vicino alla sorella Emma, al marito di lei, il banchiere milanese Orsini Castellini, e al loro figlio Gualtiero (1890-1918), nipote prediletto che condivise con lui sentimenti e iniziative politiche.
Nelle sue opere Sighele analizzò non solo i comportamenti – e la propensione a delinquere – dei ceti sociali inferiori, ma anche quelli tipici dei ceti sociali più elevati, valutati come meno violenti e più subdoli. Si interessò al caso Dreyfus e fu a Parigi per analizzare dal vivo i meccanismi che avevano portato a una sentenza ingiusta e orientato l’opinione pubblica francese a perseguitare un innocente.
In Contro il parlamentarismo, saggio di psicologia collettiva, pubblicato a Milano nel 1895 (in Appendice a Gambari, 1988, pp. 91-123) affrontò i fatti di corruzione che spingevano buona parte dell’opinione pubblica alla denuncia dell’immoralità del ceto politico, suggerendo un’analisi che prendeva in considerazione il Parlamento come «riunione di molti» (p. 93). Già in partenza gli eletti erano selezionati sulla base di fattori suggestivi (il «diluvio di parole» che dai comizi e dalla stampa investiva gli elettori, anch’essi visti come moltitudine più che come singoli individui capaci di scelte razionali; p. 109). Una volta in Parlamento – assemblea simile in questo a tutte le folle – le qualità intellettuali e morali dei singoli non si sommavano, ma anzi si elidevano, le decisioni nascevano spesso da alchimie imprevedibili che minavano la qualità del risultato, l’iter di approvazione delle leggi peggiorava i testi, partorendo non di rado mostri irriconoscibili dagli stessi proponenti. Se configurò la vita parlamentare come «una farsa nei corridoi, una tragedia nell’aula» (p. 113), indicò correttivi compatibili con il sistema democratico, quali la riduzione del numero dei parlamentari, il riconoscimento di un’indennità ai deputati per favorire la selezione di politici di professione, il rafforzamento delle autonomie locali. Tornò in altri scritti sulla natura accentrata della Stato italiano, che toglieva slancio e potenzialità alle varietà antropologiche e psicologiche delle sue popolazioni: «il pericolo vero per l’unità della nostra patria [...] consiste nell’ostinarsi a negare questa differenza, e nel voler quindi educare e governare tutti gli italiani in un modo identico, costringendoli amministrativamente e legislativamente in un letto di Procuste» (Il problema morale dell’anima collettiva, in Garbari, 1988, p. 138).
Non fu particolarmente amato dall’ambiente accademico, ma insegnò come libero docente di diritto penale alle università di Pisa e di Roma e in diversi anni tenne corsi di sociologia criminale e di psicologia collettiva all’Institut des hautes études dell’Università di Bruxelles. Nel 1906 Sighele e la moglie si trasferirono a Firenze, che da allora divenne la loro residenza.
L’interesse di Sighele per i comportamenti della folla non venne mai meno e, in sintonia con le riflessioni di tanti intellettuali europei, si sviluppò nella direzione del concetto di ‘massa’; considerò la ‘potenza della massa’ come la più grande eredità trasmessa dall’Ottocento al nuovo secolo: «il legato più glorioso e nello stesso tempo più pericoloso di questa eredità è quello che si riassume nella parte che giocherà la massa nell’avvenire» (L’intelligenza della folla, Torino 1903, in Gridelli Velicogna, 1986, p. 9).
Tuttavia possiamo distinguere un secondo nucleo della sua attività, a cavallo dei secoli, nel quale si dedicò sia all’esame dei principali protagonisti dei romanzi di Émile Zola, Honoré de Balzac, Maurice Barrès e Gabriele D’Annunzio, sia all’analisi di casi giudiziari di corruzione, mafia, brigantaggio. Con un brillante stile narrativo e uno sguardo prevalentemente psicologico-sociale, affrontò grandi tematiche contemporanee come i problemi dell’infanzia sfruttata e abbandonata, la condizione femminile, il peso delle ideologie nei processi politici, avendo come interlocutore un’opinione pubblica che intendeva informare e sensibilizzare in senso riformista. Spesso coinvolto nel dibattito sull’emancipazionismo (ad esempio sulla Critica Sociale), nel volume Eva moderna (Milano 1910), così come in altri suoi scritti sul tema, Sighele non pretese di ragionare di scienza, ma solo di osservare e commentare quello che altri andavano dicendo, provando a illuminare «una questione molto complessa e molto confusa» (Eva moderna, p. VII); il buon senso fa da filtro a una trattazione garbata, spesso ironica, nella quale tuttavia, destreggiandosi tra luoghi comuni e opinioni colte, affermò in modo chiaro la necessità di cancellare le discriminazioni di genere attraverso l’istruzione, l’uguaglianza dei diritti, l’istituzione del divorzio e il riconoscimento del suffragio, mentre il femminismo più sano restava «quello che tende non a deformare e a mascolinizzare la donna, ma a sviluppare le doti intellettuali e le mirabili energie sentimentali di ogni amante e di ogni madre» (p. 57).
Esercitò solo una volta l’avvocatura nel ‘processo Murri’, evento alla ribalta delle cronache e oggetto di scontro tra cattolici e socialisti: il figlio del celebre clinico Augusto Murri, Tullio, consigliere provinciale socialista di Bologna, insieme alla sua amante nell’agosto del 1902 aveva assassinato il marito della sorella, conte Francesco Bonmartini, clericale e conservatore. Sighele, avvocato di parte civile della famiglia Bonmartini, si trovò come avversario il suo maestro Ferri, socialista e difensore dell’imputato. Nell’arringa Sighele ritrasse gli ambienti sociali sullo sfondo del delitto, da un lato il contesto bigotto e retrivo dei ceti aristocratici legati alla possidenza agraria, dall’altro quello dell’alta borghesia delle professioni, dove poteva annidarsi una disinvoltura morale portata fino alla criminalità; in seguito descrisse il caso (nell’edizione del 1909 de La coppia criminale), che considerò esemplare per il legame di complicità tra Murri e la sua amante, donna del tutto succube e condotta al delitto dalla volontà dominante di lui.
Nei primi anni del Novecento venne più in primo piano il suo impegno di natura politica, anche se Sighele non si ritenne mai adatto a diventare un politico di professione; fu la difesa dell’italianità del territorio trentino a spingerlo verso una militanza attiva e a contrastare l’atteggiamento opportunistico e l’insensibilità della classe dirigente nei confronti della sorte delle terre irredente. Durante le sue permanenze a Nago fu particolarmente vicino alla Società degli studenti trentini, nata nel 1894, della quale fu consigliere e collaboratore. Tra le imprese più rilevanti vi fu la battaglia, annosa, per la creazione di un’università italiana in Austria; nel 1902 con Cesare Battisti si adoperò per avviare corsi liberi in italiano a Innsbruck (in realtà il fine ultimo era l’apertura di un’università italiana a Trieste), contattando personalmente i più illustri esponenti della cultura accademica. L’inaugurazione della facoltà italiana di scienze politiche e giuridiche a Innsbruck finì con sanguinosi disordini e arresti e con la chiusura definitiva dei corsi.
Nel 1909 si avvicinò al nazionalismo italiano, una scelta motivata dalla fede irredentista, dalla convinzione che fosse ancora da costruire un’anima collettiva nazionale e insieme dall’idea che il nazionalismo non dovesse essere né reazionario né clericale, ma svilupparsi come «un partito liberale, sinceramente e audacemente liberale, che vuol risvegliare le addormentate energie nazionali, e indirizzarle tutte nei commerci, nelle industrie, nelle arti, nella scienza, nella politica» (Pagine nazionaliste, Milano 1910, pp. 221 s., in Garbari, 1977, p. 47). Nel 1910 presiedette il congresso nazionalista di Firenze, dove tenne un discorso sulla sua concezione dell’irredentismo, quella che non invocava la guerra – ritenuta per altro probabile in un futuro ancora indefinito –, ma la difesa militante dell’italianità contro la minaccia del pangermanesimo. Fu per un breve periodo membro del consiglio centrale dell’Associazione nazionalista, che tuttavia abbandonò già nel 1912: «Ed io che sognavo un nazionalismo democratico, confesserò di essermi sbagliato [...] era ora di uscir dall’equivoco, e di lasciare al nazionalismo il suo vero carattere: conservatore, clericale, reazionario» (lettera a Orsini, maggio 1912, in Garbari, 1977, p. 247).
Sighele appoggiò l’impresa libica e sul finire del 1911 si recò a Tripoli insieme al nipote Gualtiero, da dove fu entusiasta corrispondente per La Tribuna, convinto che uno status di grande potenza, un ampliamento dei confini e un rafforzamento della sua diplomazia avrebbero incoraggiato l’Italia a perseguire il ‘sogno’ patriottico più puro, la redenzione di Trento e Trieste.
Sospettato di attività irredentista venne sottoposto a istruttoria dal governo austriaco nel 1900 e citato in tribunale a Trento nel dicembre del 1907, ma in entrambi i casi vi fu il non luogo a procedere. Il 26 maggio 1912 fu raggiunto a Nago da un avviso confidenziale dell’amico Olindo Malagodi, direttore de La Tribuna, che comunicava l’imminenza di un provvedimento di sfratto da parte del governo austriaco; l’espulsione dai territori dell’Impero per attività sovversiva, da lui a lungo temuta, fu imputata a un suo articolo pubblicato il 5 marzo 1912 sul periodico francese La Revue. Dopo inutili tentativi di far rientrare il provvedimento, da parte sia del ministero degli Esteri italiano sia dei deputati trentini a Vienna (Battisti presentò un’interpellanza parlamentare contro il decreto), il 24 giugno Sighele lasciò per sempre la sua casa, salutato dagli amici con un banchetto d’addio.
Molto provato dall’impossibilità di tornare in luoghi a lui così cari, già sofferente di cuore, morì a Firenze il 21 ottobre 1913 assistito dalla moglie Antonietta; la sua figura venne commemorata a Firenze da Lorenzo Ellero con un discorso alla società Leonardo da Vinci. Un mese dopo, ottenuto il permesso dalle autorità austriache, la salma fu trasferita e sepolta nel cimitero di Nago.
Opere. La coppia criminale, Torino 1893; La teorica positiva della complicità, Torino 1894; La donna nova, Roma 1895; La delinquenza settaria, Milano 1897; Mentre il secolo muore, Milano-Palermo 1899; L’intelligenza della folla, Torino 1903; Il Nazionalismo e i partiti politici, Milano 1911; con A. Dauzat, L’Italie de demain et la France. La nouvelle psychologie irrédentiste depuis l’expèdition tripolitane, in La Revue, 15 marzo 1912, pp. 145-156; Ultime pagine nazionaliste, Milano 1912.
Fonti e Bibl.: Museo storico in Trento, Fondo Scipio Sighele: album Conferenze e discorsi in italiano 1896-1912; album Lo sfratto; corrispondenza di Scipio Sighele a Giovanni Pedrotti.
G. Pedrotti, Una famiglia di patrioti trentini, Milano 1932; M. Garbari, L’età giolittiana nelle lettere di S. S., Trento 1977; L. Mangoni, Una crisi di fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Otto e Novecento, Torino 1985; N. Gridelli Velicogna, S. S. Dalla criminologia alla sociologia del diritto e della politica, Milano 1986; M. Garbari, Società ed istituzioni in Italia nelle opere sociologiche di S. S., Trento 1988; Per l’Università italiana in Austria. Carteggio trentino 1898-1920, a cura di V. Calì, Trento 1990; P. Borghesi, I gruppi sociali nell’opera di S. S., in Archivio trentino di storia contemporanea, 1996, n. 1, pp. 39-74; G. Berti, La famiglia Sighele, in La giurisdizione di Pénede, X (2002), 18, pp. 46-82; V.P. Babini, Il caso Murri. Una storia italiana, Bologna 2004; G. Berti - T. Rigotti, Le immagini ritrovate, ricordo di S. S. nel centenario della morte (1913-2013), in La giurisdizione di Pénede, XXI (2013), 41, pp. 5-42.