Scienza indiana: periodo vedico. L'analisi linguistica come paradigma della scienza vedica
L'analisi linguistica come paradigma della scienza vedica
Ai Veda sono associate sei discipline ausiliarie chiamate vedāṅga (lett. 'membra dei Veda'), tre delle quali si occupano specificamente di vari aspetti del linguaggio: la śikṣā, che tratta di fonetica; il vyākaraṇa, cioè la grammatica; il nirukta, che spiega su base etimologica i significati delle parole vediche.
Al livello più elementare, la śikṣā insegna la corretta pronuncia dei mantra, 'formule sacrificali', sia durante il loro apprendimento, sia nella recitazione in ambito rituale. Più in generale, le opere di śikṣā si occupano di fonetica articolatoria e di produzione del linguaggio. I trattati più noti sono l'Āpiśalaśikṣā (Trattato di fonetica di Āpiśali) di Āpiśali e la Pāṇinīyaśikṣā (Trattato di fonetica della scuola di Pāṇini); di quest'ultima si conoscono una versione metrica e una versione in sūtra. La versione metrica è tradizionalmente attribuita a un presunto fratello minore di Pāṇini, Piṅgala. Alcuni studiosi moderni attribuiscono entrambe le opere a Pāṇini (Cardona 1976, pp. 179-182). Vi sono inoltre numerosi testi di śikṣā che vertono su aspetti della pronuncia propri alle diverse tradizioni di recitazione dei testi sacri vedici, quali elenchi di esempi in cui la v è labiodentale o analisi dettagliate di un tono complesso (Cardona 1976, p. 179, 1999, p. 147).
L'Āpiśalaśikṣā
Nell'edizione curata da Yudhiṣṭhira Mīmāṃsaka, l'Āpiśalaśikṣā consta di otto sezioni. L'opera ha inizio con un'introduzione generale, che include un indice degli argomenti trattati; quindi si afferma (Āpiśalaśikṣā, 1.4: tatra sthānakaraṇaprayatnebhyo varṇās triṣaṣṭhiḥ) che esistono 63 suoni (varṇa) differenziati in base al punto di articolazione (sthāna), all'organo fonatorio (karaṇa) e al modo di articolazione (prayatna). Seguono le otto sezioni, di cui le prime due trattano i punti di articolazione e gli organi fonatori.
La terza sezione inizia operando una distinzione tra due modi di articolazione, ossia tra quelli effettuati in un punto interno alla cavità orale (ābhyantaraprayatna, 'modalità dello sforzo articolatorio interno') e quelli che avvengono all'esterno (bāhyaprayatna, 'modalità dello sforzo articolatorio esterno'). I modi di articolazione interni e le classi di suoni con cui sono connessi sono trattati nella terza sezione; le occlusive (sparśa) sono prodotte quando il contatto fra organo fonatorio e punto di articolazione è completo (spṛṣṭakaraṇa), le semivocali (antasthā) quando il contatto è parziale (īṣatspṛṣṭakaraṇa), le spiranti (ūṣman) quando vi è una leggera apertura tra organo fonatorio e punto di articolazione (īṣadvivṛtakaraṇa), le vocali (svara) quando vi è totale separazione tra organo fonatorio e punto di articolazione (vivṛtakaraṇa).
La quarta sezione tratta dei modi di articolazione esterni, specificando quali modi e proprietà sono associati a particolari suoni. Ciò presuppone una organizzazione dei suoni in gruppi simile a quella che verrà illustrata in riferimento ai Prātiśākhya (manuali di fonetica e fonologia legati a una determinata scuola vedica: v. oltre). Il primo e il secondo membro di ciascun gruppo di occlusive (cioè k kh c ch ṭ ṭh t th p ph), nonché ś ṣ s ḥ ≍k ≍p e i primi due segmenti nasali di transizione (yama), che si collocano tra le occlusive sorde e le successive occlusive nasali (quelle che accompagnano occlusive sorde), sono associati alla glottide aperta (vivṛtakaṇṭha), hanno lo śvāsa (uno dei tre tipi di emissione d'aria: v. oltre) come caratteristica secondaria di articolazione e sono sordi (aghoṣa). La prima occlusiva di ciascuna serie e il primo yama richiedono un'emissione d'aria relativamente modesta, i suoni restanti esigono invece un'emissione maggiore. Il terzo e il quarto membro in ciascun gruppo di occlusive (cioè g gh j jh ḍ ḍh d dh b bh), le semivocali y r l v, nonché h e ṃ (anusvāra) e il terzo e il quarto yama (quelli che accompagnano occlusive sonore) sono associati alla glottide chiusa (saṃvṛtakaṇṭha), hanno il nāda (altro tipo di emissione d'aria) come caratteristica secondaria di articolazione e sono sonori (ghoṣavat). Il terzo membro in ciascuna serie di occlusive, il terzo yama e le semivocali non sono aspirati (alpaprāṇa), i suoni restanti sono aspirati (mahāprāṇa). Il quinto membro in ogni serie di occlusive (cioè ṅ ñ ṇ n m) ha proprietà simili al terzo membro, ma con il tratto aggiuntivo della nasalità (ānunāsikya).
Si noti che śvāsa e nāda ‒ considerati, nelle descrizioni contenute nei primi Prātiśākhya, come varietà di aria che compongono suoni articolati ‒ sono qui trattati come bāhyaprayatna ('modalità dello sforzo articolatorio esterno'). Nel commento di Jinendrabuddhi (v. cap. XIII) alla Kāśikāvṛtti (Commento letterale composto a Benares) ad Aṣṭādhyāyī (Trattato in otto capitoli) 1.1.9 (tulyāsyaprayatnaṃ savarṇam), in cui si cita estesamente l'Āpiśalaśikṣā, si afferma che esistono undici modalità dello sforzo articolatorio esterno: apertura e chiusura della glottide (vivāra, saṃvāra), śvāsa ('soffio'), nāda ('risonanza'), ghoṣa ('sonorità'), aghoṣa ('sordità'), alpaprāṇa ('assenza di aspirazione'), mahāprāṇa ('presenza di aspirazione') e i tre tipi di toni, alto (udātta), basso (anudātta) e una combinazione in cui a un tono alto fa seguito un tono basso (svarita). Nell'autocommento Tattvaprakāśikā (Illustrazione della vera realtà) al sūtra 1.1.17 (tulyasthānāsyaprayatnaḥ svaḥ) della propria grammatica, il Siddhahemacandraśabdānuśāsana (L'insegnamento delle parole di Hemacandra ordinato dal re Siddha), Hemacandra (v. cap. XIII, par. 2) cita esplicitamente l'Āpiśalaśikṣā e, come questa, riconosce l'esistenza di undici modalità dello sforzo di articolazione esterno.
La quinta sezione dell'Āpiśalaśikṣā descrive mediante similitudini il modo in cui l'aria (vāyu) colpisce (abhipīḍati, 'preme contro') un punto di articolazione quando si producono i diversi suoni; come un pezzo di ferro quando si pronunciano le occlusive, i segmenti nasali di transizione (yama) o la v, come un pezzo di legno quando si pronunciano le altre semivocali, e come un batuffolo di cotone quando si pronunciano le spiranti e le vocali. La sesta sezione verte su quello che i commentatori (vṛttikāra), dei quali non è specificato il nome, dicono a proposito delle possibili varianti fonematiche dei diversi suoni. Per esempio, affermano che la serie delle vocali a contiene suoni di 18 tipi: brevi, lunghi ed extralunghi, ciascuno dei quali può essere nasalizzato o meno, e avere tre varietà di intonazione. La settima sezione spiega che cosa s'intende per sthāna ('punto di articolazione'), karaṇa ('organo fonatorio') e prayatna ('modo di articolazione'): rispettivamente, il luogo in cui i suoni sono percepiti (yatra sthāne varṇā upalabhyante), ciò da cui sono prodotti (yena nirvartyante), e lo sforzo di articolazione. L'ottava sezione descrive il modo in cui i suoni sono generati, a cominciare dal movimento di aria verso l'alto prodotto da uno sforzo che parte dall'area dell'ombelico (nābhipradeśa) (v. oltre). Questa concezione del punto di partenza del respiro concorda con le teorie dello yoga.
La Pāṇinīyaśikṣā in versi
La Pāṇinīyaśikṣā in versi è nota in diverse recensioni, di lunghezza variabile da 21 a 60 strofe. Il testo ricostruito da M.M. Ghosh (1938) è di diciotto strofe. All'inizio si forniscono il numero dei suoni e le serie di suoni (strofe 1-2), per poi passare a una descrizione generale del modo in cui i suoni sono prodotti. Segue una singola strofa (8) che indica le varietà di toni e le quantità possibili delle vocali. Quindi si specificano i punti di articolazione dei diversi suoni. Infine (strofe 16-18) il testo tratta delle modalità dello sforzo articolatorio interno ed esterno. La versione in prosa della Pāṇinīyaśikṣā è praticamente identica all'Āpiśalaśikṣā, tanto che la sua autenticità è messa in dubbio.
I Prātiśākhya
I testi delle Saṃhitā vediche sono associati a testi analitici (padapāṭha) postulati come fonte da cui derivano i testi a recitazione continua (saṃhitāpāṭha), tramite l'applicazione di regole fonologiche (v. cap. XIII). Tali regole sono fornite in testi detti Prātiśākhya, che vertono anche sulla fonetica, materia di competenza della śikṣā. Due Prātiśākhya sono ritenuti verosimilmente anteriori a Pāṇini: il Ṛgvedaprātiśākhya (Prātiśākhya della scuola del Ṛgveda) e il Taittirīyaprātiśākhya (Prātiśākhya della scuola Taittirīya), associati rispettivamente alla Ṛgvedasaṃhitā e alla Taittirīyasaṃhitā del Kṛṣṇayajurveda (Veda nero delle formule sacrificali). Entrambe le opere contengono sezioni che descrivono piuttosto in dettaglio il processo di produzione del linguaggio. Inoltre, i fattori fonetici sono utilizzati congiuntamente alle serie fonologiche di suoni in relazione alle regole sugli adattamenti fonologici (sandhi) nei punti di giuntura fra morfemi.
I Prātiśākhya si basano sulle liste tradizionali di suoni (varṇasamāmnāya). In generale, le opere di śikṣā e i Prātiśākhya suddividono i suoni in vocali, occlusive, semivocali e spiranti. Tra loro differiscono per alcuni dettagli, quali il numero dei suoni inclusi e l'ordine interno dei sottogruppi.
La lista dei suoni del Taittirīyaprātiśākhya è la seguente:
a ā a3 i ī i3 u ū u3 ṛ ṝ ḷ e ai o au k kh g gh ṅ c ch j jh ñ ṭ ṭh ḍ ḍh ṇ t th d dh n p ph b bh m y r l v ≍k ś ṣ s ≍p h.
Il primo capitolo di quest'opera si apre con la frase atha varṇasamāmnāyaḥ, 'Ecco la serie tradizionale di suoni' (Taittirīyaprātiśākhya, 1.1), seguita dalla classificazione di detti suoni in base a categorie a cui sono assegnati nomi (saṃjñā) diversi. I primi 16 suoni (a ā a3 i ī i3 u ū u3 ṛ ṝ ḷ e ai o au) sono chiamati svara 'vocali', di cui le prime nove (a ā a3 i ī i3 u ū u3) sono dette samānākṣara 'vocali semplici'. I suoni rimanenti sono chiamati vyañjana 'consonanti'. Di queste, le prime 25 sono definite sparśa 'occlusive', le successive quattro (y r l v) antasthā, 'semivocali', le ultime sei (≍k ś ṣ s ≍p h) ūṣman, 'spiranti'. Le occlusive sono qui organizzate in cinque gruppi di cinque membri ciascuno. La prima e la seconda consonante di ciascun gruppo, come pure le spiranti eccetto h, sono definite aghoṣa, 'consonanti sorde', mentre le rimanenti sono chiamate ghoṣavat, 'consonanti sonore'.
Il varṇasamāmnāya, 'catalogo di fonemi', del Ṛgvedaprātiśākhya comprende i seguenti suoni:
a ā ṛ ṝ i ī u ū e o ai au k kh g gh ṅ c ch j jh ñ ṭ ṭh ḍ ḍh ṇ t th d dh n p ph b bh m y r l v h ś ṣ s ḥ ≍k ≍p ṃ.
Nel primo capitolo di quest'opera i suoni, nel loro ordine di presentazione, sono classificati mediante l'assegnazione di particolari definizioni fonologiche. I primi dodici suoni sono detti svara e divisi in due sottogruppi: samānākṣara, 'vocali semplici' (a ā ṛ ṝ i ī u ū), e sandhyakṣara, 'vocali composite' (e o ai au). Le vocali dispari della lista fino alla settima sono definite hrasva, 'brevi', le altre dīrgha, 'lunghe'. I suoni rimanenti sono chiamati vyañjana, eccetto ṃ (anusvāra), che può essere considerato sia un vyañjana che uno svara. Il primo sottogruppo di consonanti è costituito dalle occlusive (sparśa), organizzate in cinque gruppi di cinque suoni ciascuno; i quattro suoni successivi (y r l v) sono chiamati antasthā, seguiti da otto suoni (h ś ṣ s ḥ ≍k ≍p ṃ) denominati ūṣman. Di questi, gli ultimi sette, come pure le prime due consonanti di ciascuna serie di occlusive, sono definiti aghoṣa. Le occlusive pari in ciascuna serie sono definite soṣman, 'occlusive aspirate', mentre le occlusive che ricorrono alla fine di ciascuna serie sono chiamate anunāsika, 'nasali'.
Le differenze esistenti tra i Prātiśākhya sono in gran parte dovute alla diversa rappresentazione dei processi fonologici. Su ciò influisce anche il fatto che gli adattamenti fonologici di cui si offre la descrizione non sono identici da un testo all'altro. Per esempio, ṃ ha le proprietà sia delle vocali sia delle consonanti: come le vocali la sua durata può variare, come le consonanti non può costituire una sillaba a sé stante.
L'analisi fonetica nei Prātiśākhya
Le descrizioni contenute nel cap. 2 del Taittirīyaprātiśākhya e nel cap. 13 del Ṛgvedaprātiśākhya, che vertono sul modo in cui i suoni sono prodotti, mostrano una notevole accuratezza fonologica.
Il Taittirīyaprātiśākhya esordisce affermando che il suono sorge nel punto di congiunzione tra gola e petto, come risultato del movimento di aria nel corpo. I punti in cui questo suono originario si localizza durante l'articolazione dei suoni del linguaggio sono i seguenti: il petto (uras), la gola (kaṇṭha), la volta del cavo orale (śiras), gli altri punti all'interno del cavo orale (mukha) e i condotti nasali (nāsikā). Quando l'aria che costituisce questo suono originario passa attraverso la glottide, si modifica in tre forme diverse, a seconda della condizione della glottide: l'emissione d'aria detta nāda, se la glottide è chiusa; l'emissione śvāsa, se è aperta; e l'emissione hakāra, se la glottide è semiaperta. Queste tre varietà di emissione d'aria rappresentano la materia prima dei suoni articolati. Il nāda è la materia essenziale nella produzione di vocali e consonanti sonore, il hakāra per le occlusive aspirate sonore e la h, lo śvāsa per le consonanti sorde.
Nel medesimo capitolo del Taittirīyaprātiśākhya si descrive anche, più dettagliatamente che in altri testi, il modo preciso in cui gli organi si configurano per articolare i suoni. Si dice, per esempio, che per produrre la vocale i (in tutte le sue varietà) si avvicina la parte centrale della lingua (jihvāmadhya) al palato (tālu), mentre per produrre le occlusive del gruppo c ch j jh ñ (palatali), la parte centrale della lingua deve toccare il palato. Come si può vedere, il testo distingue tra l'articolazione delle vocali e quella delle consonanti: si afferma esplicitamente che il punto di articolazione delle vocali è il luogo a cui si avvicina un organo fonatorio, mentre il punto di articolazione di altri suoni è quello in cui si verifica un contatto completo. Di conseguenza, l'organo fonatorio per la produzione delle vocali è quello che il parlante porta in prossimità di un punto di articolazione, mentre l'organo fonatorio per le consonanti è quello che il parlante porta in contatto con un determinato punto.
Nel cap. 13 del Ṛgvedaprātiśākhya s'incontra una descrizione analoga del modo in cui il flusso d'aria è modificato. Secondo questo testo, il soffio ascendente (vāyu prāṇa) si trasforma in qualcosa che si colloca in una cavità (koṣṭhya) ed è la causa materiale dei suoni emessi. Quando un parlante compie uno sforzo articolatorio (vaktrīhā), questo flusso d'aria assume il carattere di śvāsa, di nāda oppure di una combinazione fra i due a seconda che la glottide sia aperta, chiusa o in posizione intermedia. Sono questi i materiali originari dei suoni articolati: śvāsa per le consonanti sorde, nāda per le altre, a eccezione delle occlusive sonore aspirate e della spirante sonora h, che si fondano su una combinazione di śvāsa e nāda. Più avanti nello stesso capitolo, il Ṛgvedaprātiśākhya prosegue con la trattazione dei tipi di articolazione relativi alla produzione delle diverse serie di suoni: per le occlusive un organo fonatorio entra in completo contatto con un dato punto, dal quale è immediatamente ritirato; per i quattro suoni che precedono la h nella lista (ossia le semivocali y r l v) l'organo fonatorio entra leggermente in contatto; nel caso delle vocali, di ṃ e delle spiranti, non vi è contatto, ma gli organi fonatori rimangono momentaneamente in prossimità di un punto di articolazione. Il Ṛgvedaprātiśākhya non entra nei particolari circa la posizione che l'organo fonatorio assume rispetto ai luoghi di articolazione, come accade invece nel Taittirīyaprātiśākhya, ma il cap. 1 di quest'opera contiene un gruppo di sūtra (Ṛgvedaprātiśākhya, 1.38-49) in cui s'indicano sinteticamente i punti in cui i diversi suoni sono articolati.
L'analisi fonetica nelle Śikṣā
La descrizione dell'articolazione dei suoni (śikṣā) presentata nelle Śikṣā di carattere generale è notevolmente diversa da quelle fornite dal Ṛgvedaprātiśākhya e dal Taittirīyaprātiśākhya.
La Pāṇinīyaśikṣā (strofe 6-7 del testo ricostruito da Ghosh) afferma che il respiro sale e va a colpire la volta della bocca, dopo di che torna nella cavità orale e quindi produce i suoni articolati della lingua. Questi suoni sono suddivisi in base a cinque caratteristiche: tono (svara), durata (kāla), punto di articolazione (sthāna), e modi di articolazione (prayatna) interno ed esterno alla cavità orale.
L'ultima sezione dell'Āpiśalaśikṣā fornisce una descrizione simile. Il soffio chiamato prāṇa è spinto verso l'alto dalla zona dell'ombelico e, nel corso di questa risalita, è trattenuto mediante uno sforzo in uno dei punti lungo il percorso, a cominciare dal petto. Così facendo, il soffio colpisce un punto, e da questo contatto scaturisce un suono (dhvani) nell'etere (ākāśa). Questo suono costituisce il suono di base di una classe, ossia è la realizzazione di un tipo fonetico. Successivamente (Āpiśalaśikṣā, 8.2-6) sono descritti i diversi modi in cui i contatti hanno luogo: vi può essere uno sforzo interno di occlusione e così via. Il testo prosegue affermando che il prāṇa procede verso l'alto venendo a contatto con la volta della bocca; dopo averla colpita torna indietro e colpisce una cavità (koṣṭha); quando ciò avviene, si produce vivāra, 'apertura', se la glottide (galabila, lett. 'foro della gola') è aperta (vivṛta), e saṃvāra, 'chiusura', se è chiusa (saṃvṛta). Questi sono i modi di articolazione esterni. Inoltre, quando la glottide è chiusa, si genera un nāda, quando è aperta, uno śvāsa. Questi, continua la śikṣā, sono noti insieme come anupradāna. Tuttavia, il testo riferisce che, secondo l'opinione di altri studiosi, l'anupradāna sarebbe un riverbero (anusvāna), simile al suono di una campana. Quindi (ibidem, 8.13-14), la śikṣā afferma che śvāsa e nāda sono generati dopo che un suono è stato prodotto dall'aria che colpisce un punto di articolazione; dalla combinazione fra il nāda e questo suono ha origine il ghoṣa ('sonorità'), mentre dalla combinazione fra śvāsa e lo stesso suono ha origine l'aghoṣa ('sordità'). Queste sono le proprietà che caratterizzano le consonanti sonore e sorde.
Questo modo di rappresentare la produzione delle consonanti sonore e sorde si discosta dalle descrizioni fornite dal Ṛgvedaprātiśākhya e dal Taittirīyaprātiśākhya. Gli studiosi moderni sono discordi su un punto importante, e cioè se ghoṣa debba essere considerato come un tipo di sonorità diversa dall'emissione d'aria chiamata nāda, prodotta con la glottide chiusa. Sembra verosimile (Cardona 1986) che per i primi fonologi-fonetisti i termini ghoṣavat e aghoṣa, che indicano rispettivamente le consonanti sonore e sorde, si applicassero a classi fonologiche, mentre gli autori successivi di Śikṣā e testi correlati inglobarono ghoṣa e aghoṣa come entità fonetiche in un sistema influenzato dai contrasti fonologici.
La distribuzione dei suoni secondo i Prātiśākhya
Alcuni Prātiśākhya si occupano in dettaglio della distribuzione dei suoni, specificando quali suoni sono consentiti in determinate posizioni. Per esempio, nel cap. 12 del Ṛgvedaprātiśākhya si descrive la distribuzione dei suoni nel modo seguente. Non compaiono in fine di parola prima di una pausa i seguenti suoni: le spiranti eccetto ḥ (cioè h ś ṣ ≍k ≍p ṃ), le semivocali (y r l v), la ṝ, le occlusive palatali (c ch j jh ñ). All'interno del Ṛgveda non compaiono all'inizio di parola: le vocali ṝ e ḷ, la seconda metà della serie di otto suoni chiamati ūṣman (cioè ḥ ≍k ≍p ṃ) e i sette suoni che precedono t (cioè jh ñ ṭ ṭh ḍ ḍh ṇ). Inoltre, certe combinazioni di suoni non sono possibili. Per esempio, le occlusive dei tre gruppi centrali (c ch j jh ñ; ṭ ṭh ḍ ḍh ṇ; t th d dh n) possono combinarsi con altre occlusive di questa stessa serie solo se appartengono al medesimo gruppo; così, ṇḍ è una combinazione possibile (per es., maṇḍūka, 'rana'), come pure gm (per es., tigma, 'affilato'), ma combinazioni quali cn non sono consentite. La r (repha) non può unirsi con un'altra r o con l.
I rapporti fra śikṣā e vyākaraṇa
Le testimonianze esistenti dimostrano che in India l'interazione tra fonetica e fonologia ebbe inizio assai presto. Come si è già osservato, i Prātiśākhya trattano entrambe le materie. Vi sono inoltre indicazioni del fatto che nell'Antichità il campo di studi del vyākaraṇa ('grammatica') includesse anche argomenti affrontati nelle opere di śikṣā. Nella sezione introduttiva del Vyākaraṇamahābhāṣya (Grande commento alla grammatica), Patañjali riferisce infatti che nei tempi antichi era consuetudine per i brahmani studiare il vyākaraṇa dopo essere stati sottoposti alla cerimonia di investitura della cordicella sacra. In seguito, a questi brahmani, che avevano ormai acquisito dal vyākaraṇa una conoscenza dei punti di articolazione dei suoni, dei tipi di suoni prodotti e dei modi di articolazione esterni, erano insegnate le parole dei Veda. All'epoca di Pāṇini, tuttavia, per vyākaraṇa s'intendeva ormai quella disciplina ausiliaria dei Veda che aveva per oggetto la grammatica, incluse le regole fonologiche, mentre la fonetica era ritenuta un campo distinto di pertinenza della śikṣā.
[La traslitterazione adottata nel testo che segue si rifà al sistema di notazione degli accenti tradizionalmente adottato per il Ṛgveda: una linea orizzontale sotto una vocale indica un tono basso o extrabasso, un accento grave (qui preferito al tratto verticale soprascritto alla sillaba, usato nei manoscritti) rappresenta una combinazione dei toni alto e basso (svarita), mentre le sillabe non marcate sono di tono alto. Quando si cita una base verbale o nominale, un accento acuto contrassegna la vocale di tono alto. Gli accenti non sono segnati nel caso in cui le citazioni siano tratte da testi le cui fonti manoscritte non li riportano].
Il vyākaraṇa ('grammatica') è uno dei sei vedāṅga, le discipline ausiliarie dei Veda. L'opera che tradizionalmente lo rappresenta è l'Aṣṭādhyāyī (Trattato in otto capitoli) di Pāṇini (V sec. a.C. ca.), composto da quasi 4000 sūtra ('aforismi') suddivisi in otto capitoli. Secondo la tradizione che si richiama a questo autore, la grammatica ha come fine l'insegnamento delle forme corrette del linguaggio, che sono definite śabda, 'forme linguistiche (corrette)', o sādhuśabda (sādhu, 'giusto, corretto'), in quanto contrapposte alle forme scorrette, chiamate apaśabda o apabhraṃśa ('forme corrotte'). Le forme linguistiche corrette sono tratte dall'uso dei parlanti standard dell'epoca e della regione di Pāṇini. Questi sono designati con il termine śiṣṭa, 'istruito, colto', dai Pāṇinīya, i continuatori dell'opera di Pāṇini. Così Patañjali (metà del II sec. a.C.) osserva che l'Aṣṭādhyāyī serve a riconoscere gli śiṣṭa. Se uno studioso dell'Aṣṭādhyāyī sente adoperare le forme in essa illustrate da qualcuno che non ha mai studiato la grammatica, sa che costui è uno śiṣṭa, il quale conosce anche altre forme linguistiche corrette. L'Aṣṭādhyāyī presuppone l'appartenenza a tale comunità. Lo si evince, per esempio, dal fatto che dopo aver indicato le condizioni in cui l'allungamento delle vocali si applica in certi derivati, Pāṇini afferma (Aṣṭādhyāyī, 6.3.137: anyeṣām api dṛśyate) che questo fenomeno si verifica anche in altri casi, che tuttavia non specifica. Al proposito, i commentatori raccomandano di seguire l'esempio degli śiṣṭa. Pāṇini riconosce anche l'esistenza di dialetti nell'ambito della lingua standard; egli registra gli usi propri degli orientali e dei settentrionali e rende conto di certe caratteristiche della lingua menzionate da alcuni maestri (ācārya) non meglio specificati o da altri esplicitamente nominati. L'Aṣṭādhyāyī tratta pure gli aspetti propri alla più arcaica lingua vedica. Pāṇini tiene conto sia della lingua sacra in generale, sia di particolari usi legati alle diverse tradizioni vediche a lui note.
La speculazione linguistica prima di Pāṇini
Sebbene l'Aṣṭādhyāyī sia la più antica grammatica di sanscrito integralmente preservata, Pāṇini ebbe dei precursori. Già i Brāhmaṇa (v. cap. II) mostrano le tracce di uno sforzo di analisi linguistica, che aveva portato all'elaborazione di categorie grammaticali. Per esempio, la parola vibhakti (lett. 'divisione'), che nella grammatica di Pāṇini è un termine tecnico riferito alle desinenze nominali e verbali, era impiegata in epoca anteriore in relazione ai mantra ('formule sacrificali') che mostrano l'alternarsi di diverse desinenze nominali. Così, nel corso delle offerte di burro chiarificato che precedono e seguono l'offerta principale di un rito, alcuni mantra sono recitati con forme differenti del tema nominale agní- prima dello stesso tema al vocativo singolare (agnè). I primi quattro versi presacrificali sono: samidhò agne'gne ājyàsya viyantu, tanunapad agnāv àgna ājyàsya vetu, iḍo agninagne ājyàsya viyantu, barhir agnim àgna ājyàsya vetu. Il vocativo, il locativo (gnau), lo strumentale (gnina) e l'accusativo (gnim) singolari del tema sono inseriti nei versi appropriati (Āpastambaśrautasūtra, 5.28.6; Taittirīyabrāhmaṇa, 3.5.5, con Sāyaṇa ad Taittirīyasaṃhitā, 2.6.1; Taittirīyabrāhmaṇa, 1.3.1). La locuzione vibhàktīḥ kuryāt ("Egli deve eseguire le vibhakti") indica la recitazione che utilizza tali forme (per es., Taittirīyabrāhmaṇa, 1.3.1.6). Il Kauśītakibrāhmaṇa (Brāhmaṇa della scuola Kauṣītakin) dice (1.4.1: vibhaktibhiḥ prayājānuyājān yajati) che le offerte di burro chiarificato che precedono e seguono il sacrificio principale sono accompagnate dalle vibhakti, quindi (1.4.4) cita sei versi del Ṛgveda che iniziano con forme singolari del sostantivo agní: agne (voc.), a̱gnim (acc.), a̱gninā̀ (strum.), gniḥ (nom.), gneḥ (gen.), gnā (loc.). Il testo riferisce inoltre (1.4.4: etāsām ṛcāṃ pratīkāni vibhaktayaḥ) che le parole iniziali di questi versi sono chiamate vibhakti.
Un'analisi sistematica di un testo del Ṛgveda a recitazione continua compare nel relativo padapāṭha ('testo analitico') composto da Śākalya. Questo testo è anteriore a Pāṇini, il quale fa riferimento a una pratica di Śākalya. Il padapāṭha del Ṛgveda scompone le parole divisibili in due costituenti. Śākalya non soltanto divide i costituenti dei composti, ma separa anche i suffissi secondari (taddhita) (v. oltre) dalle relative basi nominali; inoltre, identifica alcuni affissi che servono a formare verbi denominativi e separa i temi nominali da quelle desinenze davanti alle quali si applicano i mutamenti fonologici solitamente riservati ai suoni nei punti di congiunzione fra parole. Il procedimento può essere illustrato dagli esempi seguenti:
(1a) oṣàdhayas savm vàdante somèna saha rājña / yasmaì krṇotì brāhmaṇas taṃ rajan pārayāmasi //
(1b) oṣàdhayaḥ / sam / vadante / somèna / saha / rājña / yasmaì / krṇotì / brahmaṇaḥ / tam / rajan / parayamasi // (Ṛgveda, 10.97.22)
(2a) gnim ḷe prohìtay yjñasyà dvam tvijàm / hotraṃ ratndhātàmam //
(2b) gnim / ḷ / praḥ-hìtam / yjñasyà / dvam / tvijàm / hotram / rtndhātàmam // (ibidem, 1.1.1)
(3a) gnir hot kvikràtus styaś ctraśràvastamaḥ / dvo dvebhr ā gàmat //
(3b) gniḥ / hot / kvi-kràtuḥ / styaḥ / ctraśràvaḥ-tamaḥ / dvaḥ / dvebhìḥ / ā / gmt //. (ibidem, 1.1.5)
Le notazioni (a) e (b) mostrano rispettivamente il testo nella forma recitativa continua e il testo corrispondente in cui gli elementi costitutivi sono separati e ciascun pada ('parola') è seguito da una pausa, in modo tale da annullare i mutamenti fonologici che si applicano quando tali elementi sono pronunciati senza soluzione di continuità. Così, oṣàdhayaḥ / sam si compone di due pada terminanti in -ḥ e in -m rispettivamente. Il saṃhitāpāṭha ('testo a recitazione continua'), invece, mostra le assimilazioni contestuali: oṣàdhays e sav, con -s davanti a s- e v nasalizzata (v) invece di -m davanti a v-.
Vi sono inoltre differenze dovute al sandhi tonale: oṣàdhayaḥ possiede una vocale con una combinazione di toni basso e alto (svarita) e tre vocali di tono alto; il tema nominale óṣadhi- ha un tono alto sulla prima vocale; in base alle regole del sandhi, l'originaria -a- di tono basso che la seguiva muta in una vocale alta-bassa; un'originaria vocale di tono basso che segue uno svarita assume tono alto a meno che preceda una vocale alta o uno svarita, nel qual caso è pronunciata con un tono extrabasso; analogamente, l'ultima vocale di oṣàdhays è extrabassa, in quanto la sillaba successiva contiene una vocale di tono alto. Contrariamente a brhmṇaḥ, che è seguito da una pausa, brāhmṇas termina in -s, poiché è immediatamente seguito dalla dentale sorda di taṃ; inoltre, taṃ mostra il segmento nasale denominato anusvāra, che di regola sostituisce -m davanti a r- o a spirante. Fenomeni analoghi di sandhi sono riscontrabili nei rimanenti esempi.
Śākalya non opera alcuna divisione in dvebhìḥ, perché in questo caso non è possibile separare un tema da un affisso individuando in tal modo un contesto in cui possa avere luogo l'alternanza della finale della parola. Ma divide invece una forma come rajòbhiḥ (strum. pl.), 'spazi', in tema e desinenza (rajàḥ-bhiḥ), poiché forme come questa mostrano lo stesso mutamento visibile in forme composte come prohìtay nell'esempio (2a). Inoltre, Śākalya non si limita soltanto a operare un'unica divisione in una parola composta, ma vi riconosce anche una gerarchia. Per esempio, in pr-jām (acc. sing.), 'creatura', separa il preverbio prá- dal costituente successivo, ma in prjā-pàtiḥ 'Prajāpati' ('signore delle creature' o 'creatore') opera una sola divisione tra i due membri del composto, riconoscendo, dunque, una relazione gerarchica; prajā́pati- è composto da prajā́- ('creatura') e páti- ('signore'), e il primo elemento è composto dal preverbio prá- e da jā-, un derivato di jan 'nascere'. Analogamente, la divisione dei costituenti di sśravàstamaḥ, 'che gode di ottima fama', e ctraśràvastamaḥ, 'di fama celeberrima', (esempio 3a) ha luogo prima del suffisso superlativo: sśravàḥ-tamaḥ, ctraśràvaḥ-tamaḥ. Invece, s-śravàsam (acc. sing.), 'che gode di buona fama', è diviso nel modo indicato.
Per effettuare le sue divisioni, Śākalya tiene anche conto di criteri sintattici. Egli divide rtn-dhātàmam, separando rtn-, 'tesoro', da dhātàmam, superlativo di un nome di agente (dhā) in composizione. Esiste infatti un costrutto in base al quale il superlativo dhéṣṭha-, 'che crea in maniera eccellente', regge rátna- all'accusativo, come in Ṛgveda, 4.41.3a: indr h ratnv varùṇ dheṣṭhā, "Indra e Varuṇa sono eccellenti creatori di tesori". Tuttavia, Śākalya non divide i costituenti di tvijàm nell'esempio (2a). Come hanno intuito i grammatici di epoca posteriore, la ragione risiede sicuramente nel fatto che questo termine era suscettibile di diverse possibili analisi.
L'analisi che Śākalya fa del testo del Ṛgveda a recitazione continua presuppone che egli riconoscesse le relazioni esistenti tra sequenze quali (1b)-(3b) e (1a)-(3a) negli esempi riportati sopra. I procedimenti tramite i quali il saṃhitāpāṭha è derivato dalle sequenze sottostanti del padapāṭha sono forniti in testi noti come Prātiśākhya. Uno di questi, verosimilmente anteriore a Pāṇini, è il Ṛgvedaprātiśākhya di Śaunaka. Questi dice esplicitamente (Ṛgvedaprātiśākhya, 2.1: saṃhitā padaprakṛtiḥ) che il testo pronunciato senza pause tra le parole è preceduto dal testo in cui le parole sono separate, e indica (ibidem, 2.2: padāntān padādibhiḥ sandadhad eti yat sā kālāvyavāyena) in che modo si arriva alla saṃhitā: i suoni finali delle parole sono uniti ai suoni iniziali delle parole successive senza soluzione di continuità.
Pāṇini conosceva il padapāṭha di Śākalya al Ṛgveda e dà per scontato che fosse stata eseguita un'analisi completa della lingua sanscrita, per cui opera con elementi di base all'interno di un sistema derivazionale (v. oltre). Presuppone inoltre una conoscenza della śikṣā (v. sopra), in quanto considera (Aṣṭādhyāyī, 1.1.9-10: tulyāsyaprayatnaṃ savarṇam; nājjhalau) che se due suoni richiedono lo stesso modo di articolazione nel medesimo punto della cavità orale, ciascuno di essi è classificato come savarṇa ('omogeneo') rispetto all'altro, ma che ciò non vale nel caso in cui una vocale e una consonante soddisfino i criteri suddetti. In tal modo, i membri di serie vocaliche quali a ā a3 e i ī i3 sono savarṇa, così come anche i membri di gruppi quali k kh g gh ṅ, mentre la vocale i non è considerata omogenea alla spirante palatale ś.
L'Aṣṭādhyāyī di Pāṇini
Pāṇini aveva dunque alle spalle una tradizione di studi di fonetica e grammatica. Sulla base di questa, e incorporando scoperte e formulazioni dei suoi predecessori, egli compose la più importante grammatica dell'India antica; l'opera è intitolata Aṣṭādhyāyī, termine che compare per la prima volta nel Vyākaraṇamahābhaṣya (Grande commento alla grammatica) di Patañjali, perché la parte principale del testo consta di otto (aṣṭan) capitoli (adhyāya). Questo è il sūtrapāṭha, il testo dei sūtra grammaticali, costituito da circa quattromila regole e accompagnato da un repertorio di fonemi (akṣarasamāmnāya), da un catalogo di radici verbali (dhātu), il dhātupāṭha, e da un altro di forme nominali, il gaṇapāṭha.
Il repertorio di fonemi di Pāṇini
Il repertorio di fonemi di Pāṇini è suddiviso in 14 gruppi ordinati secondo il criterio in base al quale sono formulate le regole fonologiche: (1) a i u Ṇ (2) ṛ ḷ K (3) e o Ṅ (4) ai au C (5) h y v r Ṭ (6) l Ṇ (7) ñ m ṅ ṇ n M (8) jh bh Ñ (9) gh ḍh dh Ṣ (10) j b g ḍ d Ś (11) kh ph ch ṭh th c ṭ t V (12) k p Y (13) ś ṣ s R (14) h L. Questi sono definiti non soltanto akṣarasamāmnāya e pratyāhārasūtra, ma anche śivasūtra e māheśvarasūtra, in base a una tradizione secondo cui il dio Śiva (detto anche Maheśvara, 'Grande signore') li avrebbe rivelati a Pāṇini. Ogni gruppo termina con una consonante che funge da contrassegno (it, detto anche anubandha dai Pāṇinīya), qui indicata con una lettera maiuscola. Tali contrassegni servono a formare abbreviazioni (pratyāhāra), di modo che un elemento accompagnato dal contrassegno finale M rappresenta sé stesso e tutti gli elementi seguenti fino a M. Per esempio, aC indica gli elementi a partire da a di śivasūtra 1 fino al contrassegno C di śivasūtra 4, mentre haL di śivasūtra 5 significa h (designato da ha) e tutti gli elementi seguenti fino al contrassegno L di śivasūtra 14; dunque, queste abbreviazioni si riferiscono rispettivamente alle vocali e alle consonanti della lista di suoni. Allo stesso modo, aṆ formato con il contrassegno Ṇ di śivasūtra 6, indica tutte le vocali e le semivocali del repertorio. Un suono della serie denotata da aṆ, posto che non sia un affisso, oppure un suono accompagnato dal contrassegno U, designa sia se stesso che qualunque altro suono a esso omogeneo. Ne consegue che le vocali della lista dei suoni indicano indirettamente delle serie di vocali. Per esempio, a rappresenta 18 suoni: a breve, ā lunga e a3 extralunga, ciascuna delle quali può essere a sua volta semplice o nasalizzata e può avere tono alto (udātta), basso (anudātta) o una combinazione dei toni alto e basso (svarita). Analogamente, y v l designano serie di semivocali semplici o nasalizzate (y, v, l). Pāṇini utilizza kU cU ṭU tU pU per designare classi di occlusive: le velari k kh g gh ṅ, le palatali c ch j jh ñ, le retroflesse ṭ ṭh ḍ ḍh ṇ, le dentali t th d dh n e le labiali p ph b bh m.
Il dhātupāṭha e il gaṇapāṭha
Il dhātupāṭha ('elenco di radici verbali') di Pāṇini è suddiviso in dieci gruppi, che iniziano rispettivamente con le seguenti radici: 1. bhū 'essere, diventare', 2. ad 'mangiare', 3. hu 'offrire in sacrificio', 4. div 'giocare d'azzardo', 5. su 'spremere', 6. tud 'pungolare, spingere, ferire', 7. rudh 'trattenere, ostacolare', 8. tan 'tendere', 9. krī 'comprare', 10. cur 'rubare'. I verbi di queste classi si differenziano per il modo in cui formano il presente e l'imperfetto: (1) suffisso -a- non accentato (terza persona sing. presente indicativo: bhav-à-ti←bh-a-ti); (2) nessun affisso tra la radice e le desinenze (at-tì←ád-ti); (3) raddoppiamento della radice (jhótì ← hú-ti); (4) inserimento di -ya- dopo la radice accentata (dīvyàti←dív-ya-ti); (5) suffisso -nu-/-no- (terza persona sing. snotì←su-nó-ti; terza persona duale sntaḥ); (6) suffisso -a- accentato (tdatì←tud-á-ti); (7) infisso -na-/-n- (rṇaddhì←ru-ná-dh-ti; rnddhaḥ←r-n-dh-tás); (8) suffisso -u-/-o- (tnoti←tan-óti; tn--taḥ); (9) suffisso -nā-/nī (krṇātì←krī-nā́-ti; krṇtaḥ); (10) inserimento di -i- accentata seguita da -a- non accentata (crayàti←cur-í-a-ti). Aṣṭādhyāyī, 1.3.1 (bhūvādayo dhātavaḥ) stabilisce che tutti i membri dei dieci gruppi del dhātupāṭha siano designati dal termine dhātu.
Talune regole che prescrivono operazioni relative a particolari gruppi (gaṇa) di parole sono accompagnate dalle liste delle parole in questione. Per esempio, Aṣṭādhyāyī, 1.1.27 (sarvādīni sarvanāmāni) stabilisce che i membri del gruppo che ha inizio con sarva, 'tutto, intero', siano definiti sarvanāman 'pronomi'. Tali liste sono tradizionalmente riunite in un testo chiamato gaṇapāṭha ('elenco dei gruppi [di parole]').
La grammatica derivazionale di Pāṇini
Proseguendo la tradizione descrittiva da lui ereditata, di cui il testo analitico (padapāṭha) del Ṛgveda menzionato sopra è un esempio, Pāṇini descrive il sanscrito tramite un sistema derivazionale (Sharma 1987-99, I, pp. 141-211; Cardona 1997, pp. 136-400), che postula l'esistenza di sequenze sottostanti di elementi di base a cui si applicano operazioni che consentono di giungere agli enunciati effettivamente utilizzati dai parlanti. Diversamente dai padapāṭha e dalle regole dei Prātiśākhya, che rendono conto di corpus specifici, Pāṇini tratta dei fenomeni della lingua nel suo complesso.
Il sistema derivazionale di Pāṇini opera dal punto di vista del parlante. Partendo dall'assunto secondo cui gli enunciati veicolano i significati che il parlante desidera esprimere, ogni processo di derivazione parte dalla semantica. Inoltre, il desiderio di comunicare verbalmente (vivakṣā) non è visto come un desiderio del singolo parlante, bensì come un'intenzione associata a una comunità di parlanti (loka, 'mondo'), ciò che Patañjali definisce laukikī vivakṣā, 'desiderio espressivo della comunità'. Dunque, il sistema di Pāṇini si occupa delle modalità di espressione verbale di una comunità di parlanti modello. In conformità con la struttura del sanscrito, questo sistema comporta basi (prakṛti), affissi (pratyaya) e incrementi (āgama). Gli affissi sono applicati alle basi in condizioni dettate dal significato e dal contesto: l'affisso A si applica alla base R a condizione che si voglia esprimere il significato S, oppure che R sia utilizzata insieme a un altro elemento, o nel caso che si verifichi una combinazione delle due condizioni. I significati in questione possono essere concetti espressi da termini convenzionali che Pāṇini presuppone siano noti alle persone di madrelingua sanscrita. Per esempio, Pāṇini impiega riferimenti temporali come presente (vartamāna, 'attuale, corrente'), passato (bhūta) e futuro (bhaviṣyat), e parla di modalità quali l'impartire un ordine (vidhi) a un sottoposto, utilizzando i termini suddetti senza avvertire la necessità di spiegare esplicitamente in che senso li adopera; infatti, la comunità dei parlanti indigeni li conosce.
Pāṇini si serve anche di sei categorie sintattico-semantiche, alle quali i sūtra dell'Aṣṭādhyāyī assegnano i partecipanti diretti (kāraka) alle azioni. Le regole operative forniscono quindi i diversi affissi da utilizzare quando s'intendano esprimere particolari kāraka assegnati a queste categorie. Le sei categorie sono così denominate: apādāna (lett. 'allontanamento'), sampradāna (lett. 'donazione'), karaṇa ('strumento'), adhikaraṇa ('luogo'), karman ('oggetto'), kartṛ ('agente'); la classe kartṛ include anche una sottocategoria chiamata hetu ('agente causale'). L'applicazione degli affissi alle basi produce una sequenza astratta di elementi correlati, definita dai Pāṇinīya alaukikavākya, ossia un enunciato che non s'incontra nella comunicazione ordinaria, in contrapposizione al laukikavākya, un enunciato utilizzato nella comunicazione corrente. Le regole si applicano agli elementi delle sequenze postulate per arrivare agli enunciati reali.
I tipi di regole dell'Aṣṭādhyāyī
Le regole di Pāṇini si possono suddividere nei seguenti tipi generali. Le regole operative riguardano l'introduzione di affissi e incrementi o la sostituzione di certi elementi con altri. Le regole sussidiarie consentono la necessaria interpretazione e applicazione delle altre regole. Esse appartengono a tre tipi principali: saṃjñāsūtra, che introducono le designazioni (saṃjñā) di categorie grammaticali e stabiliscono le convenzioni concernenti l'uso dei termini, metaregole, e rubriche o intestazioni. Inoltre, alcuni sūtra stabiliscono che proprietà o operazioni che normalmente non riguardano determinati elementi siano estendibili a questi in particolari condizioni (regole di estensione). Vi sono poi regole restrittive, per limitare la portata di regole che altrimenti avrebbero un'applicazione troppo ampia, e regole proibitive, le quali vietano operazioni che altrimenti avrebbero luogo.
Alcuni sūtra serviranno da esempio. Aṣṭādhyāyī, 1.3.1 (v. sopra) è un saṃjñāsūtra in cui si afferma che le radici elencate nel dhātupāṭha sono chiamate dhātu. 1.2.45 (arthavad adhātur apratyayaḥ prātipadikam) è un saṃjñāsūtra in base al quale un elemento significante che non sia un dhātu ('radice verbale') o un pratyaya ('suffisso') (3.1.1, v. oltre) è definito prātipadika ('base nominale'). I primi due sūtra dell'Aṣṭādhyāyī (1.1.1-2: vṛddhir ād aic; ad eṅ guṇaḥ) sono saṃjñāsūtra che attribuiscono le designazioni vṛddhi e guṇa a certe vocali: le varianti della classe ā (denotate da āT), ai e au (aiC) sono chiamate vṛddhi; le varianti della classe a (aT), e e o sono chiamate guṇa. Analogamente, una serie di sūtra assegna le designazioni apādāna, ecc. ai partecipanti diretti alle azioni in determinate condizioni sia sintattiche che semantiche.
1.1.3 (iko guṇavṛddhī) è una metaregola che definisce restrittivamente gli elementi da sostituire nelle regole di sostituzione che prescrivono vocali guṇa e vṛddhi (1.1-2) e utilizzano tali termini, senza però specificare gli elementi da sostituire; s'intende che gli elementi soggetti a sostituzione sono le vocali della serie indicata da iK, cioè le vocali i u ṛ ḷ.
1.1.49 (ṣaṣṭhī sthāneyogā) è una metaregola che si applica ai sūtra in cui sono utilizzate forme al genitivo dove il contesto non consente di determinare quale specifica relazione esista tra il referente del genitivo in questione e un'altra entità; in base a questa regola è stabilito che il genitivo designa la relazione 'al posto di', ossia indica l'elemento da sostituire. Allo stesso modo, 1.1.66-67 (tasminn iti nirdiṣṭe pūrvasya; tasmād ity uttarasya) servono a interpretare le forme al locativo e all'ablativo; se un elemento che definisce il contesto in cui ha luogo una data operazione figura al locativo, l'operazione in questione si applica all'elemento che precede il termine al locativo; se invece è all'ablativo, l'operazione si applica all'elemento che segue.
1.1.56 (sthānivad ādeśo'nalvidhau) estende a un elemento sostitutivo ciò che è valido per l'elemento originario; il sostituto si comporta come l'elemento che sostituisce, a eccezione del caso in cui l'operazione prevista dipenda da un suono contenuto nell'elemento originario. Secondo 1.1.62 (pratyayalope pratyayalakṣaṇam), se un affisso cade, l'operazione che sarebbe condizionata da quell'affisso è comunque effettuata. 1.1.63 (na lumatāṅgasya) è una regola negativa correlata a quella precedente; un'operazione applicabile al tema di un affisso cancellato non si applica se l'elisione è denotata da un termine contenente le lettere lu.
Alcune sezioni dell'Aṣṭādhyāyī vertono su soggetti specificati nei sūtra di rubricazione. Per esempio, 3.1.1 (pratyayaḥ) introduce un'estesa serie di regole trattate nei capitoli successivi fino al quinto incluso; gli elementi introdotti da regole presentate in questa sezione sono chiamati pratyaya ('affisso'). La sezione comprende diverse sottosezioni; per esempio, 3.1.91 (dhātoḥ) e 4.1.1 (ṅyāpprātipadikāt) aprono rispettivamente la sezione che introduce gli affissi postverbali e quella che prescrive i suffissi femminili designati dalle sigle Ṅī e āP.
Come si è osservato sopra, Pāṇini presuppone che il pubblico a cui si rivolge conosca le convenzioni condivise dai parlanti della lingua descritta. Egli rovescia una delle principali convenzioni della lingua piegandola alle esigenze della materia trattata. Nel sanscrito corrente, la particella citativa iti è usata con una parola quando ci si riferisce alla parola in sé e non al suo significato. Per esempio, agniḥ (nom. sing.) significa 'fuoco', ma agnir iti si riferisce al termine agni. Le regole grammaticali riguardano principalmente le unità della lingua, per cui Pāṇini capovolge questa convenzione; un termine che non sia un termine tecnico grammaticale si considera riferito a sé stesso, come se fosse seguito da iti. Questa convenzione è istituita da Aṣṭādhyāyī, 1.1.68 (svaṃ rūpaṃ śabdasyāśabdasaṃjñā); la forma di un termine designa il termine medesimo a meno che non si tratti di una definizione grammaticale. Così, agneḥ (abl. sing.) in 4.2.33 (agner ḍhak) si riferisce al tema nominale agni-, al quale si applica il suffisso ḍhaK (=-eya) per formare il derivato āgneya-, 'la cui divinità è Agni'; invece, guṇavṛddhī in Aṣṭādhyāyī, 1.1.3, dhātoḥ in 3.1.91 e karmaṇi in 3.4.69 (v. oltre) non sono autoreferenti, poiché sono usati come termini tecnici grammaticali.
Esempi di derivazione secondo il sistema di Pāṇini
La derivazione delle seguenti frasi servirà a illustrare le modalità operative del sistema di Pāṇini (Cardona 1997, pp. 36, 38-39, 148-158):
(4) rmo daśàgrīvaṃ hanti 'Rāma uccide Rāvaṇa' (qui designato con l'epiteto Daśagrīva)
(5) rmeṇ daśàgrīvo hanyate 'Rāvaṇa è ucciso da Rāma'
(6) rmo daśàgrīvam ahan 'Rāma uccise Rāvaṇa'
(7) rmeṇ daśàgrīvo'hanyata 'Rāvaṇa fu ucciso da Rāma'.
Queste quattro frasi sono correlate tra loro. Esse comportano un'azione, uccidere, indicata dal medesimo verbo, han-, e le relazioni semantiche tra i due partecipanti diretti all'azione sono le stesse: Rāma figura come partecipante indipendente (svatantra) all'uccisione, e Rāvaṇa è il partecipante che Rāma maggiormente desidera raggiungere (īpsitatama) tramite la sua azione. Di conseguenza, Rāma è assegnato alla categoria kartṛ, 'agente' (1.4.50: svatantraḥ kartā), e Rāvaṇa alla categoria karman, 'oggetto' (1.4.49: kartur īpsitatamaṃ karma). In (4) e (5) si parla dell'uccisione come di un'azione che ha luogo nel presente, mentre in (6) e (7) ha luogo in un passato che esclude il giorno in cui queste frasi sono pronunciate. (4) e (5) si equivalgono tra loro, come pure (6) e (7), nel senso che comportano gli stessi partecipanti rapportati nello stesso modo alla medesima azione e anche il medesimo contesto temporale, mentre (4) e (5) differiscono da (6) e (7) per il fatto che ciascuna delle coppie di frasi si riferisce a un tempo diverso. Le sequenze originarie dalle quali si fanno derivare (4)-(7) sono:
(4a) rāmá-s1 dáśagrīva-am2 han-lAṬ
(5a) rāmá-ā3 dáśagrīva-s1 han-lAṬ
(6a) rāmá-s1 dáśagrīva-am2 han-lAṄ
(7a) rāmá-ā3 dáśagrīva-s1 han-lAṄ .
A uno stadio successivo, le sequenze mostrano le desinenze verbali tiP e ta:
(4b) rāmá-s1 dáśagrīva-am2 han-ti
(5b) rāmá-ā3 dáśagrīva-s1 han-ta
(6b) rāmá-s1 dáśagrīva-am2 han-ti
(7b) rāmá-ā3 dáśagrīva-s1 han-ta .
Sequenze come queste consistono di pada correlati, ossia elementi che terminano con desinenze nominali o verbali.
In questo sistema le desinenze verbali derivano da dieci affissi astratti L, costituiti da una L cui sono apposti contrassegni diversi. Sei degli affissi sono caratterizzati da ṭ, quattro da ṅ: lAṬ lIṬ lUṬ lṚṬ lEṬ lOṬ lAṄ lIṄ lUṄ lṚṄ. Ciò che li accomuna è che qualsiasi affisso L può essere applicato dopo una base verbale a condizione che si debba indicare un agente o un oggetto, oppure, se il verbo in questione non ha oggetto, per indicare un agente o un'azione (3.4.69: laḥ [67: kartari] karmaṇi ca bhāve cākarmakebhyaḥ). Particolari affissi L sono introdotti a condizione che l'azione soddisfi determinati criteri temporali e modali. Così, lAṬ si applica se ci si riferisce a un'azione come avente luogo nel presente (3.2.123: vartamāne laṭ), mentre lAṄ è utilizzato quando un'azione è riferita a un tempo passato a esclusione del giorno in cui si parla (3.2.111: anadyatane laṅ [bhūte 84]). Tutti questi affissi sono introdotti dopo le basi verbali raggruppate nella classe dhātu.
Altri affissi seguono le basi nominali. Un importante gruppo di affissi postnominali è rappresentato dalla serie di sette terne di desinenze nominali, a cui Pāṇini fa riferimento con i termini tradizionali prathamā 'prima', dvitīyā 'seconda', tṛtīyā, caturthī, pañcamī, ṣaṣṭhī fino a saptamī 'settima' (rispettivamente corrispondenti, nella terminologia occidentale, ai casi nominativo, accusativo, strumentale, dativo, ablativo, genitivo e locativo). Alcune regole introducono le desinenze nominali a condizione che servano a denotare i kāraka così come sono classificati nei sūtra pertinenti. Per esempio, 2.3.2 (karmaṇi dvitīyā) prescrive che le desinenze della seconda terna (accusativo) seguano le basi nominali qualora si voglia denotare l'oggetto dell'azione, mentre 2.3.18 (kartṛkaraṇayos tṛtīyā) prescrive che si applichino le desinenze della terza terna (strumentale) qualora si voglia denotare l'agente o lo strumento.
Altre regole prescrivono l'uso di particolari desinenze se una base nominale è costruita con determinati elementi di natura non verbale. Per esempio, 2.3.4 (antarāntareṇa yukte [dvitīyā 2]) introduce desinenze della seconda terna dopo una base nominale retta da antarā 'tra' oppure da antareṇa 'tra, senza'. 2.3.46 (prātipadikārthaliṅgaparimāṇavacanamātre prathamā) introduce una desinenza della prima terna (nominativo) nel caso si vogliano esprimere soltanto il significato di una base nominale, il genere, la misura e il numero. 2.3.50 (ṣaṣṭhī śeṣe) concerne le rimanenti relazioni possibili tra il significato di un elemento nominale e un altro elemento; nel caso si debba indicare una di queste relazioni, la base nominale è seguita da una desinenza della sesta terna (genitivo). I membri di terne quali sU au Jas (prathamā), am auṬ Śas (dvitīyā), Ṭā bhyām bhis (tṛtīyā), ecc. sono denominati rispettivamente ekavacana 'singolare', dvivacana 'duale' e bahuvacana 'plurale'. In base a 1.4.21-22 (bahuṣu bahuvacanam; dvyekayor dvivacanaikavacane) si applicano le desinenze bahuvacana qualora si vogliano designare entità molteplici, le desinenze dvivacana ed ekavacana nel caso le entità siano rispettivamente due o una. I pada nominali rāmá-s1, dáṣagrīva-s1, dáṣagrīva-am2, rāmá-ā3 in (4a)-(7a) e (4b)-(7b) consistono in basi nominali e desinenze ekavacana della prima, seconda o terza terna, come indicato dai numeri in pedice.
Un affisso L è sostituito da desinenze verbali o da suffissi participiali. In base a 3.4.77-78 (lasya; tiptasjhisipthasthamibvasmastātāñjhathāsāthandvhamiḍvahimahiṅ), L è sostituito dalle seguenti desinenze: tiP tas jhi, siP thas tha, miP vas mas; ta ātām jha, thās āthām dhvam, iṬ vahi mahiṄ. Queste sono ordinate in due gruppi principali, qui separati da un punto e virgola. Le prime nove desinenze sono definite parasmaipada ('attive'), le altre nove ātmanepada ('medie/passive') (v. oltre). Ciascuno di questi gruppi è a sua volta suddiviso in tre terne, chiamate rispettivamente prathama, madhyama e uttama (corrispondenti rispettivamente alla terza, seconda e prima persona). All'interno di ogni terna, le desinenze sono denominate rispettivamente ekavacana, dvivacana e bahuvacana. Pertanto, tiP e ta sono le desinenze ekavacana della serie prathama all'interno del gruppo delle desinenze parasmaipada e ātmanepada. Queste classificazioni sono utilizzate in regole che circoscrivono l'applicazione di determinate desinenze a particolari derivazioni.
La scelta dei suffissi parasmaipada e ātmanepada dipende da diversi fattori, quali il fatto che l'affisso L sostituito dal suffisso serva a denotare un agente, un oggetto o un'azione; il verbo specifico al quale l'affisso L è applicato; la presenza di particolari preverbi utilizzati con la radice verbale; il fatto che l'esito dell'azione ricada sull'agente o su altri. I suffissi ātmanepada sostituiscono un affisso L introdotto per denotare un oggetto, come in (5b) e (7b). La radice han- è elencata nel dhātupāṭha con una vocale radicale di tono basso e una vocale di tono alto come contrassegno (hnÁ); quest'ultima indica che un affisso L applicato dopo questo verbo per denotare un agente, come in (4b) e (6b), è sostituito da suffissi parasmaipada.
La scelta tra le desinenze prathama, madhyama e uttama è determinata da condizioni di coreferenza. Se un affisso L ha lo stesso referente di una forma potenzialmente utilizzabile dei pronomi yuṣmad (seconda persona) e asmad (prima persona), si avranno rispettivamente le desinenze delle serie madhyama e uttama (1.4.105; 107: yuṣmady upapade samānādhikaraṇe sthāniny api madhyamaḥ; asmady uttamaḥ); in caso contrario, si applicheranno le desinenze prathama (1.4.108: śeṣe prathamaḥ).
In (4a) e (5a) lAṬ, introdotto per denotare un agente e un oggetto, è correlato a rāma-s1 e a daśagrīva-s1, che indicano rispettivamente l'agente e l'oggetto di cui si parla; allo stesso modo, lAṄ in (6a) e (7a) è correlato a rāma-s1 e a daśagrīva-s1. Quindi, questi affissi L sono sostituiti da desinenze prathama. Le stesse regole (1.4.21-22) che presiedono all'uso delle desinenze nominali ekavacana, dvivacana e bahuvacana si applicano anche per determinare l'impiego delle desinenze verbali ekavacana, dvivacana e bahuvacana. Poiché (4)-(7) comportano un singolo agente e un singolo oggetto, gli affissi L che seguono han- sono sostituiti da desinenze ekavacana. In tal modo, lAṬ e lAṄ di (4a) e (6a) sono sostituiti da tiP, la desinenza ekavacana della terna prathama nella serie parasmaipada, mentre gli affissi L di (5a) e (7a) sono sostituiti da ta, la desinenza ekavacana della terna prathama nella serie ātmanepada: (4b), (6b) han-ti, (5b), (7b) han-ta. Le desinenze tiP e ta sono quindi soggette a ulteriori operazioni in virtù del fatto che derivano da particolari affissi L. La -i di una desinenza si elide se la desinenza sostituisce un affisso L contrassegnato da Ṅ, e la parte di una desinenza ātmanepada che comincia con la sua ultima vocale è sostituita da e, se la desinenza deriva da un affisso L marcato con Ṭ. Quindi, la i di tiP in (6b) cade e la a di ta in (5b) muta in e: han-ti → han-t, han-ta → han-te.
Gli affissi verbali sono assegnati a una delle due classi chiamate sārvadhātuka e ārdhadhātuka. Desinenze quali tiP e ta, che sostituiscono lAṬ e lAṄ, appartengono alla classe sārvadhātuka. I verbi accompagnati da tali suffissi sono soggetti a ulteriore affissazione, a seconda delle condizioni in cui erano stati introdotti gli affissi L da essi sostituiti e della classe di appartenenza delle radici. In generale, se una desinenza sostituisce un affisso L introdotto a condizione che si denoti un oggetto o un'azione, la base precedente è seguita dal suffisso yaK, e se l'affisso L è introdotto per denotare un agente, la base è seguita dal suffisso ŚaP. Così, yaK segue han- in han-te e han-ta di (5b), (7b): han-ya-te, han-ya-ta. In forme come bhavati (v. sopra) appare invece ŚaP, che si applica anche dopo han- in han-ti e han-t: han-a-ti, han-a-t. Tuttavia, scompare sempre dopo una radice della classe che comincia con ad-: han-a-ti → han-ti, han-a-t → han-t.
Un tema seguito da desinenze che sostituiscono gli affissi lUṄ, lAṄ o lṚṄ è soggetto a un incremento iniziale a o ā, a seconda che inizi per consonante o per vocale. Quindi, han- in han-t e han-ya-ta, con t e ta da lAṄ, riceve l'incremento a, mentre edh-a in edh-a-ta (← edh-lAṄ) riceve l'incremento ā: han-t → ahan-t, han-ya-ta → ahan-ya-ta, edh-a-ta → āedh-a-ta (→ aidhata 'prosperò').
Le operazioni descritte danno origine alle sequenze:
(4c) rāmá-s1 dáśagrīva-am2 han-ti
(5c) rāmá-ā3 dáśagrīva-s1 han-ya-te
(6c) rāmá-s1 dáśagrīva-am2 ahan-t
(7c) rāmá-ā3 dáśagrīva-s1 ahan-ya-ta.
Queste sono soggette a ulteriori operazioni, alcune interne alle singole parole, altre che ne oltrepassano i limiti. Pāṇini spiega forme quali gnim (v. sopra) introducendo la desinenza am dopo il tema agní- e facendo sì che la prima delle due vocali contigue sostituisca entrambe: agní-am → gnim. Analogamente, la vocale che precede -am in dáśagrīva-am è quella che rimane delle due vocali contigue: dáśagrīva-am → daśàgrīvam. Per spiegare la forma rmeṇ a partire da rāmá-ā, Pāṇini fa in modo che ina sostituisca la desinenza Ṭā dopo un tema in -a, quindi applica una regola fonologica generale (6.1.87: ād guṇaḥ) in base alla quale una a e una vocale che la segue immediatamente sono rimpiazzate entrambe da un'unica vocale guṇa (a e o: v. sopra): rāmá-ā → rāmá-ina → rmen. Essendo preceduta da r all'interno della stessa parola, benché separata da altri suoni, -n- muta nella retroflessa -ṇ-: rmen → rmeṇ. rāmás contiene la terminazione -s, che muta in r. Quest'ultima, contrassegnata da u (rU) per essere distinta da una r originaria, è quindi sostituita da -u se si presenta dopo una -a- ed è seguita da una consonante sonora: rāmás dáśagrīvam → rāmáü dáśagrīvam. In base alla medesima regola fonologica che si applica per la sostituzione di -e- alle vocali contigue a e i in rmeṇ, le vocali contigue in rāmáü mutano in o: rāmáü dáśagrīvam → rmo daśàgrīvam. Analogamente, daśàgrīva-s han-ya-te → daśàgrīvo han-ya-te. La sostituzione di -u a -rU ha luogo anche se è preceduta da -a- e seguita da una a- iniziale: daśàgrīvas ahanyata → daśàgrīvaü ahanyata → daśàgrīvo ahanyata. Inoltre, in una sequenza in cui -e oppure -o in fine di parola precedono una a- iniziale, entrambe le vocali contigue sono sostituite dalla prima in base a 6.1.109, eṅaḥ padāntād ati [107, pūrvaḥ]: daśàgrīvo ahanyata → daśàgrīvo'hanyata. La -m in daśàgrīvam è il suono finale del pada e precede una consonante in daśàgrīvam hanti, dunque muta in ṃ (anusvāra): daśàgrīvam hanti → daśàgrīvaṃ hanti.
Anche gli accenti subiscono modificazioni in un sistema di sandhi tonale. Innanzitutto, ogni parola, come in (4b)-(7b), ha al massimo una vocale accentata, che ha un tono alto (udātta) o una combinazione di toni alto e basso (svarita). Le altre vocali delle parole hanno tono basso (anudātta), come anche le forme pronominali enclitiche e le forme verbali finite (tranne che in specifiche collocazioni sintattiche). Una vocale di tono basso è sostituita da uno svarita se si trova in una sillaba che segue una sillaba con tono alto, ma è sostituita da una vocale extrabassa se invece fa parte di una sillaba che precede una sillaba di tono alto o uno svarita. Le sillabe di tono basso che seguono uno svarita assumono un tono alto uniforme che prosegue fino alla sillaba immediatamente precedente a un tono alto o uno svarita, che diviene allora extrabasso.
Forme finite e infinite del verbo
Il sistema derivazionale descritto sopra riguarda basi verbali a cui sono applicati affissi. Tali basi possono essere sia originarie sia derivate. Han- è una radice verbale originaria, presente nell'elenco del dhātupāṭha. Il desiderativo jighāṃsa- (jighāṃsati), 'desiderare di uccidere', è una radice verbale derivata, formata mediante l'aggiunta del suffisso saN a han-. Il causativo ghāti- (ghātayati) e l'intensivo jaṅghanya- (jaṅghanyate) 'colpisce ripetutamente, con forza' derivano da han, mediante l'aggiunta del suffisso causativo ṆiC e del suffisso intensivo yaṄ. Come si è visto, tali suffissi condizionano operazioni quali la sostituzione di una a in penultima posizione con una ā e il raddoppiamento della sillaba iniziale.
Alcuni temi derivati svolgono un ruolo in ciò che i linguisti occidentali definirebbero sintassi e morfologia della flessione. Per esempio, rmeṇ daśàgrīvo htaḥ 'Rāvaṇa fu ucciso da Rāma' è una possibile alternativa a rmeṇ daśàgrīvo'hanyata (v. sopra). Le frasi condividono i componenti rmeṇ daśàgrīvo, ma la prima presenta una forma participiale (nom. sing. masch. htaḥ, 'ucciso'), mentre nell'altra s'incontra la forma finita ahanyata (terza persona sing. imperfetto passivo). Pāṇini prescrive che, qualora si debbano denotare un oggetto o un'azione, un verbo può essere seguito o da un affisso L, oppure da un affisso quale Kta, come nel primo esempio: han-tá-s → h-ta-s → htaḥ. Poiché qui Kta è introdotto dopo han per denotare l'oggetto dell'azione indicata dalla radice, e il particolare oggetto in questione è Rāvaṇa, indicato dall'epiteto dáśagrīva-, hatá- è coreferente a questo termine e riceve pertanto la medesima desinenza nominale. Per essere idoneo a ricevere tale desinenza, hatá- deve essere una base nominale (prātipadika). Pāṇini stabilisce che i derivati terminanti con gli affissi chiamati kṛt e taddhita (primari e secondari), come pure i composti (samāsa) siano classificati come prātipadika (1.2.46: kṛttaddhitasamāsāś ca).
I composti nominali
Vi sono anche temi nominali derivati da pada (elementi terminanti con desinenze nominali) in sequenze sintattiche. I composti non derivano dal semplice accostamento delle basi nominali. Per esempio, un composto come rājapuruṣá- 'servo del re' non risulta dalla mera giustapposizione degli elementi rāja- e puruṣa-. Infatti, le parole rā́jan-as6 púruṣa-s1 di una sequenza come (8a) rā́jan-as6 púruṣa-s1 grā́ma-am gam-lAṬ si combinano formando il composto rājan-as6-puruṣa-s1. Il sūtra 2.4.71, supo dhātuprātipadikayoḥ, in base al quale una desinenza nominale è cancellata se è incorporata in un tema verbale o nominale derivato, si applica qui per elidere le desinenze all'interno del composto: rājan-as6-puruṣa-s1 → rājanpuruṣa. La n- di rājan- in questo composto si elide in base alla regola 8.2.7 (nalopaḥ prātipadikāntasya), secondo cui la n finale di un pada che sia un tema nominale è cancellata. Rājan-as è un pada, in quanto termina con una desinenza nominale. Per convenzione (1.1.62, v. sopra), anche dopo l'elisione della desinenza l'operazione condizionata dalla sua presenza ha effetto, cosicché rājan- è un pada e la sua -n cade: rājapuruṣa-. Inoltre, una regola di accentazione (6.1.223: samāsasya) applicabile ai composti in generale fa sì che l'ultima vocale di questo composto sia di tono alto: rājapuruṣá-.
Orbene, la regola (2.2.8: ṣaṣṭhī) in base alla quale un termine come rā́jan-as6 si combina con un pada correlato per formare un composto, specifica che questa operazione è facoltativa. Tramite l'applicazione delle regole, il sistema consente di ottenere (8) rā́jñḥ púrùṣ grāmàṃ gacchati, 'Il servo del re va al villaggio', dalla sequenza originaria (8a) menzionata sopra. In alternativa, i pada correlati rājan-as6 e puruṣa-s1 possono, come si è detto, combinarsi per formare un composto quale quello che compare nella sequenza (9a) rājapuruṣá-s1 grā́ma-am gam-lAṬ, da cui deriva (9) rjprṣo grāmàṃ gacchati, equivalente e alternativo rispetto a (8). Analogamente, dáśagrīva-, 'che ha dieci colli', è un composto derivante da pada correlati: dásan-as1 grīvā́-as1 → daśan-as-grīvā-as → daśa-grīvā- → dáśagrīva-. Questo è un membro della classe di composti definiti bahuvrīhi (ossia, esocentrici). Contrariamente alla regola generale di accentazione che si applica a un composto tatpuruṣa (in cui il primo membro è retto dal secondo) quale rājapuruṣá-, il primo costituente di un bahuvrīhi conserva l'accentazione originaria: dáśagrīva-.
I derivati nominali secondari
I suffissi taddhita sono introdotti, per lo più facoltativamente, dopo pada nominali per formare derivati secondari. Per esempio, dāśarathi indica uno dei figli di Daśaratha ed è comunemente usato per designare Rāma. Analogamente, gārgi si riferisce a un figlio di Garga. Nel sistema di Pāṇini, simili patronimici sono ottenuti mediante l'aggiunta di un suffisso taddhita dopo uno dei due pada correlati per formare un derivato in cui il suffisso esprime il significato del secondo pada. Così, daśaratha-as6 e garga-as6 sono seguiti dall'affisso iÑ: daśaratha-as-i, garga-as-i. Trattandosi di basi nominali derivate, la desinenza Ṅas scompare, come prevede 2.4.71 (v. sopra): daśaratha-as-i → daśaratha-i → dāśarathi-, garga-as-i → garga-i → gārgi.
Tali basi sono ottenute applicando le regole elencate sotto 4.1.82 (samarthānāṃ prathamād vā): i suffissi prescritti dalle regole successive hanno applicazione facoltativa, e se in queste regole vi sono pada correlati dal punto di vista semantico e sintattico, il suffisso segue il primo dei pada correlati. Per esempio, 4.1.92 (tasyāpatyam) è costituito da tasya (gen. sing. masch./neutro di tad 'quello', 'questo') e da apatyam (nom. sing. neutro) 'discendenza', 'prole'. Un suffisso taddhita introdotto da regole della sottosezione che si apre con questo sūtra segue un pada che ha il valore del primo pada menzionato nella regola, tasya, cioè una forma al genitivo, e il derivato così ottenuto ha il significato di 'discendente di X'. 4.1.95 (ata iÑ) introduce iÑ, con lo stesso significato, se la radice nominale che ha il valore di tad in tad-as6 termina con a. Il carattere facoltativo dell'introduzione di simili suffissi taddhita spiega il fatto che una forma derivata quale dāśarathi o gārgi si alterni con una sequenza sintattica in cui una forma al genitivo è seguita da un termine che significa 'prole', 'discendente'; per esempio, dāśarathiḥ (nom. sing. masch.) = daśarathasya putraḥ 'figlio di Daśaratha'.
Esistono anche suffissi taddhita che sono introdotti dopo un singolo pada esplicitamente menzionato e senza alcuna condizione concernente il significato. Per esempio, in base a 5.3.7, pañcamyās tasiL, il suffisso tasiL segue facoltativamente un pada in cui una desinenza della quinta terna compaia con uno dei membri di un certo sottogruppo di pronomi. Questo suffisso può quindi essere introdotto dopo tad-as. Il derivato che ne risulta, tad-as-tas, è una base nominale, quindi si ha la caduta della desinenza Ṅas: tad-as-tas → tad-tas → tatas. Pāṇini specifica anche che i suffissi introdotti in base a determinate regole elencate sotto 5.3.1 (prāg diśo vibhaktiḥ) sono chiamati vibhakti, proprio come le desinenze nominali (v. sopra). Questo spiega perché un derivato come tatas presenta ta- davanti al suffisso taddhita proprio come una forma declinata quale tasmāt (abl. sing. masch./neutro) presenta ta- davanti alla desinenza; in base a 7.2.102 (tyadādīnām aḥ) il suono finale di un elemento del gruppo che inizia con tyad 'quello' è sostituito da a davanti a una vibhakti. Inoltre, tatas si alterna con forme come tasmāt. Pāṇini, infatti, introduce tasiL in via facoltativa, cosicché un pada come tad-as può essere soggetto anche ad altre operazioni, che hanno come esito tasmāt.
I composti nominali obbligatori
Si è detto sopra che composti come rājapuruṣa- sono considerati alternativi a sequenze sintattiche. Ma vi sono anche composti obbligatori. Alcuni contengono derivati che non sono utilizzabili liberamente in sequenze sintattiche. Per esempio, un nome d'agente come kartṛ (nom. sing. kartā) 'colui che fa' può reggere un genitivo che indica l'oggetto dell'azione in questione, come in kumbhānāṃ kartā 'fabbricante di vasi', mentre -kāra- 'colui che fa' non è impiegato come forma autonoma, ma compare soltanto in composti come kumbhakāra- 'vasaio'. Al contrario, i derivati con suffisso d'agente tṛC di regola non entrano in composizione con forme di genitivo oggettivo. Pāṇini spiega questi fenomeni nel modo seguente (Cardona 1997, pp. 216, 218-219): per denotare l'oggetto di un'azione, s'introduce una desinenza della sesta terna (genitivo) dopo una base nominale se per denotare l'agente dell'azione è usato un suffisso primario, quale tṛC; i derivati che presentano questi suffissi agentivi non possono però entrare in composizione con forme di genitivo oggettivo. Il suffisso di un derivato come -kāra- si applica a condizione che il verbo in questione sia costruito con un termine che designa un oggetto dell'azione denotata dal verbo, ed è stabilito che tali derivati entrino obbligatoriamente in composizione con genitivi che denotano l'oggetto.
Un termine come pūrvāhṇetame (loc. sing.) 'molto presto la mattina' contiene il suffisso tama che segue il locativo singolare pūrvāhṇe 'di mattina'. È appropriato introdurre questo suffisso dopo un pada anche per formare derivati quali āḍhyatama- 'ricchissimo'. Pāṇini deriva questi termini introducendo il suffisso taddhita tamaP a condizione che si voglia esprimere il concetto di 'eccellenza' (atiśāyane). Un derivato come āḍhyatama- si riferisce a qualcuno che è qualificato dalla grande ricchezza; non indica l'eccellenza di qualcuno che è ricco. Questo caso è diverso da quello di tatas (v. sopra): āḍhya designa qualcuno o qualcosa che è ricco, in qualsivoglia misura, ma se è usato in riferimento a qualcuno che è molto ricco bisognerà utilizzare il suffisso tamaP o un suo equivalente; d'altro canto, tasiL non è obbligatorio, poiché tasmāt può essere impiegato al posto di tatas. Affissi quali tasiL e tamaP sono quindi entrambi semanticamente ridondanti rispetto alle parole che li precedono, ma il primo è facoltativo, mentre il secondo è obbligatorio. Avika-, sinonimo di avi- 'pecora', è un altro tipo ancora di derivato. Pāṇini prescrive ka per formare avika-, ma la regola relativa (5.4.28: aveḥ kaḥ) non specifica alcun significato. Questo è un esempio di suffisso del tutto ridondante.
Principi organizzativi generali della grammatica
Pāṇini osserva alcuni principî che non esplicita, ma che saranno in seguito formulati dai Pāṇinīya (Cardona 1997, pp. 401-427). Come essi riconoscono, i più importanti tra questi principî facevano parte del retaggio culturale comune a tutti coloro che parlavano sanscrito.
Una grammatica è un sistema di regole che rende conto sinteticamente dell'uso, e la maniera in cui le regole sono correlate in virtù della portata rispettiva ne determina l'applicazione. Pāṇini formula regole generali (utsarga) e relative eccezioni (apavāda). L'ambito di applicazione di un'eccezione è incluso nel campo complessivo di una regola generale. La relazione è simile a quella esistente tra due comandi che possono essere impartiti nella vita reale: per esempio, che si dia yogurt ai brahmani e che si dia latticello a un particolare brahmano, Kauṇḍinya. È possibile dare a Kauṇḍinya sia yogurt sia latticello, ma la consuetudine vuole che preferibilmente si esegua il comando relativo a questo particolare brahmano, che gli si dia, cioè, il latticello. Analogamente, un'eccezione ha la precedenza rispetto alla regola generale, valida in tutti gli altri casi. Per esempio, in base a 6.1.77 (iko yaṇ aci), i u ṛ ḷ e le loro controparti lunghe sono sostituite rispettivamente da y r l v davanti a vocale: per esempio, dadhi atra → dadhy atra 'Qui c'è yogurt', madhu atra → madhv atra 'Qui c'è miele'. 6.4.77 (aci śnudhātubhruvāṃ yvor iyaṅuvaṅau) prescrive un'operazione specifica per una parte dell'ambito coperto da 6.1.77: e finali mutano in iyAṄ e uvAṄ davanti a vocale, se la base termina con il suffisso Śnu (dei verbi della quinta classe: v. sopra), se è una radice verbale oppure se è bhrū 'sopracciglio'. Si tratta di un'eccezione rispetto a 6.1.77, cosicché la sostituzione con uvAṄ evita per esempio la sostituzione con la semivocale in āp-nu-anti (→ āpnuvanti 'ottengono') e in bhrū-os (→ bhruvos, gen./loc. duale).
Tale procedimento è sempre rispettato, a eccezione delle regole che servono a classificare gli elementi mediante l'attribuzione di designazioni grammaticali (saṃjñā). In questi casi la norma è che le regole generali e le regole particolari a esse correlate si applichino insieme, per far sì che gli elementi siano riconducibili simultaneamente a classi ampie e ai relativi sottogruppi. Per esempio, un singolo elemento quale -ya in labhya- 'da ottenere, ottenibile' è contemporaneamente denominato pratyaya, kṛt e kṛtya (rispettivamente, suffisso, suffisso primario e suffisso del participio ottativo passivo). In alcuni casi, tuttavia, si richiede che un determinato elemento appartenga a una sola classe per volta. Le regole che governano queste classificazioni disgiunte sono fornite sotto la rubrica 1.4.1 (ā kaḍārād ekā saṃjñā): a una data entità è applicata una sola denominazione di categoria tra quelle assegnate dai successivi sūtra (fino alla fine del secondo capitolo). Per esempio, in base a 1.4.45 (ādhāro'dhikaraṇam) un kāraka che è il luogo di un'azione è denominato adhikaraṇa, ma in base ad 1.4.46 (adhiśīṅsthāsāṃ karma) il luogo di un'azione espressa da adhi-śī ('giacere', 'dormire su'), adhi-ṣṭhā ('stare in') e adhy-ās ('essere seduto su o in') è chiamato karman. Quest'ultima classificazione blocca la classificazione che si otterrebbe in base alla precedente regola generale cosicché, dopo un elemento nominale che si riferisce a un luogo classificato come karman, è introdotta una desinenza della seconda terna (accusativo) in base a 2.3.2 (v. sopra): per esempio, medinīm adhiśete 'giace (adhiśete) sulla terra (medinīm)' contiene l'accusativo medinīm. Se il kāraka in questione fosse un membro della classe adhikaraṇa, medinī- sarebbe seguito da una desinenza della settima terna (locativo), in base a 2.3.36 (saptamy adhikaraṇe ca), come in medinyāṃ śete 'giace sulla terra'.
Un altro principio generale riguarda la struttura delle parole. Una forma come bhū-a-ti (→ bhavati) consiste in tre unità: la radice bhū- e gli affissi ŚaP e tiP. Come si è mostrato sopra, tiP sostituisce l'affisso lAṬ. La desinenza determina quindi l'introduzione di ŚaP dopo la radice. In base a 1.4.13 (yasmāt pratyayavidhis tadādi pratyaye'ṅgam), un elemento Y che inizia con un elemento X dopo il quale è introdotto un affisso è un aṅga ('tema') rispetto a quell'affisso. {[(bhū-)a-]ti} contiene due temi: bhū-a- rispetto a ti e bhū- rispetto ad -a-. Analogamente, anche {[(kṣi-)a-]ti}, da cui si ottiene kṣiyati 'abita', ha due temi, delimitati dalle parentesi. L'affisso tiP è uno di quelli che determinano la sostituzione con una vocale guṇa di i- u- ṛ- ḷ- in fine di radice, come in eti 'va' (← i-ti). La medesima sostituzione si applica alle penultime vocali deboli delle radici, come in tottum (← tud-tum) 'pungolare', 'spingere', 'ferire'. Poiché kṣi-a è un tema rispetto a -ti, tale sostituzione può avere luogo. Non può invece essere applicata prima di śa, perché questo affisso si considera marcato con Ṅ (1.1.5: kṅiti ca), il che impedisce la sostituzione con la vocale guṇa e fa sì che la -i del tema muti in -iy in base a 6.4.77 (v. sopra). In questo caso, la sostituzione con un guṇa non può più aver luogo nel tema di -ti, in quanto il penultimo suono del tema è ora y: kṣiya-ti. La sequenza corretta di applicazione delle regole è determinata da un sistema di parentesi: un'operazione condizionata internamente (antaraṅga) ha la precedenza su un'operazione condizionata esternamente (bahiraṅga). Delle due operazioni applicabili a {[(kṣi-)a-]ti} la sostituzione condizionata dall'interno, in base alla quale -i di kṣi- muta in -iy davanti ad -a-, ha la precedenza sulla sostituzione condizionata dall'esterno, per cui -i- di kṣi-a muterebbe in -e- davanti a -ti. Anche questo è un principio che si ritiene faccia parte del senso comune: le cose che si fanno per sé stessi e per la propria casa hanno la precedenza su quelle esterne.
Allo stadio di kṣi-ti sono possibili due operazioni: l'applicazione del suffisso Śa dopo la base e la sostituzione della vocale finale di kṣi con la vocale guṇa e. Come si è visto, solo applicando la prima si arriva a kṣiyati. Ora, se la sostituzione col guṇa si applicasse per prima, Śa verrebbe comunque introdotto, poiché kṣe-a-ti conterrebbe ancora una forma del verbo in questione. Però, come si è già osservato, una volta introdotto Śa, la sostituzione guṇa non può più aver luogo. Del resto, l'esperienza comune dimostra che è errato supporre che qualcosa che non accade debba aver luogo e che qualcosa che necessariamente accade sia invece assente. Allo stesso modo, se fra due possibili operazioni una si deve necessariamente effettuare e l'altra no, la prima prevale sulla seconda.
In alcuni casi è necessario lasciare che sia l'ordine in cui le regole sono enunciate a stabilire la loro applicazione. Nella sezione dell'Aṣṭādhyāyī che ha inizio con 1.4.1 (v. sopra) vige una metaregola (1.4.2: vipratiṣedhe paraṃ kāryam) in base alla quale, in caso di conflitto tra due operazioni da eseguire, quella che è prescritta per ultima ha la precedenza. Per esempio, l'espressione tvaṃ cāhaṃ ca gacchāvaḥ 'Tu e io stiamo andando', in cui gacchāvaḥ è una prima persona duale, è corretta, mentre l'utilizzo della forma gacchathaḥ, seconda persona duale, sarebbe errato. In questo caso 1.4.105 e 1.4.107 (v. sopra) entrano in conflitto poiché, pur avendo ciascuna un proprio dominio indipendente, possono entrambe applicarsi là dove sono presenti (o implicite) forme pronominali sia della prima che della seconda persona. Entra così in gioco l'ordine delle regole e, di conseguenza, prevale 1.4.107.
L'ordine delle regole si combina anche con una procedura consistente nella sospensione di certe regole rispetto ad altre. L'Aṣṭādhyāyī consta di due principali sezioni divise da 8.2.1 (pūrvatrāsiddham), una rubrica valida per gli ultimi tre quarti dell'ultimo capitolo della grammatica (noti collettivamente come tripādī). Ogni regola della tripādī è sospesa rispetto a una regola dei precedenti sette capitoli e un quarto, e all'interno della stessa tripādī ogni regola è sospesa rispetto a qualsiasi regola precedente. La sospensione di una regola R2 a favore di un'altra regola R1 ha due scopi: una volta che R2 ha effetto, il risultato della sua applicazione non è soggetto all'operazione prevista da R1; nel caso in cui si possano applicare sia R1 sia R2, si esegue soltanto la prima. Per esempio, la regola 8.2.7 menzionata sopra, in base alla quale la -n in fine di pada si elide, fa sì che la n di rājan- cada davanti alla desinenza bhis (strum. pl.), che da un punto di vista fonologico si comporta come se si trovasse a un punto di congiunzione fra parole. In rāja-bhis la desinenza bhis ora segue un tema in -a, proprio come succede in deva-bhis. Quest'ultimo termine è soggetto a un'operazione che va invece evitata nell'esempio precedente: bhis muta in ais dopo un tema in -a. Ciò spiega devaiḥ (← deva-ais), mentre la forma corrispondente di rājan- è rājabhiḥ. La regola 8.2.7 è sospesa infatti rispetto a 7.1.9 (ato bhisa ais), in base alla quale ais sostituisce bhis dopo un tema in -a: di conseguenza, il risultato derivante dall'applicazione della prima non è soggetto all'operazione prevista dalla seconda. Un altro esempio è il seguente: come si è già detto, il suono finale di una parola del gruppo che comincia con tyad muta in a davanti a una vibhakti. Ciò trova applicazione in adas-as, in cui adas- 'quello laggiù' precede la desinenza ṄasI: adas-as → adaa-as → ada-as → ada-smāt → amu-smāt → amuṣmāt (abl. sing. masch.-neutro). La derivazione comporta la sostituzione di smāt a ṄasI, in base a 7.1.15 (ṅasiṅyoḥ smātsminau). Inoltre, 8.2.80 (adaso'ser dād u do maḥ) prescrive due sostituzioni simultanee in ada-: il suono che segue -d- è sostituito da una vocale u, e -d- da -m-. Se non intervenisse la regola di sospensione, ada-as avrebbe potuto essere soggetto sia a 7.1.15 che a 8.2.80. Inoltre, l'applicazione di 7.1.15 consente l'applicazione di 8.2.80, mentre non è vero il contrario, poiché amu-as non ha un tema in -a. L'applicazione del principio generale descritto potrebbe dare luogo a forme errate, invece 8.2.80 è sospesa a favore di 7.1.15, cosicché soltanto quest'ultima si può applicare ad ada-as.
In alcuni casi, Pāṇini fa sì che l'effetto prodotto dall'applicazione di una determinata regola sia considerato sospeso (asiddhavat) rispetto a un'altra operazione. È il caso, per esempio, del processo di derivazione che porta alla forma della seconda persona singolare dell'imperativo di śās-, śādhi 'istruisci', 'comanda'. A un determinato stadio, śās è seguito dalla desinenza hi. Due operazioni possono qui avere effetto:
(a) śās è sostituito da śā davanti a hi (6.4.35: śā hau [śāsaḥ 34]
(b) hi è sostituito da dhi dopo la -s di śās, in base a 6.4.101 (hujhalbhyo her dhiḥ).
Se (b) è applicata per prima, anche (a) può essere applicata, in quanto l'elemento sostitutivo mantiene lo status dell'elemento originario in base a 1.1.56 (v. sopra). Ma se (a) ha la precedenza, (b) non può più essere applicata, perché adesso hi seguirebbe śā, che non ha più lo status di śās rispetto a (b), la cui applicazione dipende da un suono originario. In base al principio esposto sopra, (a) ha la precedenza: śās-hi → śāhi. Per consentire l'applicazione di (b), Pāṇini fa sì che l'effetto dell'applicazione di (a) sia considerato sospeso rispetto a (b), cosicché śā- è ora trattato come se la sostituzione non avesse avuto luogo. Le operazioni in questione sono infatti prescritte nei sūtra introdotti da 6.4.22 (asiddhavad atrābhāt), in cui si stabilisce che qualunque sia il risultato dell'applicazione di una regola di questa sezione, si considera sospeso rispetto a un'altra operazione prescritta da una regola della serie che si estende fino alla fine del gruppo di regole introdotto da 6.4.129 (bhasya).
Conclusioni
L'Aṣṭādhyāyī di Pāṇini rappresenta uno dei massimi traguardi scientifici dell'India antica. I principî adottati da Pāṇini nella formulazione e nell'applicazione delle regole grammaticali furono esplicitati ed elaborati dai suoi successori, i Pāṇinīya, in una lunga tradizione di esegesi e argomentazione che continua ancora ai giorni nostri. La duratura influenza di quest'opera risulta inoltre evidente nelle grammatiche di epoca successiva. E anche gli esponenti di altre scuole di pensiero, quali i ritualisti della Mīmāṃsā e i logici del Nyāya, s'interessarono a campi di indagine che li costrinsero a confrontarsi con le teorie dei Pāṇinīya sulla lingua e sulla grammatica.
3. 'Nirukta' ('analisi semantica')
Il nirukta ('analisi semantica' o 'etimologia') è uno dei sei vedāṅga, le discipline ausiliarie dei Veda (v. cap. IX). Il suo oggetto è la spiegazione etimologica (nirvacana) delle parole, al fine di mostrare le ragioni per cui certi significati sono espressi da determinate parole. In primo luogo, il nirukta tratta di una serie di parole raccolte in un testo più antico noto come Nighaṇṭu (Glossario), una raccolta di parole vediche di significato oscuro che necessitano di spiegazione.
Il Niruktabhāṣya di Yāska
L'opera più autorevole è il Niruktabhāṣya (Commento all'analisi semantica, solitamente chiamato Nirukta) di Yāska, che fa riferimento al Nighaṇṭu. Il Nighaṇṭu tradizionale si compone di cinque capitoli, da cui il nome pañcādhyāyī ('cinque capitoli') con il quale l'opera è anche conosciuta. Il Niruktabhāṣya di Yāska, nella versione commentata da Durgasiṃha (noto anche come Durga), comprende 12 capitoli corredati da supplementi. I manoscritti esistenti mostrano che la composizione dell'opera è passata attraverso tre fasi: un testo senza supplementi, un testo con supplementi e un testo con supplementi suddivisi in sezioni (Sarup 1927a, Introduzione, pp. 19-22).
I commenti più noti al Nirukta di Yāska sono la Ṛjvarthā Vṛtti (Commento letterale che fornisce il corretto significato) di Durgasiṃha e i commenti di Skandasvāmin e Maheśvara. Le date di questi autori sono state a lungo dibattute, ma attualmente la maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che il più antico fra loro sia Durga (Sarup 1982, II, Introduzione pp. 81-101; Bhagavad Datta 1976, pp. 21-28; Aklujkar 1994, p. 9, n. 4; 1999, p. 1, n.1; Kahrs 1998, pp. 14-18). Il Niruktaślokavārttika (Glosse in versi sull'analisi semantica), anche noto come Niruktavārttika, di Nīlakaṇṭha Gārgya è una lunga opera in versi di cui si sono conservati sei capitoli; benché mutilo, l'unico manoscritto pervenuto contiene oltre 4800 strofe. La Niruktavivṛti (Commento analitico all'analisi semantica) è un commento moderno in sanscrito composto da Mukunda Śarmā Jhā (Mukund Jha Bakshi).
Oltre a Yāska, anche Devarāja Yajvan, probabilmente un contemporaneo più giovane di Durga o di poco posteriore, compose un commento al Nighaṇṭu. Devarāja Yajvan integra i lavori di Yāska e di Skandasvāmin, spiegando e illustrando parole sulle quali i primi non avevano fornito delucidazioni.
Un'altra opera degna di nota è il Niruktasamuccaya (Summa dell'analisi semantica) di Vararuci, un autore la cui datazione è controversa: I sec. a.C. o VII sec. d.C. a seconda del modo in cui s'interpreta la formula indicante la data nel colophon (Yudhiṣṭhira Mīmāṃsaka 1965-66, p. 3). Non si tratta di un commento all'opera di Yāska, bensì dell'esegesi etimologica di una selezione di versi vedici.
Gli studiosi sono in disaccordo sull'origine del Nighaṇṭu: alcuni sostengono, infatti, che Yāska e altri etimologi abbiano redatto liste indipendenti di termini da spiegare, ma la maggior parte accetta invece la versione fornita da Durga e da Skandasvāmin, secondo cui esisteva un Nighaṇṭu comunemente accettato sul quale Yāska avrebbe composto il suo commento (per lo stato presente del dibattito si veda Vijayapāla 1982, pp. 16-18).
Nella forma in cui è pervenuto, il Nighaṇṭu su cui si fonda l'opera di Yāska si compone di cinque capitoli, suddivisi in tre gruppi principali: capp. 1-3, il naighaṇṭukāṇḍa 'sezione sui nighaṇṭu', che elenca i sinonimi di varie parole, a cominciare da go e altri termini adoperati in riferimento alla terra; cap. 4, il naigamakāṇḍa 'sezione sulle parole vediche' o aikapadikaprakaraṇa 'capitolo su parole singole' (Ṛjvarthā Vṛtti, I.116), in cui sono forniti termini polisemici; cap. 5, il daivatakāṇḍa 'sezione sugli epiteti delle divinità'. Questa divisione è confermata dallo stesso Yāska alla fine del primo capitolo del Nirukta (1.20), in cui nota che daivata designa termini riferiti alle divinità che sono i destinatari principali delle lodi contenute negli inni vedici, mentre naighaṇṭuka indica quelle parole che si riferiscono a divinità secondarie menzionate nei mantra ('formule sacrificali') dedicati ad altri numi. I termini elencati sono sia nominali sia verbali.
Le sezioni principali del Nighaṇṭu sono commentate rispettivamente in Nirukta, 2-3, 4-5, 6-12. Yāska apre dunque il cap. 4.1 affermando di essersi in precedenza occupato di singoli significati associati a diverse parole. Nei capp. 4 e 5 Yāska esamina singolarmente tutte le parole elencate in Nighaṇṭu, 4-5, ma non quelle elencate nei precedenti capitoli della stessa opera. Prende inoltre in considerazione altre parole che non figurano nel Nighaṇṭu.
Le parti del discorso secondo Yāska
Nel primo capitolo del Nirukta, Yāska affronta i problemi di carattere generale connessi alla spiegazione delle parole vediche e, in particolare, analizza le questioni concernenti le spiegazioni etimologiche.
Yāska (Nirukta, 1.1) riconosce quattro classi generali di parole: forme nominali (nāma), forme verbali (ākhyāta), preverbi (upasarga) e particelle (nipāta). Egli indica inoltre quali sono le caratteristiche delle forme nominali e verbali: una forma verbale ha come significato principale l'essere (bhāva, v. oltre), mentre le forme nominali hanno come significato principale la sostanza.
Yāska afferma (ibidem, nell'interpretazione di Śabarasvāmin, Durga e altri, diversamente dalla divisione del testo di Sarup, 1927a) che, quando forme verbali e nominali compaiono congiuntamente (cioè, negli enunciati del linguaggio ordinario), entrambe hanno bhāva come significato principale; in altri termini, il significato principale della frase è il significato del verbo. A suo avviso, le forme verbali sono utilizzate per denotare l'essere in quanto processo sequenziale (pūrvāparībhūtaṃ bhāvam) colto nel suo svolgimento, come quando si dice vrajati (terza persona sing. indicativo pres.) 'sta andando' o pacati 'sta cuocendo'. Tali forme esprimono le azioni di andare e di cuocere a partire dal momento in cui hanno inizio fino a quando l'agente non cessa di esserne protagonista: da quando, cioè, una persona comincia ad andare fino al momento in cui la meta è raggiunta, e da quando dà inizio alla cottura accendendo il fuoco fino a quando il cibo non è completamente cotto.
Le forme nominali sono adoperate invece in riferimento all'essere in quanto concretato (mūrta, 'avente forma solida'), interamente compiuto e dotato delle proprietà della sostanza (sattvabhūta), come quando si dice vrajyā, 'andata' o paktiḥ, 'cottura', facendo ricorso a nomi d'azione per designare l'andare e il cucinare concepiti in maniera non sequenziale.
Yāska osserva che per parlare delle sostanze e dell'essere (bhāva) in generale si utilizzano adas (nom. sing. neutro), 'quello' e bhavati, 'è'. Per designare particolari sostanze e modalità dell'essere, si usano invece specifiche forme nominali e verbali; per esempio, gauḥ (nom. sing.), 'mucca, bue', aśvaḥ, 'cavallo', puruṣaḥ, 'uomo'; āste, 'è seduto', śete, 'giace, dorme', vrajati, 'va', tiṣṭhati, 'sta, rimane'. E poiché qualunque forma verbale finita ha come significato principale bhāva, l''essere', si ritiene che le forme verbali denotino vari stati dell'essere delle sostanze.
Nella sezione successiva (ibidem, 1.2), Yāska riferisce l'opinione di Vārṣāyaṇi secondo cui vi sono sei modificazioni dell'essere: avere inizio (jāyate, 'nasce'); essere (asti, 'è'), ossia il fatto che una sostanza che ha avuto origine continui a esistere; mutare, pur rimanendo la medesima sostanza; crescere; deperire; morire. Secondo Vārṣāyaṇi (ibidem, 1.3), quindi, qualunque attività o stato dell'essere denotati da forme verbali non sono altro che una variante di queste sei modificazioni basilari.
Mentre alle forme nominali e verbali si attribuiscono significati indipendenti, preverbi e particelle hanno uno status diverso. A proposito dei preverbi, Yāska (ibidem, 1.3) segnala una divergenza di opinioni tra Śākaṭāyana e Gārgya. Il primo sostiene che questi elementi non denotano alcun significato indipendentemente dalla base verbale a cui sono affissi. Ciò non vuol dire che siano del tutto privi di significato; piuttosto, denotano significati aggiuntivi che qualificano i significati fondamentali delle forme nominali e verbali. Gārgya, dal canto suo, ritiene che i preverbi abbiano di per sé molteplici significati. Per esempio, Gārgya direbbe che il preverbo ā di āgacchati, 'viene, sta venendo', in quanto opposto a gacchati, 'va, sta andando', significa 'qui', laddove Śākaṭāyana sostiene che gacchati stesso può significare sia 'va' sia 'viene' e che ā serve a far emergere il secondo dei due significati.
Quanto alle particelle, esaminando le ragioni per cui sono definite nipāta, Yāska osserva (ibidem, 1.4) che esse occorrono (nipatanti, lett. 'cadono') in vari sensi e svolgono funzioni diverse, quali la comparazione (per es., iva, 'come') o la congiunzione (ca, 'e'), ma possono anche avere semplicemente un valore espletivo. Per esempio (ibidem, 1.9), in contesti metrici che richiedono un numero determinato di sillabe, l'ultima può essere priva di significato e servire soltanto a completare lo schema metrico.
I presupposti teorici degli etimologi
Dopo aver preso in esame le quattro classi di parole, Yāska (ibidem, 1.12) illustra una fondamentale divergenza di opinioni riguardo alla derivazione etimologica: alcuni sostengono che tutte le forme nominali siano derivate da verbi, mentre altri pensano che ciò sia vero soltanto per una parte di queste.
La prima delle due opinioni è sostenuta dal grammatico Śākaṭāyana (v. cap. XIII) ed è la convenzione accettata dagli studiosi di nirukta; la seconda è quella di Gārgya e di alcuni grammatici. Secondo i fautori di quest'ultima, i sostantivi sono da considerare derivati da verbi nei casi in cui siano palesemente riconducibili a radici verbali, in modo tale che sia possibile isolare un verbo e un affisso, nonché individuare le caratteristiche di accentazione di entrambi e i mutamenti che la radice subisce con l'aggiunta dell'affisso.
Per esempio, kā́raka- (nom. sing. masch. kāràkaḥ, 'colui che fa', hā́raka- (hāràkaḥ), 'colui che prende', kart- (krtā), 'colui che fa', hart- (hrtā), 'colui che prende', sono derivati da kṛ-, 'fare' e hṛ-, 'prendere'; è possibile isolare le radici, come pure gli affissi aka e tṛ, davanti ai quali le basi verbali subiscono delle modifiche, e i significati sono correlati in modi definibili a tali mutamenti.
Śākaṭāyana e i Nairukta, gli 'etimologi', accettano questo tipo di derivazioni; tuttavia, secondo loro, anche nomi come go- 'mucca, terra' oppure aśva- 'cavallo' derivano da radici verbali. Per esempio, Yāska (ibidem, 2.5) fornisce tre derivazioni alternative per go- nell'accezione di 'terra'. La terra è designata da questo nome perché si estende in lontananza (yad dūraṃ gatā bhavati), oppure perché le creature si muovono su di essa (yad asyāṃ bhūtāni gacchanti), facendo derivare go- da gam, 'andare'; in alternativa, go- è ricondotto, per le stesse ragioni, a gā-, 'andare', con il suffisso deverbale o. Analogamente, aśva è derivato (ibidem, 2.27) da aś 'raggiungere' oppure da aś 'mangiare', presupponendo che un cavallo venga chiamato in tale modo perché percorre la strada oppure perché mangia molto.
I commentatori (per es., Durga ad Nirukta, 1.1 e 1.12, Maheśvara ad Nirukta, 1.1) distinguono tre tipi di forme nominali, a seconda che la radice che denota l'azione sia evidente, non evidente o totalmente nascosta. Il nirukta si occupa della spiegazione delle parole appartenenti a questi ultimi due tipi, dimostrando come sia possibile, mediante certi procedimenti, risalire a un'azione, e dunque alla radice verbale da cui deriva una data parola.
Le critiche rivolte al nirukta e le risposte degli etimologi
I presupposti teorici degli etimologi furono oggetto di critiche di cui lo stesso Yāska (Nirukta, 1.12-13) dà notizia. Nei confronti dell'opinione secondo la quale i nomi derivano da verbi, erano mosse le seguenti obiezioni. (a) Un dato sostantivo denoterebbe qualsiasi sostanza che esegue l'azione indicata dal verbo da cui il termine deriva; per esempio, qualsiasi cosa percorra una strada sarebbe chiamata aśva. (b) Una singola cosa avrebbe nomi differenti a seconda dei verbi che denotano le diverse azioni a cui è connessa; per esempio, il pilastro di una casa sarebbe chiamato non solo sthūṇā, ma anche daraśayā in virtù del fatto che poggia in un buco (dare śete) e sañjanī perché vi è attaccata una trave (sajyate'syāṃ vaṃśaḥ), ma di fatto questi ultimi due termini non sono utilizzati. (c) Le sostanze sarebbero indicate per mezzo di termini conformi alle derivazioni regolari dai verbi in questione; per esempio, il cavallo dovrebbe essere indicato dal termine aṣṭṛ (← aś-tṛ), un nome d'agente del tipo di kartṛ, dal quale risulterebbe evidente che un cavallo è quello che compie l'atto di raggiungere. (d) Gli etimologi forniscono spiegazioni per usi che sono già radicati, quando affermano, per esempio, che la terra è chiamata pṛthivī perché è associata all'azione di estendersi (prathana, dalla radice prath-), ma chi l'ha estesa, e dove era situato colui che eseguì tale azione? In altre parole, se la terra non era estesa sin dall'inizio, qualche agente deve averla resa tale e tutti gli esseri conosciuti stanno su questa terra così com'è; dove avrebbe potuto trovarsi l'agente dell'azione di estendere quando estese la terra che è il sostrato di tutti gli esseri? (e) Nei casi in cui un nome non sia immediatamente correlabile a una singola radice verbale, Śākaṭāyana ricorre all'estrapolazione di parti di parole differenti; per esempio, per spiegare satya (nom.-acc. sing. neutro satyam), 'vero' egli ricava sat dal participio di as- 'essere' e -yam dal verbo i- 'andare', più il suffisso causativo -i- nella variante -ay-, con la sostituzione di -y- con -m-: -i-ay → -y-am. (f) Un'azione è portata a compimento da un agente e dunque necessita di una sostanza preesistente che partecipi alla sua attuazione; tuttavia un nome è conferito a una sostanza in virtù di un'azione successiva all'esistenza della sostanza stessa, che i parlanti devono essere in grado di designare già in precedenza.
Dopo avere esposto le argomentazioni degli oppositori, Yāska (ibidem, 1.14) fornisce le risposte degli etimologi di seguito riportate. (a1) Fra le tante persone che compiono una determinata azione, una sola è effettivamente designata da un nome convenzionale chiaramente derivato da una radice verbale; per esempio, takṣan- (nom. sing. takṣā), 'falegname' è abitualmente utilizzato in riferimento solo a una parte delle persone che eseguono l'atto di fabbricare (takṣ-), non a tutte. L'etimologo spiega la derivazione, ma non stabilisce la convenzione. (b1) Allo stesso modo, un falegname è convenzionalmente designato con il termine takṣan, benché prenda parte a molteplici attività, e questo argomento è valido per tutti gli altri casi. (c1) Alcune delle parole terminanti in affissi derivativi primari (kṛt) hanno un uso limitato; di conseguenza, un derivato come aṣṭṛ- non è adoperato in riferimento al cavallo in generale. (d1) Un'indagine sui nessi esistenti fra i sostantivi e le azioni impone necessariamente di tenere conto degli usi attestati. La terra è estesa, non importa se sia stata resa tale da qualcuno o meno. In base agli argomenti esposti sopra, si potrebbero muovere obiezioni a qualsiasi termine impiegato a proposito di cose viste in un certo modo e descritte di conseguenza. (e1) Questa critica si riferisce all'operato di un singolo individuo, non all'etimologia in sé. (f1) Alcune cose ricevono il proprio nome in base alle azioni che compiono dopo avere avuto origine; per esempio, esiste una creatura detta bilvāda, 'mangiatore di bilva', così chiamata perchè si nutre (ad-) di frutti di bilva.
I procedimenti di analisi etimologica
All'inizio del cap. 2 (ibidem, 2.1), Yāska spiega in che modo debba essere condotta una spiegazione etimologica. Egli distingue due tipi generali di parole, quelle in cui l'accento e la formazione grammaticale, in relazione alla base e all'affisso, sono direttamente riconducibili a un'azione e sono atte a esprimere un significato che implichi un rapporto tra tale azione e l'entità significata; e quelle in cui ciò non accade.
Le prime sono spiegate in base alla loro struttura palese. Per esempio, il termine trtāràm, 'protettore' (acc. sing.) è composto dalla radice trā-, 'proteggere', dal suffisso d'agente -tṛ- (→ -tār-) e dalla desinenza -am. I significati della radice e degli affissi sono connessi in una maniera riscontrabile anche in altre parole (per es., vitāràm, 'soccorritore') e l'accentazione di tutti questi derivati è la stessa: il suffisso -tṛ- ha tono alto.
Ciò non vale per parole come aśvaḥ, 'cavallo' o gauḥ, 'mucca, terra'. Tuttavia, dovrebbe essere possibile spiegare etimologicamente anche questi termini mediante un esame che si concentri sui significati di ognuno di essi. Se possibile, la spiegazione dovrebbe basarsi sui significati condivisi. Per esempio (Maheśvara ad Nirukta, 2.1), pakva-, utilizzato di regola come participio passato per designare qualcosa che è stato cotto, è analizzato come pak-va, risultante dall'unione della radice pac-, 'cucinare' e del suffisso ta; la finale -c della radice e la t- del suffisso mutano rispettivamente in -k e v-. Ma pakva- designa anche il latte, senza riguardo a un'eventuale cottura già avvenuta. Questo significato e quello del participio pakva- sono collegati da una caratteristica comune: le cose a cui si riferiscono sono commestibili. In altri casi ancora, manca qualunque tratto semantico condiviso; ciò nonostante, bisognerebbe spiegare questi termini sulla base delle sillabe o dei suoni in comune. Per esempio (Nirukta, 4.7), jaṭhara-, denota lo stomaco perché il cibo consumato vi è contenuto (dhriyate) o immesso (dhīyate); jaṭhara- e jagdha-, 'mangiato' hanno ja in comune. Il fatto che aṃśu- designi il soma, la bevanda sacra, è spiegato (ibidem, 2.5) ricorrendo a due considerazioni alternative: non appena è raggiunto (cioè, bevuto), provoca benessere (śam) nel sacrificante; oppure, è benessere per una lunga vita. Da entrambi i punti di vista, aṃśu- contiene il suffisso u. Nel primo caso, aṃś è derivato da aś-, 'raggiungere', con l'aggiunta della m di śam-, 'star bene' interposta tra i due suoni: amś → aṃś; nel secondo, aṃś deriva da an-, 'respirare', con l'aggiunta della ś di śam-: anś → aṃś. Dunque, questi termini dovrebbero essere spiegati su base etimologica; nel caso di parole la cui formazione non è trasparente, non è necessario rispettare le restrizioni imposte dalle derivazioni grammaticali regolari e dalle operazioni previste dai grammatici.
Yāska (ibidem, 2.1-2) osserva anche che i procedimenti applicati dagli etimologi mostrano paralleli con quelli utilizzati dai grammatici: alcuni suoni sono cancellati, invertiti o modificati in altro modo. Per esempio, pratta-, 'dato' è divisibile in un preverbo pra, un segmento -t- e un suffisso participiale -ta-. La -t- centrale è quanto resta del verbo dā-, 'dare' a seguito di una derivazione grammaticale comunemente accettata: pra-dā-ta- → pra-dt-ta- (-ā → -t) → pra-d-ta- → pra-t-ta-. Allo stesso modo, avatta- 'tagliato' è derivato da ava-dā-ta-, in cui -ā di dā-, 'tagliare' muta in -t. Di conseguenza, delle basi verbali restano solo i suoni iniziali. Staḥ (terza persona duale indicativo pres.), 'entrambi sono' e santi (terza persona pl.), 'essi sono' mostrano l'aferesi della vocale iniziale di as-. Gatvā, 'dopo essere andato' e gata-, 'andato' mostrano la soppressione della consonante finale della radice gam-. Jagmatuḥ (terza persona duale indicativo perfetto attivo), 'entrambi andarono', jagmuḥ (terza persona pl.), 'essi andarono' mostrano la scomparsa del penultimo suono della medesima radice.
Rājā, 're' (nom. sing.) e daṇḍī, 'portatore di bastone' (nom. sing.) presentano una modificazione dei suoni in penultima posizione nelle radici rājan e daṇḍin. Anche il suono iniziale di una base è suscettibile di mutamento, come in jyotis- (nom.-acc. sing. jyotiḥ) 'luce', in cui j- sostituisce la d- della radice dyut- 'lampeggiare' (terza persona sing. indicativo pres. dyotate).
I suoni iniziale e finale di un segmento possono anche essere invertiti. Per esempio, rajju, 'fune' è derivato da sṛj- 'sciogliere' con aggiunta del suffisso u, perché è una cosa che si scioglie (sṛjyate). Il suffisso provoca la sostituzione di ṛ con ar in penultima posizione: sṛj-u- → sarj-u. La s e la r di sar subiscono allora metatesi: sarj-u- → rasj-u- → … rajju (Maheśvara ad Nirukta, 2.1).
Anche il suono finale di una base può mutare, come in megh-a-, 'nuvola', in cui megh- deriva da mih-, 'fare acqua, urinare'. Oppure può essere inserito un suono aggiuntivo, come in ās-th-at (terza persona sing. aoristo: āsthat) 'gettò', dove si ha l'introduzione dell'incremento th dopo la radice as- dinanzi ad -a-.
I medesimi procedimenti possono essere adottati per spiegare i termini dei Veda. Per esempio (Maheśvara ad Nirukta, 2.2): pasì (Nighaṇṭu, 4.3) in Ṛgveda, X.27.13 è interpretato (Nirukta, 6.6) come un locativo singolare di upás-, 'grembo, regione centrale', equivalente a upastha- letteralmente 'che sta nel mezzo', cioè 'grembo'; la -s- di upas- è tutto quello che resta della radice sthā-. Il termine śmśā (Nighaṇṭu, 4.2) in Ṛgveda, X.105,1 designa un canale, un fiume o un'arteria o vena (Durga ad Nirukta, 5.12); -ś- in śmśā è la consonante della radice aś-, 'raggiungere, circondare'; śmśā si riferisce a qualcosa che circonda (aśnute) rapidamente l'acqua (śu = āśu 'rapidamente') o che avviluppa il corpo (śma). Una delle spiegazioni fornite per parjánya- (Nighaṇṭu, 5.4) in Nirukta, 10.10 è che la divinità in questione, il dio della pioggia, è così chiamata perché genera soddisfazione (tarpayitā, nom. sing.); così, par è ricondotto a tṛp-, con metatesi delle consonanti iniziale e finale e successiva caduta della -t finale. Secondo la spiegazione di Yāska (Nirukta, 5.22), un giocatore d'azzardo è designato dal termine śvaghnín- (Nighaṇṭu, 4.2) perché distrugge ciò che gli appartiene (svaṃ hanti); dunque, śvaghnín- risulta dalla combinazione di sva-, 'proprio', con trasformazione di s- in ś-, e di un derivato nominale della radice han-, 'uccidere, distruggere'. Nel Nighaṇṭu la parola dyumná- compare una volta tra i termini che significano 'ricchezza' (ibidem, 2.10), e un'altra in una lista di termini polisemici (ibidem, 4.2). Yāska osserva (Nirukta, 5.5) che il termine può significare sia 'fama' sia 'cibo', e lo fa derivare da dyut-, 'lampeggiare'. Questa derivazione richiede che la -t di dyut- si tramuti in -m: dyut-na- → dyum-na-.
Yāska prende in considerazione un altro procedimento, che i grammatici chiamano samprasāraṇa, in base al quale il tema ij- (come nella terza pers. sing. del presente passivo ijyate) è derivato dalla radice yaj-, 'venerare, officiare un rito' (terza persona indicativo pres. attivo yajati, medio yajate). Ciò implica la sostituzione di una vocale a una semivocale; per esempio, yaj → iaj → ij. A tale proposito, Yāska (ibidem, 2.2) osserva che una radice simile, in cui una semivocale è contigua a una vocale, è la sede di due forme o nature originarie (dviprakṛtīnāṃ sthānam), e applica una sostituzione samprasāraṇa per spiegare etimologicamente certi termini. Per esempio, afferma che kùcraḥ in Ṛgveda, X.180, 2 si riferisce sia a un animale spaventoso, sia al dio Indra (Nirukta, 1.20). Nel primo caso, contiene il prefisso peggiorativo ku-, nel secondo caso ku- è derivato da kva, 'dove', perché un dio è onnipresente; infatti, dov'è che non va?
Yāska tiene conto anche della relativa frequenza di certi usi e procedimenti. In Nirukta, 2.2 osserva che, per certe radici verbali, la sostituzione samprasāraṇa si applica raramente. Due degli esempi forniti a questo proposito sono mṛdú-, 'soffice' e pṛthú-, 'vasto', derivati da mrad-, 'schiacciare' e da prath-, 'estendere', che non hanno tante forme samprasāraṇa quante ne ha una radice come yaj-; per esempio, il participio passato di prath- è prathita-, mentre quello di yaj- è iṣṭa-.
Esistono anche termini che possono essere spiegati sulla base di verbi di uso comune, ma che presentano suffissi primari caratteristici del vedico e, viceversa, termini di uso comune che si possono ricollegare a forme verbali finite vediche. Per esempio, sebbene dámūnas- (Nighaṇṭu, 4.1), in quanto epiteto di Agni, sia oggetto di varie interpretazioni (Nirukta, 4.4), può essere ricondotto a dam-, 'domare', con aggiunta del suffisso ūnas- che di regola non è utilizzato al di fuori del vedico (ibidem, 2.2).
Si riconoscono anche varianti dialettali, per cui forme finite di basi verbali sono impiegate in alcune regioni, mentre in altre si adoperano soltanto derivati nominali delle medesime radici. Per esempio (ibidem, 2.2), tra i Kamboja si usa śavati (śav-, 'andare'), ma fra gli Ārya è attestato solo il derivato śava-, 'cadavere'; la forma verbale dāti (dā-, 'tagliare') è corrente nelle regioni orientali del subcontinente indiano, ma fra i settentrionali s'incontra solo il derivato dātra-, 'falce'.
Yāska distingue le basi verbali (dhātu) dagli affissi (kṛt), che seguono immediatamente le prime. Riconosce inoltre i composti (samāsa) e gli affissi secondari (taddhita) applicati alle forme nominali. Di conseguenza, distingue i termini che sono parole semplici (ekapada), spiegabili etimologicamente senza ricorrere agli affissi taddhita oppure alla composizione, e parole complesse. In Nirukta, 2.2 osserva che le parole semplici devono essere spiegate nei modi sopra illustrati e poi prosegue esponendo i procedimenti da adoperare nell'analisi dei derivati con affissi taddhita e dei composti a due o più membri. Innanzitutto occorre spiegare il significato dell'intero derivato, quindi i significati dei componenti. Per esempio, daṇḍya-, 'meritevole di multa oppure punizione' consiste in daṇḍa-, 'multa, punizione' e nel suffisso taddhita -ya, e designa qualcuno che merita una multa o una punizione (daṇḍam arhati) oppure la subisce (daṇḍena sampadyate). A sua volta, daṇḍa- è derivato da dad-, 'sostenere, mantenere, appoggiare' oppure, secondo Aupamanyava, da dam-, 'domare', perché un re si serve delle punizioni per domare chi fa del male. Il composto rājapuruṣa-, 'servo del re' è in primo luogo analizzato come rājñaḥ puruṣaḥ, 'servo di un re'. Rājan-, 're' e puruṣa-, 'uomo' sono quindi spiegati nel modo seguente: rājan- deriva da rāj-, 'splendere'; puruṣa-, invece, designerebbe qualcuno che siede o giace nel corpo, in quanto composto da pur-, 'corpo' e da un derivato di sad-, 'sedere' o śī-, 'giacere'. Infine, Yāska conclude (ibidem, 2.3) affermando che le parole devono essere spiegate in rapporto al contesto, non isolatamente.
Conclusioni
In Nirukta, 2.3, Yāska indica chi sono coloro che devono imparare le spiegazioni etimologiche. Il nirukta non deve essere insegnato a chi ignora la grammatica, né a chi non è disposto a studiare o è incapace di apprendere l'etimologia, perché una persona ignorante è gelosa del sapere altrui. Si può, tuttavia, impartire questo insegnamento persino a chi non conosca la grammatica, a condizione che abbia la volontà di studiare e sia capace di apprendere, grazie a un'innata vivacità di ingegno o tramite l'esercizio della penitenza.
È evidente che Yāska conosce la grammatica (vyākaraṇa), della quale afferma che il nirukta è il complemento, pur perseguendo un proprio fine. Come si può constatare dagli esempi sopra riportati, Yāska conosce bene le categorie e i procedimenti grammaticali. Alcuni studiosi hanno cercato di dimostrare che Yāska conoscesse in particolare la grammatica di Pāṇini. Sarà invece più prudente ammettere (Cardona 1976, pp. 270-273) che i dati disponibili non consentono di stabilire se Yāska sia anteriore o posteriore a Pāṇini.
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