Scienza greco-romana. Religione, societa e scienza
Religione, società e scienza
di Giovanni Pugliese Carratelli
Dalla fase più remota della loro esperienza religiosa tutte le popolazioni del mondo antico, classico e orientale, hanno visto nella volta celeste la sede di un misterioso potere, regolatore dell'alternarsi dei giorni solari con le notti lunari e sideree e del ritmo delle stagioni, e arbitro dei fenomeni atmosferici; un'analoga forza hanno immaginato riposta all'interno della Terra quale produttrice della vegetazione e dei fenomeni vulcanici e sismici come delle tempeste. Spontaneamente si è quindi iniziato un processo di divinizzazione del Cielo e degli astri così come della Terra: naturalmente esso ha avuto differenti corsi e aspetti, in relazione con le vicende e le tradizioni di ciascun popolo, il cui pantheon è stato quindi formato e riformato, non senza suggestioni provenienti da altre culture. Degli astri, quelli che hanno primamente ricevuto un culto quali numi distinti sono stati il Sole e la Luna, presenti in ogni pantheon, e nella divinizzazione del cielo è prevalsa ovviamente l'immagine notturna della volta celeste, disseminata di innumerevoli lumi rifulgenti sullo sfondo tenebroso. Una radicale trasformazione si è però verificata quando gli sviluppi di comunità vaste e complesse, organizzatesi intorno a centri urbani, e poi la costituzione di veri e propri Stati hanno comportato una configurazione dei culti definita in rapporto con la fisionomia e la funzione attribuite a ciascuno dei numi, tra i quali hanno assunto un posto preminente quelli che impersonavano le oscure forze della Natura, il cui potere si estendeva su tutti i viventi. Nel medesimo tempo si faceva sentire l'esigenza di una teologia connessa con le incipienti interpretazioni, necessariamente mitiche, della varietà e della mutevolezza degli aspetti del Cosmo e dei destini degli uomini: nella formazione dei miti i modelli non potevano essere offerti che dai sentimenti e dai pensieri che accompagnavano le quotidiane esperienze tecniche e intellettuali degli uomini, e in menti più creative il mŷthos diveniva stimolo a un critico lógos. Il mondo degli uomini si arricchì di invisibili protagonisti, necessariamente immaginati in forme umane, animali o vegetali e talvolta rappresentati da simboli aniconici lignei o litici: protagonisti dotati di poteri sovrumani ma non diversi dagli uomini nei pensieri e nelle passioni. Ai simboli divini aniconici si sostituirono presto immagini antropomorfe o teriomorfe, significatrici di funzioni benefiche o malefiche. Questa parziale assimilazione dei numi ai loro devoti, che li sentivano così perennemente presenti tra loro, impose una definizione della sfera di azione di ciascuno dei numi, tanto di quelli che incombevano sui viventi quanto di quelli che governavano le profondità che ospitavano i morti. Ai visibili astri divinizzati, alcuni dei quali erano già collegati al mondo dei mortali come punti di riferimento per la vicenda delle stagioni e la misura del tempo, venne presto riconosciuta un'azione determinante per il temperamento e le fortune degli uomini. La necessità di regolare il rapporto con una presenza che era di volta in volta temuta o invocata indusse a circoscrivere l'azione dei numi e a legarli con magici espedienti: tali, nel mondo greco, l'immagine di culto, che creava in certo modo un vincolo del nume col naós (cella) in cui l'immagine era custodita; l'epíklēsis, invocazione irresistibile quando era fatta ritualmente nell'area consacrata; il teonimo scritto sull'ara, che a questa legava il nume titolare. Del nesso ‒ ben riconoscibile in più civiltà del Vicino Oriente ‒ tra le esperienze storiche delle singole nazioni e le variazioni nella struttura dei rispettivi sistemi teologici, offre esempi cospicui, accanto all'India dell'età a cui appartengono i testi vedici, il mondo greco più antico noto da testi micenei, dai poemi omerici ed esiodei e da testimonianze epigrafiche, oltre che da un'ingente documentazione archeologica. Nella Grecia egea il trapasso dalla fase micenea, in cui aveva operato in notevole misura l'eredità 'minoica', al 'medioevo ellenico' si è manifestato nella costituzione di una gerarchia divina, nella quale Zeus è divenuto sovrano (e per lui fu adottato, ed esteso a pochi altri dèi, il titolo che era proprio del monarca miceneo, wánax), e alcuni dei numi più antichi sono stati messi in ombra o addirittura ignorati dal pantheon di molte póleis. Era intervenuta, verso la fine del II millennio, una grande crisi che nella memoria dei Greci si compendiò, grazie all'épos omerico, nella guerra di Troia e nei racconti dei nóstoi, i ritorni in patria dei condottieri achei; dalla dissoluzione dei regni micenei era sorta allora una geniale invenzione, la pólis: al potere assoluto, di tipo orientale, di un monarca investito d'autorità mediante una consacrazione e sostenuto dalla forza militare della nobiltà fondiaria (i lawói), si era infine sostituita, non senza attriti, un'aristocrazia formata da gruppi di grandi famiglie (génē), che avevano costituito la spina dorsale degli antichi regni. Collegi di basilẽwes, esponenti dei génē nei distretti (dãmoi) dei regni, formarono il vertice della nuova organizzazione statale, e i discendenti dei lawói, esperti nelle armi, assicurarono la difesa delle sedi dei poteri politici. In queste ripresero vigore l'attività degli artigiani e quella, diretta da elementi dell'aristocrazia, dei mercanti; nuovamente navigatori greci si immisero nell'intenso movimento di ricerca di materie prime e di mercati che da secoli si svolgeva per tutto il Mediterraneo e toccava il Mar Nero e l'Atlantico. All'immagine del pantheon che si era formata nell'età minoico-micenea, come di una potenza che dal monte Olimpo (la più alta vetta, nevosa e cinta di nubi, della Grecia continentale) dominava la Terra e incombeva sul vivere quotidiano dei mortali, subentrò allora l'immagine di un Olimpo uranio, non toccato da nubi e tempeste, invisibile e inattingibile ai mortali. Questa immagine nuova fu il segno di un diverso rapporto tra gli uomini e gli immortali, e sulle raffigurazioni di questi in forme che ne accentuavano la forza sovrumana o l'inumana insensibilità prevalse definitivamente l'immagine antropomorfa, che ravvicinava gli Olimpi alla Terra, ma insieme affermava l'eminenza dell'uomo rispetto a tutti gli altri viventi nel suo mondo. Il nuovo rapporto si armonizzava così con i principî ispiratori del nuovo organismo politico, dove in luogo di sudditi vivevano cittadini (polĩtai), che erano pari nei diritti e nei doveri ed erano governati non più da un monarca depositario di norme dettate o ispirate da numi (le thémistes) ma da magistrati eletti e sacralmente impegnati a rispettare e far rispettare la legge, il nómos, concordemente formulata dai cittadini stessi: si era dunque affermato il principio della responsabilità individuale di fronte alla pólis come di fronte ai numi protettori di essa. Alle regole di vita imposte dai voleri di un sovrano si era sostituito un codice morale sancito dalla riconosciuta autorità dei teologi di grandi santuari. L'antica solidarietà della famiglia, che veniva espressa anche in forme giuridiche, si dilatava in solidarietà di cittadini di una pólis rispetto a cittadini o stati stranieri e, abbinandosi a un più diffuso sentimento di umanità, poneva le premesse di future teorie sull'unità del genere umano. Una diversa e più profonda religiosità nasceva così in quanti avvertivano il mutamento di clima morale verificatosi nel mondo greco per il maturarsi di una coscienza civile; costoro si sentivano pertanto più impegnati a chiarire a sé stessi i termini del rapporto tra i mortali e il vasto mondo non soltanto terreno che si dispiegava ai loro occhi, il mutevole ma perenne teatro della phýsis nel quale gli abitanti della Terra passano come momentanei attori, e insistente si presentava ai più riflessivi il problema del contrasto tra la precarietà della vita terrena e il desiderio di perennità innato negli uomini.
di Giovanni Pugliese Carratelli
Nelle póleis più operose e più coinvolte nei traffici mediterranei ‒ e quindi specialmente nella zona costiera dell'Anatolia, nelle isole dell'Egeo, nella penisola attico-beotica e nell'area dell'istmo di Corinto ‒ il fervore di vita, i conflitti di potere all'interno dei governi aristocratici, i tentativi di imporre oligarchie o dinastie di týrannoi concorrevano ad accelerare il moto verso costituzioni democratiche, naturale punto d'arrivo nell'evoluzione di ogni pólis culturalmente ed economicamente attiva e perciò destinata ad avere alternative esperienze sociali e politiche. In parte diverse erano le esperienze di quelle póleis coloniali dell'Occidente mediterraneo che più erano attive nelle industrie e nei traffici oltremarini: in esse, infatti, ai problemi politici interni si aggiungevano quelli posti dalla presenza di popolazioni autoctone nella città, nella chṓra (il territorio extraurbano) e, in maggior misura e non raramente in rapporto conflittuale, nella regione. Questi problemi erano molto meno acuti nelle póleis d'Asia, dove la frequentazione greca era stata più antica e più intensa; nelle póleis d'Occidente era minore il peso delle grandi famiglie e specialmente delle tradizioni gentilizie, che nella madrepatria inasprivano i conflitti o contrastavano efficacemente le riforme di istituti pubblici e nuovi orientamenti non soltanto politici. Su questa scena così affollata di tradizioni vetuste e di culti aviti, di nuove esperienze politiche, economiche e religiose, di spinte innovatrici e di tenaci resistenze e, in più, di secolari rivalità tra póleis e, nei mari occidentali, di una spietata concorrenza mercantile spesso esplosa in guerre tra Greci, Cartaginesi ed Etruschi, nella Ionia d'Asia meditativi intelletti cercavano di uscire dalla selva di cosmogonie e teogonie egee, asiane ed egizie, di culti e di miti che s'incrociavano, di antiche superstizioni e di suggestioni 'sciamaniche', e di rinvenire una certa armonia nella disordinata materia accumulatasi in secoli di immaginazioni e di commistioni acritiche. Come sempre avviene, anche nel mondo greco arcaico la riflessione storica, nutrice del sentimento di unità dell'éthnos, fu suscitata dall'opera di un genio poetico. Nel corso dell'VIII sec., quando s'era già esaurita la lunga crisi seguita al tramonto delle monarchie micenee e le nuove istituzioni autenticamente 'politiche' s'erano consolidate, l'antica vocazione ecumenica dei Greci spinse esploratori e mercanti a percorrere le rotte mediterranee, e cittadini di póleis dell'area egea e anatolica, ionici in primis, si trasferirono nell'Italia meridionale e nella Sicilia, dove la cultura greca irradiatasi dai fondachi (teíchea, empória) micenei aveva predisposto le genti autoctone a una continuità di contatti e alla convivenza con i coloni. In generale l'autonomia delle póleis italiote e siceliote non indebolì i vincoli gentilizi e cultuali con le rispettive mētropóleis, e queste non persero mai di vista le fiorenti loro colonie, così che spesso le une e le altre si diedero mutuo sostegno non solamente sul piano economico. Il profondo attaccamento al comune patrimonio civile, sul quale era fondato il sentimento dell'unità ellenica, fu decisivo per le fortune dell'esperienza coloniale in Occidente. Gli aristocratici promotori delle imprese coloniali si erano nutriti di quella ricchezza spirituale, specialmente attraverso i poemi di Omero. Nel primo di questi, l'Iliade, che esalta una vittoria di Achei su potenze asiane, dovuta alla solidarietà ellenica e risolutiva per il libero accesso dei Greci all'area pontica e caucasica, lo sfondo della guerra contro Troia è contesto di ricordi remoti o vicini, di rievocazioni del mondo miceneo che trasfiguravano i protagonisti in eroi, di riflessi della vita delle póleis nell'età del poeta. All'avvincente memoria di un conflitto epocale, pervasa di una humanitas ignota alle cronache del Vicino Oriente antico, fa riscontro nell'Odissea la mitizzazione della quotidiana avventura dei naviganti ellenici nei mari occidentali, ormai frequentati e pertanto scelti come teatro di favolose vicende di uomini e daímones (come sarà per i mari d'Oriente nelle Mille e una notte). Marinai e trafficanti greci, in gara con quelli levantini, avevano ripreso lunghi viaggi verso lidi lontani, seguendo rotte tracciate da grandi vascelli minoici e micenei simili a quelli raffigurati negli affreschi di Thera (odierna Santorino), o perfezionate da secoli di esperienze nautiche e di osservazioni del cielo. Il coraggio di Odisseo e dei compagni non è diverso da quello dei guerrieri achei e troiani: gli uni e gli altri, realistiche personificazioni di ideali, affrontano con pari risolutezza le armi degli avversari, la furia degli elementi, l'ira dei numi e cedono alle passioni dei mortali ma sanno anche dominarle. L'immagine terrifica dell'Ade caliginoso non offusca in loro l'idea luminosa dell'avventura per amore di 'virtute e canoscenza', né attenua la confidenza nella mẽtis, nel meditato disegno di cui è maestra Athena. Gli eroi di Omero furono modelli ideali per le aristocrazie della Ionia d'Asia prima di diventarlo per tutti i Greci e la figura di Odisseo, pronto a superare i termini delle consuete esperienze, è quasi un preannuncio dei primi ricercatori, inappagati da mitiche rappresentazioni del mondo della Natura, degli uomini e dei numi, e desiderosi di valersi dei propri strumenti del conoscere: non più soltanto dell'ópsis (visione) e dell'akoḗ (audizione), ma del lógos (conversazione), della mnḗmē (memoria), del noũs (intelletto).
di Giovanni Pugliese Carratelli
Un'esigenza di cognizione, non ancora critica, si manifesta nella Teogonia, un poema che, in tempo non lontano da quello in cui fu composta l'Odissea, Esiodo ha dedicato, con intento etico e didattico, a una 'storia sacra'. Le fonti, come l'autore stesso suggerisce sotto il velame di rivelazioni fattegli dalle Muse dell'Elicona, furono primamente inni e leggende poetiche, testimoni di un'antichissima religiosità, e tradizioni serbatesi in santuari. Nell'opera esiodea, non diversamente da più antichi testi del Vicino Oriente, miti sulle generazioni dei numi si intrecciano con miti cosmogonici, nei quali vengono variamente sistemate le trasfigurazioni poetiche di secolari osservazioni di fatti naturali. È questo il principio di una 'storicizzazione' della phýsis. Probabilmente il poeta, nato ad Ascra in Beozia (dove l'invasione di una gente greca del Nord aveva imposto il suo etnico alla regione, dopo aver vinto gli antichi abitanti ioni ed eoli, che in gran parte emigrarono verso le isole e le coste anatoliche dell'Egeo settentrionale), ha conosciuto hieroì lógoi, leggende sacre non soltanto di santuari ellenici, ma anche dell'Anatolia anellenica e forse della Mesopotamia (per tramite anatolico). Quando Esiodo ha composto il suo poema il pantheon olimpio era definito da alcuni secoli; ma erano ancora vive memorie religiose d'età remota, e culti preolimpici rimasti estranei al dōdekátheon (le dodici divinità) contavano ancora devoti, e in qualche pólis figuravano tra i culti pubblici. Esiodo ha potuto così risalire oltre l'età in cui si era formato il pantheon olimpio e ha salvato dall'oblio vetusti miti e incipienti speculazioni teologiche e cosmogoniche: la nascita di Érebos e della Nera Notte dal Cháos (il 'Vuoto'); il connubio della Terra col suo proprio figlio, il 'Cielo sidereo'; l'evirazione di questo a opera del figlio Krónos 'dal tortuoso ingegno', e le nozze di Krónos con la sorella Rhéa; infine la nascita di Zeus 'padre dei divini e degli umani', sovrano del pantheon olimpio e personificazione del cielo luminoso. La successione di dinastie divine sembra riflettere le fasi della religione del mondo greco fino alla sistemazione olimpica dovuta probabilmente ai sacerdoti del santuario di Pythṓ (Delfi), la cui autorità in materia di regolamento di culti era riconosciuta da tutti i Greci. Palese è la relazione del mito cosmogonico e teogonico esposto da Esiodo con analoghi miti dell'Asia Anteriore, noti da testi mesopotamici e anatolici: in primo piano tra questi il mito hurrita di Kumarbi, di cui si conosce una versione hittita rinvenuta nell'archivio-biblioteca di Khattusha, capitale del regno di Khatti. Esso narra come sia avvenuta l'evirazione di Anu, dio del Cielo, ad opera di Kumarbi, e come questi a sua volta sia stato vinto quando tentò di abbattere il dio della Tempesta, nume supremo del pantheon hurrita. L'innegabile suggestione di miti hurrico-hittiti, come di altri sumero-accadici, non può datarsi che in età anteriore alla dissoluzione delle monarchie micenee. Un'influenza così efficace di storie sacre dell'Asia Anteriore in area greca è ammissibile soltanto per il tempo in cui quelle monarchie assolute, nelle quali gli interessi dinastici potevano prevalere sul rispetto di tradizioni nazionali, non erano ancora state sostituite da organismi propriamente 'politici': le istituzioni di questi, infatti, erano strettamente legate con la sfera dei culti ed erano rette da gruppi gentilizi (gli áristoi, lat. optimates) che avevano promosso la costituzione delle nuove entità statali e traevano forza e coesione dall'intimo loro vincolo con particolari culti o santuari e dall'ossequio a tradizioni sacrali alle quali avrebbe tolto vigore ogni infiltrazione di elementi estranei. Il fatto che in centri religiosi micenei, nei quali era inevitabile l'influenza della suprema autorità dei wánaktes (monarchi), praticamente non si frapponessero impedimenti alla penetrazione di miti orientali è conseguente all'intensità delle relazioni diplomatiche, oltre che mercantili, esistenti tra il mondo miceneo e il Vicino Oriente. In proposito è significativo l'episodio della temporanea traslazione dei simulacri di due numi non asiani, titolari di due importanti santuari achei ‒ quelli di Akhkhiyawa (probabilmente di Ialysós in Rodi) e di Lazpa (Lesbo) ‒ a Khattusha, presso il re Murshili II, colpito da un'afasia considerata una punizione inflitta dai numi alla dinastia per un sacrilegio commesso dal suo predecessore Shuppiluliuma. La traslazione fu attuata tra il 1330 e il 1310, nella speranza che un intervento taumaturgico dei due numi stranieri avesse il buon esito che invano era stato chiesto ai 'mille dèi del paese di Khatti' offesi da Shuppiluliuma. Un'analoga operazione si era svolta circa cinquant'anni prima, tra Mitanni e l'Egitto, quando il re Tushratta aveva mandato la statua di Ishtar di Ninive presso l'infermo faraone Amenhotep III, che aveva già sperimentato l'efficacia di quel simulacro inviatogli dal padre di Tushratta, Shuttarna II. È quindi assai probabile che nei numerosi santuari greci d'Asia, da Claro a Efeso, da Didime a Labranda, e nelle isole di Lesbo, Samo e Rodi, ove in età micenea il culto dei numi titolari non era rimasto immune da influenze della religiosità dell'Asia anellenica, le mitiche cosmogonie e teogonie elaborate dai sacerdoti non abbiano ignorato le cosmogonie e teogonie anatoliche, mesopotamiche e siriane, alimentate dalle dottrine degli astronomi babilonesi. Sono sempre state tipiche dei Greci, infatti, l'inclinazione a conoscere le culture con cui essi sono venuti a contatto e la facoltà di secernere e rielaborare, con spirito creativo, gli elementi che richiamavano il loro interesse.
di Giovanni Pugliese Carratelli
Nel Vicino Oriente i rari trapassi dalle canonizzate cosmogonie e connesse teologie a indagini sull'uomo, sul suo rapporto col mondo in cui vive e sui suoi destini non si sono mai accompagnati a esplicite critiche delle teologie di grandi collegi sacerdotali: anche l'aspro conflitto tra Amenhotep IV (Akhenaton) e i sacerdoti tebani di Amon non ha superato i confini della fede religiosa e del connesso culto, e la nuova visione dell'uomo che si è manifestata nell'arte non ha alimentato un libero pensiero. Entro le grandi culture dell'Oriente classico né l'incipiente ricerca scientifica né i suoi esiti tecnici hanno dato luogo ad attriti con le gerarchie religiose, o hanno interferito nelle speculazioni teologiche o cosmogoniche dei sacerdoti. Neppure le indagini astronomiche, che hanno avuto un posto d'onore nella scienza babilonese, hanno suscitato problemi di vasta portata esterni all'ambito tecnico. Non se ne presentava d'altronde l'occasione, perché le scuole e le biblioteche erano strettamente legate alle sedi del potere regio e del potere sacerdotale, e la situazione non era diversa in Egitto; da ciò il carattere prevalentemente empirico e classificatorio dell'indagine scientifica e la preminenza della tecnologia con fini pratici nel Vicino Oriente. Nella Grecia arcaica lo sfondo religioso è però profondamente mutato rispetto a quello che è dato intravedere della fase minoica e della micenea, nelle quali al vertice dell'organizzazione statale era l'autorità di un sovrano consacrato dalle gerarchie sacerdotali, da lui a loro volta protette. La pólis è stata anch'essa fondata su principî sacri; ma l'ossequio alla religione avita e la pratica dei culti dovuti ai numi del pantheon riconosciuto dallo Stato (e non sempre coincidente col dōdekátheon classico) non dipendevano più dall'autorità di un monarca o di un sacerdote vicario di un nume. Come i génē erano liberi di venerare nelle forme trasmesse da una generazione all'altra i numi protettori o i capostipiti, così a ogni polítēs diveniva lecito manifestare la sua eusébeia (lat. pietas) nelle forme ch'egli riteneva più degne: soltanto chi si segnalava per asébeia (impietas) o per ostentato dispregio dei principî morali su cui era fondata l'armonia stessa della pólis e convergevano i sentimenti dei più, si esponeva alla perdita dei diritti civili. Questa straordinaria libertà (il cui limite tuttavia poteva trovarsi nell'ignoranza delle moltitudini o nell'ostilità politica, come sperimentarono Pitagora, Anassagora e, più di tutti, Socrate) non soltanto ha promosso l'indagine scientifica, ma, favorendo l'intima religiosità, ha infuso nel pensiero degli intellettuali greci un vivo sentimento religioso: non v'è infatti nel mondo ellenico creazione d'arte o espressione letteraria o impegno di ricerca scientifica a cui possa dirsi estraneo quel sentimento. Una disposizione analoga si riscontra anticamente soltanto nei poeti, nei dotti e negli artisti dell'India: lì, come in Grecia, il pensiero ha saputo superare la generale inclinazione a modellare il mondo divino secondo le mutevoli forme della Natura e del vivere umano, e ha elaborato, in antitesi non dichiarata con ogni sistema politeistico, l'idea di una suprema e onnipotente divinità creatrice (probabilmente quando ancora la gente Ārya era unita, come suggerisce anche la dottrina di Zoroastro). Erano infatti divinizzati concetti e sentimenti, stati d'animo e comportamenti; così, già in Omero compare Átē (la Follia) e la Teogonia di Esiodo elenca Éris (la Contesa), Oizýs (l'Angoscia), le Moĩrai, Némesis, Apátē (la Frode), Philótēs (l'Amicizia), Gẽras (la Vecchiezza); il pantheon vedico ha Aditi (l'Infinità), che diverrà madre dei sette Āditya, tra i quali, accanto a numi come Varuṇa (il Cielo sidereo), figurano Bhaga (equivalente all'Agathḕ Týchē, la Buona Sorte), Aṃśa (pari alla Moĩra) e Dakṣa (corrispondente alla Mẽtis). Questa apparente esagerazione del politeismo ha in realtà dato inizio alla dissoluzione di esso, perché ha frantumato l'unità delle singole persone divine e della stessa persona umana e ha così accelerato il moto verso la teorizzazione di una totale unità divina. Nel mondo greco, inoltre, il vivere nella pólis nata da un sentimento liberale ha rinvigorito quest'ultimo, e trasferito sul piano politico il senso della responsabilità individuale che aveva governato il comportamento dei sudditi di fronte al wánax depositario delle thémistes. L'osservanza delle leggi che la città si è data, la solidarietà con i concittadini, il rispetto della religione civica sono divenuti norme del comportamento civile. Su questo sfondo sono riemerse figure di antichi vati, tramiti e interpreti di messaggi divini, rivelatori di verità, nei quali alla singolarità del sapere corrispondeva un ascetico modo di vivere, un linguaggio poetico, l'aspetto sereno di chi conosce ciò che i più ignorano. Nella Grecia delle póleis il mito del 'buon selvaggio', qual è rappresentato nell'epos dagli Hippēmolgoí 'che si nutrono di latte' e dagli Ábioi, 'i più giusti tra gli uomini' (Ilias, XIII, 5 segg.), genti del nebbioso mondo boreale donde i sacerdoti dei santuari apollinei avevano mutuato suggestivi riti sciamanici, ha dovuto cedere all'immagine di mánteis partecipi di rivelazioni divine e perciò dotati di poteri taumaturgici. L'esempio classico è quello di Orfeo, musico e poeta, incantatore di uomini e di animali, e maestro di una norma di vita che all'anima immortale promette salvezza dalle tenebre dell'Ade e perenne dimora in una sede luminosa prossima a quella dei numi immortali. Si è così proposta ai Greci una speranza di vita eterna, e profeti divinamente ispirati hanno preso il posto di benefici eroi dotati di straordinaria forza fisica, come Eracle, modello di coraggio e pazienza per gli arditi esploratori che nel medioevo ellenico avevano aperto vie marine e terrestri ai fondatori di empori e di colonie nell'Occidente mediterraneo. A questa esaltazione del sapere congiunto alla pietas e a una disciplina morale e intellettuale avevano fortemente contribuito i sacerdoti di Apollo dai loro santuari oracolari di Grecia e d'Asia e infine da Delfi, dove il tempio del nume uranio sovrappostosi all'oracolo di Gẽ o Thémis ospitava nelle sue fondazioni il sepolcro del Dioniso cretese, vestigio della religione preolimpica i cui numi conoscevano un perenne alternarsi di morte e rinascita.
di Giovanni Pugliese Carratelli
Tra il VII e il VI sec. i Greci attraversarono una crisi decisiva per lo sviluppo della loro vita intellettuale; questa crisi si svolse tra due poli, Creta e il mondo ionico (Ionia d'Asia e Atene). L'isola famosa per i suoi antichissimi culti misterici e riti catartici e particolarmente per un'escatologia a cui era associata la figura di Minos re di Cnosso, mitica nella tradizione religiosa ma reale nella memoria storica dei Greci, sembra aver assunto il valore di simbolo di un passato denso di presenze divine. L'altro polo sembra annunciare un'epoca nuova, in cui l'osservazione si appunta sulla realtà politica, abbinando a un profondo rispetto per le grandi tradizioni nazionali un desiderio di ampliare gli orizzonti della propria esperienza e conoscenza. Emblematica di quella crisi fu la serie di eventi che seguì al tentativo di Cilone ‒ genero del tiranno di Megara, città di forti tradizioni micenee e rivale della vicina Atene ‒ di istituire la tirannide. L'eccidio dei ciloniani in un'area sacra, ordinato dall'arconte Megacle appartenente al génos (di origine pilia) degli Alcmeonidi, provocò la reazione di génē ostili agli Alcmeonidi; questi, accusati di sacrilegio, vennero espulsi in perpetuo da Atene, al pari di Cilone; e a purificare la città contaminata dal sacrilegio fu invitato Epimenide Cretese. La visita del mántis cretese, esperto della 'divinazione del passato' ‒ vale a dire dotato della facoltà di riconoscere in eventi trascorsi i segni premonitori di fatali conseguenze ‒ non incise profondamente nella vita politica ateniese, e la soluzione della crisi, quale si ebbe con la riforma di Solone, mostrò che uno spirito nuovo animava la parte più attiva del ceto dei gnṓrimoi (notabili), quella che si impegnava anche in imprese commerciali, non soltanto per sete di profitti economici ma anche per desiderio di sapere. Atene aveva relazioni particolarmente intense con Mileto, la più intraprendente delle póleis d'Asia; preziosa era inoltre per il commercio ateniese la rivalità esistente tra Mileto e Megara per l'egemonia mercantile nel Ponto Eussino; tra il VII e il VI sec. Mileto aveva infatti favorito l'occupazione ateniese di Sigeo, un luogo fortificato dai Lesbi all'ingresso dell'Ellesponto. Le vie del commercio favorivano gli scambi di cultura, e quanto peso questa avesse anche nel governo della pólis e nelle relazioni internazionali era noto ai politici ateniesi fin dai giorni di Solone. Nel VI sec. Pisistrato provvide a 'purificare' il santuario apollineo di Delo, centro religioso degli Ioni e sede di un oracolo la cui fama già veniva offuscata da quella dell'oracolo pitico, più accessibile dal continente. Il tiranno si prese cura dell'organizzazione della festa annuale panionica in Delo e fu tanto consapevole dell'importanza dei poemi omerici per la nazione ellenica che promosse una revisione critica di quei testi e la recitazione di essi nelle grandi Panatenee, dando così ad Atene un posto preminente tra le póleis ioniche. Se le riforme di Solone e le iniziative di Pisistrato facevano aumentare il prestigio di Atene tra i Greci, nella prima metà del VI sec. la Ionia d'Asia (Mileto in primo luogo) risplendeva per la cultura letteraria e scientifica non meno che per le fortunate attività mercantili. Certamente gli assidui contatti con le genti anelleniche dell'Anatolia, e specialmente con la Lidia, e la penetrazione di cultura ellenica nei maggiori centri anatolici erano fonti di curiosità e di problemi per gli aristocratici ioni nei quali era più vivo quello spirito critico che con la rivoluzione 'politica' aveva suscitato tra i Greci un incomparabile vigore spirituale. Di fronte alle analogie, che non potevano a loro sfuggire, di cosmogonie orientali con quelle diffuse nel mondo greco, cresceva l'esigenza di risposte appaganti ai quesiti posti dalla ragione e dall'esperienza. La trasposizione del pantheon olimpio dalla sede montana a una sede celeste era stata un segno dell'impulso a guardare il cielo per iscrivere l'esperienza terrena entro lo spazio senza limiti del 'più profondo oceano', dell'aithḗr; un'indicazione di un'ansiosa ricerca dell'eterno nella contingenza dell'esistere. Dalla contemplazione del cielo il pensiero filosofico e scientifico greco ha ricevuto nuovo impulso e nuovo orientamento. L'osservazione degli astri, che nel Vicino Oriente e nel mondo egeo era volta principalmente a sussidio della navigazione, dei viaggi carovanieri e dell'agricoltura, nella Mileto di Talete, di Anassimandro e di Anassimene divenne fondamento della ricerca cosmologica; la sede terrena venne studiata non solamente in funzione dell'utile o del danno che ne potevano trarre gli uomini, ma quale elemento centrale di un sistema di astri mobili. L'indagine era così diretta alla conoscenza della struttura e della composizione dell'Universo visibile e all'accertamento dei principî costitutivi di esso, le archaí. Lo scenario cosmogonico mutava totalmente, e la parte ch'era assegnata ai numi, se non disparve, divenne accessoria o fu definita imperscrutabile; l'interesse converse su ciò che da loro era stato creato o che a loro preesisteva e da loro poteva essere rifoggiato. Importante è tuttavia la persistenza della convinzione di un intervento divino nel processo formativo del Cosmo, nel regolamento dei suoi fenomeni costanti o episodici, nel corso stesso della vita dell'uomo istintivamente spinto a immaginare l'essenza del mondo e l'origine e il destino di sé stesso. Questo profondo senso del divino, che, come si è detto, non è mai venuto meno tra i Greci, è ben distinto dal rispetto per le tradizioni del génos, dell'éthnos e della pólis; il culto dei numi legati alle origini delle póleis che si sono affidate alla loro protezione è stato sempre scrupolosamente osservato, anche in tempi e in ambienti in cui il senso dell'abisso incolmabile tra il mondo dei numi e quello degli uomini ha potuto raffreddare la pietas tradizionale, o i numi sono divenuti addirittura oggetto di giocosa irriverenza, come nel teatro di Aristofane. Al declino della religione della pólis ha corrisposto tuttavia una reviviscenza di autentica religiosità, una fiduciosa attesa (pístis) di una serena vita nell'aldilà, qual era promessa da religioni misteriche; anche la loro remota antichità conferiva uno straordinario fascino ai culti misterici, specialmente a quelli di Dēmḗtēr e di Dioniso, che avevano le loro radici a Creta ‒ Dēmḗtēr fu sovrana soprattutto in Attica, a Eleusi ‒ e i misteri dionisiaci si diffusero vastamente in Grecia e nella Magna Grecia. Se i singoli cittadini cercavano di orientarsi tra i culti tradizionali e le suggestioni dei miti escatologici, le loro póleis erano attente custodi del proprio patrimonio religioso e non trascuravano un rito secolare, la sollecitazione di un responso divino a una questione posta nelle forme dovute in luoghi a ciò deputati, i chrēstḗria (oracoli); più che la previsione di un evento futuro, dal responso si attendeva un'indicazione di ciò che il nume nella sua saggezza suggeriva. Nella varietà dei tipi di oracoli è visibile il loro legame originario con le viscere della Terra, sede dei morti testimoni del passato, oltre che delle forze primigenie del mondo fisico. La storia sacra dell'oracolo più famoso, quello di Pythṓ o Delfi, è un eloquente documento del trapasso del pantheon greco dalla sede ctonia all'urania. Apollo, nume solare, s'era impadronito con violenza dell'oracolo di Gẽ o Thémis, ma non fu perduto il carattere originario, perché dall'interno della Terra salivano attraverso una fessura naturale del suolo (il chásma gḗs) i vapori che inebriavano una prophẽtis di tipo anatolico, la Sibylla, e la facevano portavoce del nume; i suoni da lei proferiti erano resi comprensibili ai profani da sacerdoti interpreti (exēgētaí). Sostenuto politicamente da una lega sacra, l'Amphiktyonía Pileodelfica di Anthḗlē (presso le Termopili), il santuario di Delfi oscurò ogni altro santuario oracolare, da quello antichissimo di Zeus a Dodona in Epiro a quelli apollinei di Delo, della Beozia e dell'area asiana. I sacerdoti di Delfi furono molto avveduti e il codice morale da loro elaborato in armonia con dottrine e comportamenti di rinomati 'sapienti' (sophoí) non ignorò i nuovi orientamenti del pensiero etico-politico che si manifestavano nei maggiori centri greci, in quelli coloniali non meno che nei metropolitani.
di Giovanni Pugliese Carratelli
Le figure dei 'Sette Sapienti' presero il posto dei vati e veggenti nei quali il medioevo ellenico aveva visto esprimersi l'aspirazione a un superamento della condizione umana e la speranza di una partecipazione alla vita perennemente serena dei numi. Agli eroi e ai maestri di verità dell'età postmicenea, alcuni dei quali vantavano vincoli di sangue con qualche nume, succedevano ora personaggi eminenti per autorità dinastica o per esperienza di vita; essi, in luogo di ambigue profezie o di velati ammonimenti, dettavano regole morali e suggerimenti pratici, ispirati a quelle 'leggi non scritte' (ágraphoi nómoi) che rappresentavano l'éthos greco, il patrimonio ideale della nazione ellenica, regole e suggerimenti a cui era data forma gnomica, efficace per la sua perentoria concisione. Nella versione in cui è passata nella tradizione classica, la leggenda dei Sette Sapienti rivela già nel numero apollineo un'origine sacrale; è difatti esplicito il suo nesso col santuario pitico, i cui sacerdoti furono più pronti dei loro confratelli di altri santuari di Apollo nel comprendere che quella sapienza pratica rispondeva alle esigenze di una società in cui a tradizioni molto antiche e vitali si abbinavano, non soltanto presso antichi génē, forti spinte alla mercatura e all'attività economica, e conseguentemente all'avventura coloniale. In ciò infatti gli áristoi e i gnṓrimoi gareggiavano ormai col ceto mercantile e artigianale, mentre nei culti pubblici l'elezione dei sacerdoti prevaleva sui sacerdozi ereditari, privilegi di nobili famiglie. Nella Guida della Grecia (X, 24), Pausania ricorda che nel pronao del tempio di Delfi erano incise due massime degli antichi sophoí; di questi, appartenevano alla Ionia (d'Asia) Talete di Mileto e Biante di Priene, all'Eolide Pittaco di Mitilene, alla Doride Cleobulo di Lindo, ad Atene Solone, a Sparta Chilone; al settimo posto, in luogo di Periandro, figlio di Cipselo tiranno di Corinto, Platone ‒ il quale nel Protagora (343 a) conserva una lista che è probabilmente la più antica ‒ poneva Misone Cheneo, un tessalo nato nella regione del monte Oítē. Questi sapienti, convenuti in Delfi, dedicarono ad Apollo le massime "Conosci te stesso" e "Nulla in eccesso". Questa è la versione raccolta da Pausania, ma nella tradizione letteraria greca l'elenco dei Sette presenta altre varianti, in cui si alternano Epimenide Cretese, Cleofante di Lebedo, Pitagora e anche un principe scita ellenizzatosi, Anacarsi. Il dato importante è l'attribuzione di una eccezionale sophía a uomini esperti di vita politica e consapevoli del perenne valore delle 'leggi non scritte': venerazione dei numi, osservanza delle leggi, rispetto degli antenati, umana solidarietà. È stato questo il preludio a un momento decisivo per il mondo classico e per l'età avvenire, quando la tradizionale sophía non ha più corrisposto al crescente desiderio di conoscere, allo stimolo di nozioni e problemi nuovi che la frequentazione di luoghi e popoli diversi proponeva ai Greci e questi riproponevano in termini appropriati al mondo in cui si diffondeva la loro cultura. Più che i problemi tecnici li attiravano quelli attinenti al vasto teatro naturale entro cui si svolgeva la loro vita; nelle menti disposte allo studio i modi e i ritmi osservati nel mutare delle scene in quel teatro, così sulla superficie terrestre come nell'inattingibile volta celeste, suscitavano pensieri che andavano ben oltre l'utilizzazione di nuovi dati a fini pratici, nell'agricoltura o nell'industria o nei traffici. I miti trasmessi dagli antenati non erano più appaganti, ora che le immagini divine allusive ai più impressionanti aspetti della Natura avevano ceduto a immagini umane. Diveniva intanto sempre più deciso il rifiuto di spiegazioni accettate a lungo per l'autorità di vetuste tradizioni e urgeva la necessità di historeĩn, d'indagare, un'azione che trovava in sé la spinta a ulteriori approfondimenti. È nato allora un termine nuovo, ossia philósophos, in cui si manifesta la raggiunta consapevolezza che il sapere, la sophía, non è dono di numi o privilegio di uomini demonici, ma il fine (télos) e la ragione di una tensione costante dell'intelletto umano, non senza il presentimento che nessuna conquista di sapere è mai definitiva, perché i problemi generano problemi. Ormai la risposta ad antiche fondamentali domande ‒ sulla condizione umana, sui termini dell'esistenza, sulla relazione dell'uomo col Cosmo, sulle archaí naturali o numinose ‒ è cercata nell'osservazione dei mille aspetti della phýsis, nella forza vitale che l'uomo va scoprendo nei suoi atti e nei suoi pensieri, e nella forza spirituale che l'introspezione gli fa riconoscere nella psychḗ e infine nel noũs. Nello spazio di poche decine di anni il mondo greco ha visto compiersi una rivoluzione intellettuale quale nessuna altra nazione mediterranea ha conosciuto. Nel VI sec. le istituzioni e le tradizioni religiose della pólis rimasero sostanzialmente inalterate, pur attraverso conflitti di potere, mentre la ricerca scientifica tracciava nuove vie, senza soffrire impedimenti da parte dei teologi dei grandi santuari e dei ministri dei culti pubblici; i primi, che non avevano con la vita della pólis un rapporto così immediato come quello dei teologi orientali con le loro monarchie, avevano costruito propri sistemi di culti e riti e non avevano ragione né modo di avversare teorie e speculazioni estranee alla sfera cultuale; agli altri premeva l'esercizio dei culti a loro affidati e il generale rispetto per l'éthos avito. A questo, d'altronde, non hanno mai recato offesa i filosofi, dotati, come ogni dotto greco, di religiosità profonda. È significativo che la tradizione presenti Pitagora, al quale era attribuita l'invenzione del termine philosophía, come un sophós avvolto da un alone di santità; nessuno meglio di lui, infatti, può rappresentare la fase di transizione dal tempo dei sophoí immersi nell'attività 'politica' a quello dei philósophoi dediti primamente alla ricerca. Così l'acragantino Empedocle delineò l'immagine di Pitagora, modello di filosofo e dotto heuretḗs: "un uomo di superiore sapienza, che possedeva la più ampia ricchezza dell'animo ed era sommamente abile in opere d'ogni genere e sapienti" (DK 31 B 129). Tra i ricercatori della Ionia s'era già distinto Talete, appartenente (come Erodoto) a una famiglia ellenocaria, che probabilmente fu il primo a far oggetto delle sue riflessioni non già le cosmogonie tramandate e i loro divini protagonisti, ma la visibile phýsis, e specialmente il cielo sidereo e i moti degli astri regolati da leggi fissate da una mente superna, donde l'avvio a ritrovare nella molteplicità dei fenomeni i principî informatori, le archaí, o il principio animatore unitario, l'archḗ. Questa ricerca rivela una nuova forma mentis, che si è sforzata di sostituire a una millenaria tradizione di miti e di empiriche soluzioni di problemi ‒ la cui impostazione era condizionata da analisi superficiali dei fenomeni e dal prevalere di intenti pratici ‒ una problematica indipendente da scopi immediati e dettata da un intimo desiderio di verità. Questa forma mentis poteva nascere soltanto nell'atmosfera della pólis, invenzione di uomini liberi e consci della necessità di conoscere il mondo in cui si sentivano protagonisti. Oltre al rispetto per i principî etici trasmessi dai padri, s'erano fatte più vive la pístis, la 'convinzione' della verità attinta nella meditazione religiosa, talvolta col sussidio di una mýēsis (iniziazione), e quindi la elpís, speranza o attesa di procedere oltre i limiti riconosciuti (gnõthi seautón, nosce te ipsum) della natura dei mortali. Questi sentimenti che hanno accompagnato ogni avventura intellettuale, sono documenti di coscienza storica, di consapevolezza della capacità inventiva del noũs: "Molti sono i prodigi, e nessuno più sconvolgente dell'uomo", dichiara un coro dell'Antigone di Sofocle (versi 332-333). È in virtù di questa nuova coscienza che un aristocratico samio come Pitagora, devoto a grandi tradizioni religiose cretesi e pitiche e informato dei saperi del Vicino Oriente, ha compiuto un passo risoluto, abbandonando la patria oppressa da un tiranno e fondando la prima scuola di filosofi in un'area di promettente sviluppo, e precisamente in Magna Grecia, a Crotone, la città dove i commercianti sami avevano i loro corrispondenti (come i milesi a Sibari). La scuola pitagorica fu un'esperienza del tutto nuova, con un duplice aspetto, cioè di comunità di iniziati e di collegio di studiosi; sul suo esempio, probabilmente, altri collegi professionali assunsero la figura di génē, o si formarono intorno a un autentico génos che vantava come capostipite un nume; tali i medici Asklapiádai a Coo, Rodi e Cnido, e gli Ouliádai (da Apollo Oúlios, 'sanatore') a Velia in Italia.
di Giovanni Pugliese Carratelli
Pitagora rafforzò il nesso di Crotone con Delfi, come indica anche il tripode pitico impresso sugli stateri crotoniati del VI/V secolo. I sacerdoti delfici, anche per i loro immediati rapporti con l'Amphiktyonía di Anthḗlē, non avevano disatteso i problemi e le crisi che accompagnavano lo sviluppo delle maggiori póleis, così nella madrepatria come nelle aree colonizzate. Nelle colonie occidentali, che ovviamente erano meno sensibili al freno esercitato nelle metropoli da antiche tradizioni religiose o gentilizie, il clima era più propizio ad avventure del pensiero: ciò è stato decisivo per l'avvenire della ricerca scientifica, perché specialmente nella Magna Grecia le originali speculazioni dei pensatori ionici hanno alimentato scuole di filosofi e medici come quelle di Pitagora, di Alcmeone, di Parmenide. Alla mente di Pitagora i primi suggerimenti vennero dalle teorie proposte dai physiológoi ionici: la materia del mondo, la hýlē vista come un 'vivente' (zõon), e quindi in sviluppo (phýsis); l'ápeiron ('infinito') indicato da Anassimandro come 'archḗ di tutti gli esseri' (DK 12 B 1); il contrasto tra l'originario cháos dell'ápeiron e la regolarità del mondo rivelata dall'indagine naturalistica, principalmente dall'astronomia, ed esprimibile mediante figure geometriche, e quindi mediante indicazioni numeriche. Pitagora sembra aver meditato meno sul cháos che sul kósmos: a lui era difatti attribuita l'invenzione di quest'ultimo termine, nel quale si esprimeva così l'ordine come la bellezza dell'Universo; con la teoria dell'unità di questo nella molteplicità delle forme era coerente la dottrina della trasmigrazione delle anime (forse suggerita da un particolare aspetto della teologia preolimpica, che configurava l'immortalità di eminenti numi, quali Dioniso e Zeus, come un perenne alternarsi di morti e di rinascite). Ma la contrapposizione kósmos/cháos coincideva con un'altra, quella finito/infinito, e dava lo spunto per la teoria delle opposte archaí (DK 58 B 5). La nozione del limite poneva immediatamente il problema dell'illimitato, e la speculazione in questo senso era indissociabile da suggestioni religiose circa la contrapposizione fra stato divino e stato mortale. Di fronte all'ovvia insufficienza di termini concettuali in relazione a quel che si presupponeva inconoscibile, parve meno insoddisfacente il ricorso ai numeri (arithmoí), la cui successione è infinita, come simboli degli elementi costitutivi e degli enti del kósmos. Così la visione dell'unità e dell'armonia dell'Universo, suggerita dalle indagini astronomiche rivelatrici di moti regolari di corpi celesti, riceveva una parvenza di conferma e la ricerca si orientava anche verso ciò che nel libro ippocratico L'antica medicina è indicato come 'le cose celesti e sotterranee', che corrisponde a un frammento di Alcmeone (DK 24 B 1): "di ciò che non è visibile, di ciò che attiene ai morti, soltanto i numi hanno nozione". In questa miracolosa vigilia pitagorica l'accertamento dei dati singoli (tà hékasta), la costruzione logica e l'intuizione guidata da un acuto senso del divino hanno operato simultaneamente e dalla tradizione etica sapienziale hanno ricevuto il sussidio di una disciplina della vocazione allo studio. Probabilmente il pythagorikòs bíos non è stato diverso dall'orphikòs bíos: v'è infatti ragione di ritenere che la religiosità pitagorica si sia espressa nel genuino orfismo, religione misterica in cui aveva una parte importante non già il culto dei numi ctoni patroni tradizionali dei maggiori culti misterici, ma la fede in Mnēmosýnē, la memoria divinizzata. Per il suo carattere singolare la spiritualità pitagorica ha pervaso le principali correnti del pensiero greco, e pitagorica fu già l'educazione del fondatore della scuola eleatica, Parmenide. Questi all'incertezza delle dóxai, le opinioni dei mortali, ha contrapposto la 'rotonda' verità (assolutamente completa e perfetta, come la figura del cerchio e della sfera), a cui può condurre solamente un'intuizione che il filosofo presenta come un mŷthos (rivelazione) della dea, al quale la mente può elevarsi seguendo una ideale 'via sacra', in un itinerarium mentis che richiama la hierà odós aperta da Mnēmosýnē ai bákchoi orfici: un seguito di suggestive immagini in cui sono implicite la cognizione dei limiti della conoscenza e l'intima aspirazione a varcare i 'confini dell'umano'. Dal tempo di Pitagora la tensione creata dal duplice impegno del noũs, di estendere la conoscenza e di cercare nell'anamnesi un lume che dia un orientamento circa l'ágnōston che avvolge il sapere umano, non ha abbandonato la ricerca filosofica dovunque abbia risuonato la Hellēnikḕ phōnḗ, l'idioma del pensiero ellenico: ciò ha fatalmente ridotto nella scienza greca, come non raramente si sente deplorare da studiosi moderni, lo sviluppo della scienza 'applicata'. Ma proprio l'orientamento dato al pensiero greco dai pitagorici e dagli eleati, da Ippocrate e da Platone, è stato decisivo anche per il progresso dell'indagine scientifica dall'età del Cusano, e poi di Bruno e di Galilei, ai giorni nostri.
di Mario Torelli
Se possiamo legittimamente parlare di una scienza dei Greci e dei Romani, la civiltà etrusca risulta invece caratterizzata da un approccio all'osservazione dei fenomeni che non solo si può definire come prescientifico, ma addirittura agli antipodi di quello scientifico. Essa è caratterizzata da un'ossessione ritualistica che circonda ogni aspetto e momento della vita e della conoscenza, e da una religiosità a tutto campo, capace di fare dell'ideologia religiosa una sorta di pseudoscienza. La cosa era nota già agli antichi, i quali hanno amato definire gli Etruschi "gente sopra ogni altra dedita alle pratiche religiose" (Tito Livio, Ab urbe condita, V, 1, 6) o hanno fornito addirittura la paretimologia del loro etnico Tusci dal greco thysiázein, 'sacrificare' (Isidoro, Etymologiae, IX, 2, 86). La definizione più chiara e completa della mentalità pseudoscientifica etrusca si deve a Seneca, che in un passo assai celebre annota: questa è la differenza tra noi e gli Etruschi […]: noi pensiamo che i fulmini si producano in seguito all'urto delle nubi; essi invece ritengono che le nubi si scontrino perché si possano produrre dei fulmini. Essi infatti, poiché attribuiscono tutto alla divinità, sono convinti che le cose hanno un significato non perché avvengono, ma che esse avvengono in quanto portatrici di significati. (Naturales quaestiones, II, 32, 2) Non ci poteva essere una contrapposizione più chiara tra la speculazione naturalistica greca (il 'noi' del testo), di cui Seneca è uno degli eredi, e la concezione teologica e teleologica del mondo propria degli Etruschi. Questa concezione era nota al mondo romano a causa di secoli di intenso contatto, e soprattutto grazie all'antica pratica romana del ricorso agli aruspici etruschi in caso di prodigia, ostenta e portenta: manifestazioni naturali prodigiose, non spiegabili con gli strumenti della riflessione comune e, comunque, ritenute segni di una turbata pax deorum, da ristabilire con dei metodi ben precisi, segnalati appunto dagli aruspici. L'esperienza scientifica etrusca appare fortemente condizionata da un sistema magico-religioso, la cui costruzione si è prodotta nell'arco di molti secoli. Tale sistema era organizzato intorno a una concezione del mondo basata su un minuzioso meccanismo di omologie e di rispondenze fenomeniche, delle quali erano ritenute responsabili divinità dalle specifiche funzioni e dalle particolari potestà e caratterizzazioni. La storia della scienza etrusca è un riflesso delle ripercussioni sul piano pratico e tecnologico, della costruzione di questa concezione del mondo. La documentazione archeologica ha fornito numerose prove di acquisizioni non trascurabili in vari campi del sapere, da quello astronomico e meteorologico a quello idraulico. L'eccellenza raggiunta in questi campi dagli Etruschi è dovuta alle osservazioni empiriche prodotte in relazione alle pratiche divinatorie e al meccanismo di trasmissione del sapere all'interno del collegio sacerdotale degli auguri e degli aruspici. Dopo queste precisazioni va detto che, per quanto concerne questo corpus dottrinale o etrusca disciplina (come era chiamato l'insieme delle scritture che costituiva il deposito di tutto il sapere etrusco), le nostre informazioni dipendono da fonti dirette, assai scarse e frammentarie, e da fonti indirette, che costituiscono, invece, una serie assai notevole ma quasi sempre di interpretazione incerta o controversa. Tra le fonti dirette, a parte i pochissimi testi rituali giuntici dall'Antichità senza mediazioni (come i due grandi calendari di cerimonie del Liber Linteus di Zagabria e del Tegolo di Capua, testi importantissimi ma di controversa interpretazione, essendo scritti nella lingua nazionale), si collocano le fonti giunte a noi assieme alla tradizione classica latina e greca, trasmesse all'interno di una vastissima e non sempre perspicua letteratura minore (da quella gromatica a quella astrologica) che ha accolto, tradotto e spesso manipolato, concetti e credenze originali etrusche. Le fonti indirette sono invece quelle che ricaviamo dall'esame di tipo archeologico-antiquario dei dati della cultura materiale e dell'iconografia religiosa, che tuttavia sin dai primi contatti con il mondo greco (in piena fase protostorica) sono state entrambe profondamente ellenizzate, cosicché spesso ci è negato l'accesso alle strutture più profonde del pensiero autoctono. Sostanzialmente, la ricostruzione di molte delle categorie del pensiero etrusco soggiace a incertezze di fondo e a numerosi interrogativi, che pesano non poco sulla nostra indagine. Tra i caratteri più significativi della religione etrusca finora rilevati nella documentazione in nostro possesso, va annoverato innanzitutto l'aspetto ritualistico delle pratiche cultuali e, implicitamente, del rapporto tra la sfera umana e quella divina. Le nostre fonti letterarie indirette e quanto ci è reso intelligibile dalle fonti dirette, insistono sulla minuziosità degli atti religiosi, siano essi l'esame dei fenomeni naturali o sociali (che in sé costituisce l'atto fondamentale e preliminare della pratica aruspicale), o l'esecuzione scrupolosa delle procedure sacrali previste dai calendari (Mummia di Zagabria, Tegolo di Capua) e delle prescrizioni della procuratio dei portenta e degli ostenta. Tali prescrizioni illustrano i "rimedi" proposti dalla tradizione sacerdotale contro la volontà ostile degli dèi manifestata da prodigi e da segnali celesti come fulmini o tuoni. Garanzie della pax deorum (il rapporto pacifico tra mondo naturale e mondo sovrannaturale) sono appunto la scrupolosità dell'analisi del mondo sensibile e l'osservanza delle prescrizioni, affidate entrambe alla cura sacerdotale. Ciò presuppone una teologia che, se in linea di principio non è troppo diversa da quella di molte religioni antiche del Mediterraneo, se ne distacca in parte per il forte accento posto sulla inesplicabilità divina. Al riguardo è tipica la presenza nel pantheon etrusco di dèi detti involuti, appunto inesplicabili, o anche di dèi opertanei, segreti. Ambiguità delle forze che governano il mondo e inesplicabilità divina sono tratti caratteristici dell'ideologia religiosa dell'Etruria che hanno una doppia radice nel tessuto storico e sociale del paese. Ciò da un lato rivela concezioni di tipo magico-religioso assai arcaiche, lontane da ogni approccio razionale, laico e scientifico, al reale; dall'altro lato, presuppone un rapporto sociale tra dominanti e dominati. Tale situazione non soltanto vieta ogni sviluppo dell'ideologia in direzione razionale, ma permette ai dominanti (donde provengono in maniera esclusiva i sacerdoti, intermediari tra questi voleri occulti divini e il mondo) di esercitare un controllo totale sui dominati. Ne consegue che l'indubbio arcaismo delle credenze etrusche riflette un arcaismo sociale conservatosi a lungo anche grazie a un controllo durevole del sapere e degli strumenti dell'ideologia religiosa da parte dei gruppi egemoni. Il carattere agrario di molti elementi della religione etrusca è collegato a questo arcaismo. Al riguardo, è tipica la presenza nel pantheon minore (solo apparentemente sommerso dalla generale patina ellenizzatrice) di divinità titolari di capacità generatrici. È il caso di una serie di figure femminili dai nomi assolutamente epicorii, note attraverso la documentazione iconografica, che sembrano presiedere a funzioni connesse con la sfera erotica e generatrice, da paragonare alla documentazione della disciplina nota in traduzione, ove figure identiche o analoghe compaiono con il nome di Genii e Favores. Esse rinviano a una situazione storica molto antica, nella quale la capacità riproduttiva assume un ruolo fondamentale per lo sviluppo in conseguenza di un assetto sociale basato su strutture gentilizie, per le quali la riproduzione ha un significato centrale. Non meno arcaica appare la struttura del pensiero religioso fondamentale, che prevede rispondenze precise fra realtà celeste, realtà terrena e realtà infera, ove si manifestano presenze divine omologhe, avvengono fenomeni naturali simili, e vi è una corrispondenza fra gli spazi e le loro valenze positive e negative. Le rispondenze cosmiche a loro volta concorrono a formare una dottrina che enfatizza legami magici fra realtà sensibile e soprasensibile, elemento questo centrale nella formulazione sia delle analisi sia degli interventi degli aruspici secondo l'etrusca disciplina. Mondo umano, naturale, animale e vegetale sono collegati fra loro attraverso rapporti simpatetici che consentono la lettura parallela dei fenomeni per sciogliere il nodo oscuro della volontà divina e il riversarsi dei significati da una sfera all'altra. In tal modo un 'segno' divino espresso all'interno di un sistema può essere letto in funzione di un altro sistema ed espiato agendo su di un terzo sistema. Per esempio, un fulmine (segno ‒ in linea di principio, ma non necessariamente ‒ della sfera celeste) che colpisce una statua (appartenente al sistema umano), può essere espiato con il sacrificio di un animale (appartenente al sistema animale) consacrato agli inferi (sfera sotterranea), purché esista rispondenza 'qualitativa' tra segnale, oggetto del segnale e caratteristiche ‒ fisiche o simboliche ‒ della vittima sacrificale e del rito. Questo primitivo, ma raffinato, sistema di simmetrie cosmiche, è stato tuttavia aperto (non meno del pantheon più arcaico) ad accrescimenti e integrazioni derivanti da altre culture; in primo luogo da quella greca, ma anche da altri sistemi filosofico-religiosi e da speculazioni di origini e matrici diverse e di complessità sempre maggiore. Ciò spiega perché la disciplina abbia subito influssi molteplici annessi in epoche diverse al nucleo fondamentale di credenze. Concezioni antropomorfiche e mitologiche di provenienza orientale e greca (in epoca arcaica), messaggi dionisiaci e orfico-pitagorici (in epoca classica) e dottrine astrologiche e misteriche (in epoca ellenistica), sono intervenute a modificare e ad ampliare il sistema ideologico originario, in una stratificazione non sempre ben individuabile. Tale, comunque, da garantire alle classi sacerdotali etrusche non solo un solido controllo delle trasformazioni ideologiche profonde e una sostanziale conservazione dell'ordine sociale costituito, ma anche il perpetuarsi, negli ambiti ristretti di quelle strutture, del dominio di ogni forma di sapere, anche tecnico e scientifico, e dei possibili mutamenti innescati dai rinnovamenti. Il successo di questo processo di integrazione è confermato dalla popolarità raggiunta a Roma dalle dottrine di aruspicina in epoca Tardo-repubblicana, sopravvissute al tramonto della società e della cultura nazionale etrusca e inglobate in una cultura impregnata di teosofia e di speculazione astrologico-misterica.
di Mario Torelli
La documentazione sulla civiltà etrusca fino al 630 a.C. circa (cioè fino all'inizio del periodo definito come Orientalizzante Recente) dipende in maniera quasi esclusiva dalle necropoli e soltanto in minima parte dalla conoscenza degli abitati (dai quali sarebbe forse possibile ricavare una visione più ampia delle pratiche rituali e delle credenze locali). Ciò induce ad affermare che conosciamo solamente una parte dell'ideologia religiosa e della concezione del mondo a essa collegata; tuttavia, alcuni elementi del pensiero etrusco trovano una spiegazione in questa fase originaria e più remota della storia. In particolare, prestigiosi oggetti di bronzo, come il coperchio cinerario e il carrello (forse antenato del praefericulum di epoca storica) deposti nelle tombe della necropoli di Bisenzio (un abitato sorto sulla riva occidentale del lago di Bolsena) dimostrano che nella più antica religione etrusca s'immaginavano divinità dall'aspetto teratomorfo, o comunque non antropomorfizzato, aventi posizioni di rilievo. Infatti, i due oggetti provenienti da Bisenzio sono anteriori alla fase in cui l'intensa ellenizzazione (che si avvia già nel VII sec.) produce una svolta in senso antropomorfo del pantheon locale. La concezione della realtà, nella quale agiscono esseri di natura indefinibile che incarnano potenze di natura e sesso ambigui, è comune a tutte le altre popolazioni italiche, a partire dai Latini. Assai vicina alla consuetudine delle popolazioni umbre, appare invece la tendenza (rivelatrice della concezione cosmologica più arcaica degli Etruschi) ad aggiungere al nome di un dio quello di un'altra divinità come epiteto, per specificarne meglio localizzazioni, poteri e funzioni. Le nostre fonti registrano, per esempio, l'esistenza del teonimo Tinia Calusna, una denominazione che attraverso il nome del dio infero Calu giunge a definire un particolare aspetto ctonio di Tinia, lo Zeus etrusco. Si è discusso molto sulle ragioni di questa comunanza di strutture profonde delle religioni italiche, attribuendone spesso l'origine alla storica egemonia, culturale prima ancora che politica, degli Etruschi sull'Italia. In realtà molti dati, a partire dalla ingente presenza di teonimi latini nel pantheon etrusco, cui non corrispondono affatto prestiti etruschi nel pantheon latino, permettono di supporre una situazione opposta; il fenomeno potrebbe avere origine da una forte influenza esercitata dal mondo latino su quello etrusco, la quale influenza è da collocare necessariamente in epoca assai antica, di certo anteriore all'VIII sec., periodo in cui le testimonianze della cultura materiale documentano l'inizio di un'egemonia economica e politica degli Etruschi sull'Italia, destinata a durare fino a tutto il IV sec., momento di avvio della conquista romana della penisola. Questa comunanza con usi e concezioni di popolazioni italiche trova riscontro anche in un'altra pratica comune alle popolazioni latine, umbre ed etrusche, quella dell'auspicio; pratica, questa, che ha avuto fra tutti gli Italici, Etruschi compresi, un impatto enorme, tanto grande da rappresentare l'elemento costitutivo del potere. La consuetudine di prendere gli auspici (una forma di divinazione di certo risalente nelle sue forme più semplici all'Età del Bronzo e mirante all'accertamento del favore degli dèi) rappresentava la premessa necessaria della concessione dell'imperium, il comando militare e civile, dapprima dei re e in seguito dei magistrati repubblicani. L'auspicio era pertanto il momento iniziale di una cerimonia complessa, quella dell'augurium (collegato nella sua origine con il verbo augere, 'accrescere'), che di fatto attraverso la mantica effettuava l''accrescimento' di un soggetto, trasferendogli specifiche potestà magiche. L'auspicio, come dice la stessa etimologia della parola (derivata da avis, 'uccello', e spicere, 'guardare'), consisteva nell'osservazione del volo (alites) e delle grida (oscines) degli uccelli (auspicia ex avibus), e nella classificazione delle forme del rapporto tra questi e altri elementi della Natura (a partire dagli alberi e dalle piante), nonché della qualità e provenienza di altri segni divini derivanti dal cielo (auspicia ex caelo). In particolare, alla base della dottrina dell'auspicio è il principio che sia possibile leggere, nei fenomeni osservati dall'augure, la concreta espressione della volontà degli dèi. Secondo la concezione delle deorum sedes, propria degli auguri, gli dèi avrebbero una collocazione precisa nella volta celeste e negli spazi inferi, a loro volta corrispondenti alle regioni del cielo, in rapporto al cammino del Sole durante il giorno e durante la notte. Le regioni diurne e favorevoli erano così collocate da nord-est a sud-ovest, mentre quelle notturne e sfavorevoli si susseguivano da sud-ovest a nord-est. L'auspicio ha avuto un rilievo notevole nello sviluppo dell'osservazione scientifica etrusco-italica, sollecitando una specifica conoscenza classificatoria del mondo vegetale e dell'etologia di varie categorie di animali, e una particolare attenzione per la realtà celeste nelle sue principali articolazioni strutturali e fenomeniche. Da ciò è derivato un sapere teorico relativo alla Natura e all'astronomia, che è stato alla base di successive speculazioni teoriche e che sarà ulteriormente ampliato e sistematizzato in quella filiazione delle pratiche dell'auspicio che è l'aruspicina. Fondandosi la religione augurale sul principio della divisione degli spazi in funzione della provenienza e dell'interpretazione dei segni, l'affinamento e l'evoluzione della dottrina dell'auspicio hanno comportato l'ulteriore sviluppo di teorie e di tecniche connesse con l'astronomia e, soprattutto, con la misurazione degli spazi. Ciò ha condizionato in senso profondamente religioso tutte le speculazioni di natura urbanistica e topografica. La tradizione parla infatti di fondazioni delle città etrusco ritu (cioè secondo i dettami dell'etrusca disciplina) e di prescrizioni religiose relative alla forma e alla collocazione di edifici o addirittura di intere infrastrutture urbane, come le mura e le porte. Analogamente, la tradizione riconosce che la cultura derivata dalle pratiche augurali ha avuto grande influenza sull'agronomia; ancora nella tardissima trattatistica latina dei gromatici, giunta a noi in un corpus di formazione assai complessa, si fa continuamente riferimento ai fondamenti augurali della scienza delle divisioni agrarie. Per questo motivo avviene che nelle pagine dei gromatici siano rifluiti frammenti di letteratura etrusca tradotta, come la nota "profezia di Vegoia" (in etrusco Lasa Vecu) a somiglianza delle traduzioni di brani di etrusca disciplina, per l'uso di aruspici chiamati a Roma per la procuratio prodigiorum.
di Mario Torelli
Con il decollo dell'economia etrusca, tra il X e l'VIII sec. a.C., prendono corpo i primi importanti contatti tra le zone tirreniche e l'Oriente. Ciò avviene grazie alle intense frequentazioni fenicie, cui fanno seguito subito dopo (dagli inizi dell'VIII sec.) quelle greche. I rapporti con i Fenici sono all'origine di alcune importanti acquisizioni dell'espressione del potere, relative soprattutto alle forme personali del rapporto intercorrente tra il re e la divinità e all'ostentazione dell'opulenza connessa al possesso della regalità. L'introduzione dell'aruspicina, ossia della divinazione mediante epatoscopia, è senz'altro collegata con questa orientalizzazione di una parte importante dell'ideologia del potere. Le ascendenze mesopotamiche dell'aruspicina sono innegabili; essa deve perciò essere giunta in Etruria attraverso la mediazione fenicia. La forza della tradizione augurale preistorica, con le sue regole, ha originato la combinazione dell'originario modello orientale con la dottrina dell'auspicio e, in particolare, con il concetto di deorum sedes; tale concetto sarà destinato a svilupparsi nell'aruspicina etrusca, con la crescente minuziosità dell'osservazione dei fenomeni naturali. Il numero delle sedi divine e le combinazioni tra più divinità all'interno della stessa "sede" sarà moltiplicato e reso corrispondente a un sistema multiplo di fasce, periferiche o interne, di "caselle" teoriche disegnate sulla superficie del fegato. Il celebre 'Fegato di Piacenza', un modello bronzeo di fegato ovino (fabbricato, a giudicare dalla scrittura, tra il III e il II sec. in ambiente etrusco settentrionale) iscritto con nomi di divinità in relazione alle diverse parti della superficie dell'organo, è una guida straordinaria se non alla comprensione completa, certo all'individuazione delle linee fondamentali della dottrina epatoscopica. Sulla superficie concava si affollano le sedes degli dèi, organizzate nella rituale divisione dello spazio (e perciò anche del fegato animale che lo riflette) in sedici regioni, raddoppiate rispetto alle otto tradizionali della dottrina dell'auspicio e distribuite su un nastro periferico. Le otto regiones prosperae, quelle cioè dove sono gli dèi superi e teoricamente favorevoli, sono sul lobo destro, a partire dal processus pyramidalis ‒ identificabile con il caput iocineris delle fonti, che corrisponde infatti alla sporgenza della superficie schematicamente resa come piramide ‒ fino all'incisura umbilicalis, il fissum delle fonti e altro punto di riferimento astronomico, il Sud. Il lobo sinistro reca le altre otto regioni, dette minus prosperae, quelle cioè sfavorevoli. La parte interna del lobo destro è ulteriormente suddivisa in altre otto sedes poste in orizzontale, di cui sei ripeterebbero un'analoga graduazione della pars familiaris o favorevole, e due, in opposizione ad altre due interne del lobo sinistro, rappresenterebbero invece un altro criterio di lettura dei presagi, la dimensione 'celeste', designata come pul e contrapposta a quella 'terrestre' (metlumth). Nella parte interna del lobo sinistro, zona minus prospera, compare una sequenza disposta radialmente, con divinità ctonie ma, a quanto pare, graduate nella sequenza per segnalare presagi via via meno favorevoli, come accade nel nastro esterno. La vesica fellea contiene invece due caselle favorevoli e due sfavorevoli; sulla faccia convessa presenta due sole iscrizioni, una delle quali attribuisce il lobo destro al Sole (Usils) e quello sinistro alla Luna (Tivs). Questa complessa rappresentazione e la casistica della lettura in rapporto ai segni sull'organo, nelle venae, nella fibra, e così via, trovano una lunghissima serie di punti di appoggio nella documentazione letteraria, di cui per ragioni di brevità è possibile dare solamente qualche cenno. Il presagio è letto sulla base della relazione tra l'eventuale imperfezione di una parte dell'organo e la sedes del dio (a parte il caso del doppio caput iecinoris e dell'adiacente processus papillaris, ritenuto non pertinente a un dio preciso e perciò stesso presagio ancipite). Per esempio, la rispondenza tra la presenza familiaris, favorevole, di Nethuns sulla vesica fellea del Fegato di Piacenza e la pertinenza a Neptunus dei presagi letti in quella parte, come attesta Plinio (Naturalis historia, XI, 195) risulta perfetta; altrettanto perfetta è la rispondenza, per restare alla stessa vesica fellea, fra la presenza hostilis di Maris-Marte e la lettura dei presagi ostili connessi con il fuoco, secondo un codice che oppone l'acqua al fuoco (Cicerone, De divinatione, II, 32) e identifica Marte come il pianeta del fuoco (Plinio, Naturalis historia, II, 139). Non meno significativa appare la corrispondenza tra le tre manubiae (ossia tra le tre diverse regioni dalle quali la somma divinità può scagliare il fulmine), attribuite dalle fonti letterarie a Iuppiter, e le tre sedes di Tin del Fegato di Piacenza, collocate nella sezione nordorientale, quella cioè del Sole nascente. Per concludere, possiamo dire che, nelle linee generali, il Fegato e le fonti antiche consentono di ricostruire con sufficiente chiarezza la struttura delle partes, familiaris e hostilis, dell'orientamento a sud e dell'intimo nesso cosmologico tra tetradi divine, corso del Sole e parti dell'Universo, anche se tutta la complessa interazione tra epatoscopia greca e orientale, astrologia e disciplina resta ancora da indagare a fondo.
di Mario Torelli
L'antropomorfizzazione delle divinità etrusche e italiche, che va di pari passo con una profonda ellenizzazione dell'intero stile di vita e delle forme di culto indigene, si deve al più antico contatto con il mondo greco; tuttavia, l'acquisizione da parte della classe dominante etrusca di un organico complesso di modelli greci nell'ideologia religiosa non modifica l'atteggiamento di fondo nei confronti del mondo divino e del sistema di rapporti stabilito tra l'uomo, la Natura e gli dèi. In linea di massima, però, possiamo dire che l'influenza greca in età più antica (tra l'VIII e il VI sec.) ha notevolmente contribuito al fissarsi di un sistema minimo di rapporti tra poteri, sfere d'intervento e figure divine. È infatti possibile individuare ‒ se non la tassonomia latina di genius, numen, deus con le relative dimensioni uranie o ctonie ‒ almeno le linee generali di pertinenze degli dèi ad ambiti in prevalenza celesti o in prevalenza sotterranei, che costituiscono i tratti fondamentali del pantheon etrusco di epoca storica. La distinzione netta fra dèi superi e dèi inferi, nella religione etrusca, sembra essere un problema moderno più che una realtà antica. La possibilità di "costruire" un Tinia Calusna o di accoppiare in un'unica sede del Fegato di Piacenza Tin e Cilen (ossia il sommo dio e una dea ctonia del fato); la magica rispondenza tra cielo, Terra e viscere della Terra comunicanti con pozzi e foramina; la mobilità di molti dèi e dei genî (simili ai Manes romani); l'emissione di fulmini 'ctonî', certificata dai libri fulgurales etruschi (Plinio, Naturalis historia, XI, 138), documentano un'ambiguità nell'attribuzione alle divinità di sedi e di ambiti di intervento, che dalla preistoria raggiunge la piena età storica. Senza lasciarci ingannare dalla vernice olimpia-greca dell'iconografia, dobbiamo perciò considerare come elemento originario (e sopravvissuto in età storica) la permeabilità degli spazi e la mutevolezza degli dèi dell'Etruria. Frutto di una speculazione che identifica nel ciclo biotico ‒ umano, animale e vegetale ‒ la radice di una mobilità divina del tutto o quasi impensabile in termini di mentalità greca; e questo anche se su tale concezione si innestano elementi provenienti dalle dottrine dionisiache greche. La nuova fisionomia urbana della civiltà etrusca raggiunta nel corso del VII sec. e l'assetto sociale ad essa connesso trasformano in maniera abbastanza rapida il rapporto tra cultura greca e tradizioni indigene. Queste ultime divengono, progressivamente, un retaggio di riti e di cerimonie di grande rilevanza per la gestione del potere, e in questo senso sono conservate con tenacia, anche se ad esse si tributa un omaggio sostanzialmente formale. Fra il VI e il V sec., tra gli strati aristocratici delle città etrusche più avanzate si fanno strada dottrine greche di carattere esoterico e a sfondo soteriologico ricche di implicazioni riguardanti la concezione del mondo e della vita oltremondana. L'accettazione di queste dottrine passa attraverso un continuo confronto con le mentalità del passato testimoniato dai dati della cultura materiale e figurativa, sui quali si basa gran parte della nostra ricostruzione della civiltà etrusca. Non a caso, nelle rappresentazioni dell'arte funeraria della seconda metà del VI sec. solo con grande difficoltà è possibile cogliere il lento, ma inarrestabile, progresso del dionisismo, inteso come complesso di credenze cui si affidano le speranze di sopravvivenza oltremondana degli iniziati. La religione dionisiaca ‒ con il suo insieme di credenze relative alla concezione del mondo e dell'aldilà, e agli strumenti ritenuti necessari per la sopravvivenza oltremondana ‒ ha costituito senz'altro un fondamentale battistrada per altre dottrine soteriologiche introdotte nella cultura etrusca e derivate, in genere, dal mondo greco coloniale. L'ondata successiva (risalente al V sec., ma destinata a godere di notevole importanza anche nei secoli seguenti) è quella collegata con le dottrine orfico-pitagoriche. La matrice iniziatica eleusina si sposa facilmente con le prospettive dionisiache nel predisporre un messaggio salvifico per gli iniziati. Questo mette a soqquadro la tradizionale cosmologia sia greca che indigena, e ne origina una ancora più complessa. Le fonti iconografiche illustrano abbastanza bene la fortuna di alcune credenze orfiche in Etruria, per esempio quella dei vaticini pronunciati dalla testa di Orfeo emergente dal suolo, che appaiono fortemente integrate nel sistema tradizionale dell'etrusca disciplina. La nostre informazioni non ci fanno tuttavia sapere in quale misura le complicate concezioni cosmologiche dell'orfismo (come ci sono note dalla letteratura greca superstite) siano diventate patrimonio comune dell'orfismo diffuso in terra etrusca. Lo stesso si può dire per il successivo complesso di dottrine che va sotto il nome di 'neopitagorismo', e che sembra essere conosciuto negli ambienti più esclusivi delle aristocrazie etrusche a partire dal IV sec. (come testimonia l'iconografia funeraria). La credenza nell'esistenza delle animulae (cioè delle anime poste negli Inferi e destinate alla reincarnazione) ci è confermata dal paesaggio dell'Ade dipinto sulle pareti della tomba dell'Orco II di Tarquinia, appartenente alla famiglia aristocratica degli Spurinas-Spurinnae, una delle più grandi della Tarquinia del IV secolo. Nell'affresco le animulae volteggiano attorno alla figura dell'indovino Tiresia, come nella nekyia virgiliana. L'indovino figura nella scena nel ruolo di vaticinante dei destini eroici familiari e di simbolo stesso delle funzioni aruspicali (ben radicate nel gruppo gentilizio, come testimonia lo Spurinna aruspice di Cesare, autore della predizione delle fatali Idi di Marzo). A partire dal III sec. la documentazione, sia letteraria sia figurata, ci consente di ricostruire una forte accentuazione delle tendenze misteriosofiche nell'ambito dell'ideologia religiosa e politica etrusca. Da quest'epoca, e con un significativo incremento di testi tra la fine della repubblica e la prima età imperiale, proviene il maggior numero di frammenti di etrusca disciplina tramandatici dalle fonti, assieme ai nomi di alcuni fra i principali scrittori che la tradizione ci dice collegati alla speculazione aruspicale. Si tratta sia di autori di libri di disciplina sia di autori di opere di carattere scientifico, filosofico e religioso, nelle quali l'etrusca disciplina svolgeva un ruolo di primo piano ‒ grazie ai collegamenti stabiliti dall'aruspicina con le scienze naturali nei libri sui prodigi (libri ostentarii), relativi perfino al mondo vegetale (arborarii) e alla meteorologia (libri fulgurales, calendari brontoscopici). Tra i primi scrittori di libri di aruspicina veri e propri si contano personaggi come Aulo Cecina (aristocratico volterrano della fine della Repubblica e dell'inizio dell'Impero) e Tarquizio Prisco, attivo nella prima Età Imperiale; tra i secondi, si annoverano autori di opere assai varie, come Nigidio Figulo (personaggio di probabili origini etrusche, attivo anche sulla scena politica della prima metà del I sec. a.C.) e un tal Attalo, noto a causa dell'onorevole menzione che ne fa Seneca. Il contatto con il pensiero filosofico greco è evidente in tutti questi autori, ma soprattutto nelle pagine degli scrittori di libri di dottrina aruspicale. Il più interessante è senz'altro Nigidio Figulo, il quale, ascritto dagli antichi alle cerchie neopitagoriche (Cicerone, Timaeus, 1; Girolamo, Chronicore, Volympiade 1834), si distingue per la straordinaria varietà di interessi, rivelati da libri a sfondo naturalistico (De hominum natura, De animalibus, De ventis, Sphaera) e divinatorio (De extis, De somniis, De augurio privato), nei quali un ruolo particolare è svolto dall'astrologia. L'etrusca disciplina esercitava un forte richiamo anche al di fuori delle cerchie allevate nello studio dell'aruspicina, come per secolare consuetudine accadeva alle maggiori famiglie aristocratiche delle città etrusche dalle quali provengono quasi tutti gli autori di libri di divinazione secondo la pratica etrusca. È questo il caso del non meglio identificato Attalo, vissuto in età tiberiana, quando diviene inviso al potente prefetto del pretorio Seiano (di origine etrusca!), che sappiamo circondato di grande notorietà tra gli intellettuali del suo tempo e particolarmente caro a Seneca. Quest'ultimo ce ne parla diffusamente come del più acuto ed eloquente filosofo stoico dei suoi tempi, capace di tentare una mescolanza della filosofia greca con l'etrusca disciplina (Seneca, Naturales quaestiones, II, 50, 1). Per molte ragioni, non ultima la passione incontenibile per le scienze occulte così diffusa nel periodo, il secolo tra la fine della Repubblica e il primo periodo giulio-claudio rappresenta il momento della massima integrazione tra le classi dirigenti romane, gli uomini di cultura e di scienza sia greci sia romani e ciò che restava di quella parte delle aristocrazie etrusche che era riuscita a conservare una memoria precisa del sapere divinatorio nazionale. Non a caso, proprio a quest'epoca risalgono la maggior parte dei frammenti noti dei libri haruspicini, fulgurales, rituales, fatales e Acheruntici, nei quali era tradizionalmente suddivisa la disciplina. È probabile che tale circostanza sia dovuta al fatto che le traduzioni dei libri originali dell'etrusca disciplina più diffuse sembrano essere quelle curate da Tarquizio Prisco. Nell'età successiva al periodo giulio-claudio non si può, virtualmente, più parlare di un'aristocrazia di origini etrusche e, dunque, di un incremento autenticamente nazionale dell'etrusca disciplina. Come paventava l'imperatore Claudio ‒ nel celebre discorso pronunziato in Senato a illustrazione del provvedimento mirante alla conservazione del collegio nazionale etrusco dei LX haruspices (Tacito, Annales, XI, 15) ‒ dopo la prima metà del I sec. d.C. la storia non avrebbe conosciuto altro che aruspici dalle origini più diverse. Aruspici sempre più spesso provinciali, ai quali si deve la lunga conservazione del patrimonio tradizionale dell'aruspicina etrusca, ma soltanto attraverso una meccanica riproposizione dei modelli speculativi e applicativi del suo periodo d'oro, cioè quello compreso tra la metà del IV sec. e la fine della Repubblica. Personaggi la cui fortuna, tuttavia, prosegue fino alla fine dell'Impero, nel 409 d.C., quando aruspici etruschi (o sedicenti tali) vengono a Roma, sottoposta all'assedio di Alarico (Zosimo, Istoría néa, V, 41 s), a offrire i propri servigi per evitare la calamità incombente.
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e Vittorio E. Alfieri, Firenze, La Nuova Italia, 1968-1979, 3 v.).