Scienza
di Gerard Radnitzky, Paolo Rossi
SCIENZA
Teoria della scienza di Gerard Radnitzky
sommario: 1. Introduzione. 2. Che specie di disciplina è la teoria della scienza o metodologia? 3. Progresso conoscitivo, ideale di scienza, raffigurazione descrittiva della scienza. 4. La ‛concezione corrente'; gloria e miseria dell'empirismo logico. a) La fonte d'ispirazione dell'empirismo logico. b) Il programma dell'empirismo logico. c) L'ideale di scienza e l'immagine dell'uomo sottostanti al programma dell'empirismo logico. d) Evoluzione del problema chiave ‛come può la scienza pretendere di essere (assolutamente) giustificata?'. 5. La ‛nuova filosofia della scienza'. a) Reazioni al fallimento dell'approccio positivistico- giustificazionistico. b) La filosofia del secondo Wittgenstein come fonte d'ispirazione della ‛nuova filosofia della scienza'. c) Le conseguenze della filosofia del secondo Wittgenstein sulla teoria della scienza; esposizione e critica dell'approccio relativistico e strumentalistico in metodologia. 6. La metodologia di Popper (il razionalismo critico). a) Il perfezionamento dell'ideale di scienza. b) L'evoluzione dei problemi nella metodologia popperiana. c) Metodologia ed epistemologia evoluzionistica. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Una teoria, o ipotesi, scientifica è una ‛teoria sul mondo', nel senso che si propone di descrivere o rappresentare certi aspetti della realtà. Così un'ipotesi di legge, comunemente detta ‛legge scientifica', rappresenta, nei limiti in cui è precisa, certe regolarità, certe invarianze tra i fenomeni empirici. Le teorie scientifiche costituiscono la miglior conoscenza di cui disponiamo sul mondo empirico e su quegli aspetti dell'uomo che sono indagabili dalla scienza. Le tercnologie basate sulle teorie scientifiche sono uno strumento d'immensa potenza per la trasformazione del nostro ambiente. Ciò appare spiegabile soltanto se le teorie scientifiche su cui tali tecnologie si basano rappresentano con una certa precisione gli aspetti rilevanti della realtà. Questo è di per sé un forte argomento a favore del ‛realismo'. La cosiddetta concezione ‛strumentalistica' delle teorie nega tuttavia che la capacità descrittiva d'una teoria, sottostante in qualche misura a una tecnologia efficace, sia una condizione necessaria per il successo della tecnologia stessa. Gli strumentalisti appaiono quindi disposti a pagare il prezzo della trasformazione del successo della scienza in un miracolo. Essi negano persino che le teorie abbiano una funzione rappresentativa, che siano dirette a descrivere certi aspetti della realtà; le teorie sono dichiarate nient'altro che strumenti per la produzione di predizioni e spiegazioni. La semplice formulazione del tema ‛scienza come teoria', dunque, ci conduce direttamente alla questione se le teorie scientifiche abbiano o non abbiano una funzione rappresentativo-descrittiva, cioè alla contrapposizione tra concezione realistica e concezione strumentalistica delle teorie, cioè infine a un problema metodologico. In conclusione, riflettendo sul tema ‛scienza come teoria', ci troviamo con ciò stesso già impegnati nella filosofia della scienza o metodologia.
Se vogliamo acquisire conoscenze sulla natura, ci rivolgiamo alla scienza, consultiamo la letteratura scientifica, e, se desideriamo acquisire nuove conoscenze sulla natura, dobbiamo condurre ricerche scientifiche, cioè impegnarci ‛nella scienza'. Se però vogliamo conoscere qualcosa ‛sulla' scienza, dobbiamo rivolgerci alla filosofia della scienza o ‛scienza della scienza'.
Se, avendo in mente un interrogativo riguardante la scienza, ci rivolgiamo a quel che famosi scienziati hanno detto sulla scienza, noi non li consultiamo nella loro veste di scienziati, ma in quella di metodologi o storici della scienza. Se, per esempio, un fisico risponde a un interrogativo ‛sulla' fisica, agisce eo ipso come metodologo o filosofo della scienza e non come fisico. Insomma, se vogliamo sapere qualcosa sulla scienza ‛come teoria', dobbiamo rivolgerci alla teoria della scienza (metascienza, metodologia della ricerca scientifica).
Prendiamo qui ‛scienza' come parola comprensiva per l'insieme delle iniziative di ricerca, passate, presenti e future. Esse hanno tutte qualcosa in comune (altrimenti non sarebbe giustificato raggrupparle sotto un'unica etichetta): lo scopo di migliorare la nostra conoscenza della realtà empirica e il metodo fondamentale, cioè l'esame critico delle soluzioni dei problemi, esame che comprende il loro assoggettamento al controllo empirico. Questa delimitazione è sufficiente per il nostro scopo. Non c'intratterremo per il momento (v. cap. 5, § c) sul problema tecnico - tradizionale nella teoria della scienza - della demarcazione tra scienza e non scienza.
La scienza presenta molteplici aspetti, tra i quali tre rivestono particolare importanza e ci aiuteranno a strutturare il campo: 1) la scienza come l'insieme dei ‛risultati', più o meno compiuti, degli sforzi di ricerca: teorie, spiegazioni, predizioni, strumenti concettuali, modelli e calcoli, metodi, criteri ecc. (cioè entità astratte), come anche contenuti oggettivi, rivestiti di forme linguistiche ai fini della comunicazione, quali sono espressi da testi, formule, diagrammi, discorsi ecc.; 2) la scienza come l'‛attività' che produce tali risultati; 3) la scienza come ‛istituzione': accademie, università, ‛collegi invisibili', riviste scientifiche, conferenze, ecc., ivi incluse le ‛componenti umane' delle varie iniziative di ricerca, cioè i ricercatori in quanto produttori di nuove conoscenze, i consumatori, i mediatori e i ‛distributori' di tali conoscenze.
Le ‛scienze umane' che studiano i vari aspetti dell'impresa scientifica sono talvolta raggruppate sotto l'etichetta di ‛scienza della scienza'; esse comprendono la sociologia della scienza, la psicologia della ricerca, la storia della scienza (un vasto campo che si estende dalla storia delle interazioni tra scienza e altri settori della cultura a indagini specifiche su sviluppi teorici particolari, alla ricostruzione dell'evoluzione dei problemi), lo studio degli aspetti economici della scienza, e così via. Dato che questi aspetti sono trattati in altri articoli, la nostra attenzione si concentrerà sulla teoria della scienza.
Poichè si potrebbe obiettare che la storia della scienza (historia rerum gestarum) ha da insegnarci - sulla scienza - più della metodologia, vale la pena di riflettere brevemente sulla vanità di ogni tentativo di sostituire la metodologia con la storia della scienza o di ridurla a una scienza empirica. Una storia della scienza che tenti di lavorare senza una posizione metodologica non può far altro, nel migliore dei casi, che illustrare mutamenti. Ora, quali, tra i molti mutamenti che costituiscono insieme la storia della scienza (res gestae) - considerata globalmente, la più impressionante delle success stories -, sono quelli degni di un'indagine più approfondita (‛degni' nel senso che indagini a loro riguardo possono verosimilmente migliorare la nostra conoscenza su come la conoscenza scientifica cresce e insegnarci qualcosa di utile per i nostri correnti interessi di ricerca)? Soltanto una valutazione metodologica può rispondere a questo interrogativo, indicando quali, tra i molti mutamenti, siano stati quelli rilevanti per il progresso conoscitivo. Lo storico della scienza come del resto, sotto questo aspetto, ogni altro ricercatore - che pensi di poter procedere senza metodologia, si trova nella situazione del seguace cieco di una metodologia obsoleta: non potrà sottoporre a critica alcuna tale metodologia, sia perché non articolata sia perché è probabilmente inconsapevole di averla mai scelta (v. Antiseri, 1981, pp. 354-359). E un sociologo della scienza che tenti di lavorare senza un'impostazione metodologica e di procedere ‛in modo puramente empirico' potrà tutt'al più descrivere le attività della comunità scientifica. Senonché, un incremento spettacolare - da lui eventualmente registrato - nel volume dell'attività scientifica non garantisce in alcun modo un progresso conoscitivo; semmai, solleva la questione della remuneratività dei grossi investimenti nella scienza, e la risposta a tale questione presuppone, specialmente riguardo alla ricerca di base, una valutazione metodologica dei risultati della ricerca. In breve, i tentativi di ridurre la metodologia a una qualche altra disciplina o di sostituirla con la storia della scienza sono destinati a fallire: se è vero che la metodologia senza la storia della scienza è vuota, è altrettanto vero che la storia della scienza senza metodologia è cieca.
L'espressione ‛filosofia della scienza' è usata il più delle volte nel senso di ‛teoria della scienza'. Presa alla lettera, la ‛filosofia della scienza' è, in contrapposizione alla ‛teoria della scienza', la riflessione filosofica sul fenomeno della scienza nei suoi rapporti con altre sfere dell'impegno umano, come la religione, l'arte, la riflessione sui mutamenti che la concezione che l'uomo ha di sé subisce sotto l'influsso degli sviluppi scientifici, ivi incluse le riflessioni sull'uomo come soggetto conoscente, come ricercatore e così via. C'è dunque un campo di ricerche (le cosiddette ‛ricerche sui fondamenti') che appartiene in parte alla filosofia analitica e in parte alle discipline le cui teorie vengono ricostruite con l'aiuto dei linguaggi formalizzati. In tali studi viene perfezionata la forma logica di una teoria relativamente definita, al fine di renderne più trasparente la struttura logica, di esplicitarne le implicazioni, o di articolare i concetti chiave che sottostanno a un sistema di teorie (per esempio i concetti di spazio, tempo e causalità sottostanti a certe teorie fisiche). Queste indagini, sebbene adoperino metodi della filosofia analitica, possono costituire le fasi finali di un'iniziativa di ricerca in quelle discipline, le cui teorie possono assumere una forma assiomatizzata (v. Bunge, 1973 e 1977).
La ‛teoria della scienza' o ‛metodologia della ricerca scientifica', come noi preferiremmo chiamarla - ‛teoria' suggerisce infatti l'esistenza di una teoria comprensiva, il che, allo stato attuale, non corrisponde certo alla realtà - studia sia il processo sia il prodotto, sia la ricerca sia i risultati della ricerca. Essa astrae dal resto, dal contesto sociale e politico, dalla psicologia del ricercatore, e così via. Non si tratta di un'astrazione illegittima, giacché la realtà e l'importanza di questi altri aspetti non viene affatto negata; si tratta solo di una legittima e necessaria divisione del lavoro. Non è possibile comprendere il processo di produzione senza prestare seria attenzione ai prodotti e alla loro natura; d'altra parte, se è possibile apprendere molto sulla produzione con lo studio dei prodotti, al fine di raggiungere una più profonda comprensione del processo, è anche necessario studiarlo direttamente. La metodologia cerca quindi di comprendere come le teorie, i metodi, i criteri, ecc. si sviluppino e mutino, e si sforza di valutare criticamente tali sviluppi in base alla loro importanza per il progresso conoscitivo.
L'obiettivo della teoria della scienza o metodologia è perfezionare la nostra conoscenza sulla crescita della conoscenza scientifica. Questa è, ovviamente, una definizione programmatica della teoria della scienza; e a ogni definizione del genere altre se ne potrebbero contrapporre. È perciò necessaria una rassegna di quanto possono offrire altri approcci importanti, e dare infine buone ragioni della nostra preferenza per l'approccio cui si dà talvolta il nome di ‛razionalismo critico' (realista, fallibilista e meliorista). Vedremo come sulla scena contemporanea della teoria della scienza si registri un'estrema varietà di posizioni; l'area di consenso rimasta è piccola, ma preziosa. Il dibattito corrente, come vedremo, è tuttavia strutturato da un piccolo numero di indirizzi dominanti.
2. Che specie di disciplina è la teoria della scienza o metodologia?
Prima di delineare gli approcci significativi nella metodologia contemporanea, è opportuno elucidare il concetto di teoria della scienza o metodologia da noi adoperato. La metodologia o teoria della scienza è considerata come un settore della prasseologia (una disciplina che tratta dei mezzi per raggiungere uno scopo prefissato), cioè come una sorta di ‛tecnologia del progresso conoscitivo'. Una regola metodologica tipica può avere la forma seguente: ‛‛Se' ti trovi in una situazione di ricerca del tipo S (determinare se sia o non sia questo il caso è compito del ricercatore) e il tuo scopo è il progresso conoscitivo, allora è raccomandata la procedura X (per esempio l'uso di certi criteri valutativi riguardo a teorie rivali); infatti, seguendo la regola X, le possibilità di successo (il progresso conoscitivo) sono migliori che seguendo la regola Y, rivale di X'. Una particolare prescrizione metodologica si applica dunque solo a un certo tipo di situazione di ricerca; essa è criticabile perché può essere messa in questione la sua pretesa di utilità.
Abbiamo già sostenuto che la metodologia non è riducibile a una disciplina empirica; affermiamo ora che non è neppure logica applicata (come suggerisce l'empirismo logico). La metodologia non può offrire algoritmi di sorta, giacché la ricerca non è mai mera routine. D'altro canto, la ricerca non è una procedura caotica, che segue il motto ‟qualunque cosa va bene" (come suggerisce Feyerabend). Dal fatto che ogni situazione storica è unica, con i suoi specifici pregiudizi, errori ecc., non segue che le varie situazioni di ricerca non abbiano qualcosa in comune. Si potrebbero paragonare gli sforzi del metodologo a quelli di un consulente finanziario, che può aiutare il cliente a concettualizzare meglio i tipi di situazione e prospettargli gli scenari dei possibili eventi futuri, ma alla fine deve lasciare a lui la difficoltà e il rischio della decisione. C'è perrò un'importante differenza: l'investitore può, se vuole, delegare la decisione; il ricercatore non può farlo, ma deve infine, assumendosene la responsabilità, prendere le decisioni metodologiche necessarie. Egli non può evitare di agire come il metodologo di se stesso, anche se talvolta può apparire un méthodologicien malgré lui. Ciò è dovuto al fatto che egli deve continuamente formulare valutazioni metodologiche e prendere decisioni, come per esempio: questa spiegazione è migliore di quell'altra, quest'ipotesi si è dimostrata più attendibile di quell'altra, questo programma di ricerca sembra essere più promettente di uno rivale, e così via. Anche se potesse operare queste scelte con la sicurezza di un sonnambulo (come sembra suggerire Feyerabend), non per questo si dimostrerebbe privo di regole di valutazione; semplicemente, esse rimarrebbero implicite: non potrebbero quindi essere oggetto di esame critico e sarebbero scarsamente, o per null'affatto, suscettibili di miglioramento.
Abbiamo suggerito sopra che la metodologia è una sorta di tecnologia. Esistono tuttavia certe differenze tra la metodologia e ciò che consideriamo di solito tipico di una tecnologia: 1) tipicamente, in una tecnologia, lo scopo non soltanto è dato dall'esterno, ma può essere formulato senza far uso della tecnologia stessa. Nel caso della metodologia, l'elucidazione dello scopo, l'esplicazione del concetto di progresso conoscitivo, come anche la critica degli ideali di scienza che determinano certi explicata di ‛progresso conoscitivo', possono essere ottenute solo ricorrendo alla metodologia stessa; 2) le più attendibili tra le nostre tecnologie sono quelle basate su leggi scientifiche altamente corroborate. Qual è, nel caso della metodologia, il corrispettivo delle leggi scientifiche? È ciò che pretendiamo di conoscere circa l'apparato conoscitivo umano e la natura generale della realtà empirica. Una parte di questa conoscenza ce la forniscono le scienze empiriche, ma una parte essenziale ci viene dall'epistemologia e dalla metodologia stessa. Ci troviamo qui dinanzi al pericolo di un circolo, giacché, per decidere quali leggi o teorie siano sufficientemente comprovate, noi abbisogniamo di regole di valutazione, che soltanto la metodologia può fornire; 3) una tecnologia basata sulla conoscenza scientifica è uno strumento assai attendibile per conseguire uno scopo pratico specifico. Dal canto suo, la metodologia può tutt'al più ‛facilitare' il progresso conoscitivo, può aiutare a rimuovere ostacoli di varia natura, e cosi via; ma, per conseguire un avanzamento nella scienza, altri fattori sono necessari, oltre al metodo e alla techne: circostanze fortunate e molto altro ancora (come sappiamo dalla storia delle scoperte scientifiche). L'analogia tra metodologia e tecnologia, ad onta di taluni suoi aspetti negativi, sembra tuttavia feconda (v. Radnitzky, Progress..., 1981, pp. 45 ss.; v. Radnitzky, Wertfreiheitsthese..., 1981, 1.5).
3. Progresso conoscitivo, ideale di scienza, raffigurazione descrittiva della scienza
Non possiamo parlare sensatamente di successo o fallimento di una qualsiasi attività se non definiamo il suo scopo. Avere successo nella ricerca significa conseguire un progresso conoscitivo. Progresso significa avvicinarsi allo scopo prefissato. Lo scopo è in questo caso l'obiettivo della scienza: una sempre miglior comprensione della natura e dell'uomo (in quanto parte della natura). Un contributo che vada innanzi sulla strada della chiarificazione della natura soppianta quelli che sono rimasti indietro rispetto a quest'unico e supremo scopo: esso costituisce quindi un progresso conoscitivo. Da ciò argomentiamo che la scienza possiede una storicità diversa da quella dell'arte: è una storicità ‛evoluzionistica'. Newton soppianta Aristotele; Einstein soppianta Newton; Verdi non soppianta Pergolesi né Shakespeare soppianta Omero. Le opere d'arte hanno semplicemente di mira esperienze estetiche differenti; come dice Kuhn (v., 1977, p. 345), ‟a differenza dell'arte, la scienza distrugge il suo passato".
Uno dei principali compiti della metodologia è quello di elucidare l'idea di progresso conoscitivo. Tale compito presenta due aspetti: 1) specificare che cosa si deve intendere con ‛progresso scientifico', cioè ‛esplicarne' il concetto; 2) definire in qual modo sia possibile riconoscere tale progresso, cioè stabilire ‛indicatori' oggettivi per accertare se una sequenza di teorie, metodi, criteri, ecc. costituisca un progresso nel senso esplicato. È imprescindibile distinguere tra concetto e indicatori; se si fa confusione, si cade in quella che si potrebbe chiamare ‛fallacia operazionalistica'.
‛Esplicare' un concetto (l'explicandum) significa proporsi di sostituirlo, ai fini di determinate ricerche, con una sua versione migliorata (l'explicatum). La proposta è sostenuta dall'idea che, in dati contesti di ricerca, l'explicatum costituisce uno strumento concettuale superiore al concetto originario. Un esempio semplice: in biologia il concetto ordinario di ‛pesce' (animale che vive nell'acqua, di forma affusolata, ecc.) è sostituito con un concetto perfezionato, ‛Pesce' (vertebrato, con branchie, ecc.). L'explicatum consente di formulare molte leggi che stabiliscono connessioni tra le proprietà costitutive della definizione e altri caratteri, leggi che non potrebbero essere formulate con l'aiuto dell'explicandum. Un altro esempio è dato dall'esplicazione dell'idea intuitiva di probabilità mediante due concetti: il concetto della frequenza relativa di tipi di eventi, accidenti ecc. e quello di sostegno induttivo, cioè di una relazione logica tra enunciati. Perché un'esplicazione abbia successo o perché un explicatum risulti adeguato, occorre che questo si dimostri più fecondo dell'explicandum. Dovrebbe dimostrare un'esattezza e una precisione maggiori, sufficienti perché risulti utile; d'altra parte, dev'essere abbastenza simile all'explicandum (la sfera di applicazione del primo, in positivo e in negativo, deve coincidere con quella del secondo) da garantire che quella proposta è una versione migliorata del concetto originario, garantire cioè che non abbiamo contrabbandato un concetto senza connessioni con l'explicandum. Nel caso che ci interessa, intendiamo proporre, nel contesto della teoria della scienza, di sostituire l'idea intuitiva di progresso conoscitivo con una sua versione elucidata e migliorata.
L'esplicazione dell'idea di progresso implica un altro compito per la metodologia: l'elucidazione dell'obiettivo, cioè ‛l'articolazione dell'ideale di scienza'. L'ideale di scienza dovrebb'esser capace di fornire alla ricerca dei ‛principî regolativi', e non può farlo a meno che non sia sufficientemente realistico. Un ideale di scienza è quindi basato su certi presupposti riguardo al mondo e all'uomo: 1) l'assunto generale circa la capacità umana di conoscere, cioè ipotesi appartenenti alla nostra immagine dell'uomo; 2) certe ipotesi di raffigurazione del mondo, o assunti circa la natura generale del mondo. Possibili esempi sono l'assunto che le leggi di natura mostrano un alto grado di semplicità (‛la natura raggiunge i suoi scopi nel modo più efficiente'), l'assunto che i segreti della natura - o almeno alcuni di essi - sono suscettibili di essere scoperti serialmente, in un processo aperto, in una ricerca senza fine. Tali ipotesi globali di raffigurazione del mondo e l'assunto tratto dall'immagine dell'uomo ci aiutano a spiegare le ‛condizioni di possibilità' della scienza: con il loro aiuto possiamo spiegare ‛perché' la scienza - la scienza quale noi la conosciamo - ‛sia possibile'. La raffigurazione descrittiva della scienza storicamente data deve naturalmente armonizzarsi con l'ideale di scienza. Di conseguenza, i nostri assunti sulla scienza come fenomeno dato storicamente verrano incorporati nella costruzione dell'ideale di scienza. Poiché l'ideale di scienza, che è il nocciolo di ogni metodologia, poggia su presupposti che sono descrizioni globali della realtà - e in quanto tali fallibili -, non può esservi una metodologia assoluta: ‛ogni metodologia è in linea di principio criticabile'.
Differenti immagini dell'uomo e differenti ipotesi di raffigurazione del mondo forniranno differenti ideali di scienza, i quali, a loro volta, daranno luogo a metodologie differenti. Esiste tuttavia un ‛ideale di scienza intuitivo' che può fornire una base comune, un punto di partenza non controverso. Pressappoco come il pensiero è un dialogo interiore, la ricerca è un dialogo tra i ricercatori e la natura e tra i ricercatori stessi. Ciò che idealmente vogliamo dalla scienza e un esatta rappresentazione/descrizione degli aspetti fondamentali, profondamente interconnessi, della realtà: vogliamo cioè rerum cognoscere causas. Questa base comune può essere espressa da due desiderata, indipendenti l'uno dall'altro: 1) le questioni sollevate devono essere ‛scientificamente importanti' in senso oggettivo; devono cioè essere tali che una risposta corretta costituisca un contributo importante al progresso globale della disciplina interessata, e magari ci aiuti a migliorare la nostra raffigurazione del mondo e la nostra immagine dell'uomo. Perché ciò sia possibile, le risposte devono ‛dirci molto' sul mondo, devono cioè possedere un ricco ‛contenuto' di informazione empirica. Il contenuto di un enunciato è una funzione della sua generalità' e della sua ‛determinatezza'. Se una teoria verte su connessioni ‛profonde' (nel senso ontologico del termine) del mondo, essa possiede una grande generalità. Ma non è vero l'inverso: un enunciato di grande generalità non è necessariamente anche ‛profondo'. Una teoria profonda è una risposta a una questione profonda. Il nostro potrebbe dunque esser chiamato un desideratum di ‛profondità'; 2) le risposte date alle questioni devono essere non solo cogenti e pertinenti, ma anche ‛vere'. Il secondo desideratum concerne pertanto la ‛verità'.
Se si considera la scienza come un sistema di enunciati, tale sistema non può consistere soltanto nella formulazione di problemi ‛profondi' e di teorie di grande generalità e di grande potere esplicativo. Esso deve anche contenere enunciati di livelli diversissimi di generalità e precisione, anche se la massima parte degli enunciati fattuali hanno in genere soprattutto la funzione di materia prima: non vengono, per così dire, incorporati nel corpus in evoluzione della conoscenza scientifica. Il sistema deve inoltre contenere definizioni, derivazioni, e così via; e noi dobbiamo essere in grado di passare da un elemento all'altro e di trarre inferenze. Ecco quindi un altro desideratum, che concerne gli aspetti ‛formali' dell'ideale di scienza: 3) i metodi d'inferenza (selezione dell'informazione) e i metodi di condensazione dell'informazione (assiomatizzazione) devono avere la caratteristica di ‛preservare il valore di verità' (la verità è trasferita dalle premesse alla conclusione, il che significa che anche la falsità è ritrasferita da una conclusione falsificata all'insieme delle premesse). Questo desideratum può essere anche formulato come un desideratum riguardante la forma degli schemi di argomentazione, la forma dei prodotti delle trasformazioni logiche: i prodotti devono avere forma ‛deduttiva'.
Una volta che questa base comune dell'ideale di scienza sia accettata almeno come punto di partenza, e ci si accordi su di essa in quanto riassume il nocciolo del significato di scienza, la metodologia riceve due tipi di compiti: il primo è quello di ‛esplicare' i concetti chiave; il secondo è quello di fornire ‛indicatori', metodi per scoprire se il concetto, nel senso esplicato, sia o non sia applicabile a un caso particolare, concreto. Dai tre desiderata sopra illustrati derivano allora i seguenti compiti principali: 1A) esplicare l'idea di problema ‛scientificamente importante', di problema ‛profondo' (in un senso oggettivo); 1B) fornire metodi obiettivi, anche se fallibili, per accertare se un particolare problema soddisfi o non soddisfi questi criteri, cioè elaborare un meccanismo di selezione per i problemi scientifici; 2A) elucidare l'idea di descrizione precisa/vera, a meno di prendere, per quanto concerne la metodologia, la ‛verità' come una nozione primitiva, lasciando alla filosofia, cui appartiene, il compito di meditare sul problema della verità; 2B) fornire metodi obiettivi, anche se fallibili, per accertare se un enunciato descrittivo sia o non sia vero, cioè elaborare un meccarnsmo di selezione che elimini gli enunciati falsi; 3A e 3B) definire il concetto di deducibilità e fornire metodi con l'aiuto dei quali si possa decidere se una prova addotta sia o non sia una prova. Per quanto riguarda il desideratum formale, i compiti che ne derivano appartengono alla logica, nella sua veste di disciplina ausiliaria - tra le altre - della metodologia.
Siamo ora pronti a esaminare le varie articolazioni che l'idea basilare di ideale di scienza ha ricevuto nelle scuole o stili di pensiero dominanti nella metodologia. Le varie posizioni appariranno radicate in differenti orizzonti filosofici, in differenti assunti circa la capacità umana di conoscere, che danno luogo a differenti indirizzi di pensiero quanto all'elaborazione e all'impostazione dei problemi sollevati dai desiderata sopra illustrati. Associata alle varie antropologie e ipotesi di raffigurazione del mondo troveremo una raffigurazione descrittiva della scienza: tale raffigurazione deve infatti accordarsi con gli assunti riguardanti l'immagine dell'uomo.
4. La ‛concezione corrente'; gloria e miseria dell'empirismo logico
Nell'odierna teoria della scienza, si riscontrano due scuole di pensiero contrapposte, le quali si contrappongono poi entrambe al razionalismo critico di Popper. La discussione corrente nella teoria della scienza può essere vista come una serie di dibattiti tra fautori dell'uno o dell'altro indirizzo. L'una delle due scuole di pensiero contrapposte si colloca nel solco del razionalismo classico, della filosofia giustificazionistica (Begründungsphilosophie); l'altra appartiene allo stile scettico del filosofare: è relativistica, storicistica. Nella letteratura si parla di queste scuole come della ‛concezione corrente' (v. Suppe, 1974) contrapposta alla ‛nuova filosofia della scienza'; si parla anche della scuola ‛empiristico-analitica' contrapposta alla scuola ‛sociologico-storicistica' e, recentemente, della ‛tradizione astratta', contrapposta alla ‛tradizione storica' (v. Feyerabend, 1981, pp. 35-37). Storicamente, la ‛concezione corrente', l'empirismo logico, si è sviluppata dal Circolo di Vienna. Il suo critico piu importante è stato K. Popper, sin dalla sua classica Logik der Forschung (1935). La ‛nuova filosofia della scienza', che critica gli altri due indirizzi, ha acquistato slancio recentemente. Cominceremo con il delineare la posizione dell'empirismo logico, insieme con la critica di Popper; esporremo poi la posizione relativistica e termineremo con un profilo della teoria della scienza di Popper. Poiché sia la ‛concezione corrente' sia le ‛nuove filosofie della scienza' hanno la loro fonte d'ispirazione nell'opera di Wittgenstein, le discussioni abituali possono essere considerate come uno scambio tra le idee seminali di due grandi pensatori: Wittgenstein e Popper (v. Radnitzky, Analyticphilosophy..., 1981).
a) La fonte d'ispirazione dell'empirismo logico
La fonte d'ispirazione di questa scuola è il Tractatus di Wittgenstein (1922). Il Tractatus può essere considerato come un grandioso esperimento di pensiero, il quale ci dice che cosa sarebbe la teoria del linguaggio e, di conseguenza, la teoria della scienza naturale ‛se' certi assunti fossero soddisfatti. Se un linguaggio formalizzato, un ‛linguaggio ideale' (ideal language: IL) potesse essere costruito in modo tale che le sue proposizioni ‛atomiche' raffigurassero stati di cose semplici; e se, inoltre, tali proposizioni atomiche costituissero una ‛base' epistemologicamente ‛certa', e noi fossimo in grado di scoprire che cosa queste proposizioni-‛base' sono, allora tutti gli asserti rilevanti potrebbero essere ridotti ad asserti atomici. Se le cose stessero così, tutti gli enunciati della scienza empirica potrebbero essere trascritti in enunciati dell'IL. Ciò significa che tutti gli enunciati non estensionali potrebbero essere trascritti in enunciati estensionali: l'IL ammette soltanto enunciati estensionali. (Un enunciato complesso non estensionale, o intensionale, è un enunciato il cui valore di verità dipende dai significati, mentre il valore di verità di un enunciato estensionale è semplicemente una funzione del valore di verità dei suoi enunciati semplici; è cioè indipendente dal significato). Se questi assunti fossero soddisfatti, allora il relativo ideale di scienza diventerebbe realistico e potrebbe quindi funzionare come principio regolativo; la teoria della scienza avrebbe allora un unico compito: quello di articolare il più esattamente possibile i vari aspetti di questo ideale. ‛Se' questi assunti reggessero nel nostro mondo, l'ideale sarebbe realistico; la scienza consisterebbe allora, essenzialmente, nella continua espansione - attraverso combinazioni vero-funzionali o attraverso operazioni logiche in accordo con le regole logico-induttive - dello stock di proposizioni-‛base' certe.
b) Il programma dell'empirismo logico
La teoria della scienza elaborata dall'empirismo logico può essere considerata come il più ambizioso tentativo di realizzare il programma della scuola (v. Radnitzky, 1968). Il suo ideale di scienza, l'Ideal Unified Science è un sistema unificato attraverso il ‛linguaggio ideale', l'IL, il quale comprende ‛due strati': un linguaggio teorico che contiene ‛termini teorici', e un linguaggio empirico, che consiste in enunciati o predicati osservativi. I due strati sono collegati da regole di corrispondenza. Nella tradizione della versione empiristica del razionalismo classico - tradizione cui l'empirismo logico appartiene - è considerata razionale l'accettazione di tutti, e soli, gli asserti che sono stati verificati, o, nella versione successivamente liberalizzata, degli asserti accreditati di un grado sufficiente di probabilità.
Il compito globale di articolare quest'ideale di scienza implica svariati sottocompiti. Esso deve fornire explicata adeguati dei concetti chiave della teoria della scienza. Le espressioni designanti gli explicata devono essere introdotte da definizioni formulate, almeno in parte, nell'IL. Tra i concetti da esplicare figurano il concetto di ‛significanza empirica', cioè il concetto di enunciato ‛scientifico' (problema della demarcazione tra scienza e non scienza) e il concetto di ‛teoria scientifica'. La teoria scientifica è ricostruita come un sistema di postulati fornito di ‛sufficiente' interpretazione empirica, cioè come un calcolo matematico ‛sufficientemente' congiunto con l'esperienza attraverso regole di corrispondenza che collegano gli enunciati contenenti ‛termini teorici' con gli enunciati osservativi. Originariamente, gli empiristi logici avevano optato per il realismo, cioè per la concezione secondo la quale le teorie scientifiche descrivono, o almeno tentano di descrivere, aspetti della realtà empirica. Senonché, quando le teorie, sul modello dell'Ideal Unified Science, sono ricostruite come calcoli interpretati, la spinta verso una concezione strumentalistica diviene pressoché irresistibile; e, nelle fasi più tarde dell'empirismo logico, questo passo è stato effettivamente compiuto.
Un altro compito è quello di esplicare le nozioni di spiegazione, predizione e conferma mediante l'articolazione della forma logica dello schema corrispondente nell'Ideal Unified Science (per tutte e tre le nozioni non c'è, in linea di principio, che un unico schema: l'argomento deduttivo). Gli studi di C. Hempel sulla spiegazione, nei quali uno schema esplicativo viene ricostruito come un argomento deduttivo, le cui premesse contengono leggi generali che collegano asserti sulle condizioni iniziali con la descrizione del fatto da spiegare (l'explanandum), sono diventati classici (v. Hempel, 1965). In una versione successiva, il famoso modello nomologico-inferenziale è stato liberalizzato o integrato mediante un modello statistico-induttivo di spiegazione. Un altro importante sottocompito consiste nella esplicazione dell'idea di sostegno probatorio nei termini di una teoria della conferma.
Mai in passato una prospettiva nella teoria della scienza era stata articolata con tanta esattezza e chiarezza. La ‛concezione corrente' ha dominato i dipartimenti di filosofia e storia della scienza nel mondo anglosassone. Ciononostante, almeno a partire dai primi anni sessanta, la cosiddetta ‛nuova filosofia della scienza' ha costantemente guadagnato terreno. La ‛concezione corrente' ha influenzato le scienze sociali, specialmente la psicologia; ma in realtà i teorici che si mostravano desiderosi di avvicinarsi all'ideale di scienza delineato dall'empirismo logico erano mossi dall'erronea credenza che esso costituisse una raffigurazione realistica delle scienze naturali che - dati i loro successi - volevano imitare.
c) L'ideale di scienza e l'immagine dell'uomo sottostanti al programma dell'empirismo logico
Che fine fa l'ideale di scienza intuitivo, non controverso, quando si tenta di usarlo come punto di partenza per un programma interno al sistema di riferimento del pensiero giustificazionistico-positivistico? Il desideratum 1) (le teorie devono avere un ricco contenuto ed essere profonde) e il desideratum 3) (procedure di trasformazione unicamente deduttive) sono ignorati o disattesi. Ci si concentra invece sul desideratum 2) (la scienza deve consistere di asserti veri). Il punto di partenza è l'interrogativo: ‛quando è razionale l'‛accettazione' di un asserto descrittivo?'. La formulazione dell'interrogativo è in se stessa una conseguenza dell'approccio giustificazionistico, e lo stesso può dirsi della risposta ‛quando e solo quando l'asserto è vero (desideratum 2) e, inoltre, se ne è accertata la verità'. A che ci servirebbero, infatti, asserti veri se non fossimo in grado di riconoscerli, se non potessimo scoprire quali asserti sono veri, se non possedessimo un metodo infallibile per riconoscere un asserto vero? Ciò significa che sull'ideale di scienza viene a gravare un quarto desideratum, cioè che i metodi per l'accertamento del valore di verità di un asserto descrittivo particolare forniscano una garanzia di verità, siano cioè infallibili. A questo quarto desideratum si dà un posto centrale. Una tale assunzione di priorità è la conseguenza della concezione positivistico-giustificazionistica della conoscenza, secondo la quale soltanto la conoscenza sicura, certa è conoscenza autentica.
Poiché l'ideale di scienza dev'essere sufficientemente realistico per poter fornire principi regolativi per la ricerca, si deve presumere possibile che la scienza si avvicini a tale ideale per tappe successive. Viene quindi delineata una ‛raffigurazione della scienza' in quanto fenomeno storico, secondo la quale il progresso scientifico è concepito come un progresso conoscitivo lineare e cumulativo. Tutto ciò appare sensato solo se si crede che i vari componenti, per così dire i mattoni della casa in costruzione, siano sicuri, vale a dire che i ‛pezzi' di conoscenza siano conoscenza ‛certa'. Il progresso conoscitivo è quindi visto come un'avanzata verso uno stadio ‛finale'. Se si crede che una siffatta raffigurazione della scienza sia corretta, si porrà la domanda: ‛perché la scienza è così attendibile?' (domanda che presuppone ch'essa sia ‛di fatto' attendibile); e si risponderà: ‛perché ci dice la verità sulla realtà', o, in forma un poco attenuata, ‛perché la scienza può avvicinarsi (anche se solo asintoticamente) alla conoscenza certa'. E questa una concezione finalistica della scienza e del progresso conoscitivo. Essa vede l'avanzamento della scienza come analogo all'esplorazione della superficie terrestre quale la si considerava durante il Rinascimento: come un insieme di risposte sicure a un numero ‛finito' di problemi. La popolarità di questa concezione, che ha ancor oggi molti fautori, può aiutare a spiegare come mai l'approccio positivistico-giustificazionistico sia diventato la ‛concezione corrente'. L'idea guida del pensiero giustificazionistico in teoria della scienza è che la scienza è il paradigma della conoscenza ‛certa'. Soggiacente a questa raffigurazione della scienza e a questo ideale di scienza c'è dunque una concezione della capacità umana di conoscere, secondo la quale l'uomo è capace di conoscenza certa circa la realtà empirica.
d) Evoluzione del problema chiave ‛come può la scienza pretendere di essere (assolutamente) giustificata?'
Esaminiamo ora l'evoluzione del problema chiave dell'empirismo logico: il problema della giustificazione. Tale evoluzione dà origine a ulteriori problemi, formando un ‛albero' radicato negli assunti summenzionati, associati a un ideale di scienza in cui la massima priorità è assegnata al desideratum che i metodi per l'accertamento del valore di verità di un asserto particolare siano infallibili. Come punto di partenza, può servire il problema di trovare un meccanismo di selezione per selezionare, tra le soluzioni offerte dagli scienziati come risposte ai problemi scientifici, quelle che devono essere accettate (P0) Nello spirito del razionalismo classico, esso può essere così formulato: ‛quando è razionale l'accettazione di un enunciato scientifico T (ipotesi o teoria, che sia un asserto generale o singolare)?' (P1). Anche la risposta discende dalla medesima strategia di base: ‛quando e solo quando T è vero e ‛si sa' che è vero' (sono soddisfatti i desiderata 2) e 4)). Da questa risposta discende l'ulteriore problema: ‛come possiamo stabilire il valore di verità di un enunciato particolare?'. In altre parole, se esso è vero, come si può sapere che è vero, come si può provarlo, giustificarlo in modo assoluto? (P2). Nelle scienze nomologiche, il tipo più importante di enunciati è costituito dagli enunciati ‛generali'. L'idea guida della procedura della giustificazione definitiva di un asserto è che è possibile provare qualcosa partendo da premesse certe. Dal problema P2 scaturiscono quindi due altri problemi: come possiamo stabilire la verità di un enunciato generale, fondandola su enunciati particolari, su enunciati-‛base'?' (problema logico, P2L); il secondo è il cosiddetto problema della base empirica (P2E): ‛come possiamo stabilire la verità degli enunciati-‛base'?'
L'idea guida, per quanto riguarda il concetto di asserto-base, è che gli asserti osservativi semplici (per esempio: ‛questa bacchetta è lunga 1 m') esibiscono un confronto tra il contenuto dell'asserto e la realtà. I positivisti pensavano che essi potessero e dovessero essere verificati dall'esperienza immediata, ma questa convinzione s'infranse contro la natura privata di queste esperienze. Dato che nella ‛concezione corrente' il problema della base empirica è stato messo tra parentesi, noi ne posporremo la discussione.
L'empirismo logico si è invece concentrato sul ‛problema logico': ‛quando è razionale l'accettazione di un enunciato generale sulla base di enunciati osservativi (enunciati-‛base'), la cui verità è presupposta?'; la risposta è stata: ‛quando questi enunciati verificano l'enunciato generale'. E quando si dà il caso di una tale verificazione? Hume aveva risposto: mai; è logicamente impossibile derivare un enuncinto universale da un insieme coerente, finito di enunciati singolari, giacché il contenuto di informazione empirica di un enunciato genuinamente universale trascende infinitamente il contenuto necessariamente finito di un gruppo coerente, finito di enunciati singolari. Per questa ragione al programma verificazionista fu sostituito quello, attenuato, dell'induttivismo probabilistico: un enunciato generale dev essere accettato se la sua ‛probabilità logica', sulla base degli enunciati osservativi, è ‛sufficientemente' alta (pertanto, se qualcuno pretende oggi che una teoria sia stata ‛verificata', o intende in realtà che è stata ‛probabilificata' in considerevole misura, ovvero sottoscrive un punto di vista metodologico abbandonato da lungo tempo). Dal programma dell'induttivismo probabilistico discendono, di nuovo, due problemi: quello di esplicare l'idea dei gradi di conferma, o, almeno, il concetto comparativo di una teoria T′ che abbia un sostegno induttivo (probabilità logica, grado di conferma) maggiore di quello di un'altra teoria T, e quello di fornire metodi per accertare che un dato grado di conferma è di fatto conseguito in un certo caso particolare. La procedura adottata consiste in primo luogo nel dedurre, con l'aiuto degli enunciati generali e degli asserti sulle condizioni iniziali, gli asserti osservativi, e quindi nel controllare se questi ultimi siano veri. Se sono confermati (tanto da poterli assumere come veri), allora ciascuno di essi è supposto recare un contributo alla verificazione probabilistica dell'enunciato generale. Sorge cosi il problema di fornire una procedura razionale per l'assegnazione di un punteggio positivo, in termini di sostegno induttivo, per enunciati osservativi dedotti e assunti come veri (P3). A parte il fatto che la soluzione secondo la quale T dovrebbe ricevere un punteggio positivo, in termini di sostegno induttivo, per ‛tutti' i fatti da essa derivabili, conduce a taluni paradossi, la procedura di ritrasferire la verità dagli enunciati dedotti alle premesse è un'inferenza amplificativa che, essendo una ‛mossa' non preservante il valore di verità, è secondo la logica standard priva di validità.
Sorge di conseguenza un problema tecnico, quello di costruire una logica induttiva che codifichi inferenze siffatte (P4). Se tale problema è di competenza della matematica, l'‛applicazione' di una logica induttiva solleva però un problema filosofico. Un calcolo matematico può essere applicato a un sistema reale soltanto se il sistema astratto e il sistema reale (di cui il primo è un modello) presentano una sufficiente similarità sotto aspetti rilevanti. Facciamo un esempio semplice: se l'operazione di addizione in aritmetica è interpretata come un ‛mettere fisicamente insieme', la formula ‛7+5=12' è vera se applicata a perle, ma falsa se applicata a gocce di mercurio. Analogamente, l'inferenza amplificativa non presenta problemi se applicata a un dominio finito (la cosiddetta induzione per enumerazione); se invece è applicata a un dominio infinito, può essere legittimata soltanto da una metaregola: il cosiddetto principio d'induzione, il quale afferma, per dirla alla buona, che la natura è uniforme e che le invarianze di oggi reggeranno anche domani. Si tratta quindi di un assunto globale circa la realtà, di un assunto metafisico. Ne discende il problema: ‛come giustificare il principio d'induzione?' (P5). Come già Hume, Popper (v., 1935) ha sostenuto l'impossibilità di giustificare questo principio. Poiché esso dice qualcosa circa la realtà (è sintetico), il suo valore di verità può essere stabilito o con metodi empirici o con metodi non empirici (aprioristici). Ora, l'opzione per i metodi empirici conduce a un regresso all'infinito o a un circolo vizioso, mentre l'opzione per i metodi aprioristici è incompatibile con il programma dell'empirismo logico e, anche a parte ciò, non sembra molto promettente, giacché scarse sono le speranze di giustificare un enunciato sintetico a priori che possa assolvere l'ufficio di ‛principio d'induzione' (v., per esempio, Radnitzky, 1979, pp. 221 ss.).
Possiamo ora tirare le somme. Il dare la massima priorità al desideratum 4) - la verità degli asserti deve essere accertata (occorrono quindi metodi infallibili per l'accertamento del valore di verità di un asserto particolare) - ha comportato i seguenti costi: 1) il desideratum 1) - la scienza deve rispondere a questioni profonde e perciò ‛dire molto' - è stato rifiutato perché cozza con il desideratum che la conoscenza dev'essere certa o almeno probabile nel maggior grado possibile: un asserto, infatti, più dice e maggiore è il rischio che si assume, e quindi maggiore è la probabilità che sia falso. L'approccio positivistico conduce così all'ostilità verso la metafisica; 2) il desideratum 2) - la scienza deve consistere di asserti veri - è stato annacquato nel desideratum della ‛probabilità logica'; 3) ammettendo inferenze amplificative, si è dovuto abbandonare il desideratum 3) (la forma deduttiva). A tali costi o perdite si aggiunga la costatazione che il cosiddetto problema dell'induzione è insolubile (certamente lo è all'interno dell'impostazione empiristica). Il programma è dunque fallito, e il fallimento dovrebbe condurre alla revisione degli assunti soggiacenti: la raffigurazione della scienza e l'assunto circa la capacità umana di conoscere. È questo un esempio impressionante del fatto che gli assunti globali al livello dell'immagine dell'uomo non possono andare immuni da critica.
5. La ‛nuova filosofia della scienza'
a) Reazioni al fallimento dell'approccio positivistico-giustificazionistico
Per chi continui a interessarsi al problema metodologico-epistemologico due sono le opzioni possibili: o mantenere il giudizio di valore ‛solo la conoscenza certa è conoscenza autentica', che si esprime nel desideratum 4) dell'ideale di scienza (la verità degli asserti deve essere accertata; occorrono quindi metodi infallibili per l'accertamento del valore di verità di un enunciato particolare); ovvero abbandonarlo. Nell'un caso e nell'altro gli assunti circa la capacità umana di conoscere devono essere scelti in modo tale da accordarsi con l'ideale di conoscenza. Disponiamo a questo riguardo di tre approcci principali.
A. Continuare la ricerca di un ‛punto archimedeo' non dogmatico. Se, ad onta di tutto, sono mantenuti sia il desideratum 4) - il contrassegno dell'ideale giustificazionistico di scienza - sia l'assunto ultraottimistico che l'uomo è capace di conseguire la certezza nella sua conoscenza della realtà empirica, ci si troverà invischiati in una situazione problematica, della quale il problema della giustificazione del principio d'induzione è solo un caso speciale. Il programma induttivistico si è infranto contro una variante dell'aporia generale della filosofia giustificazionistica. Se, in nome di un minimo di razionalità, rifiutiamo le credenze cieche, è ragionevole richiedere che le ragioni addotte per un asserto siano ‛buone ragioni', sebbene rimangano in linea di principio criticabili e quindi rivedibili. Il giustificazionista va però oltre, esigendo che le ragioni addotte siano definitive, esige cioè la certezza (giustificazione ultima, spiegazione ultima, definizioni essenzialistiche). Secondo il concetto di razionalità proprio del razionalismo classico, razionale è colui che accetta esclusivamente gli asserti certi. Ma come possiamo raggiungere la certezza? Noi stabiliamo la verità di un enunciato particolare provandolo; pertanto, ‛tutti' gli asserti, per essere accettati, devono essere ‛provati'. Quest'esigenza dà origine alla prima parte di un dilemma che a sua volta ne genera altri: ‛se provi una proposizione per mezzo di un'altra, o continui all'infinito su questa strada oppure ti arresti'. Poiché sia il regresso all'infinito sia il circolo vizioso devono esser rifiutati per ragioni logiche, l'esigenza stessa, per evitare appunto il dilemma, deve cadere. Così tutti gli esempi eminenti di dottrine giustificazioniste della storia della filosofia sono stati forme di giustificazionismo ‛relativo' e non assoluto. Donde il secondo dilemma: ‛o arresti arbitrariamente il processo di giustificazione, oppure trovi proposizioni epistemologicamente così privilegiate da poter fornire un ‛punto archimedeo''. Senonché, come posso esser certo di aver trovato un punto archimedeo ? Per il giustificazionista - cioè per chi sostiene che soltanto la conoscenza certa è conoscenza autentica - due sono le opzioni possibili: 1) ammettere che il ‛punto archimedeo' non può per ragioni di principio esser conosciuto e che quindi l'unica alternativa al regresso all'infinito (o al circolo) è una decisione ultima. È questa la posizione del fideismo e del soggettivismo confesso, che controbatte ogni critica con un argomento ‛tu quoque'; 2) affermare che l'arresto del processo di giustificazione in un qualche punto non è necessariamente una ricaduta nel dogmatismo, e che vi sono mezzi diversi dalla prova per giustificare una proposizione. Stando così le cose, il problema diventa allora come mostrare che l'arresto ‛in quel dato punto' non sia una ricaduta nel dogmatismo. La ricerca di certezza è diventata la ricerca di un punto di arresto non dogmatico, di un effettivo ‛punto archimedeo'. Lo stimolo intellettuale che alimenta tale ricerca sembra essere dato dal fatto che, secondo il giustificazionista, ci troviamo dinanzi al dilemma: ‛o un genuino ‛punto archimedeo' o l'arbitrio'; ‛o esistono metodi per l'accertamento del valore di verità di un enunciato particolare o il concetto stesso di verità diventa inadoperabile'. La storia della filosofia consiste in gran parte nella ricerca di un ‛punto archimedeo'.
Sono stati avanzati parecchi candidati per l'ufficio di punto archimedeo non dogmatico: 1) la versione intellettualistica del razionalismo classico ha proposto il criterio ‛intuizione e deduzione', che si è rivelato troppo ampio; 2) la versione empirista ha proposto il criterio ‛osservazione e induzione', che si è rivelato troppo angusto e ha condotto allo pseudoproblema dello status delle entità teoriche; 3) Kant tentò una sintesi: la certezza di una conoscenza generale certa è conseguibile in quanto una conoscenza siffatta non riguarda la realtà, ma le forme della nostra esperienza della realtà. Senonché, a parte il fatto che almeno i ‛suoi' esempi di verità sintetiche a priori non hanno retto, il prezzo da pagare per il cosiddetto idealismo trascendentale è la perdita del realismo e quindi la perdita dell'idea di una realtà intelligibile; 4) nel solco kantiano, la cosiddetta ‛pragmatica trascendentale del linguaggio' sostiene di aver trovato la certezza nelle proposizioni che asseriscono le condizioni di possibilità del linguaggio. Il punto di partenza fornito da queste proposizioni è però di gran lunga troppo angusto per consentirci di fondare enunciati descrittivi o normativi, e, inoltre, trattandosi di descrizioni riguardanti il linguaggio e la comunicazione - cioè caratteristiche generali dell'uomo -, queste proposizioni non possono in linea di principio pretendere un immunità dalla critica. Altri candidati ancora sono l'intuizione fenomenologica delle essenze, e così via. Tutti sono stati sottoposti a critiche severe. La nostra tesi è che il rifiuto del giustificazionismo non equivale allo scetticismo.
Una variante particolare, che si colloca in parte all'interno e in parte all'esterno dell'approccio giustificazionistico (all'esterno in quanto abbandona il problema epistemologico) è l'approccio che si concentra sui due problemi tecnici sopra menzionati: il problema di assegnare un punteggio in termini di sostegno induttivo (P3) e il problema della costruzione di una logica induttiva (P4). Questo approccio fa rotta verso la teoria della conferma, passando nel campo della matematica pura. Invescato nelle complicazioni della teoria della probabilità, esso produce criteri applicabili a ipotesi assurdamente artificiose, che non saranno mai di alcun interesse per gli scienziati empirici. La scienza, inoltre, non ha bisogno di misurazioni esatte dei meriti relativi di teorie rivali.
B. La ritirata nello scetticismo. Se, sotto l'impressione del fallimento del programma giustificazionistico, l'immagine ultraottimistica della capacità umana di conoscere viene abbandonata, ma vengono invece mantenuti l'ideale di conoscenza secondo cui solo la conoscenza certa è conoscenza autentica e l'ideale di scienza che ne deriva e che assegna la massima priorità al desideratum 4) (la verità degli asserti scientifici deve essere accertata), si verifica allora un brusco capovolgimento dell'immagine dell'uomo: si afferma l'assunto ultrapessimistico che l'uomo non è capace di alcuna conoscenza autentica. Il giustificazionismo dogmatico si ribalta così nello scetticismo: non solo è impossibile giustificare una teoria, ma è anche impossibile una preferenza teorica razionale. Le teorie diventano incommensurabili e, infine, viene negata persino la possibilità di una metodologia. Non funzionando l'approccio giustificazionistico, la conoscenza autentica della realtà empirica è irraggiungibile: l'oggettività nella scienza è nient'altro che una chimera. In tal modo, l'ideale giustificazionistico di scienza permane come una potente corrente sotterranea nella posizione scettica, della quale può anzi essere considerato una precondizione.
C. Dissoluzione del dilemma ‛punto archimedeo non dogmatico o arbitrario': la teoria fallibilistico-melioristica della scienza. Se l'identificazione giustificazionista della conoscenza autentica con la conoscenza certa viene abbandonata (e viene quindi abbandonato anche l'assunto ultraottimistico circa la capacità umana di conoscere), il mutamento nell'ideale di conoscenza conduce allora a un corrispondente mutamento nell'ideale di scienza: il desideratum 4) viene abbandonato. Quest'abbandono discende dal riconoscimento che, a causa di un'esigenza in ogni caso non soddisfacibile, si deve rinunciare alla possibilità di soddisfare le altre tre - ragionevoli - esigenze dell'ideale intuitivo di scienza. Ciò comporta, come nel caso della posizione scettica, la rinuncia all'assunto ultraottimistico; in questo caso, però, venendo abbandonata anche l'esigenza eccessiva della conoscenza certa, non c'è alcuna tentazione di ribaltare l'assunto ultraottimistico nel suo opposto. La via è aperta per una valutazione realistica delle capacità umane di conoscenza. Sebbene non si possa, mancando metodi infallibili per l'accertamento del valore di verità di un asserto particolare, raggiungere una conoscenza certa circa la realtà empirica, il progresso conoscitivo - ad onta del fallibilismo - rimane tuttavia possibile. Che le cose stiano così può vedersi dal fatto che la scienza ha fatto e continua a fare progressi. Noi apprendiamo dai nostri errori. La critica non è più al servizio della necessità di stabilire verità, ma al servizio del controllo delle soluzioni che si propongono dei problemi. Il processo della critica, il processo di revisione e perfezionamento delle nostre teorie, dei nostri metodi, criteri ecc. ‛non ha termine'. Ciò non conduce però ad alcun regresso all'infinito, giacché nessun tentativo viene fatto per giustificare assolutamente una qualsiasi proposizione, un qualsiasi punto di vista o assunto di raffigurazione del mondo. Ogni elemento rimane in linea di principio criticabile, il che non toglie che vi possano essere buone ragioni per preferire una soluzione d'un problema a una soluzione rivale.
Nel seguito di questo capitolo procederemo a un'esposizione, e a una critica, dell'approccio scettico, la ‛nuova filosofia della scienza', per concludere, nel capitolo 6, con l'esposizione della metodologia di Karl Popper, la teoria della scienza improntata al razionalismo critico.
b) La filosofia del secondo Wittgenstein come fonte d'ispirazione della ‛nuova filosofia della scienza'
Sebbene Wittgenstein non si sia personalmente occupato di teoria della scienza, l'influenza del suo pensiero su questa disciplina può difficilmente essere sopravvalutata. Ci sembra quindi opportuno illustrare - ciò che di rado, o mai, è stato fatto, ad onta della sua importanza essenziale per la comprensione dell'odierna teoria della scienza - il passaggio avvenuto, nell'evoluzione personale di Wittgenstein, da uno stile di pensiero giustificazionistico a uno stile di pensiero relativistico. Che questo passaggio sia avvenuto rimane vero anche considerando il Tractatus semplicemente come un esperimento di pensiero, giacché Wittgenstein riteneva che, se la ‛sua' impostazione non funzionava, nessun'altra impostazione del genere poteva funzionare. Egli divenne così un critico spietato della sua filosofia precedente, così come i suoi seguaci in metodologia sono divenuti critici spietati del positivismo logico. Quali sono i momenti principali di questo passaggio?
A. Il mutamento nella concezione del linguaggio. Il Wittgenstein del Tractatus concepisce il linguaggio idealizzato (formalizzato) come una raffigurazione logica, che ‛raffigura' forme e strutture di fatti e oggetti semplici mediante forme e strutture di ‛nomi'. Il secondo Wittgenstein concepisce il linguaggio come un complesso di ‛attività umane' integrate con ‛altre attività umane' attraverso innumeri tipi diversi di ‛usi' delle parole. L'atomismo del Tractatus è ripudiato, le proposizioni atomiche (Tractatus, 4.21) sono sostituite dai ‟nostri chiari e semplici giochi linguistici" (Ricerche filosofiche, I, 130); le rappresentazioni o raffigurazioni (Tractatus, 2; 1-2.2) sono sostituite dagli ‟strumenti" e dai ‟concetti" (Ricerche filosofiche, I, 569-570), dalle ‟descrizioni" (ibid., 291) ecc.; i nomi e gli oggetti da nominare (Tractatus, 3.22-3.221) sono sostituiti dagli ‟usi" (Ricerche filosofiche, I, 30, 43). L'accento si sposta dai fatti alle azioni: i giochi linguistici sono fondamentalmente schemi di attività dotate di significato. Il significato precede il fatto.
B. Nell'immagine dell'uomo, l'accento si sposta dall'uomo come essere ‛conoscente' all'uomo come essere che si muove in un mondo di ‛relazioni di significato'. Il dato primario, per l'uomo, non è più il conoscere, ma lo scoprire che i fenomeni sono dotati di significato. Situazioni di vita dotate di significato hanno lo status di a priori pratici, in quanto forniscono il contesto di presupposti entro il quale la scienza, come ogni altra attività, esiste. La scienza non ha uno status privilegiato (questa tesi è stata vigorosamente sostenuta da Feyerabend).
C. Dall'unica logica ‛trascendentale' si passa alla molteplicità di giochi linguistici incommensurabili. Quello di ‛gioco linguistico' e un concetto chiave nella filosofia del secondo Wittgenstein. La sua funzione primaria non è quella di fornire un modo di vedere il mondo, come si è spesso asserito; per Wittgenstein, un gioco linguistico è anzitutto e fondamentalmente un modo di agire: ‟[...] è il nostro ‛agire' che sta a fondamento del gioco linguistico" (v. Wittgenstein, 1969, 204). La ricerca della certezza viene abbandonata; tuttavia nei nostri giochi linguistici noi otteniamo una sorta di sicurezza (Geborgenheit), sebbene a un alto prezzo: siamo prigionieri di un sistema di riferimento intellettuale e, nel migliore dei casi, possiamo fare un salto irrazionale - affine a una ‛conversione' - da un sistema di riferimento all'altro. Questa tesi - chiamata appropriatamente da Popper ‟il mito del sistema di riferimento" - viene resa plausibile concependo i giochi linguistici, ai quali partecipiamo e non possiamo non partecipare, come qualcosa di ineludibile: ‟ciò che si deve accettare, il dato, sono - potremmo dire - ‛forme di vita'" (Ricerche filosofiche, II, 295). E le forme di vita sono fondamentalmente schemi di attività dotate di significato (il concetto di forme di vita ha ispirato il concetto di tradizione di ricerca e di scienza normale governata da paradigmi nella teoria della scienza elaborata dal Kuhn e dal Feyerabend). Una forma di vita è semplicemente qualcosa che ‛facciamo', che non ha altra giustificazione oltre se stessa; e non ha bisogno di alcuna giustificazione perché le forme di vita definiscono ciò che ha senso fare, né ci sono altri modi di aver senso, in base ai quali si possano avanzare dubbi o rivendicazioni. Non esistono criteri di valutazione che siano sovraordinati alle forme di vita. Vi sono nondimeno cose che non possono essere messe in dubbio, le ‛certezze ordinarie', le quali, di conseguenza, nemmeno possono essere conosciute. Su questo punto, lo scettico che nega la possibilità di una valutazione comparativa delle forme di vita è nel giusto; il suo difetto sta nell'assolutizzare. Possiamo dire, in definitiva, che la ricerca della certezza è stata sostituita dal ‟mito del sistema di riferimento".
D. Che cosa discende da questi assunti per quanto riguarda il compito della filosofia? Nel Tractatus, Wittgenstein vedeva la filosofia come una sorta di ‛ricostruzione' operata attraverso la rappresentazione dei fatti possibili mediante configurazioni di segni con l'aiuto del linguaggio idealizzato. Ora ravvisa invece il suo compito nel produrre un ‛riordinamento' (Ricerche filosofiche, I, 92), che ci metta in grado di ‟vedere chiaramente l'uso delle nostre parole" (ibid., 122). La filosofia può soltanto descrivere. Non si tratta però qui di ‛una' descrizione ‛corretta', ma di ‛più' descrizioni dirette a rimuovere certe confusioni, a rimuovere l'incantamento in cui linguaggi imperfetti imprigionano la nostra intelligenza. La realtà è collocata nella ‛non' esprimibile esperienza del momento presente, cosicché la filosofia, diventa, per così dire, una maieutica del silenzio: ‟La vera scoperta è quella che mi rende capace di smettere di filosofare quando voglio. - Quella che mette a riposo la filosofia..." (Ricerche filosofiche, I, 133). Insomma, un gioco linguistico non può giudicare un altro gioco linguistico; e sebbene i sistemi di riferimento non siano statici ma mutino, la filosofia non deve intervenire in questo mutamento e deve infine ‛superare' se stessa. Due interrogativi centrali rimangono senza risposta: se c'è mutamento, in che modo può essere valutato? Perché si fa divieto alla filosofia di svolgere un qualsiasi ruolo nel prodursi dei mutamenti?
In metodologia, i seguaci del secondo Wittgenstein hanno deliberatamente abbandonato il problema della preferenza razionale, proclamando che la teoria della scienza può soltanto descrivere, e infine Feyerabend è giunto alla conclusione che la metodologia come disciplina è impossibile.
c) Le conseguenze della filosofia del secondo Wittgenstein sulla teoria della scienza; esposizione e critica dell'approccio relativistico e strumentalistico in metodologia
Traendo ispirazione dal secondo Wittgenstein, è sorta una scuola di metodologia che sottopone a critica sia l'empirismo logico (come già lo stesso Wittgenstein aveva criticato la sua filosofia precedente) sia la metodologia popperiana. I maggiori protagonisti della ‛nuova filosofia della scienza' - N. R. Hanson, St. Toulmin, Th. S. Kuhn e P. K. Feyerabend - sono giunti, indipendentemente l'uno dall'altro, a risultati alquanto simili. La svolta si verificò sotto l'influsso di The structure of scientific revolutions (1962) di Kuhn, la cui influenza può difficilmente essere sopravvalutata (v., per esempio, Kisiel e Johnson, 1974). Hanson è stato un precursore importantissimo; attualmente, l'influsso di Feyerabend sta superando quello di Kuhn. Il metodo basilare consiste nel fare ricerche su casi specifici, prescelti dalla storia della scienza, con l'intento di trarne conseguenze per la metodologia. Nel seguito di questo capitolo, daremo conto dei contributi recati da questi autori alla teoria della scienza. Sosterremo che, assolutizzando le loro acquisizioni, essi sono giunti a una posizione estrema, che è polarmente contrapposta a quella dei giustificazionisti ma altrettanto insostenibile.
Il modo migliore di farci un'idea dei successi e dei fallimenti dell'approccio che si ispira al secondo Wittgenstein è quello di esaminare i suoi contributi a quei ‛problemi' a proposito dei quali ha esercitato il massimo influsso.
La ‛nuova filosofia della scienza' ha messo in luce che non vi sono enunciati osservativi o asserti di controllo esenti da elementi teorici. Non era una tesi nuova: Popper, G. Bachelard e L. Fleck (un precursore di questo tipo di relativismo) l'avevano già sostenuta nel 1935. Ma la svolta, nel senso sociologico, venne solo con On certainty di Wittgenstein.
Esistono due posizioni estreme riguardo agli enunciatibase/asserti di controllo: a) il dogmatismo ‛positivistico' (per esempio Schlick, ma anche Russell) richiede asserti di controllo certi, cioè verificati. La ricerca positivistica della certezza conduce allo psicologismo e al soggettivismo; b) lo scetticismo sotto la forma del convenzionalismo (con il suo latente motivo giustificazionistico) sostiene che gli asserti di controllo sono scelti in modo arbitrario; va così perduto, insieme con l'empirismo, anche il contatto con la realtà. In ultima analisi, ciò significa che ogni sistema teorico può essere considerato ‛scientifico': il problema della demarcazione è cioè ignorato. È questa una conseguenza accettata per esempio da Feyerabend. I. Lakatos ha riconosciuto l'elemento di decisione insito nell'adozione degli asserti di controllo, considerando la decisione come convenzionale.
Ora, solo quando sia superato non soltanto il giustificazionismo confesso, ma anche quello latente, si apre la via verso una concezione più realistica. Gli asserti di controllo non sono verificabili, la certezza è irraggiungibile; ciò non implica però che la loro accettazione debba essere arbitraria o che siano convenzionali. Gli asserti di controllo/enun ciati-base sono accettati provvisoriamente, ipoteticamente, quando i controlli empirici forniscono buone ragioni per farlo. Sotto questo aspetto, ‛non' ci sono in linea di principio differenze tra asserti di controllo e altri enunciati o teorie scientifiche. L'intera conoscenza scientifica è congetturale. Ogni volta che vi sia ragione di porre in dubbio un particolare asserto di controllo, è sempre possibile derivare da esso altri asserti di controllo e assoggettarli a loro volta a controllo empirico. Come tutti gli altri asserti, gli enunciati osservativi/asserti di controllo rimangono in linea di principio criticabili, il che non toglie che vi siano casi in cui sarebbe irragionevole - una perdita di tempo - ricontrollare un particolare asserto (per esempio ‛nel mio studio non c'è un rinoceronte adulto').
Ogni percezione ha elementi (‛stimoli') soggettivi e oggettivi, il rapporto tra i quali varia da un estremo di soggettività, indagato con i metodi proiettivi usati in psicologia, all'altro estremo, costituito da situazioni percettive obiettive e standardizzate, misurate da strumenti appositi. Ogni descrizione - per esempio: ‛c'è un bicchier d'acqua sulla tavola' - contiene universali e implica quindi molti ulteriori asserti descrittivi, per esempio che il fluido nel bicchiere presenterà comportamenti specifici in certe situazioni di controllo, che ha un determinato gusto, e così via. Un asserto come ‛la pressione del gas in questo recipiente è di due atmosfere', d'altra parte, è ovviamente dipendente da teorie, in particolare dalle teorie sottostanti agli strumenti di misurazione; di conseguenza, non solo il suo significato, ma anche la sua verità dipende da teorie fisiche e, tali teorie essendo fallibili, l'asserto di controllo - non foss'altro per questa ragione - dev'essere anch'esso fallibile.
Il difetto dell'approccio relativistico è di aver ‛assolutizzato' queste acquisizioni, arrivando così a tesi insostenibili, come quella secondo cui il significato degli enunciati-base o asserti di controllo varia col variare del contesto teorico: è la tesi della ‛varianza del significato' o del ‛mutamento del significato'. Gli enunciati-base/asserti di controllo sono non soltanto dipendenti da teorie, ma anche così impregnati di teorie da risultare inutili nella valutazione comparativa di teorie rivali (gli esperimenti cruciali sono impossibili). Questa concezione degli enunciati di controllo può essere ricondotta alla tesi di Wittgenstein, secondo cui i fenomeni o i particolari processi di azione ricevono il loro significato soltanto nel contesto del gioco linguistico cui appartengono.
I relativisti ripresero da Wittgenstein anche l'enfasi posta sul fenomeno del ‛riorientamento gestaltico' nella percezione. Un esempio semplice basta a illustrarlo. Un copernicano coscienzioso dovrebbe (secondo il Kuhn) sostituire ‛all'alba sorge il Sole' con ‛all'alba l'orizzonte si abbassa'. L'assunto psicologico, sia detto incidentalmente, è chiaramente falso, giacché il copernicano vede il Sole sorgere come chiunque altro; ma il punto è che i due asserti sono entrambi interpretazioni di un'esperienza percettiva. Un asserto neutrale rispetto alle due teorie (copernicana e tolemaica) è ‛all'alba la distanza tra il Sole e l'orizzonte cresce' (v. Andersson, 1978).
La posizione nei riguardi degli asserti di controllo influenzerà in modo decisivo la posizione nei riguardi della ‛falsificazione'. Una teoria T è falsificata dalla congiunzione della negazione di un asserto di controllo b e della descrizione di certe condizioni iniziali i, dove b è stato derivato da T e i (v., per esempio, Radnitzky, Progress..., 1981, pp. 80-85). ‛Esser falsificata', in questo senso, è una relazione meramente logica. Ciò significa che T dev'esser considerata falsificata se e solo se non-b e i sono considerati veri, cioè fin quando il ricercatore pensa - sulla base dei controlli empirici - di avere buone ragioni per accettare (in via ipotetica) sia non-b sia i. Giacché, d'altra parte, non può stabilirli definitivamente come veri (la certezza non esiste), ne discende che la falsificazione è essa stessa fallibile equindi rivedibile.
Come già riguardo alla concezione degli asserti di controllo, anche riguardo alla falsificazione sono possibili due posizioni estreme. Il positivista-giustificazionista sostiene che, se non ci sono asserti-base certi, l'idea di falsificazione non ha senso. Questa posizione positivistica è adottata anche da Kuhn (v., Logic..., 1970, p. 15): ‟che cos'è la falsificazione se non una confutazione conclusiva?". I relativisti come Kuhn debbono di conseguenza ripudiare l'idea di falsificazione o almeno minimizzarne l'importanza nella ricerca effettiva. Il latente residuo giustificazionista li induce a saltare all'altro estremo, a saltare cioè dall'interpretazione positivistica alla posizione convenzionalistica. Al pari degli asserti di controllo, la falsificazione è non solo fallibile: una situazione di falsificazione può sempre essere ‛riparata'. La teoria falsificata può essere salvata con l'aggiunta di ipotesi ausiliarie ad hoc, in breve, manipolando le premesse dalle quali la conclusione falsificata (l'asserto di controllo) è stata derivata.
Certamente, in una situazione di falsificazione rimane una questione aperta dove appuntare la critica: se sulla teoria o sulle condizioni iniziali o sulle ipotesi ausiliarie (dando per accettate la derivazione e la conclusione falsificata). Secondo i relativisti, in questo tipo di situazione di ricerca (spesso chiamata ‛situazione di Duhem') si può decidere arbitrariamente se considerare la teoria falsificata ovvero salvarla con adattamenti e aggiunte ad hoc. Lakatos, per esempio, ha sostenuto che ‟il nocciolo duro di un programma di ricerca" è circondato da una cintura protettiva di ipotesi in cui si possono operare adattamenti in caso di necessità, cioè se una conclusione derivata dalla teoria viene falsificata. E Feyerabend ha additato certi esempi tratti dalla storia della scienza che, secondo lui, mostrano come gli scienziati non prendano la falsificazione sul serio. Per esempio, i risultati sperimentali di Miller su un presunto ‛effetto-etere' avevano falsificato la teoria di Einstein; la comunità scientifica aveva ciononostante disatteso questa falsificazione. Ma, guardando le cose più da vicino, diventa chiaro che quest'esempio illustra piuttosto la fallibilità della falsificazione, e soprattutto il fatto che può occorrere molto tempo prima che si possa decidere quale sia il fattore coinvolto in una ‛situazione di Duhem'. In questo caso, il risultato di Miller cozzava certamente con un sistema di premesse, uno dei cui componenti chiave era la teoria di Einstein, e ci son voluti circa 25 anni per scoprire quale fosse la premessa responsabile della falsificazione. Una delle premesse addizionali usate nell'argomento falsificatorio di Miller era falsa; attraverso controlli empirici, si è potuto infine scoprire che l'effetto sperimentale osservato era dovuto a variazioni di temperatura nell'apparato di Miller.
Di nuovo, i relativisti hanno assolutizzato l'acquisizione della fallibilità della falsificazione, adottando la concezione convenzionalistica. Non si è riconosciuta l'esistenza di una terza possibilità. ‛Sebbene' la falsificazione sia ‛fallibile', come ogni altro asserto scientifico, la decisione se considerare o non considerare falsificata la teoria in via di controllo ‛non' per questo è arbitraria. I ricercatori prendono una tale decisione sulla base di controlli empirici, e c'è sempre la possibilità di derivare altri asserti di controllo e di controllarli: il verdetto è cioè basato su ‛buone ragioni', buone ragioni per considerare la teoria come falsificata o per considerare come falsificato piuttosto l'uno o piuttosto l'altro dei componenti delle premesse da cui è stata derivata la conclusione falsificata. È questa una procedura ‛razionale', e il verdetto è in linea di principio rivedibile. Ciò che i relativisti negano è che fallibilismo e falsificazionismo sono non solo compatibili, ma convengono perfettamente l'uno all'altro (v., per esempio, Andersson, 1978). Togliere alla falsificazione il suo mordente equivale a rifiutarsi di apprendere dai propri errori, di apprendere dall'esperienza. Pertanto una strategia ‛immunizzante' coerentemente perseguita renderebbe impossibile il progresso conoscitivo e, a lunga scadenza, significherebbe la fine della scienza.
‛Mutamento di significato' e incommensurabilità. Nella filosofia del secondo Wittgenstein l'accento batte sui concetti, non sulle teorie. Se la tesi che l'impregnazione teorica degli asserti di controllo è totale viene trasposta al livello dei concetti, si giunge alla cosiddetta ‛tesi dell'incommensurabilità' (d'ora in avanti IT). Le teorie scientifiche (o paradigmi o visioni del mondo) sono incommensurabili con quelle precedenti perché sono mutati i ‛significati' dei termini in esse ricorrenti. Dopo Copernico, un astronomo vive in un mondo diverso, e così i chimici dopo la scoperta dell'ossigeno (v. Kuhn, 1962, cap. X). Essi partecipano, per così dire, a giochi linguistici diversi; per dirla con Kuhn: ‟L'innovazione di Copernico non consistette semplicemente nel far muovere la Terra. Era piuttosto un modo completamente nuovo di considerare i problemi della fisica e dell'astronomia, che necessariamente cambiava il significato di entrambi i termini, ‛Terra' e ‛moto'" (v. Kuhn, 1962; tr. it., p. 181); e con Feyerabend: ‟Dopo tutto, il significato di ogni termine da noi usato dipende dal contesto teorico in cui ricorre. Le parole [...] ricevono il loro significato dall'esser parte di un sistema teorico" (v. Feyerabend, 1965, p. 18). Quest'idea ha un ruolo capitale nella nuova ‛filosofia della scienza'. Wittgenstein fu profondamente influenzato dall'intuizionismo, specialmente da Brouwer. La cluster theory of meaning reca l'impronta dell'influenza indiretta, mediata dalla filosofia di Wittgenstein, dell'intuizionismo e del costruttivismo. Quali sono le conseguenze della dottrina che almeno il significato dei ‛termini teorici' muta col mutare delle teorie? Anzitutto, se i problemi con cui ciascuna teoria si confronta o i fenomeni che spiega sono per così dire ‛adagiati' nei ‛suoi' termini, certo allora la teoria che segue non può spiegare gli stessi fenomeni che spiegava la teoria precedente. I vecchi problemi non possono neppure essere formulati nel linguaggio della nuova teoria. (Poiché i processi di azione o gli usi di parole ricevono il loro significato soltanto nel contesto di un particolare gioco linguistico, il nuovo gioco linguistico definisce nuovi schemi di attività dotate di significato). Le teorie sono diventate ‛incommensurabili'; ora teorie incommensurabili non sembrano comparabili in alcuno dei modi usuali; l'ipotesi che la scienza progredisce attraverso il mutamento delle teorie è stata pertanto abbandonata. E l'idea stessa di progresso scientifico diventa problematica e persino erronea. In secondo luogo, la dottrina che i ‛termini teorici' mutano col mutare delle teorie esercita una spinta irresistibile verso l'idealismo. Si supponga, per esempio, che il termine ‛massa' abbia un diverso significato nella teoria di Newton e in quella di Einstein. In questo caso, ripudiando Newton, noi ‛mutiamo la nostra ontologia' e il termine ‛massa' qual è usato nella teoria di Newton non ha alcun referente nel mondo reale. Se la teoria di Einstein dovesse essere soppiantata da un'altra - e i relativisti sostengono che le teorie di oggi sono destinate a essere rovesciate - allora il termine ‛massa', nel senso di ‛massa einsteiniana' non avrà alcun referente. Se le teorie non sono altro che strumenti, e non hanno quindi referente, allora - indipendentemente dalla loro eventuale falsificazione - l'idea che le teorie scientifiche sono teorie ‛sulla' realtà empirica sarà dichiarata ingenua e di conseguenza abbandonata. Il mondo reale (qualunque cosa possa essere) non ha più interesse per la scienza. Col mutare delle teorie muta anche il mondo dello scienziato. Gli einsteiniani fanno scienza in un mondo di ‛masse einsteiniane', che differisce da quello dei newtoniani: einsteiniani e newtoniani partecipano, e debbono partecipare, a giochi linguistici diversi. L'IT si collega qui sia con lo storicismo sia con la concezione strumentalistica delle teorie. Tutti i membri di una comunità o gruppo scientifico sono imprigionati da una tradizione di ricerca nello stesso ‛schema concettuale' (è ciò che Popper ha criticato come ‟il mito del sistema di riferimento"); newtoniani e cinsteiniani sono dunque imprigionati in differenti sistemi di riferimento. Il ‛realismo', inteso come la tesi che una delle funzioni delle teorie scientifiche è quella di descrivere, rappresentare la realtà empirica, è stato abbandonato in favore di quello che potrebbe essere chiamato (con A. Musgrave) un ‛idealismo relativistico'. La visione wittgensteiniana di forme di vita monadiche, comprensibili e dotate di significato soltanto dall'interno, e di giochi linguistici, nessuno dei quali può giudicare gli altri, è stata trasposta al livello della teoria della scienza.
La conseguenza più imbarazzante, per la metodologia, della filosofia del secondo Wittgenstein è l'insorgere dello strumentalismo. Esso costituisce il tratto comune di concezioni cosi diverse come quella di Stegmüller e Sneed, quella di Kuhn, fondamentalmente strumentalistica, e l'‛anarchismo metodologico' di Feyerabend. Lo strumentalismo è diffuso anche tra famosi fisici, specialmente tra i cultori di meccanica quantistica (per esempio, Ph. Frank, C. F. von Weizsäcker, W. Heisenberg)
Secondo lo strumentalismo, le teorie non descrivono (la scienza non dovrebbe affatto mirare a teorie vere): il desideratum 2) - la scienza deve consistere di asserti veri - è dunque ripudiato. Le teorie servono unicamente a trasformare l'informazione-input in informazione-output; i risultati sperimentali sono ascrivibili non al comportamento dei microoggetti, ma al comportamento di un complesso consistente di microoggetti, apparato e osservatore, complesso che deve essere concepito come una ‛scatola nera'. Se mai dovesse accadere a una teoria di descrivere qualche aspetto della realtà, noi potremmo non saperne nulla. Ciò conduce all'ulteriore tesi che nessuna linea di confine netta può essere tracciata tra osservatore e oggetto osservato e infine che, al di fuori dell'atto di osservazione, non si può attribuire alcuna esistenza agli oggetti del micromondo (si va cioè verso l'idealismo epistemologico). Famosi fisici-filosofi sostengono che dalla meccanica quantistica discende l'idealismo epistemologico. M. Bunge ha mostrato che le cose non stanno così, ma che, d'altra parte, l'unico sostegno, per esempio, per un'interpretazione empirica delle diseguaglianze di Heisenberg è dato da un positivismo del tipo di quello popolare negli anni venti e trenta (v. Bunge, 1973 e 1977). L'idealismo epistemologico e ontologico, cui lo strumentalismo in definitiva conduce, esercita una scarsa attrazione filosofica, perché banalizza il problema dello status ontologico, per esempio, delle entità che sono oggetti degli asserti delle teorie del micromondo, sostenendo che i termini teorici non hanno referente, ma designano semplicemente entità fittizie. In questo senso, si tratta di un atteggiamento antifilosofico. Può darsi che la sua grande popolarità sia in parte dovuta al fatto che lo strumentalismo riduce la possibilità di un contrasto tra scienza e momento soggettivo, e apre inoltre la strada a una correlazione riduttiva con fattori arbitrari come l'ambiente, la classe sociale o il periodo storico.
Esiste un'interessante combinazione di relativismo e approccio formalistico dell'empirismo logico, la ricostruzione di Sneed e Stegmüller della teoria kunhiana del mutamento teorico (la concezione ‛strutturalistica' o non statement delle teorie). All'interrogativo ‛quando è razionale l'accettazione di una particolare teoria?' Stegmüller risponde e qui è assai vicino a Popper -: ‟Non può esserci una giustificazione in senso stretto dell'accettazione di una teoria; possono esserci solo buone ragioni, tra le quale le applicazioni riuscite sono cruciali" (v., per esempio, Stegmüller, 1979). Secondo la concezione di Stegmüller e Sneed, non ha senso attribuire un valore di verità a una teoria. Giacché una teoria non è altro che un formalismo accompagnato da applicazioni intenzionali, la valutazione delle teorie dipende dal ritenere se tali applicazioni abbiano o non abbiano avuto successo: è infatti l'‛applicazione intenzionale' che fornisce l'unico collegamento tra teorie ed esperienza. Come già Kuhn e Lakatos, secondo i quali la storia della scienza mostra - nella ‛scienza normale' - o un paradigma (Kuhn) o ‟il duro nocciolo del programma di ricerca" (Lakatos), che non possono essere falsificati, anche la concezione non statement minimizza il ruolo della falsificazione.
Come abbiamo già accennato, l'impulso decisivo verso lo strumentalismo deriva dalla concezione delle teorie scientifiche propria dell'empirismo logico e in particolare dalla concezione dei due strati linguistici. Questa concezione ricostruisce una teoria scindendola in due parti: una parte analitica, che in qualche modo (mediante le cosiddette ‛definizioni implicite') specifica il significato dei ‛termini teorici', e una parte empirica, che avanza pretese fattuali. Sorge quindi il problema di come connettere i ‛termini teorici' con i ‛predicati osservativi' (designati caratteristiche semplici, la cui presenza o assenza può essere decisa dall'osservazione), in modo tale da conseguire la ‛significanza empirica' (per Popper, questo è uno pseudoproblema, dato ch'egli rifiuta la concezione dei due strati linguistici). Feyerabend, che è uno dei critici della vecchia dicotomia teorico/osservativo, sostiene, come abbiamo già accennato, che il significato di ogni termine da noi usato dipende dal contesto teorico. Senonché, dato che questa tesi, se presa alla lettera, sortirebbe l'effetto di rendere impossibile che due asserti si contraddicano, e quindi di rendere impossibile la comunicazione, Feyerabend dovrebbe fornire un meccanismo di selezione che ci metta in grado di separare i termini che sono definiti contestualmente (quelli cioè bisognosi di ‛definizione implicita') dagli altri. Ciò non è stato fatto, né sembra possibile farlo.
In definitiva, la concezione strumentalistica delle teorie è un passo disperato, cbe svuota le teorie scientifiche di ‛ogni' contenuto empirico: un risultato che non era certo nelle intenzioni dei fautori della vecchia dicotomia teorico/osservativo. La ricostruzione di Sneed e Stegmüller della teoria kuhniana del mutamento teorico può essere considerata come una combinazione di aspetti del primo Wittgenstein (approccio formalistico) con le idee fondamentali del secondo Wittgenstein (per il tramite della teoria della scienza di Kuhn).
La raffignrazione descrittiva della scienza. Una delle acquisizioni della ‛nuova filosofia della scienza' è che lo sviluppo della scienza ‛non' e cumulativo, come i positivisti pensavano, e che si verificano di tanto in tanto revisioni di vasta portata, da Kuhn drammatizzate come ‛rivoluzioni'. In tal modo la ‛nuova filosofia della scienza' mette l'accento sul carattere ipotetico (nella terminologia di Popper, congetturale) dell'intera conoscenza scientifica. Sebbene Popper l'avesse già sottolineato nella sua opera del 1935, questo punto centrale si è imposto - determinando la fine di un'era di scientismo - soltanto con l'avvento del nuovo indirizzo metodologico.
Il quadro, ormai famoso, che Kuhn offre della storia della scienza presenta l'alternarsi di periodi di ‛scienza normale' e di occasionali ‛rivoluzioni'. Le ‛anomalie', che sempre insorgono nei periodi di ‛scienza normale', non infastidiscono né impressionano gli scienziati, che s'impegnano nella ‛soluzione di rompicapi', partecipando per così dire a un gioco linguistico che li sgrava dei problemi riguardanti i presupposti. Di tanto in tanto accade che si verifichi un ‛mutamento di paradigma'. La concezione di Kuhn è modellata sul wittgensteiniano ‟mito del sistema di riferimento": tutto ciò che si può fare è un salto irrazionale - affine a una ‛conversione' - da una forma di vita all'altra. Secondo Kuhn (v., 1977, p. 338), ‟il passaggio da un'osservanza teorica a un'altra può esser meglio descritto come ‛conversione' che come scelta". Soccorre qui la famosa metafora del ‛riorientamento gestaltico': improvvisamente i copernicani ‛vedono' il mondo in modo diverso da come lo vedevano nel loro passato tolemaico; essi partecipano ora a un altro gioco linguistico, che definisce quali fenomeni e quali processi di azione siano dotati di significato. La teoria kuhniana del mutamento delle teorie ha avuto un largo seguito. È essa una descrizione adeguata? In realtà, diversamente dalla tesi di Kuhn, sono soverchianti forze ‛oggettive' quelle che ci impongono la scelta finale delle nostre ipotesi, e nulla può arrestare il progresso inesorabile della teoria più corretta. Un semplice esempio può avere maggior forza illustrativa degli argomenti teorici: il modo in cui la teoria della ‛Terra rotonda' soppiantò la teoria della ‛Terra piatta'. C'erano una serie di osservazioni e scoperte che rendevano sempre più difficile o costoso mantenere la vecchia teoria. Per esempio, tutti erano d'accordo sul fatto che lo scafo di una nave che s'allontana svanisce alla vista prima della velatura. I teorici della Terra piatta dovevano far ricorso a ipotesi ad hoc per proteggere la loro teoria. La forma rotonda delle eclissi di Luna poteva essere spiegata pur negando ch'esse fossero dovute all'ombra della Terra; ma la protezione ad hoc aveva un costo, quello di rendere impossibile una possibile spiegazione del perché le eclissi lunari hanno luogo nel mezzo del mese lunare (quando il Sole, la Terra e la Luna si trovano su una linea retta). Diventava inoltre assai difficile trovare un'ipotesi ad hoc che spiegasse perché, contrariamente a ogni apparenza, non ci fosse stata circumnavigazione quando i viaggiatori tornavano al punto di partenza dalla direzione opposta dopo aver viaggiato sempre nella stessa direzione.
Una teoria deve adattarsi a un'indefinita molteplicità di fatti. In generale, per ogni teoria che si riveli inferiore alla teoria rivale viene il momento in cui i ‛costi accumulati' di tattiche protettive, immunizzanti diventa talmente eccessivo che la nuova teoria soppianta l'antica. È questo un processo ‛obiettivo', che nulla ha a che fare con un atto di conversione; esso indica anche una soluzione del problema dell'‛ad hoc'. All'inizio può esserci - obiettivamente - un periodo di incertezza: ciascuna delle teorie rivali incontra difficoltà (‛anomalie'). A un certo punto emergono buone ragioni - fallibili ma obiettive - per preferire una teoria alla o alle teorie rivali. Alcuni scienziati riconosceranno tali ragioni obiettive, altri no; ma alla fine esse si faranno irresistibili, come il nostro esempio mostra. Dato che gli apparati moderni hanno immensamente accresciuto le possibilità di controllo sperimentale, questo processo ne risulta accelerato in misura corrispondente, con il risultato di abbreviare drasticamente il periodo di incertezza. Anche qui l'errore di Kuhn è stato quello di assolutizzare l'intuizione che la crescita della scienza non è un processo cumulativo nella tesi che ogni mutamento teorico comporta un atto di ‛conversione', una decisione ‛volontaria' di partecipare, da un dato momento in poi, a un nuovo gioco linguistico.
Il problema della valutazione delle teorie e della preferenza teorica razionale è stato deliberatamente abbandonato. Poiché un gioco linguistico non può giudicare un altro gioco linguistico, non vi sono criteri che siano applicabili a tradizioni di ricerca indipendentemente da un mutamento di paradigma. All'interrogativo ‛quando è razionale il passaggio a un altro paradigma?' Kuhn risponde che la soluzione delle rivoluzioni scientifiche mediante adozione di un nuovo paradigma ‟è la scelta della maniera più adatta per praticare la scienza futura, operata attraverso un conflitto che ha luogo all'interno della comunità scientifica" (v. Kuhn, 1962; tr. it., p. 207). Ma poiché, secondo Kuhn, la sequenza di mutamenti di paradigma è un processo che si svolge ‟senza l'aiuto di un insieme di finalità" (ibid.) - si sostiene cioè l'assenza di obiettivi definiti (simili ai desiderata dell'ideale intuitivo di scienza), che potrebbero fornire criteri espliciti di valutazione -, che cosa può significare in questo contesto ‟la maniera più adatta"? Efficace o efficiente; ma verso quale finalità? Il concetto di progresso conoscitivo non ha posto nella storia delle ‛rivoluzioni scientifiche' quale la concepisce Kuhn.
Dato che il concetto di progresso conoscitivo è costitutivo del significato di scienza - il progresso essendo lo scopo unico e ultimo del ‛gioco linguistico' della scienza - una teoria che proceda più innanzi sulla strada della chiarificazione della natura soppianta le teorie rivali. Einstein soppianta Newton. La storicità della scienza è pertanto una storicità ‛evoluzionistica'. Nella teoria di Kuhn, la scienza ha una storicità ‛non' evolutiva: sotto questo rispetto diventa simile all'arte, dove, per esempio, Shakespeare non soppianta Omero.
Kuhn pretende di descrivere ‟puri fatti" della storia della scienza, e quindi di derivare da questi ‟fatti storici" una metodologia della scienza. Senonché, alla stregua della conclusione ch'egli trae dalla sua analisi, la sua stessa storiografia della scienza dovrebb'essere ‛governata da un paradigma' al pari di qualunque altra e risultare quindi incapace di fungere da sostegno a una qualsiasi metodologia (salvo naturalmente se stessa).
La concezione che la ‛nuova filosofia della scienza' ha del ‛compito della metodologia' è modellata sulla concezione che Wittgenstein ha del compito della filosofia. Wittgenstein insiste che la filosofia si occupa soltanto di descrivere; non esiste però una descrizione ‛corretta', bensì ‛più' descrizioni miranti a rimuovere certe confusioni, cosicché alla fine i problemi filosofici svaniscano ‛completamente' (Ricerche filosofiche, I, 133). Kuhn, come abbiamo visto, abbandona il problema normativo proprio là dove presenta la massima urgenza; Feyerabend, le cui teorie sono diventate molto influenti, trae l'ultima conseguenza: la metodologia è impossibile; i problemi metodologici vengono ufficialmente rimessi al ricercatore. Che significa ciò? Il ricercatore deve certo prendere la decisione sulla propria responsabilità; ma, se prende una decisione argomentata, con ciò stesso assume una posizione metodologica. Può anche, a mo' d'un sonnambulo, confidare nell'intuizione, che è ineffabile. Anche in questo caso resta però il fatto che le intuizioni variano (taluni ricercatori hanno persino un'intuizione falsificazionista): il giudizio dei pari esige dunque una risposta al problema del perché un dato elemento della ricerca piuttosto che un altro debba essere considerato come un progresso.
Quali argomenti Feyerabend adduce a sostegno della sua tesi dell'impossibilità della metodologia? Secondo lui, le raccomandazioni metodologiche o sono così generali da risultare banali o, se sono specifiche, ostacolano il progresso (qualunque cosa ‛progresso' possa significare nel gioco linguistico di Feyerabend). L'idea che la ricerca effettiva è influenzata da molti fattori - alcuni dei quali irrazionali, come per esempio il misticismo di Keplero -, che ci sono molti casi di errori fecondi, di scoperte casuali ecc. viene assolutizzata nella tesi che le circostanze storiche, le peculiarità di ciascuna situazione di ricerca sono ‛tutto' ciò che importa e che tali situazioni non hanno nulla in comune (il problema della demarcazione tra scienza e non scienza è di conseguenza dichiarato uno pseudoproblema). La tesi di una siffatta assoluta unicità segue la tradizione dello storicismo: individuum est ineffabile. Le regole metodologiche intese a facilitare il progresso dovrebbero mutare da un'iniziativa all'altra, analogamente al ‛mutamento di significato' dei termini.
La tesi feyerabendiana dell'impossibilità sembra derivare la sua plausibilità, comunque la si giudichi, dal bersaglio che prende di mira. Feyerabend attacca un tipo di metodologia che non soltanto pretende - per le sue regole - un'applicabilità universale, ma pretende anche che queste regole offrano garanzia di successo; ora, si ammette facilmente che ogni regola, se universalizzata, diventa controproducente. Ma una regola metodologica, quale noi la concepiamo, 1) è un imperativo ‛ipotetico': un ricercatore deve quindi sempre decidere se una particolare regola si applichi o non si applichi al suo caso, e 2) non offre garanzia di successo, ma afferma semplicemente (affermazione criticabile e controllabile) che la sua applicazione accresce le ‛possibilità' di successo. Insomma, se la metodologia è intesa nel senso delineato nel cap. 2, allora neppure se si descrive la ricerca come un'attività influenzata in misura decisiva da fattori irrazionali, o almeno non razionali, si può legittimamente arrivare alla tesi feyerabendiana dell'impossibilità.
Volendo tracciare un bilancio dei profitti e delle perdite, si può dire che la pars destruens della ‛nuova filosofia della scienza' si è rivelata benefica: ha contribuito a mettere in luce la debolezza dell'empirismo logico, nonché a stabilire la tesi che la conoscenza scientifica è ipotetica, congetturale. Inoltre, dalle ricerche su specifiche vicende storiche molto si può apprendere, purché si chiarisca quali lenti metodologiche lo storico abbia usato nel corso della ricerca e si tenga conto della loro incidenza. Ma l'assolutizzazione di certi aspetti di queste acquisizioni positive ha condotto a posizioni insostenibili: ‛mutamento di significato', tesi dell'incommensurabilità, strumentalismo, con l'aggiunta di una spinta irresistibile verso l'idealismo. I problemi normativi (valutazione delle teorie, preferenza teorica e così via) sono stati abbandonati. Si è arrivati in tal modo a una posizione di relativismo storico o sociologico affine allo storicismo tedesco. Le questioni metodologiche urgenti, anche quelle relative alla previsione, sono lasciate senza risposta, e si è infine negata la possibilità stessa della metodologia. Per finire, la conclusione che la metodologia del razionalismo critico è o falsa o controproducente (se dà direttive) non può discendere dalle ricerche storiche specifiche presentate ed è falsa. Nella nostra critica della ‛nuova filosofia della scienza' ci siamo avvalsi della metodologia di Popper, difendendola nel contempo dalla ‛sfida' lanciata dalla storia della scienza. Siamo ora pronti a esporre direttamente la metodologia popperiana.
6. La metodologia di Popper (il razionalismo critico)
L'odierna teoria della scienza, oltre a un carattere monistico, presenta di volta in volta un carattere soggettivistico, strumentalistico, induttivistico, positivistico, materialistico, comportamentistico. La teoria popperiana si distingue invece per essere realistica, antistrumentalistica, deduttivistica, antipositivistica, antimaterialistica, anticomportamentistica e interazionistica. Abbiamo già detto che il nostro assunto circa la capacità umana di conoscere deve essere rivisto. Ora, la tesi che ‛tutta la conoscenza riguardante il mondo empirico è congetturale' o, più precisamente, che ‛tutti i metodi di accertamento del valore di verità di un enunciato descrittivo particolare sono ‛in linea di principio' fallibili' significa soltanto che sussiste sempre la possibilità teorica di futuri sconvolgimenti anche nelle nostre migliori teorie, le quali rimangono dunque in linea di principio criticabili: è una dichiarazione di perenne disponibilità a riesaminare la questione della loro legittimazione; s'intende, se ‛e solo se' emergono ragioni sufficienti che giustifichino tale riesame. C'è una quantità di asserti che, sebbene fallibili in linea di principio e dunque criticabili, sono tuttavia al di là di ogni ragionevole dubbio, come la teoria della sfericità della Terra o gli esempi di Wittgenstein come ‛ho più di tre mesi'. Dal fatto che tali asserti si trovino al di là di ogni ragionevole dubbio, ‛non' segue però che la loro verità sia stata stabilita, che essi siano stati ‛provati'. Di conseguenza, sebbene non ci sia conoscenza certa, nel senso della filosofia giustificazionista, non sussiste però il dilemma ‛o relativismo o induttivismo'. Per l'accettazione di un'ipotesi possono militare ragioni migliori che per l'accettazione di ipotesi rivali: il progresso conoscitivo è possibile, e del resto la storia della scienza ce ne mostra esempi impressionanti. Il progresso conoscitivo è una conquista di esseri umani fallibili, e può essere spiegato - ipoteticamente - facendo riferimento alla capacità umana di conoscere e alla natura generale della realtà che circonda l'uomo. Almeno alcuni segreti della natura sono suscettibili di essere scoperti in modo seriale. Senonchè, più cresce la nostra conoscenza - nel senso di teorie ben controllate - più cresce il numero dei problemi. Riflessioni di questa sorta ci forniscono il sistema di riferimento necessario per perfezionare l'ideale intuitivo di scienza.
a) Il perfezionamento dell'ideale di scienza
L'esplicazione popperiana del concetto di scienza dipende dall'esplicazione dell'idea di progresso scientifico: la scienza dovrebbe essere intesa ‟come un progredire da problemi ad altri problemi, di profondità sempre crescente" (v. Popper, 1963; tr. it., p. 380). Un tale progresso implica che ‛anche' le teorie costituenti i presupposti - la conoscenza di sfondo, da cui si parte per sollevare i problemi - debbano essere ‛più profonde'. Su questa base, i due desiderata, indipendenti l'uno dall'altro, dell'ideale intuitivo di scienza (che gli asserti scientifici debbano avere un ricco contenuto e rispondere a problemi profondi, e che siano veri) sono riformulati in modo da mettere in luce la loro natura ‛comparativa'; il desideratum formale della struttura deduttiva è mantenuto, mentre il desideratum 4) (quello degli indicatori infallibili), corrispondente al concetto di conoscenza proprio della tradizione giustificazionistica, è definitivamente ripudiato.
Il desideratum 1) - che il problema che segue debba essere ‛più profondo' del suo predecessore - pone alla metodologia il compito di formulare un principio regolativo che possa guidare la ‛preferenza razionale per i problemi'. Da questo compito discende quello di esplicare il concetto di problemi rivali all'interno di una disciplina. La ‛profondità' è esplicata ricorrendo a un confronto dei profitti derivanti alla conoscenza da una risposta corretta ai problemi rivali. Un problema è ‛più profondo' del problema rivale se il contributo arrecato dalla sua risposta va più innanzi, sulla strada della chiarificazione della natura, del contributo arrecato (o che ci si aspetta sia arrecato) dalla risposta al problema rivale all'interno della stessa disciplina o campo di problemi.
Dal desideratum 2) - un accrescimento della verosimiglianza - dovrebbe essere possibile derivare un principio regolativo che guidi la ‛preferenza teorica'. Un punto chiave è che la teoria che segue dovrebbe essere in grado di rappresentare aspetti rilevanti della realtà in modo più preciso della teoria precedente. Le due teorie sono rivali in quanto i loro campi di problemi almeno in parte coincidono. In pratica, la preferenza teorica dipenderà dal potere predittivo ed esplicativo delle due teorie rivali, entrambe le quali, ‛da un punto di vista puramente logico', sono state falsificate.
La necessità di metodi per accertare se una particolare sequenza costituisca o non costituisca un progresso sotto un qualche specifico aspetto (desideratum 4′) impone che queste procedure siano ‛oggettive', cioè che, nonostante la loro fallibilità, esse siano in grado di aiutarci a scoprire se esistano o non esistano buone ragioni per il verdetto (fallibile) che T′ è superiore a T riguardo a un aspetto Z, che il problema P è più profondo del problema P, e così via.
b) L'evoluzione dei problemi nella metodologia popperiana
Il problema di partenza, riguardante l'accettabilità di una teoria, viene trasformato in un problema di ‛comparazione': ‛quando è razionale ‛preferire' una teoria T′ alla teoria rivale T?' Questo problema può essere considerato equivalente a quello di trovare meccanismi di selezione per ogni sorta di risultati della ricerca (teorie, spiegazioni), come anche per gli ‛strumenti usati', per i metodi, i programmi ecc., per i criteri, le regole di valutazione e così via. Tutti questi elementi, naturalmente, rimangono in linea di principio criticabili, nonostante la loro preferibilità rispetto ad altri. Schematicamente, la risposta a questo problema suona: ‛T′ deve essere preferita a T se T′ è superiore a T sotto aspetti rilevanti'. Il tentativo di riempire tale risposta di contenuto dà luogo a un ‛albero di problemi': (A) individuare con chiarezza quali siano gli aspetti ‛rilevanti' per il progresso conoscitivo e perché; (B) esplicare la comparazione ‛T′ è superiore a T sotto l'aspetto Z' per ciascuno degli aspetti giudicati rilevanti; (C) fornire metodi o indicatori con l'aiuto dei quali sia possibile passare in rassegna le ‛buone ragioni' per il verdetto che T′ è (o non è) superiore a T nel senso di uno o più tra gli explicata proposti sotto (B).
Il compito (A) comporta la specificazione delle dimensioni di valutazione o degli ‛eventi competitivi' nella competizione di teorie ecc. La dimensione di valutazione ‛maggior capacità di rappresentazione' (desideratum 2′) si scinde in 1) capacità di superare i controlli empirici: potere predittivo in connessione con il controllo della teoria; 2) capacità di risolvere problemi di spiegazione: potere esplicativo. Questo approccio conduce a gravi problemi tecnici, come quello dell'esplicazione dei concetti ausiliari ‛spiegazione' e ‛controllo empirico', quello del rendimento decrescente dei controlli empirici, e così via. La specie di rischi varia con la specie di ‛evento competitivo'; le possibilità di progresso conoscitivo corrispondono ai gradi di rischio implicito nella predizione o nella spiegazione (v., per esempio, Radmtzky, 1979, pp. 230-239).
Il rischio implicito nel controllo e il concetto di ‛severità' dei controlli. Nella scienza ‛di base' le predizioni sono fatte al fine di controllare la teoria: è questa una delle caratteristiche che la definiscono. Se la predizione vien fatta per altri scopi, o se la teoria è usata come strumento per fare predizioni, questo lavoro appartiene ‛per definizione' alla scienza applicata. Un controllo empirico ha una severità massima se la predizione contraddice la conoscenza di sfondo, in particolare la teoria dominante (se ve n'è una). È severo anche se risponde a una questione riguardo alla quale la teoria dominante non ha nulla da dire o a una questione che non può neppure essere formulata fintantochè si mantengono i presupposti soggiacenti alla teoria dominante.
Il ‛problema della demarcazione' è risolto mediante esclusione. Il concetto di scienza è esplicato (senza che ciò implichi alcuna descrizione della scienza effettiva) come un'attività fondamentalmente razionale di soluzione di problemi. Una condizione di tale attività è che le soluzioni proposte siano assoggettate a critica e rimangano aperte alla critica futura. Se è coinvolta una tesi circa la realtà empirica, la critica deve includere il controllo empirico; la falsificabilità in linea di principio è ovviamente una condizione necessaria di tale controllo.
La falsificabilità è una relazione ‛logica'. Un enunciato T (per esempio: ‛tutti i cigni sono bianchi') è falsificabile se esiste un falsificatore potenziale, cioè se la classe degli enunciati-base o enunciati di controllo - enunciati descriventi un particolare evento composto che sia logicamente possibile e la cui osservazione sia logicamente possibile - contiene almeno un enunciato che contraddice T (per esempio: ‛questo è un cigno e non è bianco'). La falsificabilità non ha nulla a che fare con la questione se sia o non sia tecnicamente possibile escogitare situazioni di controllo per T. Di conseguenza, l'asserzione che T è falsificabile non implica affatto la possibilità di stabilire attraverso risultati sperimentali la falsità di T. La struttura logica di un argomento falsificatorio è analizzata per esempio da Radnitzky (v., Progress..., 1981, pp. 81-85).
Il rischio per la teoria coinvolta in una spiegazione è che, nel tentativo di spiegare il ‛fatto noto', venga derivato dalla teoria un enunciato che contraddice l'enunciato descrivente il fenomeno da spiegare, l'explanandum; ovvero che non sia possibile costruire una spiegazione, nonostante che il fenomeno in questione ricada entro l'ambito della teoria. Se la teoria contraddice l'explanandum originario, corre il rischio di venire ipsofacto falsificata. Ma, anziché biasimare se stessa, la teoria può mantenere il suo punto. Se così avviene, è questo un sicuro indicatore di una condizione sufficiente per il progresso conoscitivo. Per esempio, nella spiegazione della legge di Galileo della caduta dei gravi, la teoria di Newton predice che l'accelerazione di un grave in caduta libera non è costante, contraddicendo così l'explanandum. Quindi nel tentativo di spiegare la legge di Galileo la teoria ha corretto l'explanandum originario (v. Popper, 1972, p. 200; v. Radnitzky, Progress..., 1981, p. 85).
Dal compito (C) discende il sottocompito di elaborare un indicatore obiettivo, con l'aiuto del quale sia possibile dare buone ragioni per il verdetto che T′ è superiore a T nella capacità di rappresentare certi aspetti della realtà. Le prestazioni comparative delle due teorie rivali riguardo a un dato aspetto, il loro successo nella predizione (nel contesto del controllo delle teorie) e nella spiegazione servono allo scopo. Ciò conduce al problema di specificare e legittimare regole per l'assegnazione di un punteggio positivo o negativo - sulla base delle prestazioni - per la capacità di rappresentare. In corrispondenza con le due dimensioni della competizione, che concerne le capacità di rappresentazionei descrizione, ci sono due specie di punteggio positivo e negativo. Superando controlli severi, una teoria può ottenere un punteggio positivo in ‛corroborazione', e con spiegazioni riuscite può ottenere un punteggio positivo in ‛spiegazione'.
C'è una grande differenza tra il concetto popperiano di grado comparativo di ‛corroborazione' e il concetto induttivistico di ‛conferma'. Popper non tenta mai di provare la verità o di saggiare la probabilità di una teoria. Naturalmente, noi nutriamo la credenza soggettiva che le regolarità descritte da una teoria altamente corroborata reggeranno anche in futuro. Questa convinzione è perfettamente razionale. È però razionale nutrire tale convinzione e agire in conformità con essa non già perché la teoria sia ritenuta avere un alto grado di sostegno induttivo o di probabilità, ma perché è stata altamente corroborata, e ha resistito alla critica - inclusi controlli severi - meglio delle sue rivali. Non si è tentato di saggiarne la probabilità guardando ai successi; al contrario, si è guardato ai possibili fallimenti. Analogamente, nell'applicazione tecnologica di teorie scientifiche, è razionale lavorare con una teoria che sia stata sufficientemente corroborata. Non deve necessariamente trattarsi della teoria migliore, giacché su questo terreno si deve ragionare anche in termini di costi-benefici (per esempio, per i viaggi spaziali, si fa uso della teoria newtoniana piuttosto che della teoria della relatività). Nonostante la sua fallibilità in linea di principio, è dunque razionale far uso di una teoria sufficientemente corroborata, e l'azione razionale deve basarsi su teorie siffatte. Tuttavia - e qui sta la differenza decisiva tra Popper e gli induttivisti - la convinzione che la teoria reggerà in futuro come per il passato, nonché la nostra disponibilità a basarci su di essa anche quando, per esempio in un viaggio aereo, scommettiamo su di essa la nostra vita, non presentano, sebbene siano perfettamente razionali, alcuna rilevanza per l'epistemologia.
Per quanto riguarda la spiegazione, una teoria riceve un punteggio positivo ‛in spiegazione' per il suo successo esplicativo nella derivazione di fatti noti, se tali fatti ‛non' possono essere spiegati dalla teoria precedente. Occorre qui specificare che la teoria non può ricevere un punteggio positivo in spiegazione per la derivazione di un fatto noto, se tale fatto è indispensabile per la costruzione della teoria stessa: un fatto non può essere usato due volte (v. Radnitzky, 1979, pp. 243 ss.). Popper esige che la nuova teoria ‛pareggi il successo esplicativo' della teoria precedente, come condizione necessaria perché sia considerata come un serio sfidante dell'antica. Per chiarire questa esigenza, bisogna anzitutto esplicare l'idea di ‛successo esplicativo'. Per esempio, si è talvolta sostenuto che la teoria newtoniana non poteva spiegare la legge di Bode (i pianeti si muovono nella stessa direzione e sullo stesso piano) e che quindi non poteva pareggiare il successo della teoria cartesiana dei vortici nella spiegazione di questo fenomeno. Sarebbe questo un caso della cosiddetta ‛perdita di Kuhn'. Si tratta però di un errore, perché quella di Cartesio è una spiegazione meramente ad hoc; pertanto, per la teoria di Newton, il pareggiare un tale successo esplicativo sarebbe piuttosto motivo per l'assegnazione di un punteggio negativo.
Il problema di un indice cumulativo. Il tentativo di costruire un indice atto a esprimere i successi nella spiegazione, nella predizione e nel controllo è di gran lunga troppo ambizioso. Un tale indice risulterebbe fuorviante, all'incirca come sarebbe fuorviante la comparazione di imprese sulla base dei profitti e delle perdite, senza tener conto dell'ammontare degli eventuali crediti ecc. La comparazione delle teorie è necessaria anzitutto riguardo alla risposta a una specifica questione concreta. È opportuna una formulazione sufficientemente particolareggiata: a parer mio, bisogna registrare i successi ‛e' i fallimenti, e ciascun successo deve essere ‛pesato' sulla base dell'‛importanza scientifica' obiettiva della relativa questione. Ciò comporta l'intervento del principio regolativo derivato dal desideratum 1′), senza di che la procedura di valutazione della teoria sembra mancare di una dimensione essenziale. Il problema che ne discende è quello di esplicare l'idea che una risposta corretta alla questione Q′ darebbe al progresso globale della disciplina X un contributo maggiore di quello della risposta corretta alla questione Q. Qualche indizio per una tale esplicazione è fornito alla distinzione tra ‛profondità' in senso logico (alta condensazione del contenuto d'informazione empirica) e ‛profondità' in senso ontologico, come anche dalla distinzione tra problemi ‛urgenti' (come quelli posti dalle ‛anomalie') e problemi meno urgenti (v., per esempio, Radnitzky, 1979, pp. 247-249).
c) Metodologia ed epistemologia evoluzionistica
Il modello di crescita della conoscenza attraverso le congetture e la critica ha dimostrato di avere un valore euristico anche al di fuori della metodologia e dell'epistemologia. Analogie suggestive tra mutazioni biologiche e innovazioni nella soluzione razionale di problemi, tra pressioni della selezione naturale e tentativi di falsificazione, tra il fatto che il successo biologico non garantisce la sopravvivenza futura e il fatto che nessun successo passato, per quanto grande, può stabilire che una teoria ha una probabilità maggiore delle rivali meno fortunate: tutti questi fattori hanno dato origine alla designazione di ‛epistemologia evoluzionistica'. Un grappolo di problemi sorge dal terreno sul quale le ricerche biologiche ed economiche interagiscono con le ricerche epistemologiche.
L'‛epistemologia evoluzionistica' può essere considerata come un'estensione del falsificazionismo. La crescita della conoscenza è vista in un continuum con la selezione naturale. Gli organi sono considerati come solutori di problemi. La selezione positiva di varianti biologiche è ritenuta dar luogo a categorie o facoltà percettive, cognitive ecc., che sono considerate a priori rispetto all'individuo, ma a posteriori rispetto alla specie. A tali categorie o facoltà non viene attribuita una validità a priori; sono invece considerate come meccanismi per la soluzione di problemi, meccanismi forniti di idoneità riguardo a un ambiente passato, ma non necessariamente riguardo agli ambienti futuri. In generale, il processo dell'evoluzione è concepito come un incremento di ordine e di adattamento di un sistema all'altro. Tale incremento è il prodotto di variazioni (‛cieche' ma non casuali) che interagiscono incessantemente con la selezione positiva e la riproduzione. Questo modello aiuta a spiegare una vasta gamma di fenomeni: dall'apprendimento per prova ed errore al sistema di immunizzazione selettiva, dal comportamento animale sino allo stesso processo di ricerca.
Se il successo è descritto in termini di sopravvivenza, riproduzione ecc., siamo nella biologia; ma se il successo viene spiegato facendo riferimento a percezioni divenute più veridiche o a ‛ipotesi' più verosimili, vuol dire che si è fatto ricorso alla valutazione metodologica. Se l'epistemologia evoluzionistica una disciplina biologica - sostiene che il ‛sintetico a priori' per l'individuo è a posteriori per la specie (e non è eterno), v'è in ciò una critica di certe epistemologie filosofiche. Ma, finché non si avanzi la pretesa di derivare la valutazione metodologica dalle indagini biologiche, l'accusa - talora rivolta all'epistemologia evoluzionistica - di costituire un caso di riduzionismo scientistico, o un circolo vizioso, è infondata. Ad ogni modo, un'interazione feconda tra epistemologia evoluzionistica, prasseologia generale, ivi incluse certe branche della scienza economica, e metodologia sembra essere notevolmente promettente per il progresso conoscitivo.
La metodologia di Popper rende ragione del fatto che, attraverso l'idea di progresso conoscitivo (idea costitutiva del significato di scienza), la scienza diventa un fenomeno storico in un senso in cui l'arte, le istituzioni ecc. non lo sono. Attraverso l'idea di progresso conoscitivo, la verità è riconosciuta come principio regolativo della ricerca. La metodologia di Popper, dunque, da un lato si adatta alla storicità evoluzionistica dell'impresa scientifica e dall'altro, nonostante il riconoscimento della fallibilità dell'intelletto umano, conserva la verità come principio regolativo. In tal modo, essa contribuisce alla ‛crescita della nostra conoscenza sulla crescita della conoscenza'. (V. anche epistemologia, metodo e neopositivismo).
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Storia della scienza di Paolo Rossi
sommario: 1. Immagini della scienza e storia della scienza. 2. Fra istituzioni e filosofie. 3. Tradizioni di ricerca nella storia della scienza. a) Filosofie ed epistemologie. b) Storici della filosofia e storici delle idee. c) Fra sociologia e marxismo. d) I pionieri' e i ‛maestri'. 4. Programmi alternativi e sviluppi recenti. a) Continuità e discontinuità. b) Il dibattito fra ‛esternisti' e ‛internisti'. c) La crisi della distinzione storia interna-storia esterna. 5. Considerazioni conclusive. □ Bibliografia.
1. Immagini della scienza e storia della scienza
Gli storici della scienza si presentano, all'inizio degli anni ottanta, come una comunità scientifica ampia e articolata, percorsa, com'è naturale, da tensioni e da contrasti, che intrattiene rapporti più o meno difficili con scienziati, storici e filosofi, è organizzata in società nazionali e internazionali, convoca congressi, si esprime in collane editoriali e in riviste specializzate. La comunità degli storici della scienza è eterogenea e composita. L'espressione ‛storia della scienza' designa una quantità di ricerche e di studi che vanno dalla descrizione e ricostruzione di una macchina all'analisi della struttura concettuale di una teoria fisica, dalla biografia di uno scienziato alla storia delle istituzioni scientifiche e delle accademie, dallo studio dell'incidenza delle visioni del mondo sullo sviluppo delle teorie alla rilevazione statistica della provenienza sociale dei membri di un'accademia. Come accade per la storia dell'arte o della filosofia o della letteratura, l'espressione storia della scienza designa cose diverse: i grandiosi affreschi di Duhem e di Thorndike, l'opera monumentale di Needham, gli studi sul pensiero matematico arcaico di Neugebauer, le ricostruzioni sottili di Koyré, le edizioni di testi medievali, le ricerche minute su episodi secondari o su particolari tecniche di lavorazione in una piccola provincia d'Europa. Anche i confini della disciplina, esattamente come avviene per le altre storie, sono da ogni lato incerti e sfumati: toccano storia della tecnica, storia economica e storia religiosa, storia della filosofia e storia delle idee, filosofia della scienza, sociologia, psicologia, antropologia. D'altra parte, a un processo di sempre più accentuata specializzazione non si è ovviamente sottratta neppure la storia della scienza: alle grandi partizioni fondate sui grandi settori del sapere scientifico (astronomia, chimica, medicina, ecc.) sono lentamente subentrate ulteriori specializzazioni, come la storia della medicina antica o della meccanica medievale o della genetica classica. Ne sono derivate più ristrette comunità di specialisti, alcune di più antica, altre di recentissima tradizione, che intrattengono a loro volta con la più ampia comunità degli storici della scienza rapporti più o meno articolati. Anche questa situazione, naturalmente, è stata ed è tuttora fonte di problemi.
È noto a tutti che le entità di cui la scienza parla (elettroni, inerzia, geni, ma anche l'inconscio o la struttura sociale) non sono oggetti che si incontrano nella vita quotidiana. Sull'oggetto della storia della scienza la discussione, fin dalle origini, è stata molto ampia. Il risultato sembra essere che gli oggetti della storia della scienza non coincidono affatto con gli oggetti delle scienze. Un'opera storica come la Genese de la science des cristaux di H. Metzger non parla affatto dei cristalli nello stesso modo in cui ne parla oggi un trattato di cristallografia: prende infatti in considerazione discorsi sulla natura dei cristalli che non coincidono affatto con quelli nei cui termini i cristalli sono diventati oggetto della cristallografia una volta che essa si è costituita come scienza e ha costruito, sulla base di una specifica teoria, il suo specifico oggetto (v. Canguilhem, 1968, pp. 16-17). Lo stesso vale, ovviamente, per la caduta dei gravi o l'evoluzione, per la nozione di elemento chimico o quella di fossile o quella di attrazione.
Sul lavoro svolto dagli storici della scienza, sulla scelta stessa dei loro oggetti di indagine hanno esercitato un peso non trascurabile filosofie e visioni del mondo, assunzioni di metodi e privilegiamenti di forme di conoscenza. Differenti filosofie, differenti concezioni relative al rigore, all'unità (o pluralità) delle scienze, differenti modi di concepire il sapere scientifico, i rapporti fra le teorie, fra le teorie e gli esperimenti, hanno dato luogo a storie diversamente orientate. Il modo ‛positivistico' di fare storia della scienza, come tutti sanno, è profondamente diverso da quello attuale. Per dar conto di questa diversità, e del processo di cui è il risultato, si possono seguire molte strade. Una viene qui in qualche modo privilegiata: quella che ha condotto (attraverso un processo assai lungo e complicato) dall'immagine del sapere scientifico come una ‛piramide' a quella del sapere scientifico come una ‛carta geografica'. Nel primo caso la scienza appare come una piramide di enunciati disposti gerarchicamente: in cima gli enunciati più generali, ai piedi della piramide gli enunciati con generalità minima. La via privilegiata è ‛la via all'insù'. La scienza appare come un edificio che si costruisce from bottom up: dai dati dell'osservazione singoli, concreti, ininterpretati, alle interpretazioni dei dati e alle teorie. I dati sono certi, immutabili, intersoggettivi; le teorie incerte, soggettive, mutevoli. L'osservazione verte su cose singole, particolari e concrete che possono venir isolate da ciò che le circonda senza perdere la loro identità. Ciascuna proposizione osservativa, presa di per sé e isolata dalle altre, può direttamente essere posta a confronto con la realtà. La metafora della carta geografica nasconde e rivela un'immagine differente. La scienza fornisce, del mondo, lo stesso tipo di descrizione che una carta fornisce di una regione terrestre: gli oggetti osservabili sono dati e riconoscibili solo insieme con le relazioni in cui si trovano rispetto ad altri oggetti (addirittura si esauriscono in tali relazioni); fra i dati e le teorie esistono rapporti di interconnessione; l'osservazione è strutturata, organizzata e ‛carica di teoria'. Possono esistere teorie diverse (carte diverse) che pretendono di essere vere dicendo, del mondo, cose diverse (v. Hanson, 1971; v. Santambrogio, 1978).
Adottare (esplicitamente o implicitamente) l'una o l'altra di queste due metafore (che hanno alle spalle una storia complicata) conduce, per quanto concerne la storia della scienza, a risultati molto differenti. Sulla base della prima immagine si tende a concepire il processo di crescita della scienza come un processo di ‛accumulazione'; sulla base della seconda il processo tende a configurarsi come consistente in ‛ristrutturazioni' (disegno di nuove carte). La storia della scienza, nel Novecento, è caratterizzata dall'abbandono della tesi di una storia cumulativa, presente in molte opere classiche. Il loro intento principale era quello di una comprensione (attraverso l'analisi della loro cosiddetta evoluzione) dei concetti operanti nella scienza contemporanea: ‟la storia sceglieva una singola scienza o un settore della scienza già codificato e ricercava quando, dove e come erano venuti alla luce gli elementi che costituivano il suo terreno di studio e il suo metodo" (v. Agassi, 1963). Una scienza concepita come una marcia trionfale verso la verità, come sviluppo lineare, ininterrotto e cumulativo, come un edificio costruito mediante aggiunte successive e parziali perfezionamenti rendeva invisibili i contrasti e le alternative, eliminava dalla storia le discussioni e le polemiche, giungendo a occultare e a rendere invisibili le ristrutturazioni, le svolte, le rivoluzioni. La crisi di questa concezione tradizionale ha anche segnato il declino di quelle storie generali, scritte da differenti specialisti, ciascuno dei quali prende in esclusiva considerazione la medicina o la fisica o la cosmologia. Alle storie ‛speciali', costruite sulla base delle partizioni attuali e della tesi dello sviluppo lineare, sfugge di necessità il significato delle ristrutturazioni. Una storia costruita sull'idea che gli scienziati del passato abbiano sempre lavorato in vista del raggiungimento delle specifiche dottrine ora in uso, portando ciascuno una pietra al grande edificio della scienza, comporta principalmente due conseguenze: la sistematica eliminazione di tutti coloro che non ebbero l'avvedutezza di lavorare pensando ai campi di scelta costruiti nel futuro e al futuro costituirsi di discipline autonome; la mancata registrazione di tutti quegli spostamenti che non possono venire registrati entro una storia concepita come somma di storie particolari (v. Preti, 1958). Come, per esempio, la meccanica ‛diventa' un capitolo della fisica? Come ‛diventa' una scienza lo studio dei fossili?
2. Fra istituzioni e filosofie
Alla nascita della storia della scienza hanno dato un contributo decisivo quegli scienziati che, dopo la metà del Settecento, si volsero al passato delle loro discipline: J. L. Lagrange e J. E. Montucla per le matematiche, J. Priestley per l'ottica e l'elettricità, J. S. Bailly e J. B. Delambre per l'astronomia, Ch. Lyell per la geologia, A. G. Kästner per la matematica, J. Fr. Gmelin per la chimica. Questa tradizione si prolunga per tutto il corso dell'Ottocento dando vita a opere come quelle di W. Ostwald sulla chimica (1896), di J. V. Carus sulla zoologia (1872), di J. Sachs sulla botanica (1875), di S. Günther sulla geografia, di G. Libri e di F. Klein sulla matematica. Accanto a questa tradizione (alla quale appartengono anche scritti di M. Cantor, di K. Ritter, di A. Ladenburg) se ne muove un'altra, più ‛filosofica' nelle sue prospettive di fondo. Essa si richiama da un lato al progetto baconiano e poi illuministico di una enciclopedia e classificazione delle scienze, dall'altro al progetto, che era stato di Bacone e di Leibniz e degli Enciclopedisti francesi, di una storia dei rapporti fra l'uomo e la natura. Questa tradizione annovera nomi illustri: Condorcet, A. Comte, W. Whewell, M. Berthelot. Nel 1863, richiamandosi alla memoria e all'insegnamento di Comte, É. Littré invocava dal potere imperiale la costituzione di una cattedra di storia della scienza (v. Kuhn, 1968; v. Schlitt, 1980).
La Deutsche Gesellschaft für Geschichte der Medizin und Naturwissenschaft, fondata nel 1901, fu un primo gradino verso la professionalizzazione della storia della scienza. Ne fu membro autorevole e influente K. Sudhoff, grande storico della medicina, editore e studioso di Paracelso. Al Congresso di storia comparata, che ebbe luogo a Parigi in occasione dell'Esposizione del 1900, fu costituita una sezione dedicata alla storia della scienza. Nel 1903, a Roma, P. Tannery propose la creazione di un comitato internazionale, di una società e di una rivista. Ma il cammino verso le istituzioni sarà lento e difficile. Sudhoff diventerà, nel 1905, direttore di un Istituto di storia della medicina a Lipsia, ma J. Ruska, lo studioso di scienza araba direttore di un Istituto di storia della scienza a Heidelberg, avrà rapporti non facili con le università. La cattedra di Storia della scienza, istituita al Collège de France nel 1 893, fu soppressa nel 1923. Quando G. Sarton, giunto negli Stati Uniti dal Belgio dopo l'invasione tedesca del 1915, decise di dedicare la sua vita ‟alla storia viva e appassionante delle scienze fisiche o matematiche", quella storia non aveva una collocazione precisa nei curricula universitari né disponeva di cattedre o di istituzioni: ‟era un passatempo per alcuni dei suoi esponenti o un tardivo impegno per sclenziati giunti al crepuscolo della vita" (v. Merton, 1979, p. 61; v. Tackray e Merton, 1972).
Ma la situazione cambiò rapidamente. Nel 1921, pubblicando il secondo volume degli Studies in the history and method of science, Ch. Singer poteva tracciare un panorama ottimistico. A Londra, Edimburgo, Liverpool e Oxford si manifestano interessi notevoli. Ne sono testimonianza la History of greek mathematics di sir T. L. Heath, l'edizione di Ippocrate di W. H. S. Jones, il catalogo dei manoscritti alchimistici della Singer. A Lipsia Sudhoff produce, volume dopo volume, una quantità notevole di ricerche originali. Sono stati da poco decifrati, trascritti e tradotti i Quaderni d'anatomia di Leonardo, escono in Olanda le opere complete di Huygens e, in Danimarca, quelle di Stensen e di Tycho Brahe. In Italia continua il grande lavoro di A. Favaro, e A. Mieli ha pubblicato il primo volume dell'Archivio di storia della scienza. In Francia è uscito il quinto volume della storia delle dottrine cosmologiche di P. Duhem. Negli Stati Uniti sta lavorando Sarton. Un istituto e una biblioteca che servano alla promozione di ricerche sistematiche, concludeva Singer, sono ora necessari: ‟Una tale istituzione reagirà rapidamente sull'intero sistema dell'educazione scientifica, aiuterà gli insegnanti a presentare le scienze nei loro reciproci rapporti evolutivi e nei loro rapporti con la storia come un intero, aiuterà l'insegnante di scienze a presentare il suo argomento come il prodotto di una progressiva evoluzione dello spirito umano invece che come una mera descrizione di fenomeni. Questo nuovo orientamento nell'insegnamento delle scienze potrà a sua volta reagire agli effetti del deplorevole, ma reale declino degli studi delle più antiche humanities" (v. Singer, 1921, pp. X-XI). Come Singer vedeva con chiarezza, la situazione era in pieno movimento: nel 1912 erano usciti in Francia i primi volumi delle Mémoires scientifiques di Tannery (morto nel 1904). Nel 1907 era stata fondata in Italia ‟Scientia", ‛rivista di sintesi scientifica', nel 1911 erano stati pubblicati gli Scritti di G. Vailati, nel 1912 Scienza e razionalismo di F. Enriques. Fra il 1925 e il 1927 verranno pubblicati i tre volumi degli Scritti sulla storia dell'astronomia antica che G. Schiaparelli, il maggior storico della scienza che l'Italia abbia avuto, aveva composto negli anni settanta dell'Ottocento. La prefazione di Singer era stata scritta, nel 1921, nell'University College dell'Università di Londra. Nel 1926, in quello stesso College, verrà istituita la prima cattedra di Storia della scienza. Nel numero di novembre-dicembre del 1927 della rivista ‟Archeion" veniva pubblicato un appello di A. Mieli ai suoi colleghi storici della scienza per una partecipazione attiva ai lavori dell'organizzazione storica internazionale. Nel corso del Congresso di scienze storiche che si tenne a Oslo nel 1928 nacque un Comitato internazionale di storia delle scienze che è alla base della futura Accademia Internazionale di Storia delle Scienze (v. Costabel e Grmek, 1978).
Dal punto di vista istituzionale, la storia della scienza è una disciplina giovane e professori specificamente addestrati per insegnarla esistono solo da pochi decenni. Molti di coloro che oggi insegnano questa disciplina si considerano, direttamente o indirettamente, scolari di I. B. Cohen, lo studioso ed editore di Newton. Cohen, che prese parte al primo specifico corso di dottorato (Ph. D.) in storia della scienza che ebbe luogo negli Stati Uniti, fu discepolo (e poi successore) di Sarton a Harvard, e Sarton è uno dei pionieri della disciplina. Il processo di istituzionalizzazione, che si è verificato con maggiori o minori ritardi in tutti i paesi, ha comunque grandemente ridotto il numero delle figure (un tempo dominanti) degli scienziati che ripercorrono le vicende della loro disciplina. Figure di studiosi eminenti, come quelle di J. R. Partington per la chimica o di E. T. Whittaker per l'elettrologia, costituiscono, nella situazione contemporanea, delle eccezioni.
Nel creare un atteggiamento nuovo nei confronti del significato e del senso di una considerazione storica delle scienze ebbero soprattutto un peso determinante le opere di E. Mach sulla meccanica e di Duhem sulla cosmologia. Die Mechanik in ihrer Entwicklung, historisch-kritisch dargestellt risale al 1883, ma l'intera opera di Mach, com'è noto, resterà al centro della discussione epistemologica di questo secolo. Scrivendo, nel 1912, la prefazione alla settima edizione della sua opera, Mach sottolineava la grande diffusione del suo lavoro, l'esistenza di traduzioni inglese, francese, italiana, russa; riconosceva, per la parte storica del suo libro, un debito verso le osservazioni critiche di E. Wohlwill, di Duhem, di Vailati; affermava che entrambi gli aspetti della meccanica, quello empirico e quello logicoteorico, dovevano esser fatti oggetto di studio. Per quanto lo concerneva, egli si era fermato di più su quello empirico: ‟A settantaquattro anni e gravemente malato, non posso più fare nessuna rivoluzione; spero però grandi progressi dal giovane matematico Hugo Dingler che, giudicando dalle sue pubblicazioni, ha la capacità di considerare in modo libero e spregiudicato entrambi gli aspetti della scienza" (v. Mach, 1883; tr. it., p. 32). La ricerca storica sullo svolgimento di una scienza ha, per Mach, una funzione precisa: serve a impedire che i principi che essa abbraccia ‟degenerino a poco a poco in un sistema di dogmi". La storia ci fa comprendere meglio lo stato attuale di una scienza, ma ci mostra anche ‟come essa sia in parte convenzionale e accidentale" e quindi serve ad ‟aprire la strada al nuovo". La storia della scienza veniva presentata da Mach come consapevolezza della relatività dei problemi e delle verità, come strumento capace di fornire uno sguardo più ampio, come difesa dalle ricadute nel dogmatismo, come mezzo indispensabile a una ridiscussione spregiudicata dei risultati e delle acquisizioni della scienza contemporanea: ‟Chi conosce l'intero svolgimento della scienza valuterà l'importanza di un qualsiasi movimento scientifico odierno in modo molto più libero e corretto di quanto possa fare colui che, limitato nel suo giudizio al periodo di tempo che egli stesso ha vissuto, vede solo la direzione che la scienza ha preso momentaneamente" (ibid., p. 40). L'immagine ‛epistemologica' della storia della scienza avanzata da Mach con grande forza teorica ne favorirà grandemente la nascita e la crescita, la accrediterà come un lavoro significativo e importante agli occhi degli scienziati e di filosofi, ma la condizionerà a lungo. Nelle filosofie che variamente si richiameranno a Mach resterà ben salda la convinzione (implicita nelle posizioni di Mach e soprattutto nel suo modo effettivo di fare storia della scienza) dell'assoluta irrilevanza dei contesti ai fini della comprensione delle teorie. Mentre tendeva a una saldatura con filosofi e scienziati, la storia della scienza tendeva a distaccarsi dal lavoro effettivo degli storici, interessati, per antichissima tradizione, soprattutto ai contesti.
Contemporaneamente alla settima edizione della Meccanica, cominciavano a uscire a Parigi i volumi di Le systéme du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic. Una storia ragionata delle scienze doveva - anche nella prospettiva di Duhem - da un lato consentire di guardare senza pregiudizi ai risultati delle scienze, dall'altro saldarsi strettamente a un esame della struttura logica delle teorie. Convenzionalismo non significa arbitrarietà, e la non arbitrarietà appare garantita dalla storia della scienza. Quest'ultima, infatti, ‟crea e fortifica la convinzione che la teoria fisica non è affatto un sistema puramente artificiale, oggi comodo e domani senza impiego". La teoria è invece ‟una classificazione via via più naturale, un riflesso via via più chiaro delle realtà che il metodo sperimentale non potrebbe contemplare in modo diretto" (v. Duhem, 1906, p. 445). Sul ‛continuismo' di Duhem, che costituisce un punto di radicale frattura con gli sviluppi successivi, avremo modo di ritornare, ma su un altro punto, anch'esso decisivo, le prospettive di Duhem sono radicalmente alternative rispetto a quelle dell'epistemologia e della storiografia successive (da Koyré fino a Kuhn): la metafisica costituisce per Duhem, in ogni caso, una realtà ‛esterna' alla scienza. Duhem non si limitava infatti a sostenere che le teone fisiche non sono ‛deducibili' dai sistemi metafisici e che non è quindi possibile ‟trarre da un sistema metafisico tutti gli elementi necessari alla costruzione di una teoria fisica". Affermava anche la necessità di una totale liberazione dalle metafisiche: ‟Una teoria fisica, fondata su principi non tratti da nessuna dottrina metafisica, potrebbe essere giudicata in se stessa, senza che le opinioni dei diversi fisici verso di essa dipendessero per nulla dalle differenti scuole filosofiche alle quali possono appartenere" (ibid., pp. 24-25). Anche qui, come nel caso di Mach, il ruolo educativo e pedagogico della storia della scienza veniva fortemente sottolineato, ma, ancora una volta, gli ‟imperativi epistemologici" rischiavano di lasciare poco spazio alle alternative e agli imprevisti della storia reale. Concetti e discorsi ‟venivano collocati in uno spazio intellettuale in cui la reversibilità delle relazioni era ottenuta dimenticando l'aspetto storico dell'oggetto di cui si tratta" (v. Canguilhem, 1968, p. 21).
3. Tradizioni di ricerca nella storia della scienza
La storia della scienza, si è visto, si colloca all'interno di una rete di rapporti e di relazioni con filosofi, storici, scienziati. Se non un ‟ponte", come auspicava Sarton, costituisce certamente un punto di incrocio di strade differenti. Volendo, per amore di chiarezza e a scapito (naturalmente) della complessità delle vicende reali, dare un'immagine semplificata di questo incrocio, è forse possibile cercare di enumerarare e di distinguere alcune delle strade che vi convergono. Sull'attuale fisionomia e sulla caratterizzazione della storia della scienza, sulla presenza in essa di differenti ‛tradizioni' e di differenti ‛programmi' di ricerca hanno variamente (ma in ogni caso fortemente) inciso: 1) le discussioni di epistemologia e di filosofia della scienza; 2) l'opera svolta da storici della filosofia e da storici delle idee; 3) la sociologia tedesca e la discussione sul marxismo; 4) l'opera svolta da alcuni ‛pionieri' e riconosciuti ‛maestri' che hanno contribuito alla formazione di un gran numero di studiosi; 5) le suggestioni derivanti da terreni apparentemente molto lontani come la Gestaltpsychologie, la teoria dell'evoluzione, l'antropologia culturale, la psicanalisi, le discussioni intorno al concetto di ‛stile'. Il presente capitolo è dedicato alla trattazione dei primi quattro punti ora elencati.
a) Filosofie ed epistemologie
È solo possibile richiamare, in forma di scheletrico elenco, alcuni nomi e alcuni concetti. Converrà in primo luogo ricordare la Philosophie der Arithmetik (1891) e le Logische Untersuchungen (1900-1901) di E. Husserl: la distinzione di principio fra le proposizioni universali e necessarie della logica e della matematica (fondate sulla intuizione delle essenze) e le scienze naturali, le cui leggi sono solo generalizzazioni fondate sull'induzione, eserciterà un peso decisivo non solo su Koyré ma su tutta quella vasta tradizione di ricerca che andrà nettamente privilegiando (fino ad anni recenti) la storia della matematica, della fisica, dell'astronomia su quella delle scienze ‛baconiane', classificatorie e sperimentali. La storia della fisica-matematica e dell'astronomia diventerà per molti, su queste basi, il modello per la storia di ‛ogni' scienza. Anche il più tardo Husserl della Krisis (1935) darà luogo a suggestioni e orientamenti molto significativi.
La science et l'hypothése e La valeur de la science di H. Poincaré furono rispettivamente pubblicate nel 1902 e nel 1905. Ne emergeva non solo il convenzionalismo, ma l'immagine di una scienza come sovrapposizione di linguaggi diversi chiamati a esprimere una comune base sperimentale: l'idea che la scelta fra tali linguaggi dovesse essere guidata ‟dalla maggiore o minore comodità espressiva di un linguaggio rispetto all'altro". Pochi anni più tardi, nel 1906, usciva il primo volume di Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neuren Zeit di E. Cassirer. Vi si affermava che il rapporto tra filosofia e scienza viene ‟colto e descritto solo esteriormente finché si parli di uno scambievole influsso che ambedue esercitano l'una sull'altra". Un'azione di questo tipo è presente in ogni campo della cultura. Il nostro compito, proseguiva Cassirer, ‟presuppone un più stretto rapporto specifico tra i due campi del pensiero: essi sono sintomi indipendenti e indispensabili di uno stesso progresso intellettuale" (v. Cassirer, 1906-1920; tr. it., pp. 26-27). Trascurando questo importantissimo ‟anello di congiunzione", l'intero sviluppo del pensiero apparirebbe ‟saltuario e lacunoso". Solo in esso e in virtù di esso il pensiero filosofico conserva la sua continuità interna: ‟Soltanto nella scienza esatta, nel suo processo continuo, malgrado tutte le oscillazioni, l'unità del concetto di conoscenza, che in tutti gli altri campi rimane solo un'esigenza, ha il suo vero compimento e la sua conferma". Nella storia della scienza, a differenza che nella storia della filosofia, non si ha infatti ‟un avvicendarsi di opinioni", ma la possibilità di rintracciare ‟un nesso chiaro e significativo" (ibid., p. 27).
In un testo del 1901, L'idéalisme contemporaine, L. Brunschvicg aveva affermato che le categorie costitutive del pensiero, ‟lungi dal consentire una deduzione a priori che precede la scienza, appaiono come il termine della riflessione scientifica" (v. Brunschvicg, 1901, p. 10). Di questa tesi offriva conferma il libro del 1912 Les étapes de la philosophie mathématique. Dieci anni più tardi, in L'expérience humaine et la causalité physique la ‟tensione all'unità" veniva presentata come caratterizzante l'esperienza scientifica e quella filosofica. La scienza contemporanea è ‟complessa, sinuosa, instabile", la speculazione dogmatica ‟vuole sistemi semplici e definiti". Tuffandosi ‟nel fondo della storia" sarà possibile vedere come ‟si sono sviluppate, cristallizzate, e quindi infrante, le nozioni che servivano a mettere in equazioni il problema dell'universo, come sono stati rifondati e sfumati, complicati e resi sottili i metodi che offrono il mezzo di perfezionare senza posa l'approssimazione delle proposizioni raggiunte" (v. Brunschvicg, 1922, pp. 569-570). Il tema della cristallizzazione e della rottura verrà ripreso, con energia particolare, da G. Bachelard. Nella storia della scienza sono presenti coupures e, di conseguenza, radicali novità. In La formation de l'esprit scientifique Bachelard sottolineava, in primo luogo, l'irriducibile varietà dei significati: ‟Troppo spesso lo scrupolo di oggettività che induce lo storico della scienza a registrare tutti i testi non arriva a misurare le variazioni nell'interpretazione dello stesso testo. In una medesima epoca, sotto una medesima parola, quanta varietà di significati!" (v. Bachelard, 1938). A intendere la complessità della scienza moderna e del processo attraverso il quale essa si è realizzata è soprattutto necessaria la consapevolezza degli ‟ostacoli epistemologici" che essa ha superato e che il senso comune (che è il nemico principale del sapere scientifico) ha continuamente opposto al suo procedere: ‟È in termini di ostacoli che bisogna porre il problema della conoscenza scientifica. E non si tratta di considerare gli ostacoli esterni, [...] è internamente, nell'atto stesso del conoscere, che appaiono, per una sorta di necessità funzionale, lentezze e confusioni" (ibid.). Nasceva, anche su queste basi, il progetto di una psicanalisi della conoscenza scientifica.
In un clima molto diverso ci conducono una serie di opere classiche, scritte alla fine degli anni venti e nel corso degli anni trenta. A esse, anche se in modo spesso implicito e indiretto, faranno riferimento molti storici della scienza. Ci si riferisce in particolare al Tractatus di L. Wittgenstein (1921 e 1922), a Der logische Aufbau der Welt di R. Carnap (1928), alla Logik der Forschung di K. Popper (1935), ai primi fascicoli della International Encyclopaedia of unified sciences guidata da O. Neurath (1936). L'incidenza del neopositivismo, o empirismo logico, sulla concezione della scienza, sulla sua immagine, e quindi sul modo di concepirne e scriverne la storia è stata senza dubbio molto rilevante. Va però subito sottolineato che alcune delle tesi di fondo dei neopositivisti (anche in questo eredi delle posizioni di Mach) tendevano ad affermare l'irrilevanza dell'analisi storica per la filosofia e per la scienza. Sulla base della nota distinzione fra ‛contesto della scoperta' e ‛contesto della giustificazione', si sosteneva, di fatto, la risoluzione o la dissoluzione della storia della scienza nell'epistemologia: il lavoro degli storici poteva tutt'al più venire utilizzato come quello di più o meno diligenti raccoglitori di ‛esempi' il cui vero significato sarà chiarito dai filosofi della scienza. L'‟analisi logica della scienza", la sua ‟ricostruzione razionale" hanno il compito di studiare la struttura interna o il funzionamento della scienza; lo studio della sua evoluzione storica, dei condizionamenti subiti da coloro che la praticano, è di specifica pertinenza di altri professionisti: storici, psicologi, sociologi (v. Carnap, 1928, p. 71). L'epistemologia studia le relazioni interne, la sociologia le relazioni esterne (v. Reichenbach, 1938, p. 4). Come o in che situazione un'ipotesi è stata formulata non costituisce problema per la filosofia della scienza: è argomento per psicologi o per sociologi. L'epistemologia, affermava Reichenbach nel 1938, ‟non si cura dei processi di pensiero nella loro occorrenza di fatto [...] ciò a cui mira è costruire i processi di pensiero nel modo in cui dovrebbero occorrere per risultare organizzabili in un sistema consistente; essa considera un sostituto logico piuttosto che un processo reale" (ibid., p. 5). Al di là delle differenze notevolissime fra la filosofia di Popper e quella dei neopositivisti, anche Popper teorizza una rigida distinzione fra ‛psicologia della ricerca' e ‛logica della scoperta'. Dalla logica della scienza viene espunto ogni fattore pragmatico non penetrabile con gli strumenti dell'analisi logica. In queste prospettive la scienza viene considerata degna di interesse solo in quanto ‛prodotto finito'. Il momento della sua nascita, dell'emergenza dei prodotti nella storia, viene considerato non rilevante o non degno di attenzione. In quella prospettiva c'era ampio spazio per l'anatomia e la fisiologia degli organismi scientifici presenti nella storia, non c'era alcuno spazio per la loro embriologia. Fra la comunità degli epistemologi e quella degli storici della scienza venne costruita in quegli anni una rigida linea di confine protetta da un alto steccato che non sarà agevole da superare.
b) Storici della filosofia e storici delle idee
Nello stesso giro di anni in cui uscivano le opere fondamentali di Popper e di Carnap venivano anche pubblicati libri di assai diversa natura destinati ad agire in modo più diretto e più rilevante sugli orientamenti e le prospettive della ricerca storica. Basterà, a titolo di esempio, ricordarne tre: The metaphysical foundations of modern physical science (1924) di E. A. Burtt, professore di filosofia a Chicago e poi a Stanford; The great chain of being (1936) di A. O. Lovejoy, il teorico della history of ideas e direttore, fino alla morte (1962), del ‟Journal of the history of ideas"; Science and the modem world (1926) del filosofo inglese A. N. Whitehead. Il libro di Burtt esprimeva, nel titolo, la tesi di fondo in esso contenuta: perché Copernico credette, prima di ogni conferma empirica, nella verità del suo quadro dell'Universo? Quali erano gli argomenti a disposizione di un contemporaneo di Copernico per non accettare o rifiutare la nuova ipotesi? Del moto dei corpi celesti si poteva correttamente render conto sia in base alla dottrina di Tolomeo sia in base a quella di Copernico; prima delle osservazioni di Galileo la Luna non appariva simile alla Terra né il Sole ricoperto di macchie; l'affermazione che, ove la Terra si muova, un corpo lanciato verso l'alto ricadrebbe a qualche distanza dal suo punto di partenza non era stata confutata da Galileo; la non percepibilità - per i sensi - della parallasse stellare implicava, se la teoria era vera, una così immensa distanza della Terra dalle stelle fisse da apparire incredibile e ridicola. Alla luce di queste considerazioni, concludeva Burtt, ‟anche in assenza di scrupoli religiosi, gli uomini più propensi all'empirismo avrebbero qualificato quella teoria come un appello ad accettare i frutti prematuri di una immaginazione non controllata invece che ad accettare le solide induzioni, costruite gradualmente attraverso i secoli, dalle conferme delle esperienze dei sensi". La conclusione di carattere generale è anch'essa da sottolineare: ‟Nell'enfasi così forte sull'empirismo che caratterizza la filosofia di oggi, è bene richiamare queste cose. Gli empiristi contemporanei, se fossero vissuti nel secolo XVI, sarebbero stati i primi a dileggiare la nuova filosofia dell'Universo" (v. Burtt, 19502, p. 25). Nel cuore della nuova scienza di Copernico, Keplero, Cartesio, Galileo, Newton sono presenti e operanti affermazioni metafisiche: l'affermazione della struttura matematica del mondo; l'identificazione della ‛realtà' con corpi materiali che si muovono nello spazio e nel tempo secondo leggi matematicamente determinabili; il rifiuto delle spiegazioni in termini di cause finali e della presenza del finalismo nell'Universo. La storia della scienza è connessa, in modo inscindibile, a quella delle metafisiche. Il rilievo di questa connessione elimina alla radice ogni prospettiva di tipo continuista, reintroduce nella storia della scienza le svolte e le rivoluzioni, connette saldamente storia della scienza e storia della cultura.
Quando Lovejoy premetteva al suo libro il celebre saggio The study of the history of ideas, raccoglieva (nel 1936) i risultati di tutta una serie di ricerche alle quali egli, insieme a G. Boas e G. Chinard, aveva dato avvio nel marzo del 1922 con la fondazione dello History of ideas club. Il lavoro compiuto da Lovejoy e tutte le ricerche poi svolte nel ‟Journal" si fondano su una premessa che trovò precisa formulazione nel saggio del 1936: la funzione storica esercitata da una determinata concezione del mondo, da una specifica tesi o dottrina, da un abito mentale, da un tacito o esplicito presupposto può essere compresa solo attraverso una ricerca che tenda a rintracciarne l'azione esercitata in differenti fasi e in differenti forme della vita intellettuale. L'‛idea' della quale si intende tracciare la storia deve essere seguita in più di una, al limite in ‛tutte' le provincie del sapere. In tali provincie vige infatti un accordo maggiore di quanto non si sia portati naturalmente a riconoscere. La storia delle idee si poneva dunque, consapevolmente, sul terreno di un progetto di sintesi. Aveva chiara consapevolezza della sua funzione polemica: voleva anche essere l'espressione di una ferma protesta contro le paratie accademiche, contro le conseguenze che derivano alla storiografia dalla convenzionale divisione della storia letteraria e delle altre storie speciali sulla base delle nazionalità e delle lingue. A differenza di quanto avveniva con il marxismo, la storia delle idee rinunciava esplicitamente a ogni progetto di risoluzione delle varie storie speciali in una conoscenza storica unitaria o in una ‛scienza' storica e dialettica dello sviluppo della società. Il suo oggetto era, più modestamente, solo un gruppo di ‛fattori' presenti nella storia. Il suo campo operativo era limitato, in modo specifico, a quei ‛fattori' o a quelle ‛idee-unità' la cui presenza può essere riscontrata in regioni del mondo intellettuale considerate, per tradizione, chiuse e separate le une dalle altre. Essa si dichiarava specificamente (se non esclusivamente) interessata a quei processi nei quali i passaggi o le influenze dall'uno all'altro campo del sapere appaiono più evidenti. Queste limitazioni derivavano anche dalla convinzione che fosse possibile procedere a un lavoro di isolamento di una serie di ‛idee' concepite come ‛unità elementari' (units) o come elementi costitutivi delle varie visioni del mondo o dei vari sistemi filosofici. Non per caso Lovejoy asseriva che lo stadio iniziale della ricerca di storia delle idee presentava analogie con il procedimento dell'analisi chimica. Le dottrine o le tendenze cui si fa in genere riferimento con gli ‛ismi' non corrispondono, nella maggior parte dei casi, a quegli elementi che lo storico delle idee cerca di discriminare. Sono piuttosto, assai spesso, dei composti ai quali deve essere applicato il metodo dell'analisi. Romanticismo, razionalismo, pragmatismo sono dei ‛complessi' in due sensi: indicano generalmente non una dottrina, ma molte e distinte dottrine spesso in conflitto fra loro; ognuna di queste dottrine è, a sua volta, spesso scomponibile in elementi semplici. A questa specie di atomismo storiografico non sono mancate obiezioni, spesso molto serie, anche se molte critiche superciliose sono venute da personaggi che si limitavano a scrivere programmi di una scienza unitaria della storia, che non si traducevano mai in libri, o che dovevano, non molti anni più tardi, entusiasmarsi per le strutture elementari di Propp o di Lévi-Strauss. Molti storici, anche gli storici della scienza, fecero tuttavia tesoro, al di là di ogni riserva, di un insegnamento di Lovejoy: ‟Più vi spingerete verso il cuore di un problema storico strettamente delimitato, più finirete per incontrare, in quello stesso problema, qualcosa che vi spingerà al di fuori, al di là dei suoi confini" (v. Lovejoy, 19602, p. 6).
Nella prefazione - scritta nel 1956 - al suo volume sul telescopio, il microscopio e la nuova astronomia, che era intitolato Science and imagination e che raccoglieva saggi scritti fra il 1935 e il 1940, M. H. Nicolson non si limitava a riconoscere il suo debito nei confronti di Lovejoy: ‟Il metodo che ho seguito in questi studi è quello che poi si è chiamato di storia delle idee e che, vent'anni fa, era meno familiare di quanto non sia oggi. Gli storici della letteratura mi chiedono spesso chi abbia avuto influenza su di me [...] In misura maggiore di quanto allora non credessimo, molti di noi, ne sono certa, erano influenzati da Science and the modern world di Alfred North Whitehead" (v. Nicolson, 1962, p. 6). Il libro di Whitehead era stato pubblicato l'anno stesso di quello di Lovejoy. L'unità del processo storico vi era saldamente riaffermata, anche se in modo problematico e sottile, in pagine piene di sfaccettature. Il libro intendeva discutere ‟di qualche aspetto della civiltà occidentale durante gli ultimi secoli, in quanto essa si è svolta sotto l'influsso dello sviluppo della scienza". La ricerca era sorretta da due presupposti di fondo, che ne costituivano la premessa e ne determinavano gli orientamenti: 1) la mentalità di un'epoca ha la sua origine nel punto di vista che domina la concezione del mondo nelle classi colte della società; 2) i differenti interessi umani che ‟suggeriscono le cosmologie e ne sono a loro volta influenzati" sono la scienza, l'estetica, l'etica e la religione. Il libro, non privo di toni paradossali ma pervaso da un'intelligenza sottile, insisteva sulla ‟fallacia delle concretizzazioni mal poste", sui ‟pericoli dell'empirismo privo di immaginazione", sull'‟aspetto di assurdità che hanno le idee realmente nuove quando sono esposte per la prima volta". Al sistema di idee scientifiche del XVII secolo, che ha sempre, in seguito, dominato il pensiero e che ha condotto alla dualità fondamentale materia-spirito, veniva contrapposta ‟la concezione della vita, dell'organismo, della funzione che forma il tallone d'Achille dell'intero sistema". Le figure di Bacone, di Berkeley, di Shelley, dei filosofi romantici della natura sono rimaste ‟al di fuori della tonalità che costituisce la base del successo della scienza". Tali figure emergevano come presenze alternative e significanti, capaci di mettere in crisi una linea di interpretazione del processo storico della scienza che era stata scritta adottando i valori, i metodi, i criteri codificati dalla scienza stessa. Quest'ultima segue una procedura metodologica ‟esclusiva e intollerante, che dirige tutta l'attenzione verso un gruppo definito di astrazioni e trascura tutto il resto" (v. Whitehead, 1926; tr. it., pp. 13, 64, 67, 77, 229). Questa tematica avrà, com'è noto, grande fortuna e andrà variamente intrecciandosi con quella presente nella Krisis di Husserl e nel pensiero di Heidegger. Ma in Whitehead non c'era alcuna valutazione negativa della scienza come impresa empia e demoniaca. C'era invece la consapevolezza che in tutta la storia, anche in quella della scienza, sono numerose e frequenti le ‟avventure di idee".
c) Fra sociologia e marxismo
Le discussioni sul rapporto tra storia interna e storia esterna della scienza, sulle relazioni fra crescita della conoscenza scientifica e mutamenti sociali saranno, come vedremo, particolarmente accese negli anni trenta. Oltre che dai richiami a Marx e al marxismo esse saranno fortemente condizionate dai testi di Max Weber (pubblicati fra il 1904 e il 1924) e dalle pagine del volume di vari autori Versuche zu einer Soziologie des Wissens, edito da M. Scheler. Il saggio introduttivo di Scheler verrà poi ripreso, nel 1926, in Die Wissensformen und die Gesellschaft.
Affermava Weber: ‟La credenza nel valore della verità scientifica non è derivata dalla natura, ma è il prodotto di determinate culture". La razionalità scientifica veniva collegata nelle sue pagine al grande tema degli orientamenti e dell'avvenire del mondo moderno dominato dalla onnicalcolabilità, da un processo di razionalizzazione che conduce da un lato al ‟disincantamento del mondo" (Entzauberung der Welt), alla caduta delle premesse teologiche e metafisiche sulle quali la tradizione fondava i suoi giudizi di valore, dall'altro alla laicizzazione della professione (Beruf) che, da ‛chiamata' o ‛vocazione', diventa specifica competenza burocratico-metodica. La scienza moderna, la sua origine, la sua struttura venivano collegate a un processo storico generale, alle forme dello spirito capitalistico. La scienza veniva considerata una delle possibili ‟sezioni finite" attraverso le quali è possibile interpretare la complessità del mondo. La riflessione sulla scienza e la storia della scienza diventavano una cosa sola con il tentativo di ‟costringere l'individuo, o almeno di aiutarlo, a rendersi conto del senso ultimo del suo proprio agire".
Concepire il mondo come privo di predicati di valore, affermava dal canto suo Scheler, è un compito che gli uomini si posero in nome di un valore: il valore vitale del dominio e del potere sulle cose. La nozione di Herrschaftswissen o ‛sapere di dominio' è al centro di molte pagine di Scheler e avrà, fino a Marcuse, grande risonanza e fortuna. Fra le strurture teoriche della scienza e la sua applicabilità tecnologica esiste ‟un nesso interno": il sistema delle categone su cui si basa la scienza moderna ha il suo fondamento in un ethos che tende al dominio sulla natura. La rivoluzione scientifica è ‟una trasformazione generale". Essa concerne insieme: il primato della quantità sulla qualità; la nozione di oggettività; la posizione sociale dell'ingegnere di fronte al cultore delle arti liberali. Non è vero che le scienze positive siano determinate dalla struttura della società, ma è vero che la scelta di un particolare modo di guardare il mondo, assunto come privilegiato, può essere compresa ‟soltanto sociologicamente". Al di là dei frequenti richiami a Spengler, il contributo più originale di Scheler consisteva in due scoperte fondamentali per ogni futura sociologia del conoscere: ‟la molteplicità dei tipi di conoscenza (le cui accentuazioni variano in funzione della realtà sociale); la diversa intensità che lega questi tipi di conoscenza con le strutture sociali" (v. Gurvitch, 1950, p. 112).
Molte di queste tesi, che variamente si intrecceranno con quelle di Weber, verranno riprese e ampliate. Attraverso i numerosi e importanti lavori di E. Zilsel sugli artigiani del Cinquecento andranno a inserirsi entro le tematiche del neopositivismo; attraverso il saggio di Fr. Borkenau Zur Soziologie des mechanistischen Weltbild (1932) e il volume del 1934 Der Übergang vom feudalen zum bürgerlichen Weltbild andranno a connettersi con la tematica dei ‛francofortesi'. A differenza del suo avversario H. Grossmann (che insisteva sul tema della rilevanza delle macchine), Borkenau, richiamandosi a Marx, tendeva a identificare l'avvento dei ‛metodi quantificatori' adottati sul piano delle filosofie e della teoria con la produzione industriale.
Pochi anni prima della comparsa del libro di Borkenau, nel 1931, si era svolto a Londra il secondo Congresso internazionale di storia della scienza e della tecnologia. Una delegazione di scienziati e storici della scienza sovietici, guidata da N. I. Bucharin, vi aveva presentato una serie di relazioni che fu pubblicata in inglese, in un'edizione che divenne presto introvabile, col titolo Science at the cross-road. Particolare interesse suscitarono le relazioni di Bucharin, di B. Hessen, che parlò su The social and economic roots of Newton's principia, e di B. Zavadovskij, che, in The ‛physical' and ‛biological' in the process of organic evolution, sostenne tesi decisamente antiriduzioniste prospettando una forma di ‛organicismo non oscurantista'. Non solo per J. D. Bernal, ma anche per J. S. Haldane, L. Hogben, J. Needham, J. G. Crowther, G. Childe, B. Farrington, E. Hobsbawm, S. Lilley, Ch. Hill, quel libro fu ‟il punto di partenza di una nuova interpretazione della storia della scienza" (v. Bernal, 1939, p. 406). Esso fornì ‟un vero modello della forma marxista di esternismo nella storia della scienza" (v. Needham, 19712, p. VIII). Il gruppo degli storici e degli scienziati inglesi che si richiamò a quelle pagine contribuì alla storia del pensiero scientifico con opere di grande rilievo, anche se in quel libro il metodo marxiano si trasformava in una descrittiva economico-sociologica che finiva per mettere fra parentesi, come scarsamente rilevanti, proprio quelle ‛teorie' di cui pure si intendeva chiarire e spiegare la genesi. Molti dei delegati al Congresso di Londra furono poi vittime delle ‛illegalità' staliniane. Per una curiosa ironia della storia, la grande stima di cui godette in Unione Sovietica l'opera di Bernal rimise in circolo, in quel paese, molte delle idee che Bernal aveva direttamente ricavato da Bucharin. In Science at the cross-road il marxismo, a differenza di quanto avvenne con molti dei suoi seguaci inglesi, era stato presentato come una metodologia normativa: ‟Ogni singola ricerca che voglia essere esaustiva e significativa [...] deve subordinare tutte le scienze alla gnoseologia e alla metodologia del materialismo dialettico".
d) I ‛pionieri' e i' maestri'
Fra le figure dei ‛pionieri' e dei ‛maestri' converrà accennare, in primo luogo, a Sarton che, a ventotto anni, nel 1912, dette vita a ‟Isis": revue consacré à l'histoire de la science. Nella sua opera paziente e sistematica di raccolta di materiali, di organizzazione degli studi, di stimolo alla professionalizzazione, Sarton procedette instancabilmente, per tutto il corso della sua vita, con una straordinaria capacità di lavoro e con un invidiabile energia intellettuale. La sua prospettiva, come ha scritto R. K. Merton, era davvero ‟piena di innocenza e di speranza" (v. Merton e Gaston, 1977, p. 61). La sua concezione della storia era ecumenica ed enciclopedica. La storia della scienza doveva prendere a suo oggetto non solo l'Occidente, ma il mondo islamico, la Cina, l'India, il Giappone. Doveva risultare dal lavoro concorde e dal consenso di scienziati, storici della filosofia, filosofi, appartenenti a tradizioni diverse e a differenti ambiti nazionali. La storia della scienza era, per Sarton, ‟la storia della perenne lotta contro gli errori, le superstizioni, i crimini dello spirito", era anche la storia ‟della crescita della tolleranza e della libertà di pensiero" (v. Sarton, 1952, p. 11). Quella storia, concepita come ‟graduale rivelazione della verità, graduale liberazione dall'oscurità" (v. Sarton, 1948, p. 11) escludeva dal suo ambito gli errori e le pseudoscienze: in essa il Timeo veniva considerato solo come una fonte di superstizioni (v. Sarton, 1952, p. 423). L'‛ingenuità' di Sarton fu anche la sua forza. Gli attirò la stima e il rispetto di molti. Fece della sua figura un punto di riferimento per moltissimi. Egli fu certo scarsamente consapevole delle sfide che la filosofia, la psicologia e la sociologia del Novecento lanciavano alla sua fede progressista. Ma per molto del lavoro successivamente svolto restarono non solo i suoi libri pieni di una quantità quasi sterminata di notizie e di dati ma, come punti fermi, la sua polemica contro i medici e gli scienziati che, privi di metodo storico, si dedicano a elencare festosamente le scoperte della loro disciplina; la severità dei curricula da lui proposti; l'ampiezza della preparazione ritenuta necessaria per occuparsi di storia del pensiero scientifico.
Il merito indiscutibile di aver costruito un solido ponte fra la storia contemporanea della scienza e la grande tradizione tedesca della storia della medicina spetta indubbiamente a W. Pagel (figlio del medico e storico della medicina Julius), che dedicò alla patologia la prima parte della sua vita contribuendo alla stesura di un trattato sulla tubercolosi (1939) che divenne un classico. Nel 1933 (Pestjahr, Pagel chiamava quell'anno) passò da Heidelberg a Cambridge e infine a Londra, dove scrisse due libri fondamentali che in qualche modo riassumono il suo precedente, grandioso lavoro: Paracelsus. An introduction to philosophical medicine in the era of Renaissance (1958) e William Harvey's biological ideas (1967). Costruire una monografia vuol dire, per Pagel, far confluire in essa la ricchezza e la complessità di un paesaggio vasto e complicato. La storia della scienza non è, per Pagel (come era per Sarton), storia del graduale rivelarsi della verità. Il compito dello storico non è quello di selezionare il materiale dal punto di vista dei manuali moderni. In un articolo del 1945, intitolato in modo molto significativo The vindication of ‛rubbish', Pagel affermava che si trattava, in molti casi, di ‟dare senso" a temi filosofici o religiosi o mistici presenti nell'opera degli scienziati del Cinquecento e del Seicento: ‟Lo storico deve rovesciare il metodo della selezione (fondato sul punto di vista ‛moderno') e ricollocare i pensieri del suo protagonista nel loro contesto originale. Le due serie di pensieri, scientifici e non scientifici, emergeranno allora non semplicemente come giustapposti o concepiti gli uni a dispetto degli altri, ma come un tutto organico nel quale essi si rafforzano gli uni con gli altri" (v. Pagel, 1967, p. 82). Una paura lo storico non deve avere: quella di rendere complicati, non lineari, articolati, processi che sono stati presentati come semplici e unidirezionali.
Il libro Background to modern science, pubblicato a Cambridge nel 1938, fu scritto in collaborazione da Pagel e da Needham. Quest'ultimo aveva già pubblicato nel 1931 un ampio trattato di Chemical embriology preceduto da un'ampia esposizione storica dell'embriologia. Fra il 1925 e il 1943 Needham raccolse in una serie di quattro volumi (di cui il più noto è Time, the refreshing river) una serie di saggi sulla scienza, la filosofia, la religione, il socialismo. Nel 1942 pubbucò una seconda e altrettanto importante opera scientifica: Biochemistry and morphogenesis. Un biochimico ed embriologo sperimentale di grande fama, lettore attento di filosofi e di poeti, anglo-cattolico praticante, fortemente impegnato in politica come socialista e come marxista si traformò, negli anni della guerra, in un grande storico della scienza e in un illustre sinologo, divenendo (come ebbe a dire) ‟un taoista onorario". La monumentale Science and civilisation in China iniziò a uscire nel 1954 ed è tuttora in corso di pubblicazione; ne è in corso una doppia traduzione in cinese: una nella Cina popolare, l'altra a Formosa. Dopo la pubblicazione del secondo volume, A. Wright, lo studioso americano del buddhismo, scrisse in una recensione che l'impianto dell'opera gli appariva discutibile perché l'autore muoveva da tre convinzioni: 1) l'evoluzione sociale ha provocato una reale crescita della conoscenza umana della natura e del controllo umano sul mondo esterno; 2) la scienza è un valore e, con le sue applicazioni, tende oggi verso un'unità entro la quale si muovono i contributi di civiltà molto differenti; 3) attraverso questo complicato processo, la società umana si muove lentamente verso forme di maggiore unità, complessità e organizzazione. Nella prefazione al quarto volume Needham scrisse: ‟Riconosciamo queste tesi invalidanti come davvero nostre e, se avessimo a disposizione una porta come quella di Wittenberg molto tempo fa, non esiteremmo ad attaccarle su quella porta" (cit. in Teich e Young, 1973, p. 16).
I due fondamentali lavori di R. K. Merton, Science, technology, and society in seventeenth century England e Social theory and social structure, risalgono rispettivamente al 1938 e al 1949. Al centro di entrambe le opere, come lo stesso Merton ha più tardi chiarito, stavano quattro grandi interrogativi: 1) come si sviluppò, nell'Inghilterra del Seicento, l'istituzionalizzazione della scienza come specifico terreno in competizione con altre occupazioni e altri ambiti di attività? 2) quali sono i modi di interazione fra la scienza e gli altri ambiti istituzionali e culturali (per esempio la religione e l'economia) e quali le possibili esemplificazioni storiche di tale interazione? 3) quali sono le forme, dirette e indirette, di interazione fra scienza e tecnica all'inizio del mondo moderno? 4) quali le influenze dirette e indirette esercitate dagli interessi economici e militari sulla selezione dei problemi considerati rilevanti dagli scienziati? (v. Merton, 1979, pp. 20-21). La scienza è ‟conoscenza pubblica e non privata" non solo nel senso che essa viene ‟distribuita", ma anche nel senso che ‛deve' riconoscere dentro di sé ‟la dipendenza da un'eredità o tradizione culturale". All'interno delle istituzioni scientifiche moderne, il concetto di proprietà ha caratteristiche singolari: ‟quanto più liberalmente la proprietà viene distribuita, tanto più viene assicurata come propria" (v. Merton, 1973, pp. 273-275). Il lavoro avviato da Merton è volto alla costruzione della ‟struttura concettuale necessaria a pensare intorno alla struttura sociale e culturale della scienza". Come notava Needham in una recensione, il libro di Merton ‟esibiva un metodo quantitativo inconsueto fra gli storici" (cit. in Merton, 1979, p. 15). Alle pagine scritte dagli storici della scienza e dai marxisti inglesi, Merton guardava con molto interesse, ma notava, in quegli studi, l'assenza totale di ‟una ricerca empirica s i s t e m a t i c a, storica o contemporanea, quantitativa o qualitativa" (ibid., p. 19). È difficile dargli torto, anche se è da rilevare che quella assenza effettiva era legata da un lato allo scarso peso accademico della sociologia di quegli anni, dall'altro alle diffidenze dei marxisti e di quanti si richiamavano al marxismo per le ricerche della sociologia ‛empirica'.
Con alcune delle tesi e delle prospettive sottolineate da Merton si confrontò direttamente anche Koyré, russo di nascita, scolaro di Hilbert e di Husserl a Gottinga, stabilitosi prima in Francia (ove subì l'influenza di Lévy-Bruhl e di É. Meyerson) e in seguito negli Stati Uniti, dove entrò in un rapporto assai fecondo con la history of ideas. Il commento al De revolutionibus di Copernico è del 1934. La grande e polivalente produzione successiva trovò espressione in libri diffusissimi: Études galiléennes (1939); From the closed world to the infinite universe (1957); moltissimi saggi poi raccolti in Études d'histoire de la pensée scientifique (1966); Newtonian studier (1965). In decisa polemica contro il positivismo e la storiografia positivistica, Koyré rifiuta sia il continuismo, sia la tesi dell'irrilevanza delle metafisiche nella storia della scienza. La scienza è un cammino verso la verità, ma ‟non è una via diritta, è piena di curve, si imbatte in vicoli ciechi, ritorna indietro; essa non è u n a, ma p i ù vie: quella del matematico non è quella del biologo, né quella del fisico [...]; bisogna che seguiamo tutte queste vie nella loro realtà concreta, cioè nella loro separazione storicamente determinata e ci rassegniamo a scrivere la storia d e l l e scienze, prima di poter scrivere la storia d e l l a scienza" (v. Koyré, 1966, p. 361). Koyré aveva però anche energicamente affermato la sua profonda convinzione nella ‟unità del pensiero umano", insistendo su una storia della scienza non indipendente dalla storia delle idee metafisiche e religiose. La rivoluzione scientifica galileiana gli appariva ‟insieme sorgente e risultato di una profonda trasformazione spirituale, che ha rovesciato non solo i contenuti, ma i quadri stessi del nostro pensiero". Di qui la sua insistenza sulla necessità di ‟collocare le opere studiate nel loro ambiente", la sua polemica contro la tentazione di tradurre immediatamente in un linguaggio moderno le dottrine dei classici. Di qui anche la sua polemica contro la nozione di ‛precursore': ‟Considerare qualcuno come precursore di qualcun altro è sicuramente impedirsi di comprenderlo". La sua insistenza sugli ‟scacchi" oltre che sulle ‟conquiste" del pensiero non era legata a interessi per la psicologia: dopo la crisi dei fondamenti in matematica, dopo la rivoluzione relativistica e quella quantistica, affermava, siamo in grado, molto meglio di quanto non fosse concesso agli storici dell'Ottocento, di renderci conto del significato e del valore delle polemiche e delle divergenze. Nelle sue considerazioni sul metodo, Koyré appare spesso oscillante fra tesi diverse. E più preoccupato di combattere tesi che gli appaiono ‟pericolose" che di offrire indicazioni precise. È certo ben consapevole del fatto che una storia dell'astronomia non fa riferimento solo a ‟fatti astronomici" e che in essa si mescolano matematica e cosmologia, ontologia e convinzioni religiose. Ma, al di là di tutti gli ovvi riconoscimenti sui mutamenti prodotti dalla rivoluzione industriale sui ‟quadri della vita umana", egli sostiene con nettezza la tesi della ‟superiorità della teoria sulla pratica". La scienza è stata ed è, nella sua essenza, teoria: ‟La scienza, quella della nostra epoca come quella dei Greci, è essenzialmente teoria, ricerca della verità, e per questo essa ha e ha sempre avuto una vita propria e una storia immanente. Solo in funzione dei suoi propri problemi e della sua propria storia, essa può essere compresa dai suoi storici" (v. Koyré, Études d'histoire..., 1961, pp. 360-361).
I nomi di H. E. Sigerist, di L. Thorndike, di V. P. Zoubov possono essere solo ricordati, anche se la figura di ciascuno di questi maestri sarebbe meritevole di un'analitica trattazione. Dell'opera di Vailati e di Enriques si è già fatto cenno. Risalgono agli anni trenta, anche per quanto riguarda l'Italia, i primi studi dei ‛maestri': la Vita di Galileo Galilei di A. Banfi è del 1930, Il problema della conoscenza nel positivismo e La nuova filosofia della natura in Germania di L. Geymonat sono del 1931 e del 1934. Il lavoro di G. Preti, anch'egli fortemente interessato alla storia del pensiero scientifico, inizierà più tardi con l'antologia newtoniana del 1950. Banfi si richiamava alla fenomenologia di Husserl; Geymonat al neopositivismo. Il discorso che si svolgerà in Italia terrà in scarso conto le ricerche svolte da Sarton, da Pagel, dai marxisti inglesi, da Merton, dallo stesso Koyré. Le discussioni sulla storia della scienza si intrecceranno con quelle sulla fenomenologia e lo storicismo, sul neoilluminismo e sul materialismo dialettico. Gli scritti di A. Mieli, di R. Almagià, di A. Castiglioni, di G. Loria avranno circolazione anche fuori d'Italia. Ma all'intensità di quelle discussioni non corrisponderà, fin quasi all'inizio degli anni sessanta, un lavoro storico tale da essere preso in considerazione da storici della scienza di lingua e cultura non italiane.
4. Programmi alternativi e sviluppi recenti
Non è certo possibile, relativamente agli anni del dopoguerra, né dar conto dell'imponente mole di lavoro che si è svolto su terreni specifici, né esaminare analiticamente i modi in cui si è svolta e si è articolata la discussione fra storici della scienza da un lato e storici della filosofia e filosofi dall'altro. Converrà concentrare l'attenzione su due problemi intorno ai quali la discussione e stata piu intensa: il tema della continuità-discontinuità e quello dei rapporti fra la cosiddetta storia ‛interna' e la cosiddetta storia ‛esterna' della scienza.
a) Continuità e discontinuità
In un saggio del 1969, Sur l'histoire des sciences, M. Pécheux e M. Fichant, che si richiamano all'insegnamento del filosofo marxista Althusser, hanno proposto una netta distinzione fra storici continuisti (Brunschvicg e Duhem) e storici discontinuisti (Bachelard e Koyré): fra coloro che accettano la concezione della scienza come crescita e come sviluppo e coloro che insistono invece sulle coupures epistemologiche, su quei ‛punti di non ritorno' che rendono di fatto impossibile ogni rimaneggiamento delle nozioni precedenti e necessaria l'elaborazione di nuovi concetti. La distinzione fra le coupures e i démarquages o ‛mutamenti congiunturali' (di tipo filosofico, o ideologico, o economico-strutturale), che ne costituiscono ‛il tempo di formazione', viene ripresa dall'interpretazione althusseriana della metodologia marxiana. Pécheux e Fichant sono interessati a una discussione esclusivamente metodologica che verte, in modo molto provinciale, solo sulla produzione francese. Cinque anni prima, nel 1963, lo stesso tema era stato affrontato con ampiezza e penetrazione molto maggiori da J. Agassi nel saggio Towards an historiography of science. La storiografia à la Duhem vi veniva assunta come il simbolo della continuity theory. Essa può essere espressa come segue: ‟Tutti i pensatori sono grandemente indebitati verso i loro predecessori e il tutto progredisce a piccoli passi" (v. Agassi, 1963, p. 31). Copernico è solo un seguace dei suoi precursori: non ci sono né rivoluzioni né svolte e ogni idea ha un precedente. Nella prospettiva del continuismo, la storiografia consiste: 1) nel rintracciare quegli eventi o quelle idee che rendono più breve la distanza fra due eventi o fra due idee; 2) nel presentare in successione una varietà di quadri del mondo che differiscono l'uno dall'altro solo in grado molto piccolo. Duhem staccava nettamente la storia della scienza dalla storia delle metafisiche ed era consapevole dell'impossibilità di applicare il modello continuista a quest'ultima. Un ‛eroico tentativo' di realizzare questa impossibile applicazione fu per esempio compiuto da M. Jammer nel suo magistrale Concepts of space (1954).
Nei decenni precedenti, la discussione sulla continuitàdiscontinuità si era intrecciata da un lato con quella relativa ai cosiddetti ‛precursori di Galilei', dall'altro con le dispute sul significato da attribuire al termine Rinascimento. Il rapporto scienza medievale-scienza moderna, le relazioni fra il metodo degli aristotelici padovani e il metodo galileiano furono, in molti autori, una sorta di terreno privilegiato per quella disputa (Crombie, Randall, Ferguson, Garin).
La tesi della discontinuità, su un piano storiografico più generale, era uscita grandemente rafforzata, a partire dalla fine degli anni cinquanta, ad opera di una serie di autori fra i quali sono particolarmente da ricordare N. R. Hanson (Patterns of discovery, 1958) e Th. S. Kuhn (The structure of scientific revolutions, 1962). Hanson si richiamava da un lato a Wittgenstein e dall'altro alla Gestaltpsychologie, conducendo, in pagine molto brillanti, un forte attacco all'empirismo. L'osservazione, il vedere, i dati sono ‛strutturati' e ‛carichi di teoria'. Non esiste un linguaggio osservativo neutro con il quale dovrebbe essere messo in corrispondenza il linguaggio teorico: cogliere i ‛fatti' dipende dall'apparato concettuale e dal linguaggio. Anche in una scienza molto matura come la fisica delle particelle elementari (della quale Hanson esamina le vicende) sono presenti visioni alternative e la scelta fra tali visioni non è decidibile nè mediante l'appello all'esperienza nè sulla base di equivalenze formali. La storia della scienza si configura come una competizione prolungata fra alternative diverse. Le teorie non sono tentativi di copiare la realtà. La discussione fra Einstein, Schrödinger, De Broglie, da un lato, e Bohr, Born, Heisenberg, dall'altro, investe differenti ‛filosofie naturali', comporta significati diversi attribuiti agli stessi dati.
Per Kuhn la storia della scienza si configura come una serie di periodi di scienza ‛normale' (caratterizzati dall'adesione delle comunità scientifiche a un ‛paradigma' comune) intervallati da rivoluzioni o mutamenti di paradigmi. A differenza di S. Toulmin (v., 1953) Kuhn insisterà fortemente sul carattere sociologico dei paradigmi, che includono non solo leggi o regole sperimentali o tecniche matematiche, ma manuali, istituzioni, comunità scientifiche, che hanno a che fare non solo con assunzioni di carattere generale, ma con norme, prospettive, valori. ‟Se dovessi riscrivere il mio libro - ha affermato Kuhn nella Postilla del 1969 inizierei con una discussione intorno alla struttura comunitaria della scienza, un argomento che negli ultimi anni è diventato un tema significativo della ricerca sociologica e che comincia a essere preso in seria considerazione anche dagli storici della scienza" (v. Kuhn, 19692; v. Hagstrom, 1965). Le tradizionali discussioni sul metodo scientifico - ha ribadito nel 1977 - ‟hanno cercato di enunciare un insieme di regole che dovrebbero permettere a ogni individuo che le segue di produrre conoscenza legittima. Io ho tentato invece di insistere sul fatto che la conoscenza scientifica, pur essendo praticata da individui, è intrinsecamente un prodotto di gruppo [...]; in questo senso il mio lavoro è stato profondamente sociologico, ma non in modo tale da consentire una separazione fra l'argomento in questione e l'epistemologia" (v. Kuhn, 1977, p. 5).
b) Il dibattito fra ‛esternisti' e ‛internisti'
Il riconoscimento dell'incidenza delle filosofie e delle metafisiche nella storia della scienza e l'insistenza sulla scienza come impresa comunitaria hanno contribuito a mettere fortemente in crisi, in anni recenti, la distinzione, a lungo teorizzata, fra ‛esternisti' e ‛internisti'. Sulla distinzione storia interna-storia esterna si sono sparsi fiumi d'inchiostro. Essa è stata variamente sostenuta e difesa da filosofi e storici della filosofia di diverso orientamento; da storici delle idee; da sociologi della conoscenza; da storici della scienza. In quella distinzione-contrapposizione si rispecchiava in realtà una più antica contrapposizione fra epistemologi e storici, che investiva alcuni temi di fondo: i rapporti della teoria con la prassi, della scienza con la tecnica, della scienza con la filosofia e la cultura, della scienza con l'organizzazione della società.
Non sono mancate, soprattutto nel corso degli anni sessanta, discussioni condotte in riferimento a terreni specifici. A. R. Hall, per esempio, si è opposto con energia all'immagine largamente diffusa del nuovo scienziato moderno come ‟una sorta di ibrido fra il vecchio filosofo naturale e l'artigiano" e ha assunto una posizione fortemente polemica verso quella grossa ‟semplificazione storiografica" che interpreta la nascita della scienza moderna come frutto di un congiungimento fra la figura del filosofo, che pensa molto e opera poco, e quella dell'artigiano, che opera molto, ma è privo di idee. Né Copernico, né Vesalio, né Descartes erano più ‟simili a un artigiano" di quanto non lo fossero stati Tolomeo, Galeno, Aristotele. Le modificazioni ‛decisive' avvengono sul piano delle teorie: è assurdo supporre che l'introduzione della polvere da sparo e il cannone siano la causa della rinascita d'interesse per la dinamica e per la teoria del moto dei proietti durante il XVI e la metà del XVII secolo. Le antiche artiglierie a torsione, le balestre, le catapulte, gli archi, le fionde ponevano gli identici problemi posti dai mezzi più potenti. Tali problemi venivano risolti facendo ricorso alla teoria dell'impetus e i primi scrittori ‛scientifici' di artiglieria, come Tartaglia, non fecero che trasferire questo concetto in un ambito nuovo (v. Hall, 19622, pp. 16-18). Le teorie, ribadiva con forza Hall, non sono generate o dipendenti da qualcosa che è esterno alla scienza. È in gioco, scriveva, la concezione stessa che si ha della scienza. E la scienza un'impresa intellettuale che ha lo scopo di raggiungere una qualche comprensione dell'universo in termini razionali? oppure quell'impresa si identifica con una specie di manuale che insegna accorgimenti mediante i quali dominare la natura?
Replicando a quanti avevano criticato la sua analisi relativa al ruolo esercitato dal puritanesimo e dal capitalismo nella rivoluzione scientifica, Ch. Hill riaffermava contro l'interpretazione di H. Butterfield e contro questo tipo di tesi la sua ‟impenitente convinzione che è giusto considerare la società come un intero e che è errato considerare le opere e i pensieri degli uomini come se esistessero in compartimenti autonomi e separati" (v. Hill, 1965, p. 94). In un convegno che si svolse a Oxford nel 1961, Needham era intervenuto nel dibattito con l'irruenza e la lucidità che lo caratterizzano: ‟I nostri due problemi sono: perché la scienza moderna non si è sviluppata in Cina? Perché la cultura cinese fu più efficiente di ogni altra nell'antichità e nel Medioevo nell'applicare la scienza agli affari umani? Se le differenze fra il feudalesimo burocratico della Cina e il tipo di feudalesimo che in Europa soccombette al capitalismo non hanno nulla a che fare con queste differenze, sono disposto, per usare una nota frase, a mangiarmi il cappello!" (v. Crombie, 1963, p. 867). La scienza, gli rispondeva Koyré, non è affatto necessaria alla vita di una società, allo sviluppo di una cultura, all'edificazione di uno Stato e perfino di un impero. Cina e Persia se ne sono quasi interamente disinteressate; Roma ne ha ricevuto l'eredità, ma non vi ha aggiunto quasi nulla; anche in Grecia e nel mondo premoderno il ruolo esercitato dalla scienza fu minimo. E incontestabile che lo sviluppo del sapere scientifico ha bisogno di condizioni sociali determinate: bisogna che siano presenti uomini che dispongono di agio; che fra i membri delle classi agiate siano presenti uomini che ricavano soddisfazione nella comprensione e nella theoria; occorre infine che l'esercizio della theoria, l'attività scientifica, rivesta un valore agli occhi della società. Non si tratta in alcun modo di cose frequenti e necessarie, ma di cose rare, che si sono verificate nella storia del genere umano solo due volte. E non è affatto vero che la teoria conduca immediatamente alla pratica, né che la pratica generi direttamente la teoria. Più spesso, al contrario, essa distoglie dalla teoria: non furono gli arpenodapti egiziani, che dovevano misurare i campi della valle del Nilo, a inventare la geometria, ma i Greci che non dovevano misurare nulla che ne valesse la pena. Non furono i Babilonesi, che credevano nell'astrologia e avevano bisogno di prevedere la posizione dei pianeti, a elaborare un sistema dei moti celesti, ma i Greci che non credevano nell'astrologia. Arpenodapti e Babilonesi si accontentarono di ingegnosi metodi di calcolo. Anche le conclusioni sui rapporti scienza-tecnica non erano diverse da quelle raggiunte da Hall. L'influenza dei cosiddetti ‛fattori esterni' è del tutto illusoria: ‟L'apparizione del cannone non ha provocato la nascita della nuova dinamica; al contrario, proprio sull'esperienza degli artiglieri sono falliti i tentativi di Leonardo, di Tartaglia, di Benedetti. I bisogni della navigazione, del computo ecclesiastico, avrebbero dovuto e potuto promuovere uno sforzo di correzione delle tavole astronomiche che non ebbe mai luogo: non furono quei bisogni a incitare Copernico a rovesciare l'ordine delle sfere celesti e a porre il Sole al centro dell'Universo". Atene non spiega Eudosso né Platone, Siracusa non spiega Archimede, Galileo non è un epifenomeno dell'arsenale dei Veneziani e la struttura sociale della Russia dello zar Nicola I non getta molta luce sulla geometria di Lobacevskij. Spiegazioni di questo tipo sono un'impresa chimerica, del tutto simile a quella di chi volesse ‛predire' la futura evoluzione della scienza in funzione dell'attuale struttura sociale della nostra società. Si può spiegare, d'accordo con Needham, perché la scienza non è nata e ‛non' si è sviluppata nelle società rette da burocrazie ostili al pensiero scientifico indipendente, si può anche spiegare perché la scienza ha potuto nascere e svilupparsi in Grecia, ‟ma non si può spiegare perché ciò avvenne effettivamente" (v. Koyré, 1966, pp. 359-360).
Risposte di questo tipo (e gli esempi potrebbero essere facilmente moltiplicati) nascevano anche sul terreno di una critica che tendeva a colpire troppo affrettati accostamenti tra storia della scienza e storia della società e ogni tentativo di riduzione della storia della scienza a storia della tecnologia. Nel lavoro storico che si richiamava a temi di derivazione pragmatistica e deweyana, che aveva accolto prospettive caratteristiche della history of ideas, che accoglieva motivi propri del marxismo e della sociologia della conoscenza erano indubbiamente presenti alcuni accostamenti affrettati (v. Bernal, 1939; v. Crowther, 1960) e alcune inaccettabili proposte riduzionistiche, ma operava anche l'immagine di una scienza non riducibile a una pura storia delle teorie, ma da intendere come fenomeno sociale e culturale. Come tale, la scienza appare soggetta a influenze che non hanno a che fare solo con gli sviluppi del pensiero, le implicazioni logiche, gli sviluppi di una cosiddetta ‛dialettica interna' dei suoi vari settori, ma anche con la magia e la letteratura, la religione e la politica, la filosofia e l'industria, i modi di pensare e di vivere, le metafisiche e l'economia. Tutti elementi sui quali le teorie e le pratiche scientifiche esercitano a loro volta un peso non trascurabile.
In questa prospettiva, per quanto concerne la nascita della scienza moderna assumeva un rilievo per l'innanzi sconosciuto la figura di Francis Bacon. Il riconoscimento del significato e dell'importanza di una ‟tradizione baconiana" (v. Kuhn, 1977) giungeva anche sulla base di una serie di ricerche relative alle arti meccaniche, al progetto baconiano di una storia naturale che fosse insieme storia della trasformazione umana della natura. Su questo stesso terreno nacquero anche una serie di ricerche sulla lavorazione del vetro, dei metalli, sull'arte della navigazione, sulla storia delle tecniche. Verso questo terreno confluirono anche quegli storici che avevano in tutto o in parte accolto la tesi weberiana di un'influenza decisiva esercitata dal puritanesimo sulla nuova visione del mondo che esaltava il lavoro e le opere come strumenti per la gloria di Dio. Da questo terreno trassero anche alimento le ricerche sulle ideologie degli artigiani e dei meccanici del Cinquecento e del Seicento è sul loro riflettersi nel mondo della cultura, della scienza, della filosofia.
Scienze come l'elettrologia, la chimica, la geologia, il magnetismo, che erano nate fuori dalle università, che non si richiamavano a tradizioni culturali specifiche e consolidate, vennero acquistando, nell'ambito di queste ricerche, ampio rilievo. La storia della scienza non appare attenta solo ai mutamenti e alle svolte concettuali che si verificano nella matematica, nella fisica, nell'ottica, ma indaga un fenomeno complesso nel quale spinte decisive provengono da nuovi strumenti, da nuovi programmi di sperimentazione e di ricerca, dalle mutate richieste dei gruppi intellettuali e della società. Il tema di una saldatura fra sviluppi della scienza e progressi della tecnologia (che è quasi assente nell'opera classica di P. Mantoux sulla rivoluzione industriale) acquista valore di tema dominante nel volume di A. E. Musson e di E. Robinson (v., 1969). L'incontro fra scienziati e industriali che si verificò alla fine del Settecento e nel primo Ottocento nella Literary and Philosophical Society di Manchester e nella Lunar Society di Birmingham si configura come un evento di importanza decisiva (v. Schofield, 1963).
c) La crisi della distinzione storia interna-storia esterna
La dicotomia storia interna-storia esterna, nel corso degli anni cinquanta, finì per riassumere in sé anche l'alternativa fra ‛ricostruzione razionale' e ‛narrazione storica'. Nel corso degli anni sessanta è stata invece messa in discussione proprio la possibilità di tracciare una sicura linea di demarcazione fra il contesto della scoperta e quello della giustificazione, fra gli argomenti ‛razionali' e le motivazioni sociali e psicologiche, fra la storia interna e la storia esterna. Ci si rese conto con chiarezza sempre maggiore che, accettando quella dicotomia, si procedeva da un lato verso una integrale risoluzione della storia della scienza nell'epistemologia (in genere, un tipo di epistemologia che privilegia il momento teorico rispetto a quello sperimentale), dall'altro lato verso una storia della scienza risolta in una sociologia delle istituzioni scientifiche che tendeva a trascurare completamente l'analisi delle teorie. Da un lato una filosofia della scienza che alleggerisce i suoi procedimenti facendo ricorso a una serie di esemplificazioni storiche (come delle liete parentesi narrative in un arduo trattato di logica); dall'altro lato pagine piene di sapienza letteraria che descrivono con ricchezza di sfumature atmosfere culturali, che riescono a far rivivere climi, ambienti, figure, ma che si arrestano, come di fronte a un mondo estraneo e sconosciuto, davanti al duro nocciolo dei problemi e delle dimostrazioni.
Molto del lavoro più significativo compiuto negli ultimi due decenni ha contribuito a mettere in crisi la tradizionale dicotomia fra ‛internismo' ed ‛esternismo'. Non si tratta più, come nel caso di Koyré, di riconoscere l'influenza esercitata dalle filosofie e dalle ideologie sugli sviluppi del sapere scientifico, affidando alle ideologie una funzione di mediazione fra lo sviluppo logico-razionale e quello storico-temporale. Si tratta invece di rendersi conto del peso determinante che una certa ‛tradizione di ricerca' o una certa ‛immagine della scienza' (caratteristica di un periodo storico o di un gruppo sociale) esercita ‛sulle' teorie scientifiche. Il giudizio sul significato di un esperimento, sull'accettabilità di un'ipotesi, sul valore di una teoria, non appare mai interamente riconducibile a una storia della scienza concepita come ‛passaggio logico' dall'una all'altra teoria, così come non è mai interamente spiegabile in termini di storia sociale o in chiave psicologica. Tale giudizio dipende però in ogni caso anche dalla considerazione che lo scienziato ha dei compiti e del ruolo della scienza, è legato alla sua considerazione di quali siano i concetti basilari e fondamentali della scienza, alle sue opinioni sulla ‛razionalità' di una spiegazione, alla gerarchia che egli ha stabilito (o che egli accetta) fra le varie forme della conoscenza. Quel giudizio è saldamente legato alla sue preferenze per una scienza fatta di audaci speculazioni oppure di ripetute e pazienti osservazioni. Sulla base di una determinata immagine della scienza i problemi acquistano una forma specifica che rende problematici molti affrettati accostamenti e molte delle tradizionali interpretazioni delle cosiddette ‛scoperte simultanee'. Su quella base vengono stabilite le cosiddette ‛frontiere della scienza', viene accentuata l'importanza di alcuni problemi, mentre altri vengono oscurati o eliminati come irrilevanti; su quella base viene deciso ciò che è scienza ‛legittima' e ciò che è ‛pseudoscienza' e vengono stabiliti i criteri di demarcazione fra scienza e filosofia.
Le tradizionali dicotomie interno-esterno, interpretazione-narrazione sono apparse insufficienti e arretrate di fronte a taluni problemi centrali nella storia della scienza: come cresce la conoscenza? che cosa produce mutamenti nei suoi contenuti? qual è la parte di sapere (anche all'interno delle singole discipline) che funziona come nucleo di accumulazione e di continuità? Anche la tradizionale dicotomia scienza-metafisica è stata rimessa in discussione: nel senso che essa non può in alcun modo venir stabilita a priori servendosi dei criteri elaborati dal positivismo o dalle più raffinate dottrine neopositivistiche. Qual è, per esempio, il senso di una trattazione storica che escluda concetti come il conatus di Hobbes o la monade di Leibniz, che esercitano di fatto un peso decisivo sulla discussione sul concetto di forza e sull'elaborazione della fisica del Settecento? Quegli storici che si occupano solo delle idee ‛distinte' della scienza escludendo dal loro orizzonte quelle ‛indistinte' della metafisica, o che determinano gli invalicabili limiti del loro campo di ricerca servendosi di un manuale oggi in uso nelle università, sembrano appartenere all'età della regina Vittoria.
Scienza normale e rivoluzioni scientifiche, manuali e creatività della ricerca, tradizioni e rottura delle tradizioni, pensiero convergente e pensiero divergente: questi i concetti sui quali molti, in questi ultimi vent'anni, hanno insistito. Ogni forma di sapere scientifico presuppone un accordo su certe cose, un ‛terreno comune': presuppone cioè il consenso di un gruppo di uomini, di una (più o meno vasta) comunità. Divergenze, programmi in conflitto, alternative, punti di vista diversi si presentano, in genere, come interni a un terreno riconosciuto comune, al controllo e alla conoscenza del quale si è giunti, nell'età moderna, attraverso ciò che chiamiamo educazione scientifica o professionalità scientifica. Kuhn ha insistito molto sulla ‛compresenza', in quell'impresa che chiamiamo scienza, di pensiero convergente e di pensiero divergente. E ha insistito anche sulla essenziale e necessaria ‛tensione' fra queste due componenti (v. Kuhn, 1977). L'educazione scientifica avviene attraverso manuali che presentano come da risolvere problemi già risolti e che insegnano a risolverli non in modi nuovi, ma così come essi sono stati risolti. La tradizione scientifica viene ‛assunta' (questo è ciò che Kuhn chiamava l'elemento ‟dogmatico" del sapere scientifico) e solo all'interno di quella tradizione i problemi acquistano senso, si determinano problemi sempre più difficili da risolvere e si affacciano infine problemi nuovi che richiedono nuove soluzioni. Un'educazione che presenta la tradizione come ‛non equivoca' è la via di accesso a un lavoro che sistematicamente conduce a cambiare quella tradizione, a modificarla, in qualche caso ad abbandonarla. Lo scienziato creativo ‟è un tradizionalista a cui piace giocare giochi difficili con regole già stabilite al fine di essere un innovatore capace di scoprire nuove regole e nuovi pezzi con cui giocare i suoi giochi" (ibid.).
L'attenzione per gli aspetti ‛istituzionali' della scienza, la considerazione della scienza come prodotto non di singoli individui, ma di comunità scientifiche ha messo fortemente in crisi molti dei canoni della storiografia tradizionale. Nella stessa direzione hanno operato quanti, in anni recenti, hanno insistito sulle distinzioni che è necessario introdurre quando si impiegano termini come ‛teorie scientifiche'. Con quel termine (come ha chiarito L. Laudan: 1977) facciamo in genere riferimento a due tipi di cose: 1) a un insieme specifico di dottrine collegate fra loro e utilizzate per effettuare predizioni sperimentali o per dare spiegazioni dettagliate (per esempio: la teoria galileiana della caduta dei gravi, o la teoria elettromagnetica di Maxwell, o la teoria di Wegener sulla deriva dei continenti, o la teoria marxiana del plusvalore); 2) a dottrine più generali e ‛meno controllabili' che fanno riferimento non a una singola teoria, ma a uno ‛spettro' o a una ‛famiglia' di teorie che sono collegate fra loro, ma non è affatto detto siano conciliabili fra loro (in questo senso parliamo di copernicanesimo, comportamentismo, biologia meccanicistica, teoria dell'evoluzione, teoria atomica).
A queste costruzioni teoriche più ampie hanno variamente fatto riferimento molti autori che le hanno anche variamente denominate. Kuhn parla di ‟paradigmi" e di ‟matrici disciplinari", I. Lakatos di ‟programmi di ricerca", Y. Elkana di ‟immagini della scienza", lo stesso Laudan di ‟tradizioni di ricerca". Ci sono, fra l'uno e l'altro di questi termini, molti e importanti slittamenti di significato. Ciò che è importante qui rilevare è che si è grandemente rafforzata, su queste basi, l'idea che la storia della scienza ha anche e necessariamente a che fare con le costruzioni teoriche del secondo tipo. Il riconoscimento della non isolabilità (dal punto di vista storico e da quello epistemologico) delle teorie del primo tipo ha messo definitivamente in crisi ogni programma ‛internista' di storia della scienza. Le tradizioni scientifiche sono infatti caratterizzate da una serie di ‛impegni' metafisici e metodologici e da corrispondenti ‛divieti' che individuano la tradizione stessa. In questo senso una tradizione è identificabile con una serie di elementi ‛non rigettabili' che la costituiscono: ci sono (come vuole Lakatos: v. Lakatos e Musgrave, 1970) elementi di un programma o di una tradizione che vengono considerati ‛sacrosanti'. Ma Laudan ha ragione nel far notare che l'insieme degli elementi che rientrano nella categoria di quelli non rigettabili cambia nel tempo: spazio e tempo assoluti, considerati come elementi non rifiutabili dai newtoniani del Settecento, non erano più considerati tali dai newtoniani della metà dell'Ottocento. Le singole, specifiche teorie non sono affatto ‛deducibili' dalle tradizioni: hanno un loro piano di autonomia e possono anche venir separate dalla tradizione alla quale erano inizialmente collegate e venir assorbite in tradizioni differenti (come per la teoria dell'urto del cartesiano Huygens che venne ‛inglobata' nella fisica newtoniana). Questa possibilità genera ‟l'impressione ingannevole" (v. Laudan, 1977) che le singole teorie esistano indipendentemente dalle tradizioni di ricerca e non abbiano verso di esse alcun debito. La maggior parte del lavoro che svolgono gli storici della scienza sembra oggi per l'appunto diretto contro questa impressione ingannevole.
Il classico tema dei rapporti scienza-società, sul quale, in Italia, si è discusso moltissimo e si è lavorato molto poco, trova, all'interno di queste prospettive, un suo spazio preciso. Forse non è un caso che in Italia, dove è stata tradotta quasi tutta l'opera di Koyré, non si sia mostrato grande interesse per gli studi di sociologia della scienza. Quella preferenza e questa assenza rivelano la tenace persistenza di una mentalità idealistica, sdegnosa di ‛storia' e di ‛sociologia empirica', ancora ferma (anche presso critici aspri delle posizioni di Croce e di Gentile) a una storia della scienza come storia della ‛dialettica interna' delle singole scienze, che si conclude a ogni capitolo con un accurato elenco dei singoli meriti e demeriti di ogni scienziato e filosofo. A differenza di molti marxisti degli anni trenta, e di non pochi marxisti di oggi, la sociologia della scienza ha preso molto sul serio l'idea di una reciproca relazione fra crescita della scienza e mutamenti nella società. Quelle relazioni non vanno genericamente affermate: vanno analizzate. Di più: non avvengono nel vuoto, ma sono mediate ‟dai mutamenti istituzionali e dalla struttura organizzativa della scienza stessa" (v. Merton, 1979, p. 22). I patterns di interazione fra gli scienziati; i modi della formazione del consenso e della costituzione delle comunità scientifiche; l'emergenza di forme di ‛pensiero convergente'; la codificazione del sapere nei manuali e le tecniche della trasmissione; l'ethos istituzionale della scienza; la scienza come organizzazione sociale vanno analiticamente studiati. Le forme di organizzazione e istituzionalizzazione della scienza variano grandemente: nei diversi contesti sociali e nelle differenti età della storia. Operano anche strutture che tendono a ‛isolare' la scienza dalla società e dall'incidenza di idee extrascientifiche. Questo costituirsi di comunità autonome (talora molto ristrette) è strutturale e non accidentale. Incidenza sul sapere scientifico di opinioni, immagini della scienza, themata; tendenza all'isolamento e all'autonomia; risposte della scienza ai bisogni e alle richieste della società costituiscono elementi di un intreccio complicato. Su questo intreccio hanno iniziato a lavorare in anni a noi più vicini G. Holton e Y. Elkana. R. Hahn ha fornito l'esemplare studio di un'istituzione scienfica nel libro del 1971 The anatomy of a scientific institution. H. Zuckerman (v., 1977) ha studiato il retroterra sociale, religioso, educativo, la mobilità nell'establishment scientifico dei vincitori del premio Nobel negli Stati Uniti.
5. Considerazioni conclusive
Attraverso un lungo cammino sono entrati in crisi alcuni dei presupposti che erano alla radice del lavoro di molti storici della scienza all'inizio del secolo: continuismo, teleologismo, linearità della crescita, irrilevanza delle metafisiche, esistenza di metodologie normative. Si sono anche elencate le ‛illusioni metodologiche' e si sono illustrati i ‛miti' che hanno operato a lungo fra storici e filosofi della scienza: il mito di un perfetto accordo fra la ricostruzione razionale e l'esperienza della scoperta; quello di uno sviluppo storico ‛impersonale' del pensiero scientifico; quello della ‛evoluzione continua' e della ‛rivoluzione permanente' (v. Grmek, 1981).
Giunta alla piena maturità, la storia della scienza riflette una molteplicità e una varietà di orientamenti e di direzioni. In essa, come in ogni forma di sapere, coesistono e si confrontano tradizioni diverse e differenti programmi. Per rendersi conto di quanti e quanto radicali siano i mutamenti intervenuti nel suo ambito negli anni del dopoguerra converrebbe confrontare fra loro tre libri che raccolgono contributi di vari autori: The critical problems in the history of science, edito nel 1959 da M. Clagett (che ha dato contributi decisivi alla storia della meccanica nel Medioevo); Scientific change, edito nel 1963 da A. C. Crombie (studioso del Medioevo e di Galilei); Changing perspectives in the history of science, curato da M. Teich e R. Young nel 1973. Le prospettive mutano e non in una sola direzione, ma in molte direzioni.
È solo possibile, accanto a coloro che è accaduto di ricordare nelle pagine precedenti, richiamare i nomi di alcuni altri studiosi. Per l'Inghilterra: M. Boas, H. Butterfield, M. P. Crosland, M. Hesse, J. E. Mc Guire, R. Porter, P. M. Rattansi, M. J. S. Rudwick, R. Webster; per la Francia: P. Costabel, M. Daumas, M. D. Grmek, J. Roger, R. Taton; per i Paesi Bassi: R. Hooykaas, O. Pedersen, J. Pelseneer; per l'Italia: F. Barone, E. Bellone, V. Cappelletti, P. Casini, P. Galluzzi, G. Giorello, C. Maccagni, M. L. Righini Bonelli; per l'Unione Sovietica: B. M. Kedrov, L. A. Markova, R. S. Mikulinskij; per Israele: M. Jammer, Y. Elkana, S. Samburski; per gli Stati Uniti: A. Debus, S. Drake, Ch. Gillespie, J. C. Greene, H. Guerlac, G. Holton, E. Mendelsohn, J. E. Murdoch, D. de Solla Price, E. Rosen, A. I. Sabra, R. E. Schofield, W. Shea, O. Temkin, Cl. A. Truesdell, R. Westfall. Ma l'elenco di coloro che hanno dato contributi importanti sarebbe assai più lungo. All'interno delle ‛prospettive in mutamento', come si diceva all'inizio, il lavoro degli storici della scienza sembra svolgersi sulla base di una pluralità di livelli non omogenei fra i quali intercorrono non sempre facili (e non sempre facilmente determinabili) rapporti. Ma i mutamenti di prospettive, la presenza di differenti livelli di ricerca possono suscitare costernazione solo nei sostenitori di metodologie troppo rigide. Il cosiddetto ‛anarchismo metodologico' di P. K. Feyerabend è, in questi anni, una risposta patetica alla messa in discussione di convinzioni e di credenze inizialmente assunte come dogmi indiscutibili. Gli storici (anche quelli della scienza) non hanno mai avuto spiccate simpatie per le metodologie troppo rigide e il quadro della storiografia tende a sfuggire da ogni lato alle classificazioni e alle sistemazioni (del tipo: induttivisti, o convenzionalisti, o falsificazionisti di vario tipo) proposte dagli epistemologi.
I criteri di demarcazione e gli stessi ‛criteri di razionalità' tendono a presentarsi, agli occhi degli storici, non come storicamente immutabili, ma come connessi da un lato alle specifiche regole di una tradizione o di una disciplina e, dall'altro, a convinzioni o credenze o aspettative o valutazioni che hanno a che fare con la cultura, a essa sono legati o da essa dipendono. Il concetto di ‛scienza' (così come quelli di verità, o di evidenza, o di esperienza) è, ai loro occhi, un concetto storicamente variabile che è stato, in ogni caso, ‛costruito'. Gli storici sono interessati ai modi della costruzione del sapere scientifico e delle singole scienze, anche se possono indubbiamente essere interessati ‛anche' alla struttura degli edifici costruiti. Gli storici hanno comunque sempre nutrito una spiccata preferenza per la ‛opacità' del tempo della storia piuttosto che per ‟la deliziosa rapidità del tempo logico". Non sono interessati, come ha scritto Grmek (1976), né agli ‟esempi precostituiti" né alle risposte ‟nette, chiare e semi-false" dei manuali. Ciò che prevalentemente li interessa, ed è questo il punto decisivo, sono i processi temporali e non i loro ‟sostituti logici".
Gli storici della scienza si sono faticosamente costruiti un loro spazio nella cultura del Novecento. Non si tratta di un piacevole giardino ben recintato nel quale una comunità di specialisti possa vivere isolata. Come accade per quasi tutte le discipline del nostro secolo, si tratta di uno spazio molto problematico, scarsamente protetto, difficile da abitare.
(V. anche epistemologia).
bibliografia
Académie des Sciences de l'URSS. Institut d'histoire des sciences naturelles et des techniques, Recherches en URSS sur l'histoire des sciences, Moscou 1978.
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