Scienza indiana: periodo classico. La scienza islamica in India
La scienza islamica in India
di Mario Casari
Nel II millennio dell'era cristiana nell'antica e sedentaria civiltà indiana si addentrò una nuova civiltà in piena espansione, quella islamica di matrice turco-persiana. Prima dei Musulmani, l'India aveva ricevuto e assorbito molti altri invasori. Tuttavia, l'arrivo della civiltà islamica rappresentò un evento completamente nuovo ‒ probabilmente per la sua compatta solidità dottrinaria e culturale ‒, cui l'India si mostrò nel complesso refrattaria. I governanti musulmani fondarono nuove istituzioni politiche e culturali, attivarono canali di comunicazione propri, creando progressivamente un mondo parallelo che interagì a più livelli con il mondo tradizionale indiano, senza tuttavia fondersi con esso in una sintesi superiore, benché tentativi in questo senso siano stati condotti a più riprese. L'India islamica, pur con caratteri originali, era in primo luogo la punta orientale della estesa e per molti versi omogenea civiltà islamica sbocciata in Arabia e impostasi in Persia, la quale al capo occidentale abbracciava Maghreb e Andalusia. Il circuito culturale cui apparteneva aveva come principali riferimenti Ghazna, Hamadan, Baghdad, Damasco, Il Cairo, persino Cordova, e più tardi Samarcanda, Herat, Isfahan, ossia le grandi capitali del Dār al-Islām (Dimora dell'Islam). In un quadro del contributo scientifico fornito dalla cultura islamica al grande patrimonio indiano, è quindi necessario stabilire una distinzione preliminare tra la cultura scientifica circolante, studiata e praticata nell'India di dominazione musulmana, e l'opera scientifica effettivamente prodotta sul suolo indiano dai dotti e dagli studiosi musulmani lì stabilitisi.
L'acquisizione della conoscenza costituì un fondamento della cultura islamica fin dal suo sorgere. In alcuni settori delle scienze razionali, quali matematica e astronomia, e nella medicina, il contributo islamico è stato ricco, duraturo, e talora essenziale allo sviluppo di ciò che chiamiamo scienza moderna. Una certa omogeneità culturale del mondo islamico ‒ legata specialmente per la produzione scientifica d'epoca classica (secc. VIII-XI) al prestigio e alla diffusione dell'arabo ‒ e la sua relativa permeabilità a spostamenti interni, che consentivano il reperimento, la copiatura e il trasporto di testi su lunghi tragitti, concorsero alla costituzione di un patrimonio di opere, nozioni e capacità tecniche che era comune ai quattro angoli del Dār al-Islām. I dotti dell'India musulmana leggevano le recensioni arabe di Euclide e di Tolomeo, studiavano l'Algebra di al-Ḫwārazmī e di ῾Umar Ḫayyām, e il Canone di medicina di Ibn Sīnā (Avicenna), conoscevano le funzioni trigonometriche e i valori esatti dell'obliquità dell'eclittica, costruivano astrolabi piani e tracciavano carte geografiche di notevole precisione. Molti frammenti di questo patrimonio scientifico derivavano, direttamente o indirettamente, dalla cultura indiana. Attraverso la Persia sasanide (225-651), furono assorbite dall'India: nozioni di medicina āyurvedica presso la grande scuola di Ǧundišapur, vicino Susa; concetti astrologici utilizzati nell'oroscopia e nella scienza dei presagi; elementi di cultura astronomica alla base di tavole (in arabo zīǧ, persiano zīg, anche 'regolo del muratore', forse dal pahlavico zeh, 'corda d'arco') redatte in pahlavico da probabili fonti sanscrite. Sorto l'Islam vi furono sporadici contatti in forma diretta. Una delegazione dal Sind presentò a Baghdad al califfo Abū Ǧa῾far al-Manṣūr (753-774) un'opera astronomica indiana, probabilmente della scuola di Brahmagupta, tradotta poi in arabo con grande fortuna come Zīǧ al-Sindhind al-kabīr (La grande tavola indiana). In questa fase di contatti la scienza matematica musulmana si era arricchita dei notevoli sviluppi della trigonometria indiana (basata, invece che sulla geometria delle corde come la greca, su quella delle semicorde, la funzione 'seno' ‒ dall'arabo ǧayb, 'seno', 'tasca', variante di lettura di ǧīb, calco del sanscrito ǧīvā, 'corda d'arco') e della grande invenzione indiana del sistema numerico posizionale. Questo patrimonio, composito alla radice ma amalgamato coerentemente nella tradizione testuale araba stilata in epoca classica, circolava in India come bagaglio degli invasori.
Stabilite le corti mecenatiche, vi si raccolsero intorno officine letterarie, gruppi di ricerca e singoli studiosi, i quali produssero in vari campi opere che s'inserivano nella tradizione scientifica musulmana in segno di continuità. Una ricognizione completa della letteratura scientifica indo-islamica ha avuto inizio da poco, e si scontra con due ostacoli principali. Una grande quantità di materiale, probabilmente di grande interesse, giace ancora non catalogato nelle numerose biblioteche sparse per l'India, e dunque è sostanzialmente inservibile. D'altra parte le opere invece reperite e catalogate, in India oppure altrove conservate in forma manoscritta, sono in gran parte ancora inedite. Il grado di conoscenza che abbiamo del loro contenuto è spesso quello di un sommario più o meno dettagliato. Alcuni aspetti generali possono tuttavia essere messi in luce. Tale letteratura veniva preparata principalmente presso le corti, ed era destinata all'attenzione di sultani, prìncipi e ministri. I signori turchi, provenienti da aree remote dell'Asia centrale e affacciatisi relativamente tardi sul composito mondo islamico, fecero del mecenatismo un'arma politica finalizzata all'aggiornamento scientifico-tecnologico che consentisse un occhio critico su domini effettivi e possibili. In particolare era auspicato l'accesso al mare e il suo dominio militare e tecnico. Ciò si verificò soprattutto per i dominatori turchi eredi dell'Impero di Tamerlano, tra cui i Mughal, ed è una ragione della fioritura di studi scientifici avutasi in tale epoca, in ritardo sul resto del mondo islamico dove la ricerca era in lenta decadenza. Un ruolo di primo piano in questa relativa rinascita fu svolto dall'area centroasiatica e dall'Iran orientale, terra madre dell'emigrazione che ne infoltì le schiere intellettuali. A questa fase (secc. XVI-XVIII), splendente forse più per lo spirito modernista che la animava che per l'originalità dei suoi contributi, seguì il declino, aggravato dall'instabilità politica che fece mancare il terreno al patronato di corte, sia delle autorità centrali di Delhi, sia dei rāja e mahārāja, o dei nobili dell'India mughal. Si assiste, tuttavia, ancora nel XIX sec., dopo l'avvento della scienza europea, a una larga produzione legata alle tradizioni scientifiche medievali, tanto musulmane quanto hindu. Tentativo di conciliare le novità occidentali con il sistema unitario della propria antica sapienza, quest'attività continua ancora in parte all'interno di correnti conservatrici, e in alcuni campi, come, per esempio, la medicina, è tuttora connessa a una pratica diffusa.
Un'ultima valutazione riguarda l'effettivo grado di comunicazione e scambio tra le due culture scientifiche, la hindu e la musulmana, conviventi per lungo tempo. Tentativi di integrazione o assimilazione sono stati fatti da una parte e dall'altra, in alcuni periodi in particolare. Dall'esame dei testi e di altre evidenze finora condotto, la reciproca influenza sembra essere stata piuttosto scarsa. È relativamente esigua la mole di traduzioni nei due versi, e rare sono le tracce di apporto teorico alle rispettive discipline durante i secoli di dominio musulmano. I contatti furono maggiori a livello applicativo e nella scienza degli strumenti. Alcuni contributi della tradizione musulmana innovarono la tecnologia in campi di ricerca e in molti settori della vita civile indiana, dall'agricoltura alla metallurgia e all'editoria. Specialmente la medicina, scienza a metà strada tra teoria ed empirismo, rappresenta un esempio di manifestazione scientifica musulmana integrata nel mondo indiano: la scuola yūnānī, di tradizione galenica greco-araba, in campo farmacologico ha stabilito molti legami con la medicina āyurvedica. Le élite hindu e musulmane rimasero nel complesso separate, ciascuna percorrendo il sentiero tracciato dalla propria tradizione. In generale ebbero, nel migliore dei casi, reciproca attenzione da studiosi. Del resto, agli albori del contatto, uno scienziato di ampie vedute come al-Bīrūnī, aristocratico e attento studioso della cultura indiana, aveva rinvenuto aspetti di fondamentale inconciliabilità: "Posso solo paragonare i loro testi di matematica e astronomia a madreperla mescolata con datteri rancidi, o a perle mescolate con escrementi, o a pregiati cristalli mescolati coi sassi. Ed entrambi gli elementi paiono a loro avere il medesimo valore" (Kitāb al-Hind, pp. 12-13).
di Mario Casari
Il sistema scientifico dell'Islam medievale era parte del più vasto insieme della sapientia islamica. Le discipline razionali (ma῾qūlāt) erano coltivate insieme alle scienze tradizionali (manqūlāt) nel continuo tentativo di mantenere un quadro unitario dello scibile poggiato sulla rivelazione coranica. Figura centrale era quindi il 'sapiente', o ḥakīm, termine che vale anche come 'medico', perché tra i primi requisiti d'accesso alla sapienza vi era una basilare conoscenza dell'arte medica. Lo ḥakīm era inoltre poeta, astronomo e matematico, spirito enciclopedico, e in generale un 'saggio'. Gran parte degli importanti ḥakīm che operarono in India durante il Medioevo e l'età mughal appartenevano a illustri famiglie musulmane originarie della Persia o dell'Asia centrale. L'istruzione dei membri di tali famiglie era in generale affidata ai singoli maestri nella loro residenza privata (darsgāh, 'studio').
Mancava nell'India musulmana uno strato sociale intermedio tra quello popolare e quello nobile e cortigiano. Il ruolo della piccola borghesia amministrativa o artigiana, tipico del resto del mondo islamico, era qui svolto in generale dalla popolazione hindu. Ponte di raccordo fra i due strati fu quindi piuttosto l'attività delle confraternite mistiche, in particolare la colta Cištīya, che però possedeva canali propri d'istruzione vincolati all'adesione alla regola. Esemplare dinastia di scienziati fu la famiglia di Šayḫ Aḥmad-i Mi῾mār (m. 1649), matematico e ingegnere, disegnatore del progetto del Taj Mahal ad Agra e del Forte Rosso a Delhi. I suoi tre figli, ῾Atā᾽allāh, Luṭfallāh e Nūrallāh furono anch'essi matematici e ingegneri. Nūrallāh fu anche calligrafo e fece i disegni per le iscrizioni monumentali della Ǧāma῾-i Masǧid di Delhi. Il figlio di Nūrallāh, Šāh Kalimallāh Ǧahānābādī, scrisse importanti commentari di astronomia e di medicina, e prese la guida della scuola della Cištīya a Delhi.
Il sistema d'istruzione musulmano, comunque, istituito fin dall'inizio della conquista, poteva raggiungere in teoria i figli della gente comune, quando le circostanze lo permettevano. L'educazione era articolata sostanzialmente nei due gradi del maktab e della madrasa. Il maktab ('scrittoio') aveva usualmente sede in una moschea, ma poteva anche svolgersi nella casa privata di un maestro. Esso forniva le basi per la lettura, la scrittura e l'aritmetica elementare. L'istruzione superiore era impartita nella madrasa, o 'collegio', associata a una moschea o istituita separatamente, finanziata di norma secondo il sistema del waqf ('fondazione pia'). Modello originale erano le madrasa create a Baghdad, Nishapur e altrove dal ministro selgiuchide Niẓām al-Mulk nella seconda metà dell'XI secolo. Scuole e collegi erano stati istituiti a Delhi già sotto i Sultani Schiavi, ma praticamente ogni sultano ne istituì di nuovi, fino all'epoca mughal che costituì l'apogeo. Il curriculum stabilito per la scuola di Baghdad, e diffuso in tutto il mondo islamico medievale, India compresa, prevedeva l'insegnamento di grammatica, retorica, logica, letteratura, teologia e diritto (manqūlāt), filosofia e matematica (ma῾qūlāt); la filosofia abbracciava la fisica (con le scienze naturali) e la metafisica, secondo i dettami aristotelici, e la matematica includeva l'astronomia (specialmente il sistema geocentrico tolemaico), l'aritmetica, l'algebra, la geometria e la musica. Questo curriculum conobbe tre fasi in India. Nell'epoca del Sultanato fino a tutto il XV sec. ebbero maggiore peso le discipline tradizionali, generalmente secondo canoni dell'ortodossia sunnita. Il ruolo delle scienze razionali fu potenziato da Sikandar Lōḏī, che spingendo gli Hindu a studiare il persiano favorì anche il sorgere di scuole separate dalle moschee. Con la riforma di Akbar lo studio della matematica e dell'astronomia fu reso obbligatorio in tutte le istituzioni dell'impero e sorsero ufficialmente scuole secolarizzate per l'istruzione comune di Musulmani e Hindu. Il curriculum, secondo lo āīn-i Akbarī, era così ribilanciato: ṭabī῾ī o 'scienze naturali' includenti la fisica, riyāḍī, o 'matematica' con le sue applicazioni, ilāhī, o 'metafisica'. Questa terza fase si chiuse peraltro con Aurangzīb e la successiva decadenza. Con l'affermazione della scienza europea le scuole musulmane hanno preso due direzioni. Una parte ha seguito l'indirizzo modernista, accettando una progressiva occidentalizzazione della forma e dei contenuti dell'insegnamento. Un'altra parte ha mantenuto legami con la tradizione medievale, con divergenti vedute sul maggiore o minor peso da attribuire alle discipline razionali.
Le specializzazioni mediche erano soprattutto conseguite presso le cliniche private delle grandi famiglie. Dall'epoca mughal acquisirono sempre maggiore importanza le accademie per l'insegnamento pubblico della medicina, ed essa venne in seguito parzialmente inserita nel curriculum della madrasa. L'educazione tecnica non era di norma impartita nelle scuole, ma trasmessa o nella relazione diretta tra un maestro e un apprendista (spesso padre e figlio), o all'interno di botteghe industriali (kārḫāna). Presso i ḫānqāh ('monasteri') e i dargāh (le 'corti' di riunione presso i mausolei di santi) si concentrava invece l'insegnamento delle confraternite. Legato alla regola e contenente elementi esoterici, esso aveva comunque un largo raggio d'azione, toccando in profondità numerosi campi di scienza.
Oltre che sul sistema d'insegnamento, la trasmissione della scienza in ambito islamico era fondata sulla produzione del testo scritto, il libro. L'arte scrittoria e la costruzione del codice rappresentano un capitolo interessante della cultura islamica, perché essi costituivano un veicolo d'informazione scientifica e tecnica sia esplicito, per i contenuti testuali esposti, sia implicito, per le nozioni sottostanti l'intero processo di preparazione.
Al contrario delle civiltà di cui raccolse l'eredità (la greca, la persiana antica, l'indiana), l'Islam si presenta fin dalla nascita come civiltà della scrittura. Il qalam ('calamo') è la prima creazione divina, canna (in persiano nay, che vale anche 'flauto') da tagliare e appuntare secondo precise misure che comportino la giusta morbidezza di scorrimento sul supporto (pergamena e soprattutto carta) e il giusto spessore del tratto. La scrittura araba, che si trasferì al persiano e al turco, e anche alle lingue autoctone dell'India musulmana, quali il sindi, il panjabi, il kashmiri, l'urdu, aveva duplice valenza, geometrica nell'arte calligrafica, e aritmetica nella natura dell'alfabeto. Arte sistematica, la calligrafia fu impostata su precisi calcoli. Secondo alcuni motti tramandati nella teoria di quest'arte "la scrittura è geometria spirituale che appare tramite uno strumento fisico" (detto attribuito a Euclide), e "la scrittura è una geometria difficile, e una tecnica esatta". Secondo il canone scrittorio definito nel X sec., la scrittura si fonda sul rapporto proporzionale tra l'asta dell'alif ‒ prima lettera dell'alfabeto, a forma della latina 'I', costituita come sovrapposizione di un numero (talora stabilito in 8) di tratti unitari d'inchiostro di forma romboidale ‒ inscritta in un cerchio e i tratti caratteristici delle altre lettere, ugualmente ricavati entro il cerchio. Modello di riferimento sembra
essere la proporzione costruttiva antropometrica, a base unitaria un ottavo, esposta nel De architectura di Vitruvio (III, 1.1-3, 3.1). L'arte calligrafica arabo-persiana si espandeva, su queste basi e con inventiva inesauribile, oltre il supporto librario su tutti i possibili manufatti, oggetti e monumenti. 'Scienziati delle lettere', i calligrafi avevano alto rango nella gerarchia intellettuale. Nella Persia safavide e nell'India mughal erano loro dedicati Memoriali che univano l'esposizione della loro arte alle biografie dei più illustri rappresentanti, talora secondo i principali stili di scrittura: ṯulṯ, nasḫī, nasta῾līq, šikasta. Come segno d'innovazione e d'indipendenza, l'Islam indiano elaborò una propria calligrafia distintiva, varietà della comune nasḫī, denominata bihārī.
La scrittura araba possiede due tavole alfabetiche, una ‒ A, B, T, Th, … ‒ con uso linguistico e lessicografico, l'altra ‒ A, B, J, D, … (imparentata con il nostro abicidì) ‒ costituente il sistema abǧad, di carattere tradizionale e uso aritmetico. A ognuna delle 28 lettere è associato un valore numerico: 1, 2, …, 9, 10, 20, …, 90, 100, 200, …, 900, 1000. Tale sistema venne usato durante il medioevo islamico per quasi tutte le forme di calcolo, in algebra, trigonometria, astronomia, e anche per la notazione musicale. Paradossalmente, il sistema posizionale indiano trasmesso dagli Arabi in Europa fu usato raramente nella letteratura scientifica musulmana, soltanto per grandi numeri, come per esempio tangenti di angoli vicini ai 90 gradi.
Le lettere arabe avevano inoltre valore figurale, specialmente antropomorfico. Con tali valenze nominali, aritmetiche e figurali, il sistema abǧad diveniva un "codice espressivo a chiave, adottato tanto per l'esplicazione quanto per la simbologia di ogni scienza esatta e occulta. Esso era usato e inteso come l'abbecedario della comunicazione". Allo scienziato Avicenna è ricondotto un complesso e raffinato codice simbolico, noto appunto come 'alfabeto di Avicenna'. Attraverso il sistema abǧad venivano prodotti talismani come quadrati magici, ricavate profezie e presagi con il calcolo aritmomantico, tracciati cronogrammi per l'occultazione, spesso giocosa, di date in rubriche o epigrafi (Piemontese 1992).
Come supporto materiale dei testi la carta fu definitivamente introdotta in India dai Musulmani invasori nel XIII sec., progressivamente affiancando e in parte sostituendo le tradizionali foglia di palma o corteccia di betulla usate per la letteratura sanscrita. Pratica, economica, adattabile nelle piegature, la carta era funzionale al sistema comunicativo islamico, che ne fece anche in India lo strumento principale per la rapida circolazione dei testi, e dunque la ragione prima dell'introduzione del vasto sistema bibliotecario. Le biblioteche islamiche, reali, private o pubbliche (istituite mediante il waqf), furono un evento relativamente nuovo per il mondo indiano, ed ebbero un ruolo di primo piano nella salvaguardia del patrimonio letterario e scientifico. A parte le opere prodotte localmente, spesso le biblioteche indiane, relativamente al riparo dalle scorribande mongole, accolsero interi fondi trasportati in salvo da Iran e Afghanistan. Anche opere della tradizione hindu furono talora strappate alle loro sedi originarie (templi induisti, monasteri buddhisti) e ricollocate negli scaffali delle biblioteche di corte, a volte dopo la loro traduzione. Per questa via fu anche introdotto il sistema persiano del patronato e delle officine librarie di corte. In tali officine, dove la creazione del libro era curata dalla traduzione alla copiatura fino alla rilegatura (enorme era la maktab-ḫāna, o 'scrittorio', istituita da Akbar), era anche praticata l'arte della miniatura, supporto visivo contenente numerosi dettagli esplicativi o, più spesso, aggiuntivi al testo, tanto letterario quanto scientifico. Oltre a scene narrative, a paesaggi, a descrizioni di arti e mestieri, anche schemi anatomici, settori del cielo, strumenti di studio, varietà animali e vegetali erano disegnate e dipinte con una dovizia di dettagli che il testo spesso non sapeva offrire, anche perché generalmente più antico, e dunque copiato per la sua autorità normativa, ma da aggiornare alle più recenti conoscenze e mode mediante l'illustrazione. La miniatura indo-islamica, particolarmente d'età mughal, ha rappresentato, grazie anche all'influenza indiana, uno dei vertici di quest'arte di matrice persiana.
La lingua islamica scientifica per eccellenza era l'arabo. Proprio la produzione indiana tuttavia, commissionata da signori turchi o afghani a dotti in gran parte persiani, contribuì a consacrare anche il persiano come lingua di scienza. Una prima ricognizione parziale del materiale relativo alle scienze esatte compilato da Musulmani e rimasto nelle biblioteche d'India conta 1671 opere redatte in persiano contro le 1219 scritte in arabo (Rahman 1982). Ciò ha avuto anche riflessi sul merito della produzione, fornendo l'occasione per dizionari terminologici, e offrendo talora alla traduzione di concetti indiani, espressi nella consorella lingua indoeuropea, il sanscrito, un filtro meno rigido del semitico arabo.
di Mario Casari
Se si esclude la medicina, che ebbe una buona diffusione e un percorso proprio, il maggior contributo scientifico dell'India islamica, come del resto di tutta la civiltà islamica, è stato nei settori matematico e astronomico. Le impostazioni teoriche dei Musulmani contenevano per gli Indiani elementi in parte familiari e in parte estranei. La tradizione matematica e astronomica musulmana, con il suo esemplare equilibrio di empirismo e teoria, era infatti frutto della sintesi di due diversi filoni, quello delle tavole astronomiche e dell'approccio algebrico alla matematica, di derivazione indiana e persiana, e quello del sistema planetario tolemaico e dell'impostazione geometrica deduttiva, ereditato dalla Grecia e dal mondo ellenistico. Questo patrimonio interessò gli Indiani ma in modo limitato, così come limitatamente, nel complesso, interessò i Musulmani il progresso matematico-astronomico compiuto dalla tradizione hindu nei secoli dell'occupazione. Al-Bīrūnī ci informa di avere tradotto in sanscrito, con l'aiuto di alcuni dotti locali all'epoca della sua permanenza in India, gli Elementi di Euclide e l'Almagesto di Tolomeo. Tuttavia non esiste nessun'altra notizia a riguardo. Le prime traduzioni in sanscrito note di queste due opere sono da ascrivere a Jagannātha Paṇdita, maestro e astronomo di corte del sovrano di Amber Jai Singh (1700-1743). Jagannātha tradusse sia gli Elementi (Rekhāgaṇita, 1727) sia l'Almagesto (Saṃrāṭsiddhānta, 1732) dalle versioni arabe commentate di Nāṣir al-Dīn al-Ṭūsī (1201-1274): il Taḥrīr uqlīdīs (Esposizione di Euclide) e il Taḥrīr al-maǧīsṭī (Esposizione dell'Almagesto) che erano considerate opere fondamentali nella formazione matematico-astronomica delle scuole indo-musulmane. Era però già alle porte la scienza europea.
Implicata, oltre che nell'attività astronomica, nelle problematiche caratteristiche del diritto (eredità, fisco, misurazione di terreni, ecc.), in generale la matematica islamica ha fornito i maggiori risultati in alcuni campi specifici quali: l'adozione e la diffusione dei numeri indiani (malgrado la già rilevata fedeltà al sistema abǧad); l'unione di approcci geometrici e algebrici nella risoluzione di equazioni di vario grado; il primo trattamento sistematico della trigonometria (Joseph 1991). Le opere circolanti nelle biblioteche e nelle scuole d'India erano i classici di questa solida tradizione. Oltre al Taḥrīr uqlīdīs di Ṭūsī, la geometria era studiata sui testi archimedei di ṯĀbit ibn Qurra (m. 901), che impostavano fra l'altro importanti problemi di misurazione di parabole e paraboloidi. L'algebra si affrontava sul Kitāb al-faḫrī (Libro per Faḫr al-Mulk) di al-Karaǧī (X-XI sec.), che offriva soluzioni di equazioni di secondo e terzo grado utilizzando metodi ripresi dall'Arithmetica del greco Diofanto, e sull'Algebra di ῾Umar Ḫayyām (XI-XII sec.), probabilmente il più completo trattato medievale sull'argomento, dove le soluzioni sono cercate con il sistema dell'intersezione di coniche. Lo studio della trigonometria era in particolare supportato dalle numerose opere di al-Bīrūnī. Sembra tuttavia che un interesse speciale, forse per influenza della tradizione indiana, suscitassero i problemi dell'aritmetica. Grande successo ebbe in India, in epoca tarda, l'opera di aritmetica Ḫulāṣat al-ḥisāb (Compendio di computo) di Bahā᾽ al-Dīn al-῾Amilī (1546-1621, attivo a Isfahan sotto ῾Abbās I Safavide), divenuta presto presenza fissa dei curricula scolastici e più volte commentata e rielaborata. Importanti commentari ne furono quello di Luṭfallāh Muhandis (titolo che indica 'geometra', 'ingegnere'), Anvār ḫulāṣat al-ḥisāb (Luci del 'Compendio di computo', XVII sec.), che introduceva per la prima volta la matematica analitica, e quello di Amīn al-Dīn al-Lāhurī, Lawāmi῾ al-lubāb fī šarḥ ḫulāṣat al-ḥisāb (Raggi di purezza a commento del 'Compendio di computo', 1770). Sull'opera di ῾Amilī si basava la Ḫazīnat al-A῾dād (Tesoro dei numeri, 1765) di un certo ῾Aṭā᾽allāh, molto diffuso. Il testo di ῾Amilī istruiva sull'aritmetica basilare degli interi e delle frazioni, sulla risoluzione di equazioni con il metodo delle proporzioni, con il metodo dei due errori e quello d'inversione, sulle regole di misurazione e le applicazioni della geometria, sulle basi algebriche e su alcune tecniche matematiche speciali. Esso era un vero testo di formazione essenziale per la matematica d'uso. Molte altre opere originali di studiosi indo-persiani concernevano principalmente l'aritmetica, come il Šarḥ al-Šamsīya (Commento alla Šamsīya) di Abū Isḥāq ibn ῾Abdallāh, matematico di Golconda (1555), commentario a un'opera di Ḥasan al-Nīšāpūrī, allievo di Ṭūsī. Anche nella scelta di traduzioni l'aritmetica appare un interesse di primo piano: la Līlāvatī (La giocosa) di Bhāskara II (XII sec.) fu tradotta in persiano dal poeta di corte di Akbar, Fā'iżī (1587); il Bījagaṇita (Matematica dei seni) dello stesso autore, sull'algebra, fu invece tradotto sotto Šāh Ǧahān, sempre in persiano, da ῾Aṭā᾽allāh Rašīdī, figlio di Šayḫ Aḥmad-i Mi῾mār (Tarǧuma-yi Bījanit, Traduzione del Bījanit, 1635). Ormai nel XIX sec., merita una menzione l'opera di Ġulām Ḥusayn ǧawnpūrī, che offre nel suo Ǧāmi῾Bahādur Ḫānī (Compilazione di Bahādur Ḫan, 1833) un importante modello di soluzione per il problema della trisezione di un angolo.
Nel complesso, come si vede, la produzione e in particolare lo scambio con la tradizione hindu sono rimasti nei contorni di un'istruzione ordinaria e di un moderato aggiornamento. Per quanto i testi finora reperiti ci mostrano, manca alla scienza matematica pura di questi secoli dell'India islamica un vero slancio teorico come era stato nell'epoca precedente, o come era, in parte, nella coeva ma isolata matematica indiana del Kerala. In compenso l'attività dei muhandisīn ha offerto una splendida dimostrazione pratica nella realizzazione della cospicua serie di edifici monumentali che hanno fatto dell'architettura indo-islamica, e di quella mughal in particolare, un capitolo complesso e ricco di interessi tanto estetici quanto tecnico-scientifici.
Un quadro relativamente più movimentato offrono invece lo sviluppo e la trasmissione della matematica astronomica e delle teorie planetarie, sebbene anche in questo settore l'atteggiamento di fondo delle due scuole si mostrasse per certi versi inconciliabile. Nel suo autorevole testo informativo sulla scienza indiana, al-Bīrūnī se la prendeva con l'astronomo Brahmagupta (VII sec. d.C.) che nel Brāhmasphuṭasiddhānta, in ossequio alla mitologia vedica, attribuiva la reale causa delle eclissi alla testa del drago che inghiotte il Sole o la Luna. Per al-Bīrūnī era secondario il fatto che poi Brahmagupta compisse tutti i notevoli calcoli sul diametro della Luna e dell'ombra della Terra per descrivere le eclissi. Anzi ciò gli appariva in contraddizione con lo spirito cognitivo mitologico, che vedeva come il carattere principale. "Anche noi Musulmani ‒ aggiungeva ‒ siamo chiamati alla preghiera in determinati momenti della rivoluzione del sole. Ma questi sono solo i segni per i momenti in cui compiere quegli atti. Il Sole non ha nulla a che fare con il nostro culto" (Kitāb al-Hind, 1887, p. 256). L'Islam, sottolineava al-Bīrūnī, è una religione normativa, non conoscitiva. È tuttavia vero che, malgrado la relativa spregiudicatezza delle osservazioni sperimentali compiute dagli studiosi musulmani, l'astronomia islamica non seppe mai completamente svincolarsi dall'autorità del sistema geocentrico di ascendenza tolemaica, sebbene l'avesse più volte valutato insoddisfacente, e dunque corretto e precisato. In generale, il grande merito dell'astronomia islamica è stato l'aver unito l'affidabilità di osservazioni sapientemente eseguite con l'attenzione ai meccanismi cinematici dei modelli planetari.
Il sistema planetario greco-arabo, geocentrico, prevedeva la rivoluzione su sfere di Sole, Luna e pianeti (in ordine di crescente distanza dalla Terra: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, più il cielo delle stelle fisse; varianti furono elaborate nel corso dei secoli) secondo una rappresentazione geometrica che di base utilizzava le nozioni di eccentrica, di epiciclo e deferente. Il sistema tolemaico, insieme a tali nozioni, aveva già raggiunto l'India in epoca preislamica, nella fase ellenistica e romana degli scambi tra India e Occidente, entrando nel patrimonio astronomico che è alla base delle scuole dei siddhānta, da Āryabhaṭa (n. 499 d.C.) e Brahmagupta (n. 598) a Bhāskara I (ca. 628) e Bhāskara II (n. 1114). Tutti i tentativi di adattamento e integrazione, tuttavia, dovevano conciliarsi con le teorie mitologiche espresse nei Purāṇa, la cui autorità era indiscutibile, e perciò rimasero di fatto sospesi e incompleti. Il percorso di contatto con il sistema tolemaico islamizzato e le sue varianti, nei secoli del dominio musulmano, rispecchia questa stessa inconciliabilità, malgrado gli sforzi espressi. Sulla base dei testi rintracciabili nelle biblioteche indiane, si è potuto valutare che gli studi formativi degli astronomi musulmani d'India erano fondati, da una parte, su un numero relativamente esiguo di classici (al-Ḫwārazmī, ṯĀbit ibn Qurra, al-Ṣūfī, Ibn al-Hayṯam, al-Bīrūnī, ecc.), dall'altra, invece, su una grande mole di opere tarde (XIII-XVII sec.), specialmente di autori dell'area centroasiatica. Oltre all'immancabile recensione di Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī dell'Almagesto di Tolomeo, erano molto usati il trattato al-Mulaḫḫaṣ fī al-hay᾽a (Compendio di astronomia) di al-Čaġmīnī (m. 1344) con i relativi commentari; la Risāla dar ῾ilm-i hay᾽at (Trattato sulla scienza astronomica) di al-Qūšǧi (m. 1474); il molto popolare Tašrīḥ al-aflāk (Descrizione delle sfere celesti) di al-῾Amilī, del cui trattato di aritmetica si è già menzionata la diffusione. Tutti questi testi o i loro commentari, furono a loro volta commentati da studiosi indiani. Tra questi ebbe particolare rinomanza un commento persiano ad al-Qūšǧi di Muṣliḥ al-Dīn Lāri al-Anṣārī (m. 1572), intitolato Šarḥ-i Risāla Qūšǧīya (Commento al trattato di al-Qušǧī) ma denominato anche Humāyūn-nāma (Libro di Humāyūn), dedicato all'imperatore mughal, valente astronomo. Sulle opere originali composte dagli studiosi indiani musulmani manca ancora una ricognizione sufficiente. Parzialmente nota è la produzione di Zīǧ (tavole astronomiche), connesse col lavoro di osservazione. Ciò che appare piuttosto sorprendente è che finora non sia emerso quasi nulla che riveli la formulazione di un qualche tipo di critica al sistema matematico-astronomico tolemaico. Sorprendente perché il reperimento librario dimostra una diffusa presenza di testi della scuola dell'osservatorio di Marāġa, la scuola guidata da Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī che formulò diverse critiche e propose numerose rielaborazioni di quel sistema. Recenti ricerche hanno però portato l'attenzione su alcuni astronomi dell'India musulmana, comunque relativamente tardi, dalle cui opere sembra emergere almeno una coscienza di tale dibattito. Nel suo Šams-i bāzgāh (Sole del varco) Mullā Maḥmūd Ǧawnpūrī (m. 1651) ‒ astronomo di corte di Šāh Ǧahān ‒ si interrogava sul perché gli epicicli dei pianeti dovessero ruotare intorno al centro di una sfera immaginaria (Equante) e non intorno al centro dei loro deferenti, come secondo i principî fondamentali. Si trattava di una critica interna al sistema antico, per le sue motivazioni, ma che preludeva a ulteriori sviluppi. In effetti uno sviluppo era contenuto nello Šarḥ-i zīǧ-i Muḥammad Šāhī (Commento alle tavole astronomiche di Muḥammad Šāh) di ḫayrallāh ḫĀn, un astronomo della cerchia di Jai Singh, il quale specificava che tali problemi si risolvevano utilizzando le equazioni di orbite ellittiche (Rahman 1999). È tuttavia probabile che ḫayrallāh ḫĀn risentisse ormai del dibattito europeo, come sicuramente ne risentiva Ġulām Ḥusayn ǧawnpūrī che nel già citato ǧĀmi῾ Bahādur Ḫānī (1835) fa esplicito riferimento al sistema eliocentrico, ma vi è chi ritiene che questo potesse essere uno sviluppo interno alla tradizione islamica.
Una questione a parte rappresentano i tentativi fatti nei secoli di convivenza di integrare gli approcci e gli sviluppi teorici del sistema islamico all'interno della tradizione hindu. Impulsi vennero da alcuni sovrani motivati da un ideale unitario, e dai loro collaboratori. Per ordine di Fīrūz Šāh Tuġlūq (1351-1388) fu tradotto in sanscrito il primo trattato sull'astrolabio, col titolo di Yantrarāja (Re degli strumenti, 1370), che introduceva nella cultura indiana lo strumento e le nozioni sottostanti. Nel suo progetto, Fīrūz Šāh compì anche l'azione inversa, facendo tradurre in persiano alcuni dei testi prelevati dalla biblioteca del tempio di Jawāla Mukhī, presso Nagarkot. Nella Tarǧuma-yi barāhī (Traduzione del Barāh), dalla Bṛhatsaṃhitā (Grande raccolta) di Varāhamihira, tuttavia, otto dei 104 capitoli dell'originale furono censurati per il loro contenuto idolatrico. La seconda fase di traduzioni in sanscrito fu avviata soltanto due secoli più tardi da Akbar (sotto cui fu tradotto l'importante Zīǧ-i Uluġ Beg), proseguita sotto Šāh Ǧahān (Zīǧ-i Šāhǧahānī tradotto dal persiano da Nityānanda, 1635 ca.), e culminata nel XVIII sec. sotto la supervisione di Jai Singh, mahārāja di Amber e poi di Jaipur, da lui fondata nel 1733: oltre alla già citata versione dell'Almagesto di Jagannātha, furono tradotte, da Nayanasukha e collaboratori, intorno al 1730, due altre opere di al-Ṭūsī ‒ la sua recensione della Sferica di Teodosio, col titolo Ukārākhyagrantha, e il Bīst bāb dar Asṭurlāb (Venti capitoli sull'astrolabio) ‒ e un commentario di al-Birǧandī alla Taḏkira fī al-hay᾽a (Memoriale sull'astromonia), sempre di al-Ṭūsī. Nel 1639 Nityānanda compose anche un trattato, Sarvasiddhāntarāja (Re di tutti i siddhānta), dove presentava modelli planetari e una cosmologia completamente islamici. Anche nelle opere di altri studiosi indiani sono stati rintracciati elementi di riflessione o influenze indotti dall'astronomia islamica, in particolare nella Benares del XVII sec. (Pingree 1978). Tuttavia l'unico progetto coordinato di integrazione sembra sia stato quello di Jai Singh, concretizzatosi soprattutto nella costruzione di una serie di osservatori. In realtà il suo uditorio indiano rimase estremamente ristretto, mentre furono molti a mostrare indifferenza, se non ostilità. Il fatto poi che anche nelle opere della cerchia di Jai Singh sia possibile trovare capitoli dedicati alle descrizioni della tradizione hindu fa intuire come in ogni caso gli astronomi indiani (ma vale per molte altre scuole nel passaggio dal Medioevo all'Età moderna) sentissero il bisogno di porsi nel solco del patrimonio ereditario. Di fatto le due scuole, musulmana e hindu, sono sempre rimaste separate. Una rilevante appendice rimangono i dizionari persiano-sanscrito, contenenti terminologia astronomico-astrologica, redatti in epoca mughal (per es., i due Pārasīprakāśa, Luce dei termini persiani) (Pingree 1996).
di Mario Casari
Malgrado questo attrito sul piano teorico, l'astronomia pratica di matrice islamica poté prendere piede in modo indipendente sul territorio indiano, portando alla diffusione di numerosi strumenti, alla costruzione di alcuni osservatori, alla compilazione o correzione di tavole astronomiche. L'introduzione della sistematica e precisa attività di osservazione del cielo fu l'evento più nuovo per la cultura astronomica indiana, legata piuttosto alla manipolazione matematica di modelli. Tale tendenza, tipica della scienza islamica, era forse dovuta, in origine, proprio all'opportunità avuta dagli studiosi musulmani di confrontare le tavole astronomiche redatte nel mondo ellenistico e in quello indiano, valutandone le numerose discrepanze. Fu questa esigenza di precisione a spingere gli scienziati arabi e persiani a contestare poi, e in più punti correggere, il sistema tolemaico. A questo scopo essi avevano presto messo a punto alcuni strumenti di precisione, tra i quali senz'altro il più celebre e diffuso era l'astrolabio piano.
Questo strumento (arabo e persiano asṭurlāb, sanscrito yantrarāja) era noto ai Greci, ma fu perfezionato e diffuso dagli scienziati musulmani. Esso si basa sul principio della proiezione stereografica, sviluppata da Ipparco di Rodi (150 d.C. ca.), secondo il quale la sfera celeste è appiattita su un piano conservando gli angoli reali. Consiste in una piastra principale terrestre (arabo ṣafīḥa, 'tavoletta') con incisi i segni di meridiano e orizzonte per una specifica latitudine e le linee di altitudine (arabo al-muqanṭar, 'a ponte'), e con la serie perpendicolare che rappresenta l'azimut. Sopra è imperniata una griglia circolare increspata, la rete (arabo ῾ankabūt, 'ragno'), mappa rotante dei cieli con indicatori per segnare le varie stelle. Sul retro della piastra ci sono quadranti con tavole trigonometriche e d'altro tipo, ed è fissata l'alidada (arabo al-῾iḍāda), riga dritta con traguardi per determinare le altezze. Usualmente gli astrolabi avevano più di una piastra, sostituibili per le varie latitudini. Strumento normalmente della misura di una mano, di legno o metallo, l'astrolabio racchiudeva una forza di osservazione e calcolo enormi; esso serviva a misurare la posizione e l'altezza dei corpi celesti, a determinare il tempo e la latitudine, e a risolvere vari problemi matematici.
Come si è detto, risulta che l'introduzione dell'astrolabio in India sia dovuta a Fīrūz Šāh Tuġlūq. Alla stesura dello Yantrarāja per opera dell'astronomo jaina Mahendra Sūri si accompagnò la produzione di diversi astrolabi, di cui uno fu posto in cima al minareto più alto di Fīrūzābād. Il testo di Mahendra Sūri fu commentato dal suo allievo Malayendu Sūri (1382). Descrizioni sul funzionamento dell'astrolabio, insieme a quelle di altri strumenti, sono contenute in varie opere sanscrite tra le quali i lavori di Padmanābha (Yantraratnāvalī, La collana degli strumenti, 1400 ca.), e Rāmacandra (Yantraprakāśa, Luce degli strumenti, 1428), lo Yantraśiromaṇi (Diadema degli strumenti) di Viśrāma (1615), il capitolo sugli strumenti del Sarvasiddhāntarāja (Re di tutti i siddhānta) di Nityānanda (1639) e, per il XVIII sec., lo Yantraprakāra (Tipologia degli strumenti) di Jai Singh (1729). Naturalmente nella parallela letteratura astronomica in arabo e persiano circolante tra i dotti musulmani d'India, le descrizioni e i manuali d'uso dell'astrolabio erano un fatto ordinario, anche se la produzione di astrolabi su larga scala si ebbe solo dall'epoca di Humāyūn. La costruzione dell'astrolabio era un'arte raffinata, che richiedeva conoscenze astronomiche e abilità tecnica. Spesso era appannaggio di singole famiglie, che si tramandavano il mestiere di generazione in generazione, siglando ogni pezzo. La più importante di queste fu una famiglia di Lahore, attiva dalla metà del XVI sec. (il patriarca di nome Allāhdād) alla fine del XVII secolo. Del più prolifico, Ẓiyā᾽ al-Dīn Muḥammad (attivo nel 1645-1680) sono stati reperiti, sparsi in tutto il mondo, 32 astrolabi e 16 globi celesti.
Il globo celeste (arabo e persiano kura, 'sfera'; sanscrito bhagola) è l'altro strumento più diffuso dell'astronomia islamica. Anch'esso d'origine ellenistica, serviva piuttosto per l'insegnamento che per l'osservazione. Consiste in una sfera normalmente di bronzo su cui sono tracciati l'equatore celeste, l'eclittica e gli altri circoli. Su questo reticolo sono di norma segnate le posizioni di circa 1020 stelle fisse, secondo le coordinate di Tolomeo o le correzioni posteriori. Spesso vi sono incise raffigurazioni dei dodici segni zodiacali e di altre costellazioni. La sfera è montata su una struttura formata da due anelli, uno orizzontale (l'orizzonte locale), l'altro verticale (il meridiano). L'asse del globo è fissato sul piano del meridiano, ma può essere regolato secondo la latitudine locale; l'emisfero sopra l'anello orizzontale costituisce la porzione di cielo visibile per l'osservatore nel corso di ventiquattro ore. In epoca mughal sono talora stati prodotti tanto astrolabi quanto globi celesti con incisioni in sanscrito e scrittura devanāgarī, affiancate a quelle in caratteri arabi.
Alla cultura islamica si deve anche la fondazione di osservatori (arabo raṣad) come istituti scientifici indipendenti per l'osservazione e l'insegnamento. Dopo il primo, a Baghdad (828 ca.), guidato anche da al-Ḫwārazmī, risultati di prim'ordine furono raggiunti in quello di Marāġa (in Azerbaijan, fondato nel 1261), a lungo diretto da al-Ṭūsī, e a Samarcanda, nell'equipaggiato osservatorio di Uluġ Beg (XV sec.). Il primo tentativo di costruire un vero e proprio osservatorio in India era precedente a quest'ultimo, e si deve a un altro Fīrūz Šāh, della dinastia Bahmanide (1397-1422). Esso, tuttavia, progettato su un passo vicino Daulatabad (1407), non poté essere completato, come non lo furono quelli progettati da Humāyūn e da Šāh Ǧahān. Fu invece per Muḥammad Šāh Mughal (1719-1748) che il mahārāja Jai Singh portò a termine il suo programma su vasta scala di cinque osservatori di tipo islamico (Delhi, Benares, Mathura, Ujjain e Jaipur, 1724-1734). Oltre a un gran numero di strumenti d'uso manuale, negli osservatori di Jai Singh e in quello di Uluġ Beg fu eretta una serie di enormi strumenti in muratura: varie meridiane, strumenti azimutali, quadranti e sestanti murali. Tra essi, la più importante creazione di Jai Singh è il saṃrāṭ-yantra ('strumento supremo'), sostanzialmente una grande meridiana equinoziale costituita da uno gnomone a forma di triangolo rettangolo con l'ipotenusa parallela all'asse terrestre, cui è connesso un quadrante parallelo al piano dell'equatore. Struttura di modello antico, fu trasformata da Jai Singh in uno strumento di grande precisione per la misura del tempo e delle coordinate di un corpo celeste. Spirito aperto, Jai Singh mandò una delegazione a raccogliere informazioni in Europa, e tuttavia, legato al suo mondo di riferimento, evitò di tenere in conto le innovazioni dell'astronomia telescopica. Il telescopio, tra l'altro, era stato già usato in India nel 1651 dall'astronomo inglese Jeremiah Shakerley, a Surat, per osservare il transito di Mercurio sul Sole.
Una delle principali attività degli osservatori era la redazione di tavole astronomiche (zīǧ): posizioni di pianeti e stelle fisse, ma anche tavole per funzioni di astronomia sferica, e trigonometriche, in genere accompagnate da testi esplicativi. I zīǧ potevano essere di tipo raṣadī ('osservazionale'), preparati con i dati raccolti in un osservatorio, e di tipo ḥisābī ('computazionale'), come aggiornamento dei parametri di un zīǧ-i raṣadī precedente. Naturalmente la gran parte della letteratura zīǧ arabo-persiana era del tipo ḥisābī, e ancor più quella sanscrita derivata. A Marāġa fu redatto lo Zīǧ-i Īlḫānī (Tavole ilḫanidi, 1271), a Samarcanda l'autorevole Zīǧ-i Uluġ Beg (Tavole di Uluġ Beg, 1438), entrambi con grande diffusione nell'India islamica ‒ dove invece quelli dell'area occidentale del mondo islamico avevano meno corso ‒, copiati e utilizzati per tavole ulteriori. Tuttavia il primo zīǧ indiano era stato compilato addirittura prima di quello ilḫanide: si tratta dello Zīǧ-i Nāṣirī redatto in onore di Sulṭān Nāṣir al-Dīn Maḥmūd (1246-1265). Ancora d'epoca pre-mughal è lo Zīǧ-i Ǧāmi῾ Maḥmūd Sāh Ḫilǧī (Tavole universali di Maḥmūd Sāh Ḫilǧī, 1462), fondato sullo zīǧ di Marāġa. Sullo Zīǧ-i Uluġ Beg era invece fondato lo Zīǧ-i Šāhǧahānī (Tavole di Šāh Ǧahān, 1629 ca.) tradotto in sanscrito da Nityānanda. Dopo lo Zīǧ-i Muḥammad Šāhī (Tavole di Muḥammad Šāh, 1728), compilato in persiano, confrontando anche le Tabulae astronomicae di La Hire (Parigi 1687-1702), dagli astronomi di Jai Singh ‒ forse il suo lascito più prezioso circolato anche in Asia centrale ‒, la piccola schiera dei suoi successori ha prodotto ancora zīǧ in persiano sino alla metà del XIX sec., singolarmente però tornando in diversi casi a rivolgere l'attenzione alla tradizione sanscrita, integrandone i materiali, in una sorta di incertezza o di revival al momento del definitivo impatto della scienza europea.
di Mario Casari
Strettamente connessa all'osservazione astronomica fu fin dall'inizio la scienza geografica, nella quale i Musulmani furono i maestri del Medioevo. In questo campo il contrasto con la cultura indiana era grande quanto l'ampiezza e la varietà transcontinentale del Dār al-Islām rispetto alla sacca autosufficiente del subcontinente. La geografia islamica era sia una scienza matematica, radicata nell'osservazione celeste ed espressa specialmente in una raffinata cartografia e nell'arte della navigazione, sia una scienza naturale, poggiata sull'osservazione terrestre, con sbocchi in geologia, mineralogia, botanica e zoologia, ma anche, ad ampio raggio, in antropologia e storiografia. Il Kitāb al-Hind di al-Bīrūnī è un po' tutto questo, espresso con precisa metodologia d'indagine. Vi sono dati esatti sulle coordinate di molti luoghi dell'India, osservazioni sulla natura fisica, un repertorio di flora e fauna, un'approfondita descrizione della società indiana, della cultura e dei costumi, alcune note storiche. L'osservazione attenta del bacino del Gange gli rivela la sua natura sedimentaria, e l'idea che l'India fosse un tempo un mare poi riempito dai detriti trasportati dai fiumi. La sua prima descrizione di un rinoceronte avrebbe in seguito suscitato numerose teorie, tra cui quella che si trattasse di un incrocio tra un cavallo e un elefante. Accompagnatore di Maḥmūd, il grande islamizzatore, non rinunciò a compiere una dettagliata descrizione della religione indiana. Al-Bīrūnī, tra l'altro, sostenne che il mare Indiano doveva comunicare con l'Atlantico attraverso stretti situati a sud delle sorgenti del Nilo; egli teorizzava cioè la possibilità di circumnavigare l'Africa, che i Portoghesi avrebbero affrontato in seguito.
L'India di al-Bīrūnī, eccellente per completezza e scientificità d'approccio, non ha avuto epigoni o aggiornatori tra i pur molti dotti musulmani d'India. In particolare l'India islamica non ha avuto una rilevante produzione in questo ampio campo di geografia e scienze naturali durante il Sultanato. Menzionabile è il poema persiano Nuh sipihr (Le nove sfere, 1318) dell'erudito Amīr Ḫusraw da Delhi: romanzo a traccia storiografica contenente elementi di botanica e zoologia indiana, e una esauriente descrizione di cultura, costumi, lingue dell'India medievale. La posizione di Ḫusraw appare un significativo aggiornamento di quella di al-Bīrūnī. Musulmano con propensioni mistiche, fu nemico dell'induismo politico, ma grande amante dell'India e della sua cultura, di cui sosteneva la superiorità su tutte le altre. Nel Nuh sipihr egli individua nella matematica, nella favolistica morale e negli scacchi il grande contributo indiano alla civilizzazione universale.
La fioritura indo-musulmana degli studi geografici e naturalistici coincise piuttosto, al solito, con l'epoca mughal, allorché si risvegliò, in ritardo sul resto del mondo islamico, un approccio alle scienze di taglio enciclopedico. Opera cardinale, poliedrico strumento per la conoscenza dell'India mughal, è lo āīn-i Akbarī (L'istituzione di Akbar) di Abū al-Faẓl ῾Allāmī (m. 1602). Delle tre sezioni, la prima riguarda da vicino la corte e l'amministrazione imperiale, il tesoro, i metalli preziosi e il conio, le raffinatezze regali, con le arti connesse, gli animali d'uso, l'edilizia e poi l'esercito, la struttura educativa, la caccia e i giochi tipici. La seconda sezione è una descrizione geografica delle dodici regioni (ṣūba) in cui era diviso l'impero. La terza sezione, di grande interesse, concerne l'India tradizionale nel suo insieme, vista con l'occhio di un musulmano di tendenze sincretistiche, che ne illustra la cosmogonia, la scienza astronomica, la concezione terrestre, la flora, la fauna, e i popoli, le scuole di pensiero, i costumi e i santi, con un capitolo sulle grandi personalità storiche giunte in India. Caratteristici erano i trattati di zoologia dedicati a specie animali prediletti dagli ambienti di corte. Dei molti trattati di ippologia (Faras-nāma o Ḫayl-nāma, Libro dei cavalli), si è sostenuto che non pochi fossero traduzioni, oltre che di testi greci, di testi sanscriti. Essi discutevano le proprietà del cavallo, il suo addomesticamento e le malattie insieme alle terapie. I trattati di falconeria (Bāz-nāma), di grande importanza nella tradizione regale, venivano spesso retrodatati, all'epoca di Alessandro Magno, o addirittura del mitico re persiano Ǧamšīd. Anch'essi erano di natura pratica, e si soffermavano particolarmente sulle malattie. Celebri Bāz-nāma furono redatti per Akbar (da Muḥibb ῾Alī ḫĀn ḫĀṣṣmaḥallī, m. 1581) e per Awrangzīb. Oggetto di trattati nell'India musulmana furono anche gli elefanti, possenti guerrieri (fīl-nāma), e i piccioni (kabutar-nāma), usati soprattutto per la corrispondenza. Per tale tipo di comunicazione, l'arte calligrafica arabo-persiana raggiungeva vertici di precisione e minuzia. Analogamente l'approccio alla botanica e alla mineralogia era di tipo pratico e confacente alle esigenze dell'amministrazione del paese o della corte. Di un vasto Risāla-i naḫlbandīya (Trattato sulla coltivazione delle piante) di Amānallāh al-Ḥusaynī (m. 1636) è rimasto un estratto. Per i sovrani venivano stilati grandi Ǧawhar-nāma (Trattati sulle pietre preziose), o volumetti tematici come il trattatello sulle perle di Šayḫ Ḥazīn Iṣfahānī (m. 1794), ultimo poeta persiano migrante in India.
Più originale, e in un certo senso premoderna, fu l'attitudine all'osservazione naturalistica degli stessi sovrani mughal. Precursore fu già il fondatore, Bābur, le cui Memorie, scritte in turco ma presto tradotte in persiano, contengono numerose annotazioni su fiori, frutti, animali e uomini della terra che stava conquistando, appuntate anche in brevi pause di campagna militare. Pure a Humāyūn e Akbar è attribuita grande passione naturalistica, specie per il collezionismo zoologico; il serraglio di Akbar era tra i più vasti al mondo nella sua epoca. Tuttavia la figura di maggior rilievo in questo campo fu Ǧahāngīr, le cui memorie in persiano (Tūzak-i Ǧahāngīrī, Istituzione di Ǧahāngīr) costituiscono quasi una vera e propria 'storia naturale' elaborata per esperienza diretta. La sua capacità di osservazione e descrizione sistematica tende alla classificazione in senso moderno. Di ogni organismo osservato fornisce i nomi locali, la distribuzione geografica, le caratteristiche strutturali quali il peso e la misura, e note interessanti su ecologia e comportamento. Contributi originali sono uno studio sul periodo di gestazione dell'elefante, e la sua indagine, pur occasionale, sulla posizione della cistifellea negli animali cacciati che spesso dissezionava. Sotto di lui fu sviluppata una ritrattistica animale e floreale molto accurata.
Nella continua sovrapposizione di generi letterari tipica del Medioevo, molto materiale afferente alla geografia e alle scienze naturali poteva essere inglobato nei generi più vari. Tipicamente la storiografia ‒ specie le storie universali ‒ era un catalizzatore d'informazioni scientifiche di molteplici settori, soprattutto in connessione con l'esplorazione territoriale. Vale soltanto la pena di osservare che la produzione storiografica in persiano dell'India musulmana costituisce la gran parte della storiografia persiana tout court, un patrimonio ricchissimo ancora in gran parte da indagare. Esso è anche un lascito particolare, sorto per mano musulmana in una terra cui lo stesso concetto di 'storia' in certa misura mancava.
di Fabrizio Speziale
Il ṭibb-i yūnānī è il sistema medico introdotto in India in seno alla cultura islamica; come indica il nome, dall'arabo ṭibb ('medicina') e yūnānī ('ionico' o 'greco'), la tradizione yūnānī attinse i propri fondamenti dottrinali dalla medicina galenica. Il corpus teorico galenico esercitò un influsso essenziale sulla scienza medica araba, affine a quello che la medicina greco-araba ebbe diversi secoli più tardi nelle università europee del Medioevo e nella medicina yūnānī in India. Le teorie galenica e indiana erano giunte in contatto diversi secoli avanti la conquista musulmana dell'India, all'epoca dell'accademia di Jundishapur (VI sec.), la quale a seguito della chiusura della scuola d'Atene ordinata da Giustiniano nel 529 divenne un importante crogiolo d'incontri fra medici greci, persiani e indiani. L'epoca aurea della medicina greco-araba si ebbe durante il califfato degli Abbasidi (IX-XIII sec.). In quest'epoca l'interesse degli Arabi per la medicina indiana è testimoniato da alcuni eventi. Il califfo Hārūn al-Rašīd (m. 813) invitò alla corte di Baghdad diversi vaidya indiani, come Manakya (o Manka) e Ibn Dhān, i quali furono incaricati di tradurre classici di medicina dal sanscrito in arabo e in persiano (Carakasaṃhitā, Suśrutasaṃhitā e altri). Rabban al-Ṭabarī, nel Firdaws al-ḥikma (Il Paradiso della saggezza), composto nell'850, dedicò un'intera sezione alla medicina indiana. Lo sviluppo della medicina yūnānī in India, regione d'origine della millenaria tradizione dell'āyurveda e dei siddha, è connesso al patrocinio accordato dai regnanti musulmani a tale disciplina e alle personalità degli ḥukamā᾽ ('medici yūnānī', sing. ḥakīm)' che giunsero dall'Asia centrale. Molti personaggi e famiglie che ebbero un ruolo vitale nello sviluppo della medicina e della cultura islamica indiana arrivarono dai centri culturali dell'Asia centrale e della Persia come Bukhara, Samarcanda, Shiraz, Jilan. Gli ḥukamā᾽ discendevano sovente da famiglie di nobili (sayyid e ašrāf), padroneggiavano l'arabo, il persiano, e oltre alla medicina acquisivano una salda istruzione nelle discipline religiose e scientifiche. Lo ḥakīm, il 'medico' o 'saggio', incarnò l'archetipo del sapiente in tutta la storia della scienza islamica. Molti medici yūnānī in India furono anche poeti, uomini di stato, storici, ṣūfī, nonché versati nelle scienze secolari. Le famiglie di ḥukamā᾽ e le loro cliniche (maṭab) ebbero un ruolo essenziale nel veicolare la trasmissione del sapere yūnānī in India, fino all'istituzionalizzazione del sistema educativo avvenuta in epoca moderna.
La medicina yūnānī fu introdotta nel subcontinente indiano nel XII sec. a Lahore, conquistata da Ḫusraw Šāh, della dinastia ġaznavide. Dal XIII sec., l'irruzione dei Mongoli in Asia centrale favorì la migrazione di scienziati e teologi in India. Il primo testo noto di medicina yūnānī scritto in India fu la traduzione in persiano della farmacopea al-Kitāb al-Ṣaydala (Il libro della farmacologia) di al-Bīrūnī, realizzata da Abū Bakr ῾Uṯmān Kāsānī durante il regno del primo sultano di Delhi Iltutmish (1211-1236). All'epoca del sultano ῾Alā᾽ al-Dīn Ḫalǧī (m. 1316), secondo lo storico Ferišta, 45 eminenti ḥukamā᾽ erano impiegati nel Sultanato di Delhi e fra questi vi erano chirurghi e oftalmologi. Durante la successiva dinastia dei Tuġluq si realizzarono i primi notevoli progressi in ambito pubblico. Durante il regno di Muḥammad ibn Tuġlūq (1325-1351), a Delhi vi erano non meno di settanta cliniche dove erano impiegati 1200 ḥukamā᾽. Durante il suo regno, Ẓiyā᾽ Muḥammad ῾Umar ġaznawī compose il Maǧmū῾a-yi Ẓiyā᾽ (La Collezione di Ẓiyā᾽), basato su testi classici come il Canone di Avicenna, le opere sulla materia medica di Galeno, i testi di al-Bīrūnī e al-Ṭabarī. Ẓiyā᾽ al-Dīn Naḫšabī (m. 1350), noto ṣūfī, poeta e autore del Ṭūṭī-nāma (I racconti del pappagallo), compose i Čihal nāmūs o 'Quaranta capitoli' sulla descrizione di un numero eguale d'organi e parti del corpo umano. Fīrūz Šāh Tuġluq (1351-1388) edificò altri ospedali, alcuni dei quali mobili. Durante il regno di Sikandar Šāh Lōḏī (m. 1517), Miyān Bhūwah compose il Ma῾dan al-šifā᾽-i Sikandar Šāhī (La fonte della cura di Sikandar Šāh), un trattato in persiano sulla medicina indiana il cui indice fu tradotto in latino nel 1833. Sebbene l'istruzione della medicina yūnānī fosse impartita in prevalenza nelle cliniche familiari, durante l'epoca del Sultanato di Delhi furono istituite le prime scuole per l'insegnamento del tibb-i yūnānī. Cliniche e scuole, al termine dei corsi, rilasciavano agli studenti un certificato (sanad) per l'esercizio della professione.
Durante l'epoca pre-mughal la medicina yūnānī fu introdotta anche in altre regioni dell'India. Maḥmūd Ḫalǧī edificò nel 1442 a Mandu un ospedale con un ampio ḥammām, nel quale era data assistenza anche ai malati di mente. A Bidar (Deccan), il sultano bahmanide ῾Alā᾽ al-Dīn II (m. 1457) edificò un grande ospedale dove esercitavano sia medici yūnānī, sia āyurvedici; il che fa supporre che in quest'epoca solo gli hindu di caste inferiori si rivolgevano agli ḥukamā᾽ musulmani mentre quelli delle caste superiori erano visitati da medici āyurvedici. La medicina yūnānī fu introdotta in Kashmir durante il regno del sultano Zayn al-᾽Abidīn (m. 1467), che di ritorno da Samarcanda recò con sé ḥukamā᾽ e ostetriche. Si ritiene che in quest'epoca Manṣūr ibn Faqīh Ilyās compose il Tašrīḥ-i Manṣūrī (L'anatomia di Manṣūr), un noto trattato d'anatomia (Jaggi 1977). In Gujarat il re Maḥmūd Bīgarhā (m. 1511) istituì un dipartimento per la traduzione d'opere dall'arabo e sanscrito in persiano, dove, oltre a testi di medicina araba, fu tradotto il testo indiano Aṣṭāṅgahṛdayasaṃhitā (Raccolta del cuore delle otto membra [della medicina]).
Durante l'epoca dell'Impero mughal (1526-1857), la medicina yūnānī toccò l'apogeo del suo sviluppo, sostenuto dalla politica statale a favore della creazione di un ampio sistema ospedaliero. In ambito educativo, furono istituite diverse accademie, annesse agli ospedali, per l'insegnamento della medicina yūnānī. Nel XVI sec., l'instabilità sociale che segnò l'avvento dell'impero Safavide in Persia favorì lo spostamento d'altri ḥukamā᾽ verso l'India, attratti anche dalle considerevoli opportunità economiche e politiche a loro riservate. La diffusione delle opere composte da ḥukamā᾽ indiani in questo periodo è ampiamente testimoniata dai manoscritti che si rinvengono finanche nelle biblioteche di Samarcanda e Venezia.
Durante il regno di Bābur (1526-1530) giunse in India Ḥakīm Yūsuf al-Harāwī, autore di rinomate opere mediche in poesia e prosa. L'imperatore Akbar (m. 1601) edificò un grande ospedale e una scuola di medicina nella nuova capitale Fatehpur Sikri, in parte ancora visibile. Il più celebre ḥakīm dell'epoca di Akbar fu ῾Alī Ǧīlānī (m. 1610), che ebbe il titolo di Ǧālīnūs-i zamān, il 'Galeno dell'epoca', fu anche un matematico e scrisse un autorevole commentario in quattro volumi al Canone della medicina di Avicenna. In quest'epoca vissero alcuni noti chirurghi, come quelli della famiglia di Šayḫ Aḥmad Sirhindī; dalla Persia arrivò in India Ḥakīm Muẓaffar ibn Muḥammad al-Ḥusaynī al-Šifā᾽ī, autore della celebre Qarābādīn-i Šifā᾽ī (Farmacopea di Šifā᾽ī), della quale si servì padre Angelo da Tolosa per la composizione della sua Pharmacopea Persica, pubblicata in latino nel 1680. Ǧahāngīr (m. 1627), salendo al trono, emanò un editto nel quale ordinava di edificare ospedali nelle città dell'impero, di dotarli di medici e di fornire assistenza a spese del Tesoro di Stato. Secondo le fonti musulmane, il culmine dello sviluppo del ṭibb-i yūnānī in epoca mughal fu raggiunto durante il regno di Šāh Ǧahān (1628-1658). Il principe Dārā Šikūh raccolse attorno a sé numerosi scienziati e medici; Nūr al-Dīn Muḥammad Šīrāzī gli dedicò il ṭibb-i Dārāšikūhī (La scienza medica di Dārā Šikūh), che fu l'ultima importante enciclopedia medica scritta nel mondo islamico e contiene anche buona parte della farmacopea āyurvedica. Šāh Ǧahān edificò un grande ospedale alle spalle della Ǧāma᾽-i Masǧid, la maggiore moschea di Delhi, dove fu istituita anche una scuola di medicina. Satī al-Nisā᾽ (m. 1646) fu la più importante figura di ṭabība o ḥakīm donna dell'epoca. Durante il regno di Awrangzīb (m. 1707) visse il famoso ḥakīm Akbar Arzānī autore di opere come il Ṭibb-i Akbarī (La scienza medica di Akbar) e Qarābādīn-i Qādirī (La farmacopea [dedicata ad] ῾Abd al-Qādir al-Ǧīlānī), divenuti libri di testo del curriculum di studi yūnānī. Šayḫ Kalīm Allāh Ǧahānābādī (m. 1729) scrisse un commento in arabo al Canone di Avicenna. Durante quest'epoca, nobili e nawāb edificarono ospedali nei loro territori, come quello di Itawa. La medicina yūnānī fu sostenuta anche durante il periodo di decadenza degli ultimi imperatori mughal.
In epoca mughal, oltre che nell'India settentrionale, essa ebbe un rilevante sviluppo nei Sultanati del Deccan e nel sud dell'India. I Quṭb Šāhī di Golconda, fondando la nuova capitale Hyderabad, nel 1595 eressero un ospedale nel quale fu istituita un'accademia di medicina, i cui resti sono ancora visibili. Il più celebre ḥakīm del Deccan dell'epoca fu Mīr Mu'min (m. 1624), un ṣūfī sciita nato ad Astarabad che fu primo ministro del regno dei Quṭb Šāhī e disegnò il piano urbanistico di Hyderabad oltre a scegliere il sito del nuovo ospedale. Mīr Mu'min scrisse due importanti opere: Iḫtiyārāt-i Quṭb Šāhī (Le selezioni di Quṭb Šāh) e Risāla-yi miqdāriyya (Il trattato delle misure). Il primo è un trattato basato sull'edizione critica della nota farmacopea Iḫtiyārāt-i Badī᾽ī (Le selezioni mirabili) di Zayn al-Dīn al-Anṣārī conosciuto come Zayn al-῾Aṭṭār (m. 1403). Ḥakīm al-Mulk Aḥmad Ǧīlānī (m. 1649), un allievo del mistico e scienziato persiano Bahā᾽ al-Dīn al-᾽Amilī (m. 1621), fu autore di due opere mediche a carattere enciclopedico: Maǧmū᾽a-yi Ḥakīm al-Mulk (La collezione di Ḥakīm al-Mulk) e Šaǧara-yi Dāniš (L'albero della scienza). Šams al-Dīn ῾Alī ibn al-Ḥusayn tradusse e commentò in persiano la Taḏkirat al-kaḥḥālīn (Il memoriale degli oculisti) di ῾Alī ibn ῾Isā Kaḥḥāl (XI sec.); questo commento divenne il più autorevole trattato d'oftalmologia dell'India musulmana. Nel XVI sec. la medicina yūnānī si sviluppò anche nei Sultanati di Ahmadnagar e Bijapur. Il celebre storico dell'India musulmana Ferišta (m. 1623 ca.), vissuto a Bijapur, fu anche ḥakīm e autore del Dustūr al-aṭibbā᾽ (La regola dei medici), opera nella quale sostenne che i medici yūnānī dovevano giovarsi della conoscenza della medicina āyurvedica. Nel XVIII sec. la medicina yūnānī fu introdotta nell'India meridionale, a Mysore, sotto il regno di Ḥaidar ῾Alī e Tipū Sulṭān, e dai Nawāb di Arcot. Ḥakīm Iskandar ibn Ismā῾īl Yūnānī compose la Qarābādīn-i Iskandarī (La farmacopea di Iskandar) e altre opere basate sulla nomenclatura della letteratura medica in siriaco, lingua nella quale erano composte le più antiche traduzioni delle opere di autori greci e latini. Nel 1700 si assiste alla compilazione dei primi testi noti di medicina yūnānī in sanscrito, il Hikmatprakāśa e il Hikmatpradīpa di Mahādeva.
Fino a quest'epoca sia la medicina yūnānī sia quella europea si basavano sull'autorità della teoria galenica. Il nesso fra le due tradizioni mediche si rileva, per esempio, dalle narrazioni di viaggiatori e medici europei che, alle corti dei re indiani, eseguivano anche interventi analoghi a quelli dei medici yūnānī, come il caso del veneziano Niccolao Manucci, che operò una flebotomia a una donna dell'harem di ῾Abū al-Ḥasan Quṭb Šāh di Golconda (fine del XVII secolo). Dall'inizio del XIX sec. l'introduzione del microscopio, i progressi in microbiologia, e così via, uniti al favore accordato dai colonizzatori inglesi ai medici occidentali, indussero un considerevole scarto fra le due medicine. Perso anche il supporto dei monarchi musulmani, la medicina yūnānī cadde in un periodo di decadenza che fu seguito da un fenomeno di rinascita. Dalla seconda metà del XIX sec., la medicina yūnānī divenne uno degli elementi culturali del risveglio della coscienza sociale dei musulmani indiani. Note personalità della cultura dell'epoca s'interessarono di medicina yūnānī, come il celebre poeta ġĀlib, Ahl Allāh, fratello di Šāh Wāli Allāh Dihlawī, e gli esponenti dell'accademia di Deoband, dove il ṭibb-i yūnānī fu incluso nel curriculum degli studi. Dal XIX sec. i testi di medicina yūnānī iniziarono a essere tradotti e scritti in urdu. A Delhi Ḥakīm Aǧmal ḫĀn (1863-1927) fondò la prima farmacia per la produzione di medicine yūnānī su larga scala e nel 1921 inaugurò lo 'Ayurveda and Yunani Tibbia College', alla presenza di Gandhi. A Hyderabad, dove in epoca coloniale il potere amministrativo restò nelle mani dei Niẓāmī, nel 1932 fu ultimato lo Šifā᾽-ḫāna Niẓāmī, ancora oggi fra i più grandi ospedali yūnānī del subcontinente indiano. Un altro importante centro di studi fu Lucknow, la cui scuola si oppose al diffondersi della tendenza al sincretismo fra tradizione yūnānī e medicina occidentale, sostenuta dalla scuola di Delhi. Dopo l'indipendenza lo Stato adottò una politica tesa a utilizzare le risorse delle medicine tradizionali indigene e negli ultimi trent'anni gran parte del sistema ospedaliero, educativo e farmaceutico yūnānī è stato statalizzato. Nel Novecento i medici yūnānī, al fine di sostenere la competizione con la tecnologia occidentale, nonché influenzati dal dilagare del pensiero modernista nell'Islam indiano, iniziarono a introdurre metodi della medicina occidentale nel proprio sistema. Già dalla fine del XIX sec., critiche d'ispirazione modernista ai principî della dottrina galenica furono sollevate dai ranghi della stessa tradizione yūnānī. Tale scelta, se da un lato ha indotto una maggiore competitività della medicina yūnānī, dall'altro lato ha causato la decadenza di vari principî e metodi tradizionali come quelli chirurgici e quelli diagnostici. Malgrado questi e altri limiti, il contributo più rilevante dato dalla medicina yūnānī nel XX sec. è l'aver consentito la continuità del sistema galenico nell'epoca in cui esso si estingueva nei luoghi che lo avevano originato, ossia Mediterraneo, paesi arabi e Persia. Nell'ultimo secolo un analogo fenomeno di rinascita della medicina yūnānī si è verificato in altri paesi del subcontinente indiano, rilevante il caso del Pakistan e anche del Bangla Desh e Sri Lanka.
La fisiologia umorale greca, adottata dai grandi medici arabi e persiani, fu il sistema teorico sul quale si basò la medicina yūnānī in India. La dottrina yūnānī si fonda sull'esistenza di quattro elementi (fuoco, acqua, aria e terra), quattro qualità o nature (caldo, freddo, umido, secco) e quattro umori (āḫlāṭ). Gli umori si distinguono in relazione alle qualità naturali che li denotano: il sangue (damm o ḫūn) caldo e umido; il flegma (balġam) freddo e umido; la bile gialla (ṣafrā᾽) calda e secca; la bile nera, o umore atrabiliare (sawdā᾽), fredda e secca. Gli umori sono un prodotto dei processi digestivi in quanto il cibo è scaldato dal calore naturale nello stomaco e trasformato in diverse sostanze; quelle utili sono processate una seconda volta nel fegato e quindi trasferite dal sangue agli organi, quelle residue sono evacuate. Il sangue è dunque un composto dei quattro umori. Secondo Ippocrate la salute coincideva con la condizione di perfetto equilibrio (eukrasìa) degli umori. Secondo la visione di Galeno, fatta propria dagli Arabi, il perfetto equilibrio degli umori è solo uno stato ideale e ogni uomo, influenzato da fattori come clima, sesso, età e stile di vita, tende verso la specifica dominanza di uno degli umori. Questa condizione d'imperfetto equilibrio degli umori, determina il mizāǧ, il 'temperamento' dell'uomo. In relazione alla dominanza di uno degli umori vi sono persone di temperamento sanguigno, flemmatico, bilioso e melancolico, comunque la particolare commistione del temperamento di ognuno è unica. Similmente nel corpo vi sono organi di temperamento caldo, freddo, umido e secco. L'uomo, oltre che un composto d'organi e fluidi somatici, è il ricettacolo di una facoltà spirituale, o pneuma (rūḥ), composta da un aggregato di spiriti (arwāḥ). Vi sono tre arwāḥ: il vitale (al-rūḥ al-ḥayawānī), che ha sede nel ventricolo sinistro del cuore, di natura calda e secca; il naturale (al-rūḥ al-ṭab῾ī), che ha sede nel fegato, caldo e umido; lo psichico (al-rūḥ al-nafsānī), che ha sede nel cervello ed è freddo e umido. Questi spiriti governano molteplici funzioni vitali, involontarie, d'accrescimento, riproduttive, nervose e percettive. La salute equivale alla conservazione dello stato di relativa armonia degli umori che denota il temperamento. Nell'uomo vi è un'energia naturale, la ṭabī᾽a, o vis medicatrix naturae, garante del controllo omeostatico del mizāǧ, e quindi della conservazione della salute. Quando la vis medicatrix si debilita il medico deve somministrare i farmaci adatti, la cui corretta funzione è promuovere il ripristino del naturale esercizio della ṭabī῾a. Secondo il sistema yūnānī vi sono 'sei fattori essenziali', in persiano sitta-yi ẓarūriyya, dai quali dipendono salute e infermità: qualità dell'aria; di cibo e bevande; movimento e quiete del corpo; movimento e riposo psichico; ciclo veglia-sonno; ritenzione ed evacuazione.
La teoria umorale informò non soltanto la fisiologia ma anche i principî della patologia, della diagnostica e della terapia. La malattia nella medicina yūnānī è sinonimo di temperamento alterato e la terapia si fonda sul principio del contraria contrariis. Ogni malattia, essendo un eccesso di uno o più umori, si classifica come calda, fredda, umida o secca; similmente, a seconda del suo effetto sull'organismo umano, ogni farmaco, cibo o sostanza presenta un temperamento caldo, freddo, e così via. In tal modo, una malattia fredda è curata con un farmaco caldo, una fredda-umida, dovuta a un eccesso di flegma, con un farmaco caldo-secco. Il sistema diagnostico comprende l'analisi del polso, delle urine, delle feci e l'ispezione fisico-clinica del corpo. Il fine di questi metodi è determinare con accuratezza il temperamento normale di un paziente e discriminare l'alterazione dovuta alla qualità della malattia. Le prassi terapeutiche del sistema yūnānī possono essere così suddivise: regimentale, dietoterapia, farmacoterapia, chirurgia. I metodi regimentali sono il massaggio, lo ḥammām ('bagno turco'), la fomentazione, l'emesi, la purgazione e l'enteroclisi. La farmacoterapia era la più diffusa via di trattamento laddove la chirurgia era adoperata soltanto come ultima risorsa. Gli interventi chirurgici più frequenti erano flebotomia, salasso e cauterizzazione, ma i chirurghi yūnānī furono anche abili nell'eseguire operazioni cesaree, rimozione di tonsille e interventi agli intestini, ai denti e alle gengive. Particolare attenzione fu data all'aspetto etico della professione medica, in quanto la condotta del medico influenza la reazione psichica del malato. In tal senso il medico deve avere fiducia in Dio, essere pulito e in ordine, avvicinarsi al malato con calma, e così via. Sebbene la cura dei disturbi psichici si basasse anche sul trattamento farmacologico, lo ḥakīm non di rado doveva adoprarsi come psicoterapeuta, pratica attestata in letteratura da diversi casi clinici di deliri e disturbi psicosomatici curati con elaborate terapie comportamentali.
In ambito teorico, la medicina yūnānī rimase strettamente ancorata all'autorità del modello galenico senza addurre revisioni e, nonostante la traduzione di opere sanscrite, nessun contatto teorico si realizzò con la scuola āyurvedica. La disciplina nella quale la medicina yūnānī ebbe in India il maggior sviluppo fu la farmacologia. In questa disciplina avvennero i maggiori contatti con la tradizione āyurvedica, tanto che al giorno d'oggi le due farmacopee sono in alcuni punti alquanto simili. L'interesse per la farmacopea āyurvedica fu alimentato da necessità d'ordine pratico. Già nel 1512 Myān Bhūwah ḫĀn, nel suo Ma᾽dan al-šifā᾽, osservava che i nomi delle medicine yūnānī erano in persiano e greco, lingue sconosciute agli Indiani, che sovente i medici yūnānī incontravano difficoltà nel reperire le medicine delle quali avevano bisogno e che, inoltre, alcune delle piante utilizzate non crescevano in India. La ricerca lessicale in farmacologia e la vasta opera di traduzione dall'arabo e in misura minore dal sanscrito, in persiano e poi in urdu, sono fra gli aspetti culturali più rilevanti del retaggio yūnānī in India. Il trattato di medicina araba che ebbe la maggiore influenza e diffusione in India, come in Europa, fu il Qānūn fī al-ṭibb (Canone della Medicina) di Ibn Sīnā (Avicenna, m. 1037).
L'opera fu tradotta in persiano e poi in urdu. In India furono composti diversi commentari in persiano del Canone e anche traduzioni e commentari di uno dei suoi più celebri compendi, il Qānūncha di al-Čaġmīnī. Gli ambiti nei quali la medicina yūnānī diede importanti apporti all'āyurveda furono la diagnostica, con l'esame del polso, e la farmacologia, con l'uso di anestetici come l'oppio e di alcuni composti metallici. In campo sanitario, il rilevante contributo dato dalla medicina yūnānī a quella indiana fu l'introduzione del concetto d'ospedale pubblico basato sul modello arabo. A ospedali e accademie a questi annesse i monarchi assegnavano i ricavi delle imposte di ricchi villaggi, mediante l'istituzione di waqf. L'istituzione di ospedali contribuì a diffondere la popolarità e il ricorso alla medicina yūnānī fra i ceti indiani non musulmani, un costume diffuso anche oggigiorno. Un'altra disciplina che ebbe in India un significativo sviluppo fu la veterinaria, sostenuta dalla passione naturalistica e venatoria dei regnanti musulmani, nonché dalle esigenze della macchina bellica.
La medicina yūnānī in India mantenne in vita e alimentò la connessione fra medicina e scienze esoteriche; questo è attestato dai testi yūnānī scritti in India che contengono elementi d'astrologia e preparazioni alchemiche. In base alle corrispondenze fra macrocosmo e microcosmo l'astrologia era sovente ritenuta parte integrante della medicina. Le dodici case dello Zodiaco erano ripartite in tre gruppi che si accordavano con i quattro elementi, le qualità naturali e gli umori del corpo.
In India divenne popolare anche un'altra tradizione medica d'origine araba e religiosa, il ṭibb-i nabawī, la 'medicina profetica'. I detti del profeta Muḥammad includono diverse considerazioni su argomenti eterogenei di medicina, che dal IX sec. furono raccolti in volumi e commentati da vari autori. In India furono tradotte e composte varie versioni della medicina profetica, anche da medici yūnānī; Akbar Arzānī scrisse una versione del ṭibb-i nabawī in persiano basata sull'opera in arabo di al-Suyūṭī (m. 1505, Egitto); Ḥakīm ġulām Imām compose il Mu-῾ālaǧat-i nabawī (La cura profetica), una farmacopea basata su tradizioni ascritte al profeta che, caso forse unico nel suo genere, includeva anche le sostanze della tradizione indiana. La medicina profetica esercitò una rilevante influenza sui metodi della 'guarigione spirituale' (῾ilāǧ-i rūḥānī) professata in seno al misticismo ṣūfī. In quest'ambito i principî del ṭibb-i nabawī furono combinati con quelli del ǧafr, un sistema di calcolo basato sull'abǧad e l'interpretazione esoterica del Corano, che consentiva di comporre formule e quadrati magici a uso terapeutico. Un celebre manuale indiano sul metodo ṣūfī comprendente numerose descrizioni al proposito è il Ǧawāhir-i ḫamsa (Le cinque gemme) di Muḥammad ġawṯ Gawālyārī (m. 1562). In ambito sciita, in India, vi fu una cospicua diffusione di libri sulla medicina basati sui detti degli Imām, e in particolare quello attribuito all'ottavo Imām, ῾Alī al-Riḍā, intitolato Risāla-yi ḏahabīyya (Il trattato aureo).
di Fabrizio Speziale
L'alchimia, dall'arabo al-kīmiyā᾽, raggiunse nella cultura arabo-islamica un elevato livello d'elaborazione più di quattro secoli prima della comparsa di una tradizione alchimistica di matrice indo-islamica. Nell'alchimia, come in altri ambiti, gli scienziati arabi furono ben disposti a raccogliere l'eredità di culture antecedenti se tale eredità si poteva ricondurre alla saggezza dei primi profeti monoteisti. Gli Arabi adottarono la teoria alchimistica sviluppata in epoca alessandrina, che formulò la cosmologia egiziana del dio Theuth e di Ermete Trismegisto nel linguaggio della filosofia greca. Gli alchimisti arabi identificarono spesso Ermete Trismegisto con il profeta antidiluviano Idrīs (in arabo), il biblico Enoch. L'alchimia nel mondo arabo sorse poco dopo la nascita dell'Islam, all'epoca in cui visse il celebre alchimista Ǧābir ibn Ḥayyān al-Ṣūfī (m. 815 ca.), il latino Geber; il corpus di opere attribuito alla sua scuola fondò l'alchimia araba ed ebbe una vasta influenza su quella europea. Gli alchimisti arabi, nelle loro opere, si riferivano spesso a testi e detti attribuiti a saggi a loro anteriori e ritenuti maestri dell'arte, come Adamo, Mosè e sua sorella Maria, Pitagora, Archelao, Platone, Aristotele, Galeno, Apollonio di Tiana, i saggi della Persia, Mani e un indiano di nome Biyān. La Ḏaḫīrat al-Iskandar (Il tesoro d'Alessandro), opera della quale in India si conservano vari manoscritti, a prescindere dall'attendibilità degli eventi, è indicativa del complesso cammino di trasmissione della conoscenza che l'alchimia ha seguito nella tradizione ermetica ed araba. L'opera, ascritta a Ermete, era stata da questi seppellita in un sotterraneo affinché si salvasse dal diluvio; poi fu rinvenuta da Balīnūs (Apollonio di Tiana), che la affidò ad Aristotele, il quale, a sua volta, la dedicò al suo discepolo Alessandro Magno. L'alchimia araba fu introdotta in India nel XII-XIII sec., la stessa epoca nella quale in Europa apparivano le prime traduzioni in latino di opere arabe, come la Turba philosophorum.
Alcune fonti testimoniano la conoscenza dell'alchimia indiana da parte dei Musulmani. La più antica è quella di al-Bīrūnī (m. 1051 ca.), che nel Kitāb al-Hind (v. par. 1), esprime nel complesso un giudizio critico dell'alchimia indiana, e menziona Patañjali, Nāgārjuna, il rasāyana, i processi di sublimazione, calcinazione e preparazione del talco degli alchimisti indiani. Gli alchimisti musulmani, in India, ebbero un certo interesse verso l'alchimia indiana, sebbene l'opera di traduzione dal sanscrito, in quest'ambito, abbia avuto un'ampiezza minore rispetto ad altre scienze come la medicina; essi acquisirono, nella loro pratica, alcuni metodi e termini dalla tradizione indiana, mentre i principî della dottrina rimasero fedeli a quelli della tradizione araba.
Secondo la filosofia naturale di Geber, le sostanze dell'alchimia si dividono in tre classi: (a) gli spiriti, che si volatilizzano nel fuoco: zolfo, arsenico, mercurio, ammoniaca e canfora; (b) i corpi metallici, lucenti e sonori: piombo, stagno, oro, argento, rame, ferro e ḫārṣīnī, il 'ferro cinese'; (c) i corpi o sostanze minerali che possono essere polverizzati. I metalli si formano nel grembo della Terra sotto le influenze dei pianeti. La natura di queste sostanze è in relazione ai quattro elementi (fuoco, acqua, aria e terra), alle quattro qualità o 'nature' (caldo, freddo, umido e secco) e alle influenze planetarie; a ogni pianeta corrisponde un metallo espresso dallo stesso simbolo del pianeta. I metalli hanno due qualità interne e due esterne: l'oro, per esempio, è freddo e secco all'interno e caldo e umido all'esterno; il contrario si verifica per l'argento. Secondo Geber, nei metalli, le quattro nature sono presenti secondo la proporzione data dalla serie numerica 1:3:5:8, la cui somma, 17, è il numero che governa e si riflette nell'esistenza di tutti gli enti. Le qualità opposte, nei metalli, sono presenti nel rapporto di 1:3 o 5:8 e viceversa. Le quattro nature sono divise in quattro gradi, e ogni grado in sette divisioni, in tutto ventotto partizioni, ovvero il numero delle lettere dell'alfabeto arabo, anch'esse tradizionalmente correlate alle quattro nature e ai nomi, in arabo, le sostanze dell'alchimia. La relazione fra le cifre della serie numerica è espressa dal quadrato magico della
In questo quadrato si ritrova il 17, rappresentato dai numeri della serie 1:3:5:8 nelle quattro caselle da sinistra, e il 28 che corrisponde alla somma dei numeri dalle altre quattro caselle. Le righe e le colonne del quadrato danno il totale di 15 in ogni direzione siano lette. Le due sostanze che rappresentano i poli del processo alchimistico sono lo zolfo e il mercurio. Lo zolfo (kibrīt) è caldo e secco, esprime il principio attivo, maschile e i processi di fissazione ed espansione. Il mercurio (sīmāb) è freddo e umido, e simboleggia il principio passivo, femminile e i processi di soluzione e contrazione. Fra questi due principî vi è sempre attrazione e repulsione; il fine dell'alchimista è giungere all'equilibrio della dualità cosmica simboleggiata da zolfo e mercurio. Il dualismo della coppia zolfo/mercurio sottende quello del principio solve et coagula, sciogli e rapprendi, alla base della pratica alchimistica, ed è anche rappresentato dal caduceo d'Ermete. Il connubio perfetto di questi due principî è l'oro, simboleggiato dal Sole. Secondo Geber, tutti i metalli sono composti di mercurio e coagulati dallo zolfo. Quando zolfo e mercurio sono puri e in proporzioni ideali creano l'oro. Difetti di purezza e della proporzione formano gli altri metalli. L'alchimista, attraverso l'elisir (iksīr), trasforma la materia prima in oro raffinando le impurità delle sostanze e ristabilendo l'equilibrio fra esse.
Nella tradizione islamica indiana, che rispecchia quella araba, si distinguono diverse concezioni dell'alchimia; c'è un'alchimia fisica e artigianale, preludio della chimica, attività professionale che nel mondo indiano si lega alla figura dello ῾aṭṭār, il farmacista yunānī, e condivide apparati e processi usati nella lavorazione dei metalli, del vetro e in cosmetica; un aspetto di questa concezione è l'uso dei processi alchimistici per la creazione artificiale d'oro, argento, pietre preziose e d'elisir per la giovinezza. C'è poi un'alchimia spirituale, o Grande Opera alchimistica, che si serve di sostanze e processi della metallurgia solo in quanto simboli della trasmutazione interiore dell'alchimista. Nella visione islamica le due concezioni erano spesso due aspetti della medesima tradizione, e questo si evince dall'esistenza di una concezione intermedia nella quale operazioni fisiche esterne divengono il supporto di trasformazioni interne. Il più importante esponente della prima concezione fu il noto medico Zakariyyā al-Rāzī (m. 925), il latino Rhazes, il quale, pur utilizzando il vocabolario esoterico di Geber, trasformò l'alchimia in chimica. Nella sua maggiore opera alchimistica, Sirr al-asrār (Il segreto dei segreti), intitolata in latino il Secretum secretorum, oltre a presentare una classificazione più ampia delle sostanze, descrive numerosi strumenti da laboratorio e processi chimici, fra i quali: distillazione (taqṭīr), calcinazione (taklīs), soluzione (taḥlīl), evaporazione (tabḫīr), cristallizzazione (tabalwur), sublimazione (taṣ῾īd), amalgamazione (talġīm) e inceratura (tašmi῾), processo che consiste nel trasformare una sostanza in un prodotto solido e facilmente fondibile, come la cera.
La storia, gli autori e le opere di alchimia indo-islamica rimangono una materia poco nota anche agli esperti di alchimia araba. Dalle prime fonti note della letteratura indiana si deduce che l'alchimia araba fu introdotta in India nell'epoca del Sultanato di Delhi, e che in tale periodo fu esercitata e trasmessa in prevalenza all'interno dei circoli ṣūfī. La conoscenza dell'alchimia è menzionata in importanti malfūẓāt ('discorsi spirituali') dell'epoca, come quelle di Ǧalāl al-Dīn Buḫārī (m. 1384), e in più occasioni in quelle di Muḥammad Gīsūdirāz (m. 1422). Il più importante testo d'alchimia ascritto dalla tradizione islamica all'epoca pre-mughal è Haft aḥbāb (I sette amici), un trattato in sette capitoli attribuiti a Šayḫ Ḥamīd al-Dīn Nāgawrī (m. 1246) e ad altri sei compagni, fra i quali Sa῾ādatmand uno yogin di nome Giyān convertito all'Islam. Šayḫ Ḥamīd al-Dīn Nāgawrī era un discepolo del celebre mistico Šihāb al-Dīn ῾Umar Suhrawardī (m. 1234). I diversi capitoli del libro appaiono in realtà composti e raccolti da autori d'epoche differenti. L'opera è un manuale di principî e pratiche alchimiste. La prima sezione, di Ḥamīd al-Dīn, descrive le sostanze alchimiste, le loro proprietà e accordi con i pianeti; il metodo per la preparazione dell'oro e alcuni elisir. Il capitolo di Sa῾ādatmand, descrive l'elisir del Sole (šamsī) e della Luna (qamarī) e le sostanze d'origine vegetale usate in alchimia. Il capitolo di Šayḫ Sulaymān Mandu᾽ī, contiene un tema classico della tradizione: le invocazioni in arabo per i giorni della settimana correlate alla pratica dell'alchimista. Il capitolo di Sayyid Hāšim Buḫārī descrive l'acqua forte (tīzāb) o acido nitrico e gli elisir vegetali. Il capitolo di Sayyid Ṭayyib Awdhī o Ṭabīb Awdhī tratta i processi di calcinazione dei metalli (kušta). Negli ultimi due capitoli, di Ḥaẓrat Naṣīr al-Dīn Nārnūlī e Mawlānā Ṣādiq Multānī, sono descritti vari preparati fra i quali il cinabro romano (šangraf rūmī) e un composto a base di mercurio e zolfo per la cura di tutte le affezioni. Un altro importante esempio di prescrizione iatrochimica dell'epoca è la Nusḫa-yi ḫūrā chūlī (Prescrizione del ḫūrā chūlī), del menzionato Muḥammad Gīsūdirāz, nella quale è descritto un medicamento a base di mirabolano, zolfo, mercurio, arsenico e borace utile per la cura di sessantatré malattie. Gīsūdirāz, che conosceva il sanscrito, menziona diverse sostanze con il loro nome indiano e il procedimento di purificazione del mercurio per uso officinale che descrive è analogo al metodo noto come mūrcchana nella tradizione indiana. L'interesse dei Musulmani dell'epoca del Sultanato per la tradizione indiana si evince dall'opera di ẓiyā᾽ Muḥammad ῾Umar Ġaznawī, che dedicò un capitolo del suo Maǧmū῾a-yi ẓiyā᾽ all'alchimia indiana, comprendente fra gli altri: istruzioni di Nāgārjuna, processi per la calcificazione dell'oro, purificazione di zolfo, mercurio, diamanti, composti a base di mercurio per il potere virile, eccetera.
La trasmissione dell'alchimia fra i ṣūfī indiani è ben attestata fino al XVIII sec., tuttavia, dall'epoca mughal, la letteratura alchemica fu composta e si diffuse soprattutto al di fuori degli ambienti mistici; un rilievo sempre maggiore fu acquisito dalle descrizioni di processi e sostanze alchimistiche impiegate nella produzione tecnologica e in farmacologia yūnānī. Un esempio di questa tendenza è il lungo capitolo sull'alchimia contenuto nell'enciclopedia di Qāẓī Samarqandī dedicata all'imperatore Humāyūn. L'autore, in accordo allo schema di Geber, suddivide le sostanze in spiriti (arwāḥ), corpi metallici (aǧsād) e sostanze polverizzabili (ahǧār). Tuttavia la descrizione che segue prescinde da riferimenti al simbolismo mistico. Qāẓī Samarqandī espone bensì in dettaglio numerosi apparati e strumenti da laboratorio e dodici stadi del procedimento chimico, dalla distillazione alla calcinazione. Il paragrafo sugli elisir descrive otto metodi di preparazione, alcuni d'origine vegetale, e dà precise informazioni su pesi, temperature, tempi di preparazione e altre precauzioni. Un altro paragrafo espone i metodi di produzione di pietre preziose artificiali. Capitoli sull'alchimia furono inclusi in altre importanti opere mediche ed enciclopediche, come il Ṭibb-i Dārāšikūhī e il Maǧmū῾a-yi Ḥakīm al-Mulk. Fra le altre opere d'alchimia in persiano composte in India vi sono le Maqālīd al-kunūz (Le chiavi dei tesori) di Aḥmad ibn Arsalān. L'opera, che fa un ampio uso del lessico alchimistico indiano, descrive i metodi di sublimazione e ossidazione di diverse sostanze, i livelli di temperatura dei diversi processi, nonché metodi per la preparazione d'oro e argento. Mīr Yaḥyā, invece, scrisse (1624 ca.) un trattato intitolato Maǧma῾ al-ṣanā᾽i῾ (Il libro delle arti), nel quale espone diverse applicazioni pratiche dei processi alchimistici, dalla preparazione di colori e inchiostri a quella di vetro e pietre preziose artificiali.
In India si diffusero anche le versioni in arabo e persiano delle opere di alchimisti arabi come Geber, nonché alcune di quelle attribuite ad autori della tradizione ermetica come Tankalūšā (Teukros), la menzionata Ḏaḫīrat al-Iskandar e la Risāla al-ḥaḏar (L'epistola della prudenza) attribuita ad Aghāthādhimūn o Agadimon. In India, la iatrochimica derivata dall'alchimia esercitò un'importante influenza sulla medicina yūnānī; numerose sostanze d'origine minerale e animale entrarono all'interno della materia medica yūnānī. Fra le sostanze minerali e i metalli vi sono: mercurio, cinabro, zolfo, talco, allume, borace, antimonio, litargirio, arsenico, diamante, smeraldo, lapislazzuli, giada. Fra le sostanze animali: castoreo, parti od organi di scinco, granchio, chiocciola, corallo, perla, muschio. L'uso di tali sostanze è attestato fino nelle farmacopee in urdu composte nel XX sec., come il noto manuale Maḫzan al-mufradāt (Il tesoro delle sostanze semplici) di Ḥakīm Kabīr al-Dīn, pubblicato nel 1929.
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