Scienza indiana: periodo classico. Architettura, arti e tecnica
Architettura, arti e tecnica
L'India è il paese dei trattati (śāstra) che organizzano, disciplinandoli, tutti i settori dell'attività umana. Queste opere, che in generale rivendicano un'origine divina, diretta o indiretta, costituiscono un vasto insieme molto diversificato, che si distingue per il suo carattere decisamente normativo e per il costante riferimento a un'ideologia apparentemente molto unitaria e indipendente da circostanze temporali e geografiche; dal punto di vista pratico, tuttavia, la situazione appare meno definita e può rivelare anche profonde diversità. Una delle caratteristiche distintive di questa unità ideologica è costituita dall'onnipresenza in questi trattati del principio della divisione della società in quattro classi (Brāhmaṇa, Kṣatriya, Vaiśya e Śūdra), così come è definita nei Dharmaśāstra, opere che indicano gli scopi della vita, oltre che le responsabilità e i doveri degli uomini.
Come le altre forme dell'attività umana, anche l'architettura, insieme alla scultura e alla pittura a cui era abitualmente associata, è oggetto di un corpus di testi normativi designati con termini diversi che, a seconda dei casi, insistono sulla destinazione, sulla natura o sul carattere tecnico di queste attività. Dopo aver definito, grazie ad alcuni esempi paradigmatici, le diverse categorie di questa letteratura, illustreremo i suoi caratteri generali, approfondendo in particolare i problemi lessicali e soprattutto il metodo su cui si basa la presentazione della teoria dell'architettura. Tale metodo è fondato su un'analisi minuziosa dei monumenti effettivamente edificati di cui, tuttavia, non si riconosceva esplicitamente l'esistenza; quest'analisi consentiva di estrapolare una serie di componenti elementari e di insiemi tipici, ricostruiti a partire da questi elementi. Esamineremo quindi il ruolo presumibilmente svolto nella pratica da questi testi normativi che pretendono di essere antecedenti a ogni realizzazione architettonica e vedremo anche come questa pretesa abbia dato luogo a un'attività di aggiornamento dei testi, attraverso l'integrazione di forme che i loro autori non avevano potuto anticipare, con la quale ci si proponeva di preservare la loro autorevolezza.
Prenderemo in esame solo le opere redatte in sanscrito, anche se esistono opere analoghe in quasi tutte le lingue indiane ‒ indoarie o dravidiche ‒ per non parlare di alcuni testi recenti, redatti direttamente in inglese e legati alla moda delle speculazioni, più o meno fondate, sulle qualità e i difetti dei luoghi d'abitazione. Ci occuperemo inoltre solo dei testi riconducibili alla tradizione brahmanica, senza tener conto di quelli che si richiamano alle tradizioni buddhiste e jaina, così come delle opere redatte in sanscrito che trattano della costruzione delle moschee (Nath 1989).
I trattati concernenti l'architettura e le arti figurative a cui era associata sono frequentemente definiti Vāstuśāstra (trattati sull'habitat), Vastuśāstra (trattati sulle abitazioni) o Śilpaśāstra (trattati tecnici). Le prime due designazioni sottolineano in primo luogo il primato dell'architettura e, dal momento che questa disciplina si occupava prevalentemente della costruzione dei templi, tendono soprattutto a evidenziare il fatto che questi ultimi sono innanzitutto dimore divine. Tuttavia, come dimostra l'ampia definizione del termine vastu offerta in uno di questi trattati, il Mayamata (Dottrina di Maya, X-XI sec. d.C.; v. oltre), in alcuni casi la nozione di habitat può estendersi oltre quella di architettura propriamente detta: dopo aver precisato che il vastu è 'il luogo in cui abitano i mortali e gli immortali', l'analisi prosegue con l'affermazione secondo cui vi sono quattro generi di vastu, la Terra, gli edifici, i veicoli e i seggi (Mayamata, 2.1-2); bisogna inoltre precisare che, come dimostrano le successive sezioni del testo, i veicoli e i seggi erano prevalentemente destinati a ospitare le immagini divine nel corso delle processioni e di altre cerimonie (ibidem, capp. 31 e 32).
Il termine Śilpaśāstra ha una vasta gamma di significati divergenti; esso, infatti, insiste sull'aspetto tecnico delle attività prese in esame e, del resto, riecheggia il termine śilpin che in generale significava 'tecnico', 'artigiano', ma che nei testi dei quali ci occuperemo, è frequentemente impiegato in riferimento agli architetti o agli scultori. Dobbiamo inoltre sottolineare che queste designazioni sono intercambiabili e che un'opera definita Vāstuśāstra in un manoscritto può essere presentata come Vastuśāstra o Śilpaśāstra in altri testi.
La vastità del campo d'indagine affrontato da questi trattati può variare in modo considerevole. I testi più ricchi si occupano, in modo più o meno dettagliato, di tutte le forme dell'architettura religiosa (i templi e le loro dépendances) o civile (case private e palazzi), così come dell'urbanistica (città, fortezze e villaggi), dei veicoli o seggi, dell'iconografia (descrizione delle immagini, tecniche di fabbricazione delle statue in terracotta, pittura), dei numerosi riti che accompagnavano i lavori di costruzione degli edifici, della realizzazione e della collocazione delle immagini (scelta e preparazione rituale del sito, posa del deposito di fondazione e di completamento, installazione delle immagini, inaugurazione). Il Mayamata è un esempio rappresentativo di questa categoria di trattati, ma non è affatto l'unico sopravvissuto del genere. Un altro importante rappresentante di questo gruppo di testi è il trattato intitolato Mānasāra (Compendio di Māna o Compendio sulla dimora), redatto certamente in un periodo più recente (forse nel XV sec.), che nell'insieme è più voluminoso e più dettagliato. Lo studio di quest'opera si è dimostrato particolarmente interessante: tra i trattati riconducibili a questo genere, il Mānasāra, infatti, è stato il primo a essere divenuto accessibile in Europa e a essere stato raffrontato ai trattati architettonici occidentali, in particolare a quello di Vitruvio, grazie allo studio in lingua inglese condotto, a partire dal 1834, da Ram Raz; il lavoro di questo studioso, a cui va riconosciuto il merito di aver intrapreso il primo tentativo di traduzione in una lingua occidentale del vocabolario architettonico sanscrito, è del resto alla base di tutte le successive ricerche su questo tema. Lo studio del Mānasāra è stato ripreso successivamente da P.K. Acharya, tra le cui opere, pubblicate tra il 1927 e il 1946, ricordiamo un'edizione critica e una traduzione inglese del trattato, così come una voluminosa Encyclopaedia of Hindu architecture (1946) rivelatasi indispensabile nel campo dell'interpretazione del vocabolario architettonico sanscrito.
Accanto a queste opere più o meno enciclopediche, va segnalata l'esistenza di testi dalle ambizioni più limitate, spesso dedicati alla fabbricazione delle statue e di altre immagini. Un esempio rappresentativo di questo genere letterario è costituito dal Citralakṣaṇa (Caratteristiche del citra), attribuito a Nagnajit (V sec.). Questo breve trattato, di cui è sopravvissuta solo una versione tibetana, è indubbiamente il testo più antico, tra quelli riconducibili a questo genere, che sia giunto fino a noi. Il titolo è piuttosto ambiguo, dal momento che il termine citra può essere impiegato sia in riferimento alla scultura sia alla pittura e nel testo non appare alcuna indicazione che permetta di chiarire tale ambiguità: si tende, tuttavia, a ritenere che le immagini descritte nel trattato possano essere identificate con statue di terracotta dipinte, sebbene questa ipotesi non sia suffragata da alcuna prova. A ogni modo l'opera si apre con una breve introduzione in cui viene presa in esame l'origine divina della tecnica di fabbricazione delle immagini (tema dominante di questo genere letterario), che qui è attribuita a Brahmā; segue quindi una descrizione membro per membro dell'immagine del monarca universale che, come si può desumere dal contesto, poteva essere adattata anche alle immagini delle divinità; essa è molto particolareggiata e combina una serie di indicazioni iconometriche estremamente minuziose con i dettagli concernenti il colore e l'aspetto dei differenti elementi della figura; il trattato termina con l'indicazione delle regole in base alle quali tali proporzioni si possono adattare alle immagini degli altri personaggi, uomini di status inferiore o donne. Il Citralakṣaṇa è interessante soprattutto perché dimostra che sin dal V sec. della nostra era, il metodo analitico che caratterizza i testi più tardi era già stato perfettamente messo a punto; il raffronto con uno dei testi successivi, il Sakalādhikāra (Regole per le rappresentazioni complete), attribuito al saggio Āgastya, e redatto verso il XII sec., rivela, infatti, uno sviluppo significativo, ma privo di fratture, dello stesso tema. Il Sakalādhikāra è dedicato alle immagini delle sedici principali manifestazioni di Śiva: dopo un'esposizione di carattere generale dedicata al sistema delle misure, sono indicate, in funzione di numerosi canoni iconometrici, le proporzioni delle diverse parti del corpo; le successive descrizioni delle sedici immagini sono accompagnate dalla ripetizione delle indicazioni iconometriche adattate ai diversi casi particolari; l'opera termina con una serie di analisi relative alla fabbricazione delle immagini in terracotta (fabbricazione della struttura in legno, rivestimento, pittura, ecc.; Varma 1970) e ai riti di installazione.
I trattati di carattere generale, come, per esempio, il Mayamata e il Mānasāra, e quelli più specialistici come, per esempio, il Citralakṣaṇa e il Sakalādhikāra, non sono affatto le uniche opere in cui i temi dell'architettura e/o della fabbricazione delle immagini siano affrontati dal punto di vista tecnico. Tali argomenti sono ampiamente trattati in termini analoghi anche in opere di più vaste ambizioni, imperniate su altri temi e, in primo luogo, nei trattati liturgici, in cui la presentazione del rituale è integrata dalla descrizione della cornice architettonica in cui i riti dovevano essere celebrati e da quella delle immagini che servivano da supporto al culto. Siamo in presenza di una tendenza molto diffusa che riguarda sia le opere śivaite, come, per esempio, il Rauravāgama (Scrittura di Ruru) e l'Ajitāgama (Scrittura dell'invitto; Dagens 1977), sia i loro omologhi viṣṇuiti, come, per esempio, la Marīcisaṃhitā (Raccolta di Marīci) e il Kāśyapajñānakāṇḍa (Sezione sulla conoscenza di Kaśyapa). In queste opere, la maggior parte dei dati relativi all'architettura e all'iconografia è distribuita in alcuni capitoli specificamente dedicati a questi temi; tuttavia, è possibile reperirne altri anche nei brani in cui sono descritti alcuni riti, come, per esempio, quelli che accompagnavano l'installazione delle immagini (Barazer-Billoret 1993-94). Talvolta queste esposizioni sono così lunghe che finiscono per proporsi come trattati indipendenti, in tutto simili ai Vāstuśāstra e agli altri testi specialistici di cui abbiamo già parlato: è il caso, per esempio, del brano del Kāmikāgama (Scrittura di Kāmika) dedicato a tali argomenti, che può essere considerato una sorta di calco del Mayamata (Bhatt 1977), e soprattutto dell'Aṃśumadbhedakāśyapāgama (Scrittura dualistica di Aṃśumat) che si occupa più di architettura e di iconografia che di liturgia, tanto che una delle sue recensioni è presentata semplicemente come uno Śilpaśāstra (Kāśyapaśilpaśāstra).
Alcune descrizioni molto dettagliate dei temi di cui ci occuperemo sono inoltre contenute nei Purāṇa, grandi enciclopedie spesso imperniate su temi mitologici come il Viṣṇudharmottarapurāṇa (Purāṇa ulteriore del Viṣṇudharma), per esempio, o l'Agnipurāṇa (Purāṇa di Agni), per non parlare di quella che può essere definita l'enciclopedia dei piaceri reali, il Mānasollāsa (Il diletto dell'animo), redatto nel XII sec. per un sovrano Cālukya dell'Andhra-Pradesh. In conclusione, ricorderemo che uno dei testi più antichi (se non il più antico) in cui il tema dell'architettura sia discusso dal punto di vista tecnico, è un celebre trattato astrologico, la Bṛhatsaṃhitā (Grande raccolta) di Varāhamihira (inizio del VI sec. d.C.), in cui sono contenuti interessanti analisi sull'antropometria e l'iconometria, che dimostrano fino a quale punto la seconda disciplina sia debitrice nei confronti della prima. La Bṛhatsaṃhitā è importante ai fini della nostra indagine soprattutto perché le sue analisi architettoniche sono state riproposte (a volte parola per parola) in numerose opere posteriori (Bhaviṣyapurāṇa, Viṣṇudharmottarapurāṇa, Agnipurāṇa e Matsyapurāṇa; Dagens 2001).
Attribuito a Maya, un architetto mitico, e presentato nei colofoni dei suoi manoscritti come un Vāstuśāstra, il Mayamata (Dottrina di Maya) è un importante esempio di trattato specialistico dedicato all'architettura e, in via subordinata, all'iconografia. Si tratta di un'opera composta da 3300 versi distribuiti in 36 capitoli di lunghezza disuguale, redatta indubbiamente nell'India del Sud, come dimostrano sia il vocabolario impiegato, in cui appaiono alcune parole di origine tamil, sia i monumenti e le immagini a cui il testo è ispirato, chiaramente identificabili con le produzioni dell'arte della regione abitata dai Tamil nei periodi Pallava (VII-VIII sec.) e soprattutto Cola (a partire dal IX sec.). È necessario inoltre precisare che tutti i manoscritti oggi conosciuti del Mayamata sono stati compilati nell'India meridionale e che in questo trattato è contenuta un'importante dissertazione sulle strutture, di cui possono essere ritrovati equivalenti solo in alcune opere originarie del Kerala.
Nel trattato sono riscontrabili alcune tracce di rifacimento databili, le quali forniscono indirettamente un terminus post quem alla prima redazione del testo, che non può essere successiva alla fine del X sec. della nostra era; in base ad altri dettagli, si tende a ritenere che il Mayamata sia caduto in desuetudine verso il XV sec., o almeno che a partire da tale data non sia stato più aggiornato.
Questo trattato è ricollegabile alla tradizione dello śivaismo āgamico, ma è privo di eccessi di settarismo: in esso, infatti, troviamo anche la descrizione di certi modelli architettonici tipicamente viṣṇuiti come, per esempio, i templi a celle sovrapposte e l'indicazione dei dati iconografici relativi alle immagini del Buddha e di Jina. Benché i temi di carattere religioso ‒ i templi, le loro dépendances e le raffigurazioni delle divinità ‒ occupino gran parte del testo, in quest'opera troviamo anche lunghe dissertazioni consacrate all'urbanistica, alle fortezze, alle abitazioni comuni e ai palazzi reali.
Nei primi otto capitoli sono presi in esame temi di carattere generale concernenti la collocazione degli edifici e degli agglomerati urbani, vale a dire la scelta del sito in cui costruire un edificio (senza specificare se si tratti di un tempio oppure di una casa) in funzione della classe sociale dei suoi futuri occupanti, il sistema delle misure assolute da utilizzare, le qualità che l'architetto e i suoi aiutanti dovevano necessariamente possedere, le regole in base alle quali utilizzare lo gnomone e definire l'orientazione del sito, la descrizione dei diagrammi geometrici (maṇḍala) utilizzati sia per determinare la collocazione del sito sia nel rituale e, infine, i riti preliminari (lavorazione e semina del sito, offerte alle divinità protettrici, ecc.). Seguono quindi due capitoli dedicati all'urbanistica, in cui troviamo la descrizione di diversi tipi di città, di piazzeforti, di borgate e villaggi (così definiti in base alle loro dimensioni), della loro situazione, dei loro abitanti e delle loro funzioni; in questi capitoli è fornita inoltre una descrizione dettagliata della disposizione dei bazar e dei quartieri residenziali delle città. Dopo un capitolo in cui sono stabilite determinate corrispondenze tra le dimensioni degli edifici e il rango (sociale e talvolta divino) dei loro occupanti o dei loro committenti, l'esame dei temi di carattere generale si conclude con una dissertazione consacrata al deposito di fondazione, la cui posa segna l'inizio della costruzione di tutti gli edifici: il deposito, la cui composizione variava in funzione del tipo di edificio, della posizione sociale dei suoi futuri occupanti, ecc., è designato con l'espressione 'embrione (garbha) dell'edificio'.
La seconda parte del trattato (quella compresa tra il tredicesimo e il diciottesimo capitolo) è senza dubbio la più importante. Essa è dedicata alla presentazione dettagliata dei sei livelli in cui poteva in teoria essere suddiviso il prospetto degli edifici e che dovevano necessariamente essere presenti in quello dei templi (prāsāda, v. oltre), gli edifici più vicini alla perfezione. In effetti, questi livelli sono riscontrabili in un modo o nell'altro nelle elevazioni di quasi tutti i templi 'indiani', sia in India sia nell'Asia sudorientale. Nel Mayamata, essi sono designati rispettivamente come livelli della base, dei pilastri, della trabeazione, del piano sottostante al tetto (definito anche 'collo' o 'attico'), del tetto e, infine, del coronamento; a quest'elenco era a volte aggiunto un livello opzionale, lo zoccolo, che poteva essere inserito nella parte inferiore dell'edificio, al di sotto della base. Nel testo sono descritte nei dettagli le diverse forme (a volte molto numerose) che poteva assumere ciascun livello, con una particolare attenzione per gli insiemi modanati, concedendo inoltre un grande spazio all'indicazione delle dimensioni e delle proporzioni (v. oltre); tuttavia, bisogna osservare che queste descrizioni rimangono 'superficiali', non affrontando quasi mai la questione delle strutture portanti, a eccezione del brano dedicato al tetto (il quinto livello del prospetto), che dà luogo alla presentazione minuziosa, ma spesso poco chiara, della sua struttura di sostegno: è possibile che il brano, riconducibile alla tradizione del Kerala più che a quella della regione tamil, sia un'interpolazione. La descrizione dell'ultimo livello dell'elevazione, il coronamento, è completata da quella del rituale che accompagnava la fine del lavoro di costruzione e che prevedeva la posa di un altro deposito, simmetrico a quello che segnava l'inizio dei lavori di costruzione dell'edificio.
L'analisi prosegue con la presentazione di diverse categorie di edifici, definite in base al numero dei livelli in cui andava diviso il loro prospetto: accanto ai templi (prāsāda), la cui elevazione prevedeva sei livelli, sono menzionati i padiglioni (maṇḍapa) che includevano tre livelli (base, pilastri e trabeazione), le sale (sabhā) per le quali erano prescritti quattro livelli (base, pilastri, tetto e motivo di coronamento) e infine i padiglioni di ingresso (gopura) che, come i templi, dovevano essere elevati in sei livelli. La descrizione di ogni categoria si apre con la presentazione di una serie di tipi di base in cui figuravano le forme più semplici, quasi sempre dalla pianta quadrata (per esempio, i templi privi di falsi piani o i padiglioni a quattro pilastri). A partire da questi modelli elementari sono quindi estrapolati tutti gli altri tipi, più vasti, più complessi e non necessariamente dotati di una pianta quadrata. I templi sono classificati in base al numero di piani (o, per essere più precisi, di falsi piani) che figuravano nella loro sovrastruttura; secondo il Mayamata non potevano avere più di dodici piani (che in occasione dell'aggiornamento del testo, come si vedrà, diverranno sedici). Il principale criterio di classificazione dei padiglioni è invece costituito dal numero dei pilastri, che non potevano essere più di 128. La descrizione dei templi e degli edifici circostanti è completata da quella dei muri di cinta concentrici che li circondavano e dall'elencazione dettagliata delle cappelle e delle dépendances distribuite negli spazi definiti dalle mura. Un certo numero di incisi è poi dedicato alla descrizione di alcuni elementi decorativi destinati a essere collocati sulle facciate dei templi (fughe di archi, edicole, ecc.). Tuttavia i volumi interni abitabili sono descritti in modo molto approssimativo e, anche in questo caso, non si affronta affatto il tema della struttura degli edifici.
Alle dimore umane sono dedicati diversi capitoli. Sono innanzi tutto presi in esame gli edifici di abitazione: il tipo più semplice di questa categoria è costituito da un solo fabbricato (śālā) sul cui prolungamento è inserita una veranda (maṇḍapa, vāra, ecc.); i tipi più complessi sono ottenuti moltiplicando il numero dei corpi dei fabbricati e delle verande e inserendo un certo numero di gallerie e di altri elementi secondari; i corpi dei fabbricati non possono essere più di dieci, ma il modello più importante è rappresentato dalla casa costituita da quattro fabbricati (catuśśālā) che nei testi letterari è considerata l'abitazione tipica dei brahmani e dei membri dell'alta società. Bisogna osservare che non si offrono molti dettagli sull'organizzazione interna degli edifici, che sembra variare in funzione di quella delle quattro classi sociali a cui appartenevano gli occupanti; i due capitoli dedicati alle abitazioni sono seguiti da un breve esame del rito del 'primo ingresso nella casa', descritto in uno stile decisamente classico. Viene quindi affrontato il tema dei palazzi, la cui descrizione si riduce essenzialmente a una serie di elenchi (a volte molto lunghi) degli edifici che sorgevano nelle corti concentriche che, del resto, avvicinano i palazzi ai templi: questa somiglianza è sottolineata dal fatto che il capitolo dedicato ai padiglioni di ingresso (gopura) dei palazzi riprende praticamente verbatim un gran numero di descrizioni già fornite in relazione ai padiglioni di ingresso dei templi.
L'ultima parte del trattato è dedicata, da un lato, ai veicoli e ai seggi e, dall'altro, all'iconografia. I veicoli e i seggi che, come abbiamo già osservato, sono posti sullo stesso piano degli edifici, erano prevalentemente destinati a essere utilizzati durante le processioni e le altre cerimonie religiose: la descrizione di questi oggetti è piuttosto precisa e corrisponde a quella degli esemplari ancora oggi visibili nelle dépendances dei templi dell'India meridionale. I brani dedicati all'iconografia affrontano il tema delle raffigurazioni delle divinità che era opportuno collocare nei templi, nelle cappelle che li circondavano e sulle facciate dei diversi edifici. Questa parte del trattato si apre con una definizione classica che distingue tra le rappresentazioni non manifeste o simboliche, le rappresentazioni manifeste e, infine, le rappresentazioni miste. La più importante di queste raffigurazioni è senza dubbio quella del liṅga, simbolo fallico sotto la cui forma Śiva è spesso rappresentato nelle celle dei templi. Le immagini ‒ di Śiva o delle dee e degli dèi del suo seguito ‒ sono invece rappresentazioni antropomorfe o pseudoantropomorfe; nell'ottica śivaita adottata dal Mayamata esse sono considerate inferiori ai simboli (secondo le dottrine viṣṇuite era vero il contrario). Le rappresentazioni miste, infine, sono essenzialmente costituite dai mukhaliṅga ('liṅga dotati di volto/i'), cioè da simboli fallici che recavano sulla loro superficie uno o più volti scolpiti di Śiva.
Al liṅga è consacrato un intero capitolo. Quest'ultimo si apre con un discorso sulla scelta del materiale, il quale dà luogo a una lunga dissertazione sulle qualità e i difetti delle pietre; l'analisi prosegue con la descrizione dettagliata di numerosi tipi di liṅga (definiti in base alla loro forma e alle loro proporzioni), seguita dalla presentazione di un rituale nel corso del quale erano tracciate sul liṅga linee che riproducevano alcuni dettagli anatomici (tra cui, per esempio, il frenulo, il prepuzio, ecc.). Dopo il capitolo in cui sono presentate le diverse varietà di piedistalli utilizzati per sostenere sia i liṅga sia le immagini propriamente dette, si giunge alla descrizione di queste ultime, che occupa il capitolo più lungo dell'opera (315 versi); si passa quindi all'esame delle diverse manifestazioni di Śiva e delle numerose divinità della sua cerchia: in entrambi i casi le descrizioni si limitano quasi sempre agli elementi propriamente iconografici (posa, numero delle braccia, attributi e gesti, ornamenti e vesti, ecc.). Al contrario di altre opere, come, per esempio, il Sakalādhikāra ( Regole per le rappresentazioni complete), il Mayamata non prende in considerazione l'iconometria, né gli aspetti tecnici della fabbricazione delle immagini.
Nonostante questa lacuna, il Mayamata, così come ci è pervenuto, può essere considerato un testo relativamente completo e omogeneo, anche perché il ricco materiale che abbiamo appena riassunto è completato da una serie di analisi complementari dedicate a diversi dettagli della costruzione degli edifici, tra cui ricorderemo, per esempio, quelli relativi agli assemblaggi utilizzati nella costruzione delle strutture, alla scelta del legno da costruzione, alla posizione delle porte e ai lavori di restauro.
Le opere di carattere tecnico qui prese in esame, sia quelle versificate (è il caso più frequente) sia quelle in prosa (come, per es., la Marīcisaṃhitā, Raccolta di Marīci), non possono essere considerate capolavori letterari: l'esposizione si basa quasi esclusivamente su formule ed enumerazioni e, come ha già osservato P.K. Acharya, mostra uno scarso rispetto per la grammatica; in questi testi, i verbi sono relativamente rari e gli unici due modi utilizzati con una certa frequenza sono il gerundio e soprattutto l'ottativo (bisogna…, si deve…): il primo consentiva di insistere sull'ordine in cui andavano eseguite le operazioni, mentre il secondo sottolineava il carattere ingiuntivo dei testi che, come abbiamo già notato, si presentano sempre, in un modo o nell'altro, come la riproduzione di un insegnamento divino rivelato che non può essere confutato (una caratteristica condivisa dalla maggior parte dei trattati normativi indiani, indipendentemente dalle aree d'indagine prese in esame). Il genere dei nomi rimane spesso indeterminato, soprattutto per quanto riguarda il maschile e il neutro che appaiono decisamente intercambiabili: la scelta dell'uno o dell'altro in molti casi sembra aleatoria e si risolve quasi sempre a vantaggio delle esigenze metriche. Se lo stile e la grammatica lasciano spesso a desiderare, è riservata, in compenso, una grande attenzione al rispetto della metrica, con cui ci si proponeva di facilitare la memorizzazione dei testi; bisogna, tuttavia, precisare che solo sporadicamente si fa ricorso a metri rari o complicati e che in generale la versificazione si segnala per la sua semplicità.
L'indicazione delle dimensioni e delle proporzioni svolge un ruolo di primo piano in queste esposizioni (ricorderemo a questo proposito che in sanscrito la radice verbale mā significa sia 'costruire' sia 'misurare'; Dagens 1992). In queste opere, essa serve soprattutto a moltiplicare senza troppe difficoltà le varianti e a estendere così il campo di applicazione della teoria (v. oltre). Ciò spiega la frequente presenza nei trattati più importanti di sezioni dedicate al sistema delle misure (si veda, per es., il quinto capitolo del Mayamata; Dagens 1992). È inoltre da rilevare l'impiego sistematico di misure relative: accanto all'unità adatta a tutti gli usi rappresentata dalla parte (aṃśa, bhāga), ottenuta dividendo un insieme in N parti uguali, in seguito distribuite tra i diversi elementi (si veda più avanti l'esempio relativo alle modanature dello zoccolo), vi è un'intera serie di unità più specifiche. Nel campo dell'architettura ricorderemo il modulo (daṇḍa), equivalente alla larghezza sommitale del pilastro, il cui uso non era meno generalizzato di quello del suo omologo greco, e l'intercolunnio (bhakti) che serviva a definire le proporzioni orizzontali del padiglione (maṇḍapa) ipostilo o pseudoipostilo. Segnaleremo inoltre un esempio paradigmatico di ambiguità lessicale: il termine daṇḍa, che, come abbiamo visto, designava il modulo, era usato anche per indicare la larghezza dei templi, assunta come unità di riferimento nel calcolo della larghezza dei recinti concentrici, e un'unità di misura assoluta (la 'tesa')! Nel campo dell'iconometria, l'unità di misura più utilizzata era il dattilo (aṅgula), termine con cui si indicava anche un'unità di misura assoluta di uso comune (il 'dito'). Nelle opere più esaurienti dedicate a questo tema (come, per es., il Sakalādhikāra e l'Ajitāgama) sono indicati canoni iconometrici complessi e rigidamente gerarchizzati (Dagens 1987): le divinità più importanti avevano diritto alle proporzioni più vicine alla perfezione, seguivano quindi gli dèi minori, le dee, gli uomini, i nani e, infine, le incarnazioni (avatāra) animali degli dèi, come, per esempio, le incarnazioni di Viṣṇu, il pesce (matsya) e la tartaruga (kūrma). Aggiungeremo che l'uso del sistema proporzionale è generalizzato e si estende anche alla determinazione delle dimensioni di un'immagine, in funzione di quelle del tempio in cui doveva essere collocata, e alla definizione delle dimensioni di un tempio in funzione di quelle previste per l'immagine che avrebbe ospitato.
La grande importanza attribuita alle dimensioni e alle proporzioni si traduce nella moltiplicazione delle indicazioni numeriche, che occupano uno spazio rilevante in questi testi: spesso l'enumerazione delle modanature di un elemento è seguita da quella dei numeri che indicano le proporzioni di ciascuna di esse e viceversa; ciò conduce a formulazioni piuttosto oscure, come dimostra la traduzione letterale della descrizione dello zoccolo di tipo pratibhadra nel Mayamata:
Bisogna disporre con due, tre, una e una parte, e poi con due, una, otto, una e una parte, e con tre parti, una, una e due parti, un plinto, una gola, un listello e una scanalatura, una fascia e al di sopra un regolo, il dado e ancora al di sopra un regolo e una gola, il cornicione, un listello e una gola, una fascia e il listello sommitale. (cap. 13, vv. 12-14a)
che probabilmente va interpretata nel seguente modo:
Bisogna disporre [in ordine di successione a partire dal basso] un plinto [che occupa] due parti, una gola (tre parti), un listello (una parte) e una scanalatura (una parte), una fascia (due parti) e al di sopra un regolo (una parte), il dado (otto parti) e ancora al di sopra un regolo (una parte) e una gola (una parte), il cornicione (tre parti), un listello (una parte) e una scanalatura (una parte), una fascia (due parti) e il listello del vertice (una parte).
Per ragioni non molto chiare (forse per esigenze metriche o per evitare una certa monotonia) queste enumerazioni sono caratterizzate dall'impiego sistematico di metafore di valore numerico in sostituzione dei termini numerali classici: il termine veda, per esempio, è utilizzato in sostituzione del numero 'quattro', perché i Veda erano quattro, e il termine rudra in sostituzione del numero 'undici', perché i Rudra erano undici. Tuttavia, questo espediente presentava una serie di inconvenienti, dal momento che certi termini potevano assumere diversi valori numerici. Nel Mayamata, per esempio, al termine dhātu in certi casi è attribuito il valore di 5 e in altri il valore di 7, perché designava sia i cinque elementi ordinari, sia i sette fluidi corporali: il nome Śiva poteva significare 'uno' perché Śiva era unico, ma anche 'tre', perché questa divinità aveva tre occhi. Nella stessa ottica, a tutte le parole che designavano l'occhio era attribuito il valore di 'due', ma l'espressione 'occhio di Śiva' indicava il numero tre.
Il vocabolario propriamente tecnico dell'architettura è invece tanto metaforico che polisemico: un elemento può essere designato da molti termini (metaforici e non metaforici) ma, allo stesso tempo, il medesimo gruppo di termini è suscettibile di essere usato anche in riferimento ad altri elementi (v. oltre, l'esempio relativo alle parole che indicavano 'pilastro', 'gamba' o 'piede'). Benché arricchisca straordinariamente il lessico, questa duplice particolarità dà luogo a una lunga serie di ambiguità; si può quindi affermare che questo vocabolario, relativamente preciso se si rimane al livello dei trattati teorici, si rivela poco appropriato alla descrizione dei monumenti, delle statue o dei rilievi effettivamente esistenti, a volte resa estremamente incerta dalla sua polisemicità e dalle sue ambiguità. Aggiungeremo, infine, che, come abbiamo già osservato a proposito del Mayamata, il vocabolario propriamente sanscrito in alcuni casi è arricchito da termini presi in prestito dalla lingua della regione di provenienza del testo in questione, grossolanamente assimilati al sanscrito.
Le metafore impiegate sono riconducibili a diversi generi. Alcune sono di carattere vegetale: tutte le modanature che presentano un profilo a gola sono designate con il termine loto, indipendentemente dalle differenze esistenti tra i diversi tipi di gola e tra le diverse specie, molto numerose, di loto. Questo termine quindi poteva essere impiegato per designare sia la gola diritta sia la gola rovescia e, allo stesso tempo, lo stesso tipo di gola poteva essere indicato dai nomi particolari di due o tre diverse specie di loto. L'interpretazione delle metafore del corpo umano, che sono di gran lunga le più numerose (Dagens 1996), pone problemi analoghi. I diversi termini con cui si indicava il collo (kaṇṭha, kandhara, grīva, gala) sono, per esempio, applicati indifferentemente a tutti gli elementi rientranti degli edifici e possono quindi essere impiegati per designare una modanatura stretta (la scanalatura) o larga (il dado). Allo stesso modo il quarto livello del prospetto era chiamato collo perché rientrante in rapporto al tetto (naturalmente definito testa) da cui era sormontato e alla membratura sottostante: in altri termini per designare tre elementi architettonici ben distinti tra loro si usavano indifferentemente quattro parole, nel cui uso non si rileva alcun tentativo di specializzazione attraverso l'applicazione preferenziale a un elemento chiaramente identificato. Per dare un'idea adeguata della confusione determinata da questo fenomeno, aggiungeremo che il collo (cioè il piano sottostante al tetto) o quarto livello del prospetto degli edifici era un insieme modanato che presentava una o diverse modanature rientranti, vale a dire uno o più colli! Un altro esempio interessante è quello delle designazioni del pilastro, indicato con un termine generico (stambha) o, metaforicamente, con tutte le parole (molto numerose) che tra i loro principali significati annoveravano quelli di gamba o piede. Tutti questi termini, sia quello generico sia quelli metaforici, sono usati in riferimento non solo ai pilastri (o alle colonne), ma anche alle lesene e alle mezze lesene, che costituivano una realtà architettonica sostanzialmente diversa e, circostanza che complica ulteriormente la situazione, a uno dei più importanti livelli del prospetto, il terzo (quello dei pilastri), che corrispondeva al piano abitabile dell'edificio; bisogna precisare a tale proposito che il livello dei pilastri poteva presentarsi sia sotto forma di colonnato o di portico, sia come muro decorato da pilastri o privo di decorazioni. Nonostante i risultati piuttosto paradossali cui dava luogo, questo procedimento era molto efficace perché consentiva di generalizzare l'analisi teorica, evitando di concedere troppo spazio alle precisazioni: le regole generali relative al terzo livello del prospetto erano valide indipendentemente dall'aspetto reale (ipostilo, pseudoipostilo o privo di pilastri e di decorazioni) della facciata.
L'impiego sistematico delle metafore può essere giustificato (o almeno spiegato) in molti modi. Questo procedimento ha certamente consentito di colmare le lacune del vocabolario generico dell'architettura, divenute sempre più numerose a causa dello sviluppo di forme complesse o dell'introduzione di nuove tecniche: a tale proposito è sufficiente raffrontare il vocabolario architettonico del periodo vedico, così come è illustrato nel fondamentale saggio dedicato alla casa vedica da L. Renou (1939), ai termini contenuti nell'indice del Mayamata, per constatare il grande sviluppo subito dal vocabolario e il ruolo di primo piano svolto in questa evoluzione dalle metafore. È tuttavia possibile che le metafore, o almeno un certo numero di esse, siano state introdotte per altre ragioni. Il loro utilizzo potrebbe essere legato a esigenze stilistiche, anche se, come abbiamo visto, gli autori non erano molto interessati a questo ordine di problemi. È possibile, inoltre, che il simbolismo non sia estraneo a tali procedimenti e che le metafore servissero a realizzare determinati giochi di corrispondenze. Il fenomeno è particolarmente evidente nel caso delle metafore del corpo umano: il loro impiego sistematico, infatti, conduceva inevitabilmente a presentare gli edifici come corpi umani e i templi come i corpi visibili dall'esterno delle divinità dimoranti nelle loro celle: un'idea ricca di significati ed elaborata soprattutto in alcune opere relativamente tarde, come, per esempio, lo Śilparatnakoṣa (Tesoro dei gioielli dell'architettura), un testo originario dell'Orissa (Dagens 1996). Bisogna tuttavia sottolineare che se il simbolismo può essere considerato una delle principali motivazioni dell'uso delle metafore, in alcuni casi può essere vero il contrario: non è escluso che certe metafore abbiano determinato lo sviluppo di un simbolismo incentrato su particolari elementi architettonici. Questo genere di problemi non riguarda del resto soltanto le metafore del corpo umano, come dimostra l'uso di designare la gola con il termine loto: questo tipo di modanatura, la cui curvatura può ricordare quella di un petalo di loto, appare spesso decorato dai petali (e, in alcuni casi, dalle foglie) della pianta in questione, senza che sia possibile stabilire se la scelta di questo tipo di decorazione sia stata determinata dalla forma o dal nome della modanatura; inoltre, riconducendo questa designazione metaforica al suo significato originale, si comprende meglio la profusione di gole che caratterizza ‒ dalla base alla parte inferiore del coronamento ‒ il prospetto di alcuni templi: essa testimoniava il rigoglio dei prodotti annunciati dalla lavorazione del terreno e dalla semina, due dei riti che segnavano l'inizio dei lavori di costruzione.
Come la maggior parte dei trattati normativi indiani, i testi qui presi in esame teorizzano una tradizione considerata indipendente da ogni autorità umana. Questi trattati pretendono di esporre verità rivelate e di riflettere insegnamenti di origine divina; anche quando la loro stesura è attribuita a un autore umano, questi non è che l'ultima maglia di una lunga catena di trasmissione alla cui estremità opposta si trova una divinità, quasi sempre identificabile con il grande dio a cui è ascritta l'invenzione della tecnica analizzata (architettura, scultura, ecc.): nel primo verso del trattato śivaita Sakalādhikāra (Regole per le rappresentazioni complete), per esempio, si afferma che il contenuto dell'opera è una riproduzione degli insegnamenti di Śiva, mentre nelle prime frasi del Citralakṣaṇa (Caratteristiche del citra) di Nagnajit si attribuisce a Brahmā l'invenzione della tecnica di fabbricazione delle immagini.
Questo postulato non era privo di conseguenze: l'attribuzione di un'origine divina alle teorie enunciate nei trattati le rendeva irrefutabili. Inoltre, esso portava inevitabilmente alla conclusione che le teorie enunciate dagli inventori delle tecniche in questione erano sicuramente anteriori a ogni realizzazione pratica nelle aree d'indagine prese in esame. La conseguenza più visibile di questa concezione e la prova più decisiva del consenso di cui godeva tra gli autori dei trattati è costituita dal fatto che essi non si richiamano mai a monumenti effettivamente edificati. In tal senso i trattati indiani si distinguono nettamente dalle opere occidentali che, come quella di Vitruvio, enunciano teorie esplicitamente fondate sull'analisi di monumenti reali perfettamente identificati e presi a modello per le loro qualità. Questo fenomeno spiega anche l'ordine espositivo adottato nei testi indiani, che si aprono sempre con l'analisi dei singoli elementi per proseguire con quella degli insiemi composti: come abbiamo già osservato, nel Mayamata (Dottrina di Maya) la presentazione dei livelli del prospetto precede quella degli edifici e, nella stessa ottica, il Citralakṣaṇa e il Sakalādhikāra affrontano la presentazione membro per membro delle figure prima della descrizione delle immagini.
Come abbiamo già osservato, in queste analisi la struttura interna degli edifici è trascurata a vantaggio del loro aspetto esteriore, la cui descrizione non è, tuttavia, priva di ambiguità. Abbiamo già notato che non si opera nessuna distinzione tra la facciata ipostila aperta e quella costituita da un muro decorato da pilastri, ossia tra un vero e un falso colonnato. Allo stesso modo, questi testi (tanto nella presentazione degli edifici quanto nel lessico) non distinguono tra loro i piani che corrispondono ai livelli abitabili dell'edificio e i falsi piani, che sono semplicemente un artificio decorativo destinato al rivestimento della sovrastruttura. Nel Mayamata, per esempio, i templi viṣṇuiti, la cui sovrastruttura è costituita da piani reali, ciascuno dei quali corrisponde a una cella, sono descritti impiegando gli stessi termini di quelli śivaiti, dotati esclusivamente di piani falsi, cioè di una decorazione applicata alla sovrastruttura, il cui volume interno è costituito da un semplice colmo continuo che si innalza al di sopra della cella situata al pianoterra. Per quanto riguarda le immagini, è evidente che i testi offrono una serie di precisazioni sulla costituzione della struttura in legno delle statue di terracotta soltanto perché tale struttura corrispondeva allo scheletro della divinità raffigurata e la sua fabbricazione era assimilata alla creazione stessa della divinità (allo stesso modo, le corde con cui si legavano tra loro i diversi elementi dello 'scheletro' erano assimilati alle vene del dio raffigurato).
Dal momento che le teorie presentate pretendevano di essere anteriori a ogni realizzazione concreta, bisognava renderle il più possibile ampie, al fine di potervi includere non solo tutte le forme esistenti nell'area d'origine e nel periodo della compilazione dei trattati, ma anche tutti i loro potenziali sviluppi. I tipi, tanto di forme elementari quanto di insiemi ricomposti, erano quindi moltiplicati attraverso la definizione di una serie di varianti basate sulla decorazione e sulla forma generale, ma anche, come abbiamo già visto, sulle dimensioni. La descrizione di ogni tipo di elemento (o di insieme), infatti, è quasi sempre accompagnata dall'indicazione delle dimensioni che poteva assumere così formulata: questo tipo di tempio non può misurare meno di tanti cubiti e più di tanti cubiti per incrementi successivi di un quarto di cubito. Basandosi sullo stesso procedimento si afferma che un determinato tipo di tempio 'può presentare non meno di tre e non più di dieci falsi piani' oppure che per un certo tipo di padiglione 'si prevedono non meno di 4 e non più di 10 falsi piani'.
Nonostante le precauzioni, a volte i redattori dei testi non riuscivano ad anticipare la codificazione dell'evoluzione di alcuni tipi di forme nella tradizione: in questi casi si tentava di preservare l'autorevolezza dei trattati rettificandoli. In generale, la questione era risolta introducendo, attraverso un'interpolazione, il tipo o la varietà mancanti. Questo genere di modifica è riscontrabile anche nel Mayamata: sembra, infatti, che a un certo punto si sia imposta l'esigenza di aggiornare questo trattato per inglobare nella sua teoria, come se fosse stato previsto, un tipo di tempio le cui dimensioni superassero le misure massime stabilite nel testo originario. Si tratta di un esempio molto interessante, soprattutto perché il monumento fuori dalla norma che viene considerato è perfettamente identificabile. Ripercorreremo dunque a grandi linee la storia dell'aggiornamento del testo: nel Mayamata si afferma sistematicamente che i templi non possono essere dotati di più di dodici piani; in altri termini il primo redattore non aveva previsto l'edificazione di templi con più di undici falsi piani al di sopra del pianoterra (che nella nomenclatura indiana corrisponde al primo piano); il ventiduesimo capitolo, che è dedicato ai templi che presentano più di quattro piani, termina quindi con la descrizione dei templi di dodici piani. Questo limite è osservato ovunque nell'opera, tranne che in un verso dell'undicesimo capitolo in cui appare improvvisamente la menzione dei templi a tredici e a sedici piani che, si precisa, "corrispondono al numero massimo consentito" (Mayamata, 11.19); tale menzione contraddice palesemente quanto si afferma in un altro brano dello stesso capitolo in cui si stabilisce chiaramente il limite di dodici piani. Il verso in questione è quindi certamente un'interpolazione; per chiarire le ragioni di questa modifica, ricorderemo che il limite fatidico di dodici piani 'fissato' dal Mayamata fu superato nel Tamil Nadu soltanto all'inizio dell'XI sec. e che prima di allora non era stato ancora sfiorato (e di gran lunga, a quanto sembra) da nessun tempio: il monumento in questione è il tempio di stato edificato a Tanjore dal re Cola Rājarāja I e dedicato a Śiva Bṛhadīśvara; la costruzione ‒ un trionfo della dismisura e più grande di qualsiasi altro monumento edificato fino ad allora ‒ presenta quindici piani (un pianterreno e quattordici falsi piani). È evidente che l'interpolazione del verso in cui sono menzionati i templi di tredici e sedici piani è stata determinata dalla costruzione di questo monumento; l'indicazione di un numero massimo di sedici piani, uno in più di quelli del tempio di Tanjore, consentiva di includere con un ampio margine il nuovo monumento ‒ straordinario e prestigioso ‒ nella teoria attribuita all'architetto divino Maya e considerata anteriore a ogni realizzazione architettonica.
Rimane imprecisata la data in cui è stato operato l'aggiornamento del testo, anche se alcuni indizi inducono a supporre che la modifica in questione sia stata introdotta con relativa tempestività. È interessante osservare che le innovazioni architettoniche successive di qualche secolo a quella ora presa in esame non sembrano aver determinato analoghe modifiche del testo del Mayamata; tale circostanza sembra dimostrare che in questo periodo il trattato cessò di essere considerato un'opera di riferimento. Le innovazioni in questione furono realizzate verso il XV sec., periodo in cui l'arte di Vijayanagara iniziò a diffondersi in tutte le regioni dell'India meridionale: nel campo dell'architettura questo stile si distingue per due particolari caratteristiche, una relativa ai padiglioni d'ingresso dei templi (gopura) e l'altra attinente al padiglione ipostilo (maṇḍapa) a volte affiancato a questi templi. Per quanto riguarda i padiglioni d'ingresso, ricordiamo che quelli del periodo di Vijayanagara potevano raggiungere un'altezza considerevole e includevano abitualmente più di una quindicina di piani: ora, i padiglioni d'ingresso descritti nel Mayamata non presentano mai più di sette piani e non è individuabile alcuna interpolazione destinata a correggere questo limite per integrare nella teoria enunciata i modelli decisamente più grandi edificati nel XV secolo. Inoltre, nel corso del periodo di Vijayanagara s'iniziò a costruire nelle corti dei templi enormi padiglioni ipostili che, come dimostra l'espressione con cui erano frequentemente designati, 'padiglioni dai mille pilastri', superavano ampiamente i limiti indicati nel Mayamata, secondo cui i padiglioni non potevano includere più di 128 pilastri, limite che ancora una volta non è stato rettificato attraverso un'interpolazione. In entrambi i casi, l'assenza di rettifiche o di tracce di adattamento sembra dimostrare che, nel periodo successivo alla costruzione del tempio di Tanjore, il Mayamata era caduto in disuso, tanto da rendere superfluo l'aggiornamento del testo.
Per quanto riguarda i templi, i metodi di costruzione applicati nelle diverse regioni del subcontinente indiano appaiono molto uniformi dal punto di vista tecnico: le fondamenta si riducono quasi sempre a un 'letto di sabbia', i materiali impiegati sono pesanti ‒ pietra o mattoni ‒, il pianterreno dai muri spessi e massicci racchiude uno spazio interno angusto e, infine, la sovrastruttura è costruita secondo il criterio dell'aggetto intorno al camino che forma un colmo aperto; questo schema strutturale poteva prevedere un ristretto numero di varianti costituite per lo più da deambulatori interni al fabbricato, da vespai che alleggerivano la muratura (e, al tempo stesso, la rafforzavano sezionandola) o da un poderoso basamento, a volte costituito da una vera e propria piramide a gradini, che andava a inserirsi tra la base del pianterreno e il suolo. In ogni caso, l'insieme così ottenuto si rivela decisamente pesante, tanto più che l'adozione del principio dell'aggetto costringeva ad ampliare la base e a ispessire i muri proporzionalmente all'altezza, il cui aumento presupponeva ovviamente quello del peso della sovrastruttura che questi elementi dovevano sostenere.
Sull'architettura reale, costituita da questa struttura massiccia e pesante a cui abbiamo accennato, era rappresentata un'altra architettura meramente apparente che spesso è in aperta contraddizione con la struttura concreta degli edifici: i muri massicci e ciechi, per esempio, sono frequentemente decorati da pilastri che trasformano i templi in strutture ipostile leggere apparentemente diafane; allo stesso modo, la sovrastruttura è decorata da livelli orizzontali ‒ falsi piani, gradini, ecc. ‒ che dissimulano, contraddicendola, la dominante verticale del camino centrale.
Gli esempi cui si è accennato ‒ insieme a molti altri che qui non è il caso di citare ‒ dimostrano che ci troviamo in presenza di un'architettura dai due volti che trasforma l'architetto in una sorta di Giano bifronte; costruttori o, si potrebbe dire, ingegneri, gli architetti conoscevano a fondo i problemi della stabilità del suolo, della resistenza e della posa in opera dei materiali, della portata, dello strapiombo, ecc. e, allo stesso tempo, erano artisti che, disegnando un'architettura non legata alle contingenze materiali studiate dagli ingegneri, si dedicavano allo studio dell'armonia delle proporzioni, dei giochi di luce, di tutto ciò che poteva contribuire alla gloria delle divinità a cui erano consacrati i templi e dei committenti di questi edifici.
Dal punto di vista storico, questo sdoppiamento si spiega senza dubbio con il cambiamento dei materiali da costruzione impiegati nell'edificazione dei templi. Quando, in seguito a una complessa evoluzione di carattere religioso (che precedette certamente di alcuni secoli l'inizio della nostra era), s'iniziò a credere che le divinità abitassero sulla Terra e dimorassero nei templi, questi ultimi furono costruiti sul modello delle abitazioni umane, considerate l'archetipo degli edifici di abitazione. Questi edifici, tuttavia, presentavano una struttura ipostila in legno o in altri materiali leggeri che non assicuravano la perennità delle abitazioni divine. Ben presto s'iniziò quindi a costruire i templi con pietre e mattoni, giungendo alla creazione di un'architettura in muratura. Nonostante questo cambiamento, le cui ragioni non sono del tutto note, non si abbandonò il modello iniziale dell'abitazione umana costruita con materiali leggeri che, non potendo essere realizzato con i nuovi materiali, fu semplicemente rappresentato, trasformandosi così da struttura portante in motivo decorativo. In tal modo si conferì a questa architettura una grande flessibilità, che consentiva qualsiasi audacia, e si giunse alla creazione di una forma di trompe l'oeil grazie alla quale queste costruzioni massicce, pesanti e cieche possono assumere l'aspetto di un'architettura leggera e aperta.
Tornando ai trattati, non si può, tuttavia, non riconoscere che l'analisi di questa doppia architettura è decisamente squilibrata e che le sezioni dedicate ai problemi degli 'ingegneri' occupano uno spazio molto ridotto. Per ciò che concerne la costruzione stessa, si deve constatare che la questione dell'aggetto non è mai affrontata e che in nessuna di queste opere è stato individuato un termine sanscrito che indichi tale procedimento, in realtà onnipresente e perfettamente dominato. In maniera analoga, i problemi relativi al peso delle strutture non sono mai analizzati in dettaglio, bensì affrontati molto indirettamente nelle analisi dedicate alle proporzioni, secondo cui le celle erano strette e circondate da muri di considerevole spessore e la larghezza dell'insieme era posta in relazione all'altezza totale del tempio; si potrebbe inoltre citare l'esempio del tema dei materiali, preso in esame in una serie di analisi interessanti che, tuttavia, trascurano i dettagli tecnici propriamente detti e i problemi della loro posa in opera, e in cui non è affrontato in modo specifico il tema del taglio delle pietre.
Esistono tuttavia alcune eccezioni. Nei trattati architettonici troviamo, infatti, alcune indicazioni tecniche molto precise più o meno direttamente riconducibili ai problemi costruttivi come, per esempio, quelle relative agli esami prescritti per valutare la qualità del suolo, decisamente empirici, ma tutt'altro che privi di interesse per quanto riguarda gli edifici che non potevano essere dotati di vere e proprie fondamenta (Mayamata, capp. 4 e 14). Sono fornite, inoltre, regole dettagliate attraverso le quali calcolare una struttura radiale (ibidem, cap. 18) o disegnare poligoni regolari a cinque, sei, sette o otto lati (ibidem, cap. 25), due casi in cui il ricorso alla geometria consentiva di ottenere risultati molto precisi. Tuttavia, bisogna riconoscere che queste analisi non sono sufficientemente approfondite; osserveremo, inoltre, che gli esami del suolo sono descritti in modo dettagliato soltanto perché s'inserivano in un insieme di riti e che le regole geometriche attraverso cui eseguire il tracciato dei poligoni sono enunciate in relazione alla realizzazione all'interno del recinto dei templi di fosse (kuṇḍa) destinate alla celebrazione dei riti del fuoco.
Le cose cambiano completamente quando si passa a considerare l'aspetto esteriore dei templi, vale a dire il loro rivestimento attraverso una falsa architettura. Avendo già affrontato la questione, ci limiteremo a ricordare che nei trattati non esiste alcuna esplicita indicazione della funzione esclusivamente decorativa dell'architettura descritta. In definitiva, nel tradurre l'architettura in teoria, i trattati hanno eliminato gran parte degli aspetti relativi alla sua realizzazione nella pratica (prayoga) o, per essere più precisi, potremmo dire che quanto affermano in relazione a questi problemi si applica non tanto agli edifici reali quanto all'architettura ricomposta e priva di qualsiasi funzione strutturale da cui sono decorati.
L'importanza attribuita ai trattati era tutt'altro che trascurabile se, come dimostra il caso dell'aggiornamento del Mayamata, in seguito alla costruzione del tempio di Tanjore, si sentì l'esigenza di rettificarne i testi per adattarli a nuove situazioni che, a rigor di logica, avrebbero dovuto indurre a considerarli obsoleti. Gli esempi contrari, relativi alle mancate rettifiche dei brani del Mayamata, in cui sono descritti i padiglioni d'ingresso e i padiglioni a mille pilastri, dimostrano d'altra parte che queste opere non erano immortali e che potevano cadere in disuso a vantaggio di testi più recenti. Ciò detto, non possiamo fare a meno di domandarci quale fosse il ruolo effettivamente svolto da questi trattati che pretendevano di codificare una tradizione eterna richiamandosi all'autorità della rivelazione. Abbiamo già osservato che i trattati architettonici non potevano in alcun caso essere impiegati come manuali tecnici nel campo della costruzione ‒ nel senso rigoroso del termine ‒ degli edifici. In compenso, si può pensare che, proponendosi di codificare la tradizione, essi abbiano svolto nei suoi riguardi un ruolo conservatore, lasciando, al tempo stesso, agli specialisti dell'arte che li consultavano, architetti, scultori, ecc., una grande libertà d'interpretazione. A tale proposito, sarà opportuno richiamare l'attenzione su due caratteristiche di questi trattati di cui non abbiamo ancora parlato.
Ci riferiamo in primo luogo alle formule sistematicamente inserite alla fine di quelle descrizioni in cui si propongono diverse opzioni, la cui scelta doveva essere operata, secondo un certo numero di queste formule, in funzione delle circostanze (yuktyā) e, secondo altre, in funzione del tipo di bellezza (yathā śobham) a cui si tendeva; in entrambi i casi ci troviamo in presenza della chiara formulazione di una scelta suggerita, non imposta, in breve di una norma adattabile a un nuovo contesto e soprattutto a una nuova estetica. La seconda caratteristica che ci sembra necessario evidenziare è che questi trattati infarciti di astrazioni e di elenchi presuppongono sistematicamente il ricorso al disegno, anche se, paradossalmente, i manoscritti illustrati di questo genere di testi sono molto rari e le sole vere eccezioni sono costituite da alcuni manoscritti provenienti dall'Orissa, indubbiamente molto recenti (probabilmente compilati nel XX sec.), tra i quali ricorderemo quello dello Śilpaprakāśa, le cui illustrazioni sono state riprodotte nell'edizione del trattato curata da A. Boner e S.R. Sarma (1966). In effetti, bisogna riconoscere che alcune descrizioni numeriche, come, per esempio, quella dell'insieme modanato menzionata in precedenza, sono comprensibili solo attraverso il ricorso alla matita (o al calamo). Non è un caso che nelle eulogie della figura dell'architetto presenti nella maggior parte dei trattati qui presi in esame il disegno sia inserito nell'elenco delle conoscenze necessarie agli specialisti dell'arte (Mayamata, 5.17); ma, nel 'disegnare' i testi che consultavano, questi ultimi non potevano che interpretarli e adattarli, più o meno coscientemente, ai loro gusti e soprattutto a quelli del periodo in cui operavano. In definitiva, si può affermare che, da questo punto di vista, è proprio grazie alla loro tendenza all'astrazione che queste opere riuscirono a rendere adattabile la tradizione e quindi a preservarne la vitalità.
Atti a conservare le tradizioni che codificavano senza renderle sterili, i trattati architettonici servirono probabilmente a diffondere queste stesse tradizioni creatrici nelle altre regioni del continente asiatico. Sappiamo, in effetti, che la letteratura normativa indiana ha accompagnato il fenomeno dell'indianizzazione in tutte le regioni dell'Asia sudorientale. Benché nelle iscrizioni di quest'area 'indianizzata' non appaia, almeno a quanto risulta, alcuna specifica menzione di Śilpaśāstra o di opere analoghe, i numerosi riferimenti a śāstra relativi ad altri campi di indagine inducono a supporre che i trattati architettonici di origine indiana non fossero affatto sconosciuti in questa area; si può persino affermare che, come pensiamo di aver già dimostrato (Dagens 1994), le interpretazioni a cui essi furono sottoposti dagli artisti che operavano in questa zona siano all'origine della creazione di forme originali adattate ai diversi luoghi e ai differenti periodi. In questa sede ci limiteremo a suggerire, senza entrare nei dettagli della questione, che molto probabilmente la duplice funzione assegnata al padiglione d'ingresso (gopura) nei templi dell'antica Cambogia ‒ quella cioè di accesso al tempio e di vera e propria cappella ‒ si spiega con l'analogia istituita tra il prospetto dei padiglioni d'ingresso e quello degli stessi templi nei Vāstuśāstra, che va coniugata con l'ambiguità di un termine architettonico, garbhagṛha, impiegato per designare sia la cella del tempio sia il passaggio coperto che attraversava il padiglione d'ingresso. Apprendendo che i padiglioni d'ingresso erano simili ai templi ‒ senza capire che il brano in questione si riferiva esclusivamente al prospetto ‒ e che erano dotati di un volume interno (il passaggio coperto) designato con lo stesso termine impiegato per indicare la cella, questi architetti probabilmente giunsero alla conclusione che era possibile assegnare una duplice funzione al padiglione d'ingresso. Essi quindi conservarono il ruolo di luogo di transito assegnato al passaggio coperto nella tradizione indiana, conferendogli allo stesso tempo quello suggerito dal termine impiegato per designarlo, che indicava la cella in cui era custodita l'immagine della divinità oggetto del culto. Questi architetti finirono così per costruire padiglioni d'ingresso completamente diversi da quelli esistenti in India, simili in tutto a cappelle che bisognava attraversare per accedere ai templi. Rimanendo fedeli alla lettera del trattato che tramandava una precisa tradizione ‒ irrefutabile, ma nonostante tutto 'straniera' ‒, essi la interpretarono in modo da conformarla alle esigenze della pratica dei culti di origine indiana che avevano già adattato alle loro concezioni.
Siamo in presenza di un'ulteriore conferma della polivalenza degli Śilpaśāstra, già attestata da numerose prove. Come abbiamo constatato, queste opere, che richiamandosi ai Dharmaśāstra adattano l'architettura e le arti affini all'organizzazione sociale, tendono a stabilire nelle diverse aree di indagine una normativa irrefutabile, grazie alla loro origine divina che le presenta come anteriori a ogni applicazione pratica. Tale normativa, tuttavia, non è che la codificazione sistematica di tradizioni ben definite, regionali o persino locali, che i trattati conservarono e consolidarono, contribuendo al loro arricchimento, alla loro diffusione e al loro rinnovamento.
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