Scienza greco-romana. Istituzioni e forme dell'attivita scientifica in eta ellenistica e romana
Istituzioni e forme dell'attività scientifica in età ellenistica e romana
A partire dalla seconda metà dell'Ottocento, grazie all'influenza esercitata soprattutto dallo storico tedesco Johann Gustav Droysen, è diventata consuetudine denominare 'ellenismo' l'epoca che va dalle conquiste di Alessandro Magno all'Impero di Roma, cioè dal IV sec. a.C. al V sec. d.C. Carattere saliente di quest'epoca è la formazione di grandi monarchie da parte dei successori di Alessandro, non soltanto in Macedonia, ma anche in Egitto sotto i Tolomei, in Siria sotto i Seleucidi e poi anche a Pergamo sotto gli Attalidi. Signori di territori abitati in gran parte da popolazioni non greche, questi monarchi amavano circondarsi di costruzioni tipiche del mondo greco, come i teatri e i ginnasi, ma anche di istituzioni culturali, simili per alcuni aspetti alle scuole filosofiche di Atene, cercando di attirare attorno a sé da varie parti del mondo greco, per ragioni di prestigio, poeti e intellettuali rinomati anche in ambito scientifico. Purtroppo su tali istituzioni, sui personaggi che le popolarono e, più in generale, sui caratteri delle attività scientifiche svolte nelle capitali delle grandi monarchie ellenistiche siamo scarsamente informati, anche perché questi non erano temi di primario interesse per storici ed eruditi dell'antichità. Le biografie di matematici e astronomi, a differenza delle biografie dei filosofi ‒ di cui sono per noi documento essenziale le Vite di Diogene Laerzio ‒ non sembra che rappresentassero un genere letterario molto praticato. Un'eccezione è costituita dalla biografia di Archimede, ma ciò dipese in primo luogo dal suo ruolo nell'inventare congegni bellici per la difesa di Siracusa dall'attacco dei Romani e dalla sua morte, intervenuta durante la presa della città e divenuta ben presto leggendaria. La narrazione di questi eventi è reperibile in scritti di storici, quali Polibio e Tito Livio, e nella Vita di Marcello, il conquistatore di Siracusa, scritta da Plutarco. La vita di Archimede scritta da un non meglio noto Eraclide non ci è però pervenuta; né ci è pervenuta la monografia di Callixeinos di Rodi sulla città di Alessandria, nella quale tuttavia l'attività scientifica svolta nella città non doveva essere oggetto primario di interesse. Preziose informazioni su contenuti e caratteri delle teorie e sulla pratica terapeutica delle varie correnti mediche in età ellenistica sono fornite da Celso nel De medicina e da Galeno in vari scritti, ma anche qui con accenni soltanto sporadici agli aspetti storico-istituzionali dell'esercizio della medicina. Materiali epigrafici consentono tuttavia di precisare meglio la posizione dei medici nelle città in età ellenistica e romana, mentre per quanto riguarda gli aspetti delle ricerche matematiche sono di grande rilevanza le fonti primarie costituite dalle lettere premesse da Archimede o Apollonio di Perge ad alcuni loro scritti. In questa situazione di carenza di documenti sono stati gli storici moderni, sulla base di questi pochi testi ‒ nonché di accenni sparsi reperibili in opere di geografi quali Strabone, vissuto sotto Augusto e Tiberio, di architetti come Vitruvio, antiquari ed eruditi come Aulo Gellio e Ateneo, matematici e commentatori tardi di scritti geometrici di Euclide, Archimede e Apollonio, come Pappo, Proclo e Eutocio ‒ a tentare di ricostruire un quadro complessivo delle istituzioni e dei caratteri dell'attività scientifica in età ellenistica, nei diversi ambiti disciplinari. Il centro sul quale possediamo maggiori notizie è Alessandria, fondata in Egitto nel 332 a.C. da Alessandro e diventata, dopo la sua morte, sede della monarchia dei Tolomei. Tra i vari scritti del grammatico Aristonico di Alessandria, vissuto in età augustea, è ricordata una monografia sul Museo di Alessandria (Fozio, Bibliotheca, cod. 161, 104, b 40-41), ma nulla ci è rimasto di essa. Sul Museo ‒ letteralmente, un complesso edilizio dedicato alle Muse ‒ abbiamo praticamente un'unica notizia del geografo Strabone (Geographica, XVII, 1, 8), il quale ci informa che ancora al suo tempo (l'inizio dell'era cristiana) esso faceva parte del palazzo reale e comprendeva una passeggiata, un'esedra con sedili e un ampio edificio (oĩkos), dove aveva sede la mensa comune degli studiosi ‒ in greco philólogoi ‒ che ne facevano parte. Il termine usato da Strabone per designare questo insieme di studiosi, sýnodos, suggerisce l'idea di una comunità; esso era infatti caratterizzato anche dal possesso di beni comuni, da pasti presi in comune e dalla presenza di un sacerdote addetto appositamente al Museo, il quale un tempo era designato dal monarca, mentre nel periodo di Strabone era designato da Cesare, verosimilmente Augusto. L'esistenza del Museo è attestata da Svetonio anche per l'epoca dell'imperatore Claudio, e da Filostrato (Vitae sophistarum, I, 22 e 25) per quella di Adriano. Connessa al Museo e anch'essa collocata all'interno del palazzo reale, era la più vasta biblioteca del mondo antico, comprendente migliaia di volumi, che ai tempi di Aulo Gellio (Noctes Atticae, VII, 17, 3) assommavano a 700.000 rotoli. Essa raccoglieva quanto era stato scritto in lingua greca in vari tempi e luoghi noti, ma anche traduzioni in greco di testi di altre civiltà, come l'Antico Testamento. Galeno (K XVII 1 601) racconta che il re Tolomeo II Filadelfo aveva dato disposizione di copiare i libri presenti a bordo delle navi che facevano scalo nel porto di Alessandria, di trattenere gli originali e dare in cambio ai proprietari le copie fatte. Si può ricordare che nella grande nave fatta costruire da Gerone II, re di Siracusa, sotto la sovrintendenza di Archimede, tra le cose straordinarie che essa conteneva, c'era anche una biblioteca; questa nave fu poi donata da Gerone a Tolomeo (Ateneo, Deipnosophistae, V, 206 d-209 b). La biblioteca di Alessandria era aperta in primo luogo, o forse soltanto, agli studiosi del Museo e ai membri della corte regia, mentre una biblioteca più piccola fu poi costruita fuori del palazzo reale, nel Serapeo, tempio del dio Serapide, accessibile anche a un pubblico estraneo al Museo, che tuttavia non si deve pensare fosse straordinariamente folto. Non bisogna, tra l'altro, dimenticare che allora la forma consueta di lettura dei libri era a voce alta e di fronte a più ascoltatori, più che silenziosa e individuale, e quindi avveniva fuori dei locali adibiti alla conservazione dei libri, in esedre, porticati o viali. Vari incendi avrebbero periodicamente danneggiato la biblioteca; uno avvenuto al tempo di Aureliano, fra il 270 e il 275 d.C., distrusse gli edifici del Museo e quindi anche quelli che racchiudevano la biblioteca. Già nella prima metà del III sec. a.C. l'erudito poeta Callimaco aveva composto una sorta di catologo, i Pínakes, una vera e propria biobibliografia in 120 libri degli scritti di quanti si erano segnalati nei vari ambiti della cultura (paideía) e un'opera del genere poteva essere confezionata soltanto avendo a disposizione la vasta biblioteca di Alessandria. È difficile dire se questo 'catalogo' concernesse anche autori di opere matematiche e astronomiche e se nella cultura alessandrina si fosse proceduto a costruire anche per le discipline scientifiche un canone di autori 'classici', analogamente a quanto avvenne per poeti tragici e comici, oratori o storici; è verosimile, tuttavia, che la biblioteca contenesse anche opere di carattere scientifico. La cosa sembra attendibile per l'insieme di scritti medici, che vanno sotto il nome di Ippocrate, anche perché vari medici che si richiamavano all'insegnamento di Erofilo, operante in Alessandria nella prima metà del III sec. a.C., diedero il via alla costruzione di lessici e commenti di testi ippocratici, verosimilmente sulla base delle copie esistenti nella biblioteca. Stando a Galeno, Bacchio di Tanagra per costruire il suo lessico ippocratico avrebbe utilizzato raccolte di parole di Aristofane di Bisanzio, successore di Eratostene nella direzione della biblioteca del Museo. Questi interessi di tipo 'filologico' da parte di medici presupponevano lo sviluppo del lavoro critico e delle tecniche applicate dai grammatici alessandrini ai testi letterari, in primo luogo ai poemi omerici, per ricostruirne la lezione più attendibile. Verosimilmente la medicina fu tra le prime discipline a far propri questi interessi e a diffondere la pratica del commento a opere scientifiche, che per quanto riguarda le matematiche è pienamente attestata soltanto nelle opere tarde di Pappo e nei commenti di Proclo e di Eutocio a scritti di Euclide, Archimede e Apollonio di Perge; in ogni caso, l'unico scritto medico risalente all'età ellenistica e pervenuto sino a noi è il commento allo scritto ippocratico Sulle articolazioni di Apollonio di Cizio del I sec. a.C. Per questo genere di lavori su libri era preziosa l'esistenza di una biblioteca; lo stesso discorso si può fare per la costruzione di storie disciplinari, che già aveva preso avvio nel Liceo aristotelico, attraverso la stesura di storie della geometria e dell'astronomia per opera di Eudemo di Rodi, e di una storia della medicina da parte di Menone, utilizzata in seguito nel cosiddetto Anonymus Londiniensis. In questo orizzonte di cultura scientifica costruita sui libri si colloca anche la letteratura riguardante le hairéseis, ossia le correnti mediche e filosofiche, e le diadochaí, ossia le successioni dei caposcuola nei vari indirizzi filosofici. Non è un caso che capostipiti di questi generi letterari fossero considerati due personaggi originari entrambi di Alessandria, in ambito filosofico Sozione e in ambito medico Serapione di Alessandria, operante negli ultimi decenni del III sec. a.C. e appartenente alla corrente dei medici empirici. Il genere inaugurato da Serapione avrebbe poi continuato ad avere cultori nell'indirizzo empirico, quali Glaucia di Taranto, Alessandro di Antiochia ed Eraclide di Taranto, nonché fra i medici della scuola di Erofilo. L'istituzione del Museo e della biblioteca di Alessandria non era un'innovazione radicale prodotta dai primi Tolomei; il culto delle Muse è attestato già per le scuole filosofiche di Atene nel IV sec. a.C., e nelle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio fra i testamenti di vari caposcuola si riporta quello di Teofrasto, che fu a capo del Liceo aristotelico e che fa riferimento anche all'esistenza in esso di un edificio sacro. Stando ad Ateneo (XII, 547 d - 548 b), al tempo dello scolarcato di Licone il Liceo comprendeva un giardino, una passeggiata, statue e, vicino al giardino, un edificio (oikía) nel quale i membri della scuola prendevano i pasti in comune, nonché un Museo e una biblioteca; quest'ultima doveva raccogliere non soltanto i libri scritti dai membri della scuola, ma anche quelli utilizzati per lo svolgimento delle ricerche nella scuola. Si può assumere con una certa sicurezza che il Museo di Alessandria aveva un precedente proprio nella scuola aristotelica, anche perché il filomacedone Demetrio Falereo, che era stato al governo di Atene dal 317 al 307 e aveva avuto stretti rapporti con il Liceo (consentendo tra l'altro allo straniero Teofrasto di acquisire il diritto di possedere beni immobili ad Atene), una volta cacciato da Atene si era rifugiato proprio ad Alessandria presso Tolomeo I Sotere, del quale era diventato consigliere. Non è da escludere che tra i suoi consigli rientrasse anche quello dell'istituzione del Museo come luogo di raccolta di studiosi di varie discipline e dotato di un patrimonio librario, in analogia col Liceo. Ulteriore conferma del collegamento con la scuola aristotelica si può trarre dalla notizia secondo cui Stratone di Lampsaco prima di succedere a Teofrasto nella direzione della scuola aveva soggiornato per lungo tempo ad Alessandria come precettore del figlio di Tolomeo, il futuro Filadelfo. Alessandria non fu peraltro un caso unico. A Pella, capitale del regno macedone, anche Antigono Gonata (283-238) fondò una biblioteca, che Emilio Paolo, vittorioso sui Macedoni, avrebbe portato a Roma nel 168 a.C.; analogamente, nel 70 a.C. Lucullo avrebbe portato a Roma quella di Mitridate, re del Ponto. Anche a Pergamo, forse sotto Eumene II (197-158), era stata avviata presso il tempio di Atena Polias la costituzione di una vasta biblioteca, che all'epoca di Marco Antonio comprendeva circa 200.000 rotoli (Plutarco, Antonius, 58, 9-59, 1). Una serie di iscrizioni attestano inoltre a partire dal II sec. a.C. l'esistenza di biblioteche anche a Rodi, nonché in ginnasi, dove avveniva l'istruzione degli efebi, di città quali Atene, Coo e Pergamo stessa. Il fenomeno si protrasse poi a Roma, dove nel I sec. a.C. ricchi privati, come Varrone, Attico, Cicerone, costituirono biblioteche personali. Già Cesare progettò una biblioteca pubblica, affidandone l'incarico a Varrone, e il progetto fu portato a termine da Asinio Pollione nel 38 a.C.; allo stesso modo procedettero Augusto dopo il 23 a.C. e Traiano, al quale risale la costituzione della biblioteca Ulpia nel foro Traiano. Entrambe queste biblioteche avevano una sezione latina e una greca. Nei primi secoli dell'Impero fiorirono anche numerose biblioteche provinciali in varie località, quali Efeso, Prusa, Timgad in Africa; ad Atene l'imperatore Adriano, nel suo tentativo di valorizzazione del mondo greco, provvide a fondare un museo e una biblioteca (Eusebio, Chronicon, 227). Questo proliferare di biblioteche procedeva in parallelo con la crescente dimensione cosmopolitica anche delle indagini scientifiche nel mondo antico.
Chi erano i philólogoi membri del Museo di Alessandria? Strabone, nel passo citato, non fornisce precisazioni né menziona nomi, e Timone di Fliunte, discepolo dello scettico Pirrone, avrebbe ridicolizzato i 'filosofi' allevati nel Museo paragonandoli a rari uccelli di lusso, che, attorniati da libri, si beccano tra loro nella gabbia delle Muse (Ateneo, I, 22 d); anche Timone non fa nomi, ma è difficile che egli intendesse riferirsi soltanto a filosofi in senso tecnico. Soltanto in pochi casi i monarchi ellenistici riuscirono ad attrarre filosofi nelle loro corti e mai gli scolarchi delle scuole filosofiche ateniesi, che pure intrattennero con essi rapporti positivi, ricevendone in cambio doni e benefici. Per quanto riguarda il Peripato, un'eccezione significativa ‒ come si è visto ‒ è costituita da Stratone di Lampsaco, ma il suo soggiorno ad Alessandria precede la sua successione a Teofrasto come capo della scuola ad Atene. Teofrasto, a sua volta, non accolse l'invito di Tolomeo II a recarsi ad Alessandria e analogo diniego fu espresso dagli stoici Cleante e Crisippo (Diogene Laerzio, V, 37, VII, 185). Il primo inviò in sua vece Sfero, che nel 222 a.C. si recò con il re Cleomene di Sparta, sconfitto a Sellasia, presso Tolomeo IV Filopatore (Diogene Laerzio, VI, 177). Né migliori successi, nonostante i loro frequenti donativi, ottennero il re di Macedonia Antigono Gonata con il fondatore della Stoa Zenone, e gli Attalidi di Pergamo con gli accademici Arcesilao e Lacide. Anche in questi casi avvenne che Zenone inviò in sua vece Perseo e Arcesilao Archia. Né il fatto che l'epicureo Colote dedicasse un suo scritto polemico contro le altre scuole filosofiche a Tolomeo II può essere interpretato come segno di una sua presenza ad Alessandria. Tutto ciò sta a indicare che i filosofi continuavano a ritenere Atene il centro della vita filosofica ed erano restii ad abbandonarla; la situazione era invece ben diversa per quanto riguarda i cultori di discipline scientifiche. Un breve cenno in Ateneo (IV, 184 b-c) consente di ricavare qualche precisazione maggiore su chi fossero i philólogoi di cui parlava Strabone. Nel 145 a.C., alla morte di Tolomeo VI Filometore, ebbe luogo una diaspora di intellettuali da Alessandria cacciati dal suo successore. Città e isole greche vennero così a riempirsi di grammatici, filosofi, geometri, musici, pittori, maestri di ginnastica, medici e molti altri artigiani (technĩtai), i quali, improvvisamente impoveriti, furono costretti a insegnare a pagamento le cose che sapevano. Questa notizia sembra confermare che gli intellettuali ospitati nel Museo non soltanto usufruivano di una mensa comune, ma ricevevano dal re anche una sorta di stipendio, accuratamente registrato (Ateneo, XI, 494 a-b; XII, 552 c); ciò consentiva loro di dedicarsi liberamente alle proprie ricerche, senza doversi impegnare prevalentemente nell'insegnamento, ma naturalmente questo non vuol dire che essi non potessero avere discepoli. La cosa interessante è che l'elenco di intellettuali, menzionati da Ateneo, include anche geometri, medici e altri technĩtai; anche per questo aspetto un precedente era dato dalle scuole filosofiche, in particolare dall'Accademia e dal Liceo. Stando a un allievo di Aristotele, Dicearco, nell'Accademia si sarebbero svolte, sotto la guida dello stesso Platone, ricerche matematiche riguardanti anche l'ottica e la meccanica (Filodemo in Papiri Herculanenses 1021, col. Y, 1-17); attestata è poi la presenza nell'Accademia di astronomi e matematici, quali Eudosso di Cnido, Menecmo, Anfinomo. Di Aristotele sono ben note le indagini in ambito biologico e zoologico, estese a quello botanico e allo studio dei metalli e delle pietre da Teofrasto. La differenza radicale rispetto al Museo è data peraltro dal fatto che, mentre le scuole filosofiche erano istituzioni 'private', che non ricevevano alcun sussidio dalla città ma erano affidate alla libera iniziativa di singoli e alla loro disponibilità economica, nel caso del Museo tutto dipendeva dal patronato del monarca: non soltanto la nomina dei bibliotecari, i quali erano per lo più anche precettori dei suoi figli, ma anche il reclutamento e il mantenimento degli studiosi che vi risiedevano, nonché le acquisizioni di libri e attrezzature, quali strumenti di osservazione astronomica, e uno zoo (Ateneo, XIV, 654 b-c). Il caso più straordinario di patrocinio regio riguarda la medicina; nel proemio al De medicina (par. 23), Celso riferisce che Erofilo ed Erasistrato poterono effettuare vivisezioni su carcerati messi a loro disposizione per volere dei primi Tolomei, e Tertulliano (De anima, X, 4) parla addirittura di 600 carcerati nel caso di Erofilo. Il fatto che Galeno taccia di questo fatto non è di per sé prova dell'inattendibilità della notizia di Celso, avvalorata invece dalla rilevanza delle scoperte anatomiche dei due medici sul cervello e sulle valvole cardiache. Il patronato regio era però diretto non tanto a incrementare le conoscenze scientifiche o a beneficare i malati futuri, quanto in primo luogo ad accrescere il proprio prestigio; nel caso di Mitridate re del Ponto, vissuto nel I sec. a.C., l'uso di criminali condannati a morte per sperimentare l'effetto di alcuni farmaci aveva invece un vantaggio personale, perché gli consentiva di procurarsi antidoti e di immunizzarsi contro veleni artificiali e morsi velenosi di animali; perciò, secondo Galeno (K XIV 2 3 segg.), fu costretto a suicidarsi con la spada dato che nessun veleno era efficace su di lui. La vivisezione fu presto attaccata da altri medici, che ne sottolineavano la crudeltà e l'inutilità, rilevando tra l'altro che informazioni anatomiche e fisiologiche potevano essere ricavate dal semplice esame di feriti, per esempio dei gladiatori; ma anche in questo caso si può pensare che fosse il potere pubblico a mettere a disposizione per le osservazioni i corpi dei feriti. Comunque la vivisezione cessò ben presto di essere praticata e Cicerone (Academica, II, 122) ne parla ormai come di una pratica desueta; ciò non significa che la pratica anatomica, in particolare su corpi di animali, cessasse ad Alessandria, dal momento che ancora nel II sec. d.C. Galeno avrebbe ritenuto necessario recarsi in questa città proprio per perfezionarsi in questo ambito (Anatomicae administrationes, I, 2 in: K II 220-222). Tra i bibliotecari di Alessandria, la figura più significativa per quanto riguarda la storia delle scienze è Eratostene, originario di Cirene, città soggetta al dominio dei Tolomei, dalla quale proveniva anche Callimaco, e che già aveva dato i natali al matematico Teodoro, messo in scena da Platone nel Teeteto. Prima di arrivare ad Alessandria nel 245 a.C., invitato dal re anche come precettore del figlio, Eratostene aveva soggiornato molti anni ad Atene, dove aveva frequentato la Stoa e, soprattutto, l'Accademia scettica di Arcesilao (Strabone, I, 2, 2). Per la varietà dei suoi interessi scientifici, che spaziavano dalla geografia ‒ termine forse da lui coniato ‒ all'astronomia e alla geometria, fu soprannominato Pentatlo, ma anche Beta, per sottolineare che in nessuno di questi campi era riuscito a primeggiare, ma era sempre rimasto soltanto secondo. Archimede indirizzò a Eratostene due scritti pervenuti sino a noi, Il problema dei buoi e il Metodo sui teoremi meccanici, dicendolo familiare con 'la filosofia' nella quale eccelleva, ma anche estimatore della teoria matematica. La sua funzione di bibliotecario non era irrilevante per la sua attività scientifica, se è vero che, consapevole del fatto che la geografia è un sapere dotato di storia, scrisse appunto una storia di essa nella quale svolgeva, tra l'altro, una critica di Omero, accusato di polymathía, un sapere di tipo 'enciclopedico' ma non fondato sull'esperienza diretta, com'erano invece le informazioni fornite dal viaggiatore Pitea di Marsiglia (Strabone, II 1, 5). Anche in ambito geometrico Eratostene delineò una sorta di storia delle soluzioni date al problema della duplicazione del cubo sino alla propria (Eutocio, Commentarii in libros de sphaera et cilyndro, in Archimedes, Opera omnia, III, 88, 3-96, 27, ed. Heiberg); la stessa carta geografica ‒ da lui tracciata secondo uno schema geometrico ‒ era in primo luogo una correzione delle carte precedenti, una diórthōsis, proprio come quella condotta dai filologi alessandrini sul testo di Omero. Più che uno strumento per viaggiare, fare osservazioni o condurre guerre, la carta geografica di Eratostene era soprattutto uno strumento di comunicazione e discussione tra i cultori della disciplina, suscettibile di revisioni e correzioni. Il peso del patronato regio si fece sentire anche per quanto riguarda il maggior risultato scientifico raggiunto da Eratostene, la misurazione della circonferenza della Terra. Per essa egli utilizzò la misura della distanza da Alessandria a Siene (Assuan), che gli era fornita dai cosiddetti bēmatistaí, agrimensori, che verosimilmente il re stesso gli aveva messo a disposizione, nonché uno gnomone, orologio solare collocato presumibilmente nel Museo stesso o comunque nel palazzo regio (v. cap. XXV, Tav. I). Se nel caso di Eratostene si può essere sicuri di un suo rapporto diretto col monarca, la cosa è più problematica per quanto riguarda altre figure di scienziati la cui attività è collegabile con la città di Alessandria. Nei suoi In primum Euclidis elementorum librum commentarii (68, 6-23), Proclo, vissuto nel V sec. d.C., presenta Euclide come un platonico e riferisce un aneddoto su di lui, secondo il quale egli, alla domanda del re Tolomeo I se esistesse una via più breve per apprendere la geometria, avrebbe risposto che in tale campo non esiste una via regia. Il collegamento di Euclide con la filosofia platonica è però dovuto allo stesso Proclo o a eventuali sue fonti ed è fondato sulla convinzione che lo scopo ultimo degli Elementi fosse la costruzione dei cosiddetti solidi platonici, che stanno alla base della cosmologia del Timeo; esso dunque non può essere utilizzato per inferire che Euclide avrebbe studiato ad Atene nell'Accademia platonica. L'aneddoto invece potrebbe essere stato costruito a partire dall'attestazione della presenza ad Alessandria di Euclide, di cui non è noto il luogo di origine, ma non si deve dimenticare che la stessa frase si trova attribuita al geometra Menecmo in risposta ad Alessandro Magno (Stobeo, Anthologium, II, XXXI, 115, p. 228, 30-33). Sembra certo comunque che Euclide abbia avuto discepoli ad Alessandria, presso i quali, stando a Pappo (Collectio mathematica, VII, 35), avrebbe studiato il geometra Apollonio di Perge, la cui fioritura è collocata da Eutocio (Commentaria in Conica, II, 168, 5 segg.) al tempo di Tolomeo III Evergete (246-221 a.C.), in un periodo in cui Perge, città della Panfilia, era sotto il dominio dei Tolomei. Ciò conferma che Alessandria era, sì, sede di scienziati già affermati, ma anche di studiosi in via di formazione, che seguivano lezioni o partecipavano alle ricerche dei primi e spesso provenivano da altre zone del mondo greco. Da Samo, che nel III sec. a.C. era anch'essa sotto il dominio tolemaico, dovette provenire l'astronomo Aristarco, che probabilmente ad Alessandria seguì l'insegnamento del peripatetico Stratone (Aezio, I, 16, 5); di Samo era anche l'astronomo Conone, assai apprezzato da Archimede, che forse entrò in contatto con lui proprio durante un suo probabile soggiorno ad Alessandria, e menzionato da Apollonio di Perge tra i suoi predecessori nella trattazione delle coniche. La familiarità di Conone con la corte pare confermata dal fatto che egli chiamò la costellazione da lui scoperta 'chioma di Berenice', dal nome della moglie di Tolomeo III Evergete (nome divenuto celebre anche per l'omonimo carme di Callimaco). Anche intorno a Conone si costituì una cerchia di discepoli, tra cui Dositeo di Pelusio, al quale Archimede, dopo la morte di Conone, avrebbe inviato alcuni dei suoi scritti. Ad Alessandria dovette soggiornare, almeno per un certo periodo, anche Ipparco, nativo di Nicea in Bitinia, di cui Tolomeo nella Syntaxis o Almagesto (I, pp. 195-196, ed. Heiberg) riporta un'osservazione astronomica che egli vi avrebbe fatto nel 146 a.C., nonché la menzione dell'esistenza nella Stoa quadrata di Alessandria di una sfera armillare di bronzo che consentiva di effettuare osservazioni riguardanti gli equinozi. La messa a disposizione in un luogo pubblico di strumenti di osservazione astronomica era verosimilmente anch'essa un portato del patronato regio, non da ultimo per ragioni di esibizione e di prestigio, ma ad Alessandria dovettero esistere anche strumenti costruiti dagli astronomi stessi, come una diottra, una sfera armillare e altri strumenti descritti da Tolomeo. Ciò non significa che tutti gli astronomi e geometri operanti sul posto provenissero soltanto da altre zone del mondo greco; un'eccezione sembra costituita da Ipsicle, nato verosimilmente ad Alessandria nel II sec. a.C. e autore di uno scritto, Sulle ascensioni, nel quale riporta osservazioni astronomiche fatte in tale città, e del cosiddetto Libro XIV degli Elementi, entrambi pervenuti sino a noi. Originari di Alessandria e operanti in essa furono anche: Sosigene, di cui Cesare nel 46 a.C. si avvalse per riformare il calendario romano (Plinio, Naturalis historia, XVIII, 57, 211) e che forse giunse a Roma al seguito di Cleopatra; Menelao di Alessandria, nel I sec. d.C., autore tra l'altro di un testo di Sferica; Tolomeo stesso, nel II sec. d.C. Tutti questi dati attestano che ad Alessandria furono perseguiti con continuità per secoli studi matematici e astronomici, senza che per questo si debba concludere che tutti quanti si occupavano di queste discipline fossero necessariamente membri del Museo e non potessero svolgere le loro indagini anche fuori di esso, pur utilizzando la biblioteca. Né si deve trarre la conclusione che matematici e astronomi, in qualche modo legati ad Alessandria, operassero soltanto in essa; le eccezioni più vistose sono Archimede ‒ che svolse le sue indagini essenzialmente nella sua città natale Siracusa, dove godette del patronato di Gerone, signore della città, il quale, stando a Plutarco, lo sollecitava a impegnarsi anche sul piano delle realizzazioni tecniche ‒ e Ipparco, il quale scelse principalmente l'isola di Rodi come suo osservatorio astronomico (Strabone, II, 1, 5). Anche Conone, stando a quanto afferma Tolomeo nelle Fasi delle stelle fisse (in Opera omnia, II, pp. 66-67, ed. Heiberg), aveva fatto osservazioni astronomiche in Italia e in Sicilia e non si può escludere che qui sia avvenuto il suo incontro con Archimede. Così, Apollonio di Perge, nella prefazione al Libro I delle Coniche, dice di aver svolto attività ad Alessandria, dove era arrivato per frequentarlo il geometra Naucrati, ma anche di essere stato a Pergamo insieme a Eudemo, destinatario del suo scritto. Anche Diocle, attivo tra il II e il I sec., autore di uno scritto Sugli specchi ustori, conservato soltanto in arabo, si trovava in Arcadia ‒ che non è detto fosse un rilevante centro scientifico ‒ quando l'astronomo Zenodoro gli aveva posto il quesito da cui sarebbe poi risultato il suo libro, il quale era una soddisfacente risposta a problemi già posti da Pythion a Conone e da Zenodoro. Se matematici e astronomi potevano ricevere il sostegno dei sovrani tolemaici soprattutto in ragione del prestigio che ne poteva derivare agli occhi del resto del mondo greco, e della competizione con gli altri monarchi ellenistici, utilità più immediata poteva essere tratta dall'attività di tecnici, geografi e medici. Questa cosa è ovvia in particolare per la tecnologia militare. Nel suo trattato sulla costruzione di armi da lancio (Belopoeica, 4, 3, p. 50, 37-40) Filone di Bisanzio, vissuto nel III sec. a.C., afferma esplicitamente che, mentre gli antichi non erano riusciti a determinare con esattezza nelle catapulte il diametro del foro che doveva ospitare la corda in tensione per scagliare proiettili, i tecnici di Alessandria vi erano riusciti da poco, in quanto, grazie ai mezzi messi a loro disposizione da parte di re amanti della reputazione e della tecnica (philódoxoi e philótechnoi), avevano potuto effettuare esperienze non casuali, ma metodicamente perseguite e ripetute. Questo fenomeno ovviamente non riguardava soltanto Alessandria; lo stesso Filone (4, 5, p. 51, 15-23) ricorda di avere operato ad Alessandria ma anche a Rodi. Al re di Pergamo, Attalo, era dedicato, forse all'inizio del II sec. a.C., il trattato di poliorcetica, cioè sulla tecnica degli assedi, di Bitone (Ateneo, XIV, 634 a); inoltre, abbiamo esempi di sovrani che seguivano personalmente i lavori di progettazione e di costruzione in questo settore, come Demetrio ‒ del quale questa dedizione è ampiamente documentata nella biografia dedicatagli da Plutarco (ma si veda anche Vitruvio, X, 16, 4) ‒ che era stato soprannominato per tale ragione Poliorcete, distruttore di città, e il tiranno di Siracusa Dioniso che, già nella prima metà del IV sec. a.C., aveva attirato nella sua città i migliori tecnici dall'Italia, dall'Ellade e anche dai domini cartaginesi (Diodoro Siculo, XIV, 41, 3; 42, 1; 50, 4). Non è un caso che proprio a Siracusa Archimede progettasse i suoi congegni bellici, su impulso e col patronato del signore della città, Gerone (270-216); anche Rodi vantava una grande tradizione tecnica militare e Vitruvio (X, 16, 3) menziona alcuni architetti, competenti in tale settore, che godevano di stipendio pubblico. Egli stesso avrebbe avuto incarichi pubblici in Roma e dedicato il suo trattato De architectura all'imperatore, verosimilmente Augusto, mai menzionato per nome. Una documentazione dell'importanza riconosciuta nel primo Impero romano a funzionari colti esperti di questioni tecniche rimane per noi anche il De aquaeductu urbis Romae di Sesto Giulio Frontino, nominato da Nerva nel 97 d.C. curator aquarum della città. Prendendo visione diretta dei problemi, senza delegarli ai suoi collaboratori, Frontino svolge analisi accurate dello stato degli acquedotti, del tipo di tubature e delle loro capacità di erogazione, nonché delle norme legislative che ne regolano la costruzione e la manutenzione, senza per questo sentirsi diminuito nella sua dignità di appartenente alle classi elevate. Portare attenzione alle attività tecniche comunque non era soltanto questione di utilità; non irrilevante anche in questo caso era il prestigio che esse potevano arrecare a re e imperatori attraverso la costruzione di congegni meravigliosi da esibire e da contemplare. Abbiamo già ricordato la grande nave fatta costruire dal re di Siracusa, Gerone, più per essere ammirata che per navigare, dato il suo grande peso. Dello stesso tipo fu la nave fatta costruire verso la fine del III sec. a.C. da Tolomeo IV Filopatore, anch'essa oggetto da esibire più che da utilizzare per la navigazione, "non molto differente da un edificio in terraferma" secondo Plutarco (Demetrius, 43, 5-6). Nello stesso orizzonte si collocano i congegni descritti nei Pneumatica di Erone, vissuto nel I sec. d.C., che si richiamava però a un'antica tradizione risalente a Ctesibio di Alessandria, operante nella prima metà del III sec. a.C.; che un tecnico potesse tranquillamente procedere alla costruzione di macchine sia utili sia meravigliose è appunto provato dall'attività di Ctesibio, a cui erano attribuiti sia un congegno per sollevare acqua sia un organo idraulico (Vitruvio, X, 7, 1-4). Utilizzando come forza motrice la pressione esercitata da un elemento su un altro (aria o acqua), era possibile far fluire da corpi inanimati zampilli d'acqua o produrre suoni o accensioni automatiche di fuochi. Movimenti automatici di figurine inanimate in veri e propri teatrini meccanici erano ottenibili attraverso congegni, come quelli descritti in un'altra opera di Erone, Sulla costruzione di automi, nella quale è ricordato come predecessore in questo campo proprio quel Filone di Bisanzio di cui si è parlato. Non è da sottovalutare l'impiego di congegni pneumatici e meccanici di questo tipo in templi e in circostanze religiose, come le processioni, nelle quali il potere sovrano dispiegava tutto il suo fasto e tutta la sua capacità di sbigottire. Nella sua opera già citata su Alessandria, Callixeinos di Rodi descriveva una processione svoltasi in quella città sotto Tolomeo II Filadelfo, probabilmente verso il 271-270: nella sfilata di uomini, oggetti e animali esotici spiccava anche, collocata su un carro, una statua che si alzava meccanicamente e, dopo aver libato latte da un'ampolla d'oro, tornava a sedersi (Ateneo, V, 197 - 203 b). Ed è significativo che già Demetrio Falereo, il consigliere dei Tolomei, quand'era stato al potere ad Atene, aveva utilizzato durante una processione un automa di questo tipo (Polibio, XII, 13, 7 segg.). La letteratura geografica, funzionale anch'essa al potere dei monarchi e degli imperatori, dominanti su vaste estensioni territoriali, era caratterizzata dalla medesima congiunzione di utilità e stupore: essa poteva fornire da una parte mappe e cognizioni di territori utili sia per la navigazione sia per imprese militari, dall'altra notizie di luoghi, vegetali, animali e popolazioni straordinarie. Agatarchide di Cnido (altra città sotto il dominio tolemaico) era addirittura segretario di Tolomeo VI e nella sua opera geografica utilizzava anche documenti ufficiali, reperibili negli archivi regi, per fornire resoconti, anche etnografici, sulle coste dell'Africa e dell'Arabia. Anche Strabone riconosceva esplicitamente la finalità politica della sua Geografia (I, 1-2); ammiratore della grandezza di Roma (V, 3, 7-8), egli vedeva nella formazione di un unico grande impero sotto Roma la condizione per un ampliamento delle conoscenze, utili non soltanto agli specialisti. Poco tempo prima che scrivesse la sua opera, Marco Vipsanio Agrippa aveva fatto tracciare una grande carta geografica dell'Impero sulla parete della porticus Pollae, in modo che fosse visibile al grande pubblico. Augusto incaricò il geografo Dionisio di Charas di fare commentari sull'Oriente per suo nipote Gaio, che vi doveva essere inviato (Plinio, VI, 141). Plinio stesso, nella Storia naturale (II, 117-8; XIV, 1-7), riteneva che l'Impero, assicurando la pace e la possibilità di scambi, avesse posto le condizioni per uno sviluppo anche delle conoscenze, ma al tempo stesso lamentava che di fatto fosse venuto meno l'impulso a nuove ricerche, e attribuiva proprio alla nuova situazione di pace e di benessere la causa di tale stagnazione, in quanto essa incrementava soltanto il desiderio di possedere e di arricchirsi. Era venuta meno, a suo avviso, quella competizione tra i reges innumeri, i monarchi ellenistici, nel patrocinare le ricerche dei dotti, dalle quali era scaturito lo sviluppo delle artes. Per quanto riguarda la medicina, in età ellenistica e romana la situazione dei rapporti con il potere è variegata; accanto a medici itineranti nelle varie città e dediti esclusivamente all'attività terapeutica, si collocano infatti da una parte i medici di corte, e dall'altra parte medici impegnati soprattutto in ricerche teoriche riguardanti l'anatomia e la fisiologia, dalle quali non sempre scaturivano immediate applicazioni e risultati sul piano terapeutico. In quest'ultima classe rientrano Erofilo ed Erasistrato, i quali, come si è visto, avevano goduto del patronato dei re di Egitto, anche se non è detto esplicitamente nelle fonti che essi risiedessero nel Museo e ricevessero stipendio e supporti finanziari. La permanenza ad Alessandria di Erofilo, originario di Calcedone, sulla riva del Bosforo opposta a Bisanzio, non è attestata esplicitamente al di là della notizia già citata di Celso e di un indizio sul suo uso del termine 'faroide' per designare il muscolo che va in direzione della lingua, il quale uso presupporrebbe la sua conoscenza del Faro di Alessandria, costruito verso il 280 a.C.; per quanto riguarda Erasistrato, invece, una serie di testi antichi riferisce di suoi rapporti con la Scuola aristotelica di Atene, dove avrebbe seguito anche lezioni di Teofrasto (Diogene Laerzio, V, 57). Secondo una tradizione aneddotica sarebbe anche stato medico alla corte dei Seleucidi ad Antiochia, dove attraverso l'accertamento della pulsazione del sangue avrebbe diagnosticato la passione amorosa del futuro Antioco I Sotere per Stratonice, figlia di Demetrio Poliorcete e moglie di Seleuco, padre di Antioco. Lo stesso aneddoto è però raccontato da Plinio il Vecchio a proposito di Cleombroto, verosimilmente il padre di Erasistrato stesso, medico di Seleuco, e Valerio Massimo è in dubbio se il protagonista fosse Erasistrato o addirittura un matematico, Leptine (Factorum et dictorum memorabilium libri novem,V, 7, ext. 1); in ogni caso, tale aneddoto non autorizza a concludere che Erasistrato svolgesse la sua attività soltanto ad Antiochia e non anche ad Alessandria. Secondo Galeno (De placitis Hippocratis et Platonis), Erasistrato da vecchio avrebbe abbandonato l'attività terapeutica per dedicarsi esclusivamente all'indagine scientifica praticando dissezioni, e ciò sarebbe avvenuto appunto ad Alessandria, mentre la notizia secondo cui egli sarebbe stato sepolto in una penisola di fronte all'isola di Samo indurrebbe a concludere che avesse cessato di vivere lontano da Alessandria. Forse anche Erasistrato, come la maggior parte dei suoi colleghi medici, aveva condotto una vita itinerante, pur risiedendo stabilmente per un lungo periodo ad Alessandria; in ogni caso questa città attrasse medici non soltanto dai centri tradizionalmente legati alla professione medica, come Coo e Cnido, diventati luoghi di influenza o dominio tolemaico. Essa fu luogo di attività di vari medici che si richiamavano all'insegnamento di Erofilo e che per Polibio (XII, 25, d 4) erano il classico esempio di medici che fondavano il loro sapere sui libri. Erofilo fu, per esempio, il medico personale di Tolomeo IV Filopatore, Andrea di Caristo, morto durante la guerra siriaca nel 217 a.C. nella tenda del re per mano di un traditore che non vi aveva trovato il re (Polibio, V, 81, 1-6). Anche dopo la diaspora del 145 a.C. medici erofilei continuarono a essere attivi in Alessandria, ma a partire dal I sec. a.C. la corrente si diffuse anche in Asia Minore. Analogamente, la presenza di medici che si richiamavano all'insegnamento di Erasistrato è attestata ad Alessandria, ma anche a Seleucia, dove Apollofane fu medico di Antioco III (224-187 a.C.), il che attesta la persistenza di legami con la corte in cui era ambientato l'aneddoto riguardante Erasistrato. Nel I sec. a.C. una scuola di erasistratei, capeggiata da Icesio di Smirne, fu operante anche a Skione, e nel II sec. d.C. Galeno testimonia la presenza anche a Roma di erasistratei che facevano un uso indiscriminato della flebotomia e rivendicavano un legame privilegiato del loro capostipite con la scuola aristotelica. Analogo discorso può essere fatto per la corrente dei medici empirici, il cui capostipite, secondo una versione, sarebbe stato un allievo diretto di Erofilo, Filino di Coo, e secondo un'altra, Serapione di Alessandria, già ricordato. Fin dall'inizio Alessandria sarebbe stata centro dell'attività di questi medici, ma abbiamo notizia già per il II sec. a.C. di empirici originari di Taranto, Antiochia e Cirene. Il commento già citato di Apollonio di Cizio al testo ippocratico Sulle articolazioni è dedicato a un Tolomeo, identificato con Tolomeo XII Aulete o con suo fratello, che allora regnava su Cipro (tra l'80 e il 58); Apollonio stesso dice di aver frequentato ad Alessandria lezioni di Zopiro. Né stupisce la presenza di medici alla corte di Mitridate nel I sec. a.C., e insieme anche del botanico e farmacologo Crateuas. L'esistenza di scuole di medicina (didaskaleĩa) è attestata anche per altre zone del mondo greco e la cosa non sorprende, dato che l'attività medica, a differenza di altre forme dell'attività scientifica, era per lo più costituzionalmente legata a destinatari che ne richiedevano le cure e poteva quindi implicare qualche forma di istituzionalizzazione nella preparazione a svolgerla. Questo aspetto pare altresì confermato, oltre che dalla composizione di una letteratura manualistica, dall'esistenza di scritti destinati a principianti, com'è il caso di alcuni scritti di Galeno.
Il settore in cui l'attività scientifica venne costituendosi su basi essenzialmente unitarie e cumulative fu la matematica, in particolare la geometria. Gli Elementi di Euclide, composti verso il 300 a.C., espongono in forma assiomatico-deduttiva, anche se non perfetta e incompleta, molti risultati di precedenti ricerche sulla geometria piana e solida e riguardanti la teoria dei numeri e delle proporzioni. Essi sono infatti costituiti da un insieme di proposizioni dedotte da un numero ristretto di principî (definizioni, nozioni comuni, postulati) o da proposizioni via via già dimostrate. Non è da pensare che Euclide fosse l'inventore di questa forma di esposizione, dal momento che Proclo menziona una serie di predecessori di Euclide e che esempi di applicazioni di essa si trovano in scritti a noi pervenuti, antecedenti agli Elementi, come quelli di astronomia sferica di Autolico di Pitane e il Libro III degli Elementi di armonica di Aristosseno di Taranto, allievo di Aristotele. I matematici antichi, sia prima sia dopo Euclide, fecero uso sul piano euristico di tecniche diverse dalla forma assiomatico-deduttiva, per esempio del metodo analitico, in particolare per risolvere problemi di quadratura e di cubatura. Archimede stesso distingue il suo metodo meccanico, inteso come metodo euristico, dalla dimostrazione geometrica in senso stretto. I matematici posteriori a Euclide, per quel che ne sappiamo, non misero però mai in discussione la struttura deduttiva del sapere geometrico e quindi la necessità di derivare proposizioni da principî preliminarmente assunti. Ciò non significa che essi non potessero trovarsi in situazioni competitive e non dissentissero a volte su specifici punti, non soltanto sull'adozione di tecniche euristiche diverse, ma anche nel fornire dimostrazioni alternative di teoremi, in quanto ritenute migliori rispetto a quelle euclidee. In altri casi il dissenso riguardava il buon ordinamento delle proposizioni entro la struttura deduttiva, se cioè determinate proposizioni fossero principî o fossero anch'esse dimostrabili. Di tutto ciò v'è traccia nel commento di Proclo a Euclide; Apollonio di Perge, per esempio, tentò addirittura di dimostrare la nozione comune 1 di Euclide, secondo cui cose uguali a una stessa sono uguali tra loro, e ancora Tolomeo avrebbe dedicato appositamente un libro al postulato delle parallele. Ma tutte queste discussioni vertevano appunto non sulla verità o falsità degli assiomi o dei postulati euclidei, bensì esclusivamente sul loro status di principî. Così, si registrano tentativi, documentati nelle Definizioni dello Pseudo-Erone, di trovare definizioni alternative di enti geometrici. La stessa terminologia con la quale erano designati i tipi di principî fu tutt'altro che fissa e continuò a oscillare anche dopo Euclide, sia in Archimede sia in Apollonio. Tuttavia non abbiamo notizia di matematici antichi che contestassero la validità del modello deduttivo euclideo; anzi, la sua potenza pare confermata dal fatto che esso ebbe applicazione anche in altri ambiti della ricerca scientifica, dalla musica ‒ dove abbiamo l'esempio già citato dello scritto di Aristosseno, ma anche la Sectio canonis dello stesso Euclide ‒ all'astronomia, dove, oltre al caso già menzionato di Autolico, si devono ricordare i Fenomeni di Euclide e lo scritto di Aristarco di Samo Sulle grandezze e le distanze del Sole e della Luna, e, nella Tarda Antichità, persino alla teologia, com'è provato dagli Elementi di teologia di Proclo. L'accettazione della validità di un modello comune, almeno nelle sue linee generali, facilitava tra i matematici, anche geograficamente distanti tra loro, una forma di cooperazione della quale sono preziosa testimonianza le lettere premesse da Archimede, Apollonio e Diocle ai loro trattati. Gli scritti che Archimede invia ad Alessandria a Dositeo, allievo di Conone, e ad Eratostene non codificano o sistemano risultati conseguiti da altri, ma comunicano risultati propri e talvolta contengono anche l'indicazione della via seguita per arrivare a essi. Talvolta le lettere di accompagnamento formulano problemi o enunciano proposizioni con la richiesta di risoluzioni o dimostrazioni. Archimede ritiene quindi importante la comunicazione con altri esperti, perché suppone che da essi possa venire qualche contributo e in questo senso rimpiange la morte prematura di Conone. Proprio a Conone si era rivolto con una lettera anche Pythion di Taso, chiedendogli di risolvere una questione sugli specchi ustori, come ricorda Diocle. Ma la funzione degli altri matematici consisteva non soltanto nella loro integrazione in questa sorta di lavoro collettivo, bensì anche nel controllo della correttezza e della validità dei risultati conseguiti. Anche Apollonio, nella lettera premessa al Libro I delle Coniche, attribuirà a questa piccola e chiusa comunità di matematici il compito di giudicare. L'oggetto sul quale, secondo Archimede, un matematico competente può formulare tale giudizio è la dimostrazione dell'enunciato, ma in un universo assiomatico come quello euclideo il controllo di una dimostrazione verterà sulla sua congruità rispetto a un insieme di assiomi e sull'accettabilità di tale insieme. L'esito positivo di questo controllo si concretizzerà nel conferimento di credito, pístis, e ciò è detto a chiare lettere da Archimede nella lettera premessa a Quadratura della parabola, ma anche nell'Arenario. Da ciò conseguiva l'accettazione e l'integrazione delle nuove proposizioni nell'edificio delle conoscenze geometriche già conseguite; ma questo presupponeva anche l'esistenza di una tradizione in qualche modo consolidata e riconosciuta. La comunità matematica ‒ la cui funzione è definibile in termini di cooperazione e di controllo ‒ e la tradizione non sono che due facce di una stessa medaglia; su questo piano si costituisce una concezione della crescita del sapere geometrico come accumulazione progressiva di risultati all'interno di una tradizione, codificata da Euclide, ma risalente per Archimede almeno sino a Eudosso. Archimede è consapevole di aver scoperto come quadrare la parabola, ma a tale scopo non ha dovuto introdurre assiomi nuovi, in quanto egli si è semplicemente collegato ai suoi predecessori nell'uso di un assioma che aveva già dato buoni risultati, estendendone l'ambito di applicazione; così dirà di fare anche Diocle nella premessa al suo scritto Sugli specchi ustori: la novità è pienamente compatibile con la continuità. Anche le lettere premesse da Apollonio ai vari libri delle Coniche forniscono il quadro di più matematici, operanti in sedi diverse, che si incontrano e comunicano tra loro i propri risultati, con la preghiera di diffonderli anche ad altri, magari in una loro versione primitiva che sarà poi corretta. E anche Apollonio riconosce che ciò che rende i suoi risultati degni di essere accolti sono le dimostrazioni. Basilide di Tiro lavora col padre di Ipsicle a emendare Apollonio e questi corregge il Libro I della sua opera in base a loro osservazioni. La geometria costituisce un caso a sé stante di cooperazione e di concezione unitaria e cumulativa del sapere; se però passiamo alle scienze della vita il panorama appare ben diverso. Intanto in questo ambito, a differenza delle matematiche, non si assiste alla formazione di un lessico tendenzialmente unificato, né al costituirsi di una comunità sufficientemente omogenea per imporlo: ancora tra la fine del I e l'inizio del II sec. d.C. Rufo di Efeso riterrà necessario comporre uno scritto sulle denominazioni delle parti del corpo umano. Soltanto Galeno divenne progressivamente un'autorità riconosciuta, e ciò determinò una certa unificazione. Non esistevano infatti autorità istituzionali che riconoscessero la medicina come professione di utilità pubblica e quindi stabilissero un curriculum comune per la formazione medica e prove finali con rilascio di titoli, fornendo eventualmente un sostegno finanziario per tale formazione. L'assenza di autorità esterne è un tratto comune ai vari rami del sapere; l'unificazione del sapere medico, però, non ebbe luogo neppure per ragioni interne (come avvenne invece per la geometria): la medicina non fu mai un campo di sapere unificato né portò alla formazione di una comunità scientifica con presupposti teorico-metodici comuni. Già Celso, vissuto verosimilmente sotto l'imperatore Tiberio, attesta chiaramente, nel proemio del De medicina, l'esistenza di più indirizzi divergenti, in particolare di medici empirici e medici 'razionalisti' o 'dogmatici' e di posizioni differenziate anche all'interno di quest'ultimo indirizzo. Certo, gli empirici riconoscevano che, per dar luogo alla costituzione dell'arte medica, accanto all'autopsia o all'osservazione diretta da parte del singolo medico di singoli pazienti e di singoli casi, è rilevante quella che essi chiamavano historia, ossia il resoconto da parte di altri medici delle loro osservazioni. E la valutazione positiva della historia non soltanto si fondava su un presupposto antirelativistico, nel senso che la stessa cosa o evento o successione di eventi potevano essere osservati allo stesso modo anche da osservatori diversi, e quindi sull'accettazione di attestazioni concordi, alle quali poteva essere conferita pístis, ma comportava anche un certo riconoscimento della costituzione della medicina come frutto di una cooperazione tra medici lontani nel tempo e nello spazio. Ciò legittimava quindi l'utilità di biblioteche e del lavoro filologico sugli stessi testi della tradizione medica, ippocratica in primo luogo. Ma gli empirici respingevano la costruzione di generalizzazioni e la pretesa di inferire da ciò che è osservabile ciò che non è osservabile direttamente, come pretendevano di fare i medici 'dogmatici'. A questi orientamenti si sarebbero poi aggiunti altri indirizzi medici, come quello metodico e quello pneumatico. Il rapporto tra questi indirizzi era essenzialmente di competizione, la quale non dev'essere confusa con la semplice critica ad altri medici del passato o del presente. Critiche di questo genere sono facilmente reperibili anche in ambiti del sapere scientifico maggiormente unificati od omogenei della medicina. Per esempio, Apollonio di Perge sottolinea esplicitamente i limiti dei suoi predecessori nella trattazione della teoria delle coniche, tra i quali lo stesso Euclide e Conone, per sottolineare la novità e originalità dei suoi risultati. Anche Archimede aveva talvolta parlato di pseudodimostrazioni di teoremi, avanzate da altri geometri e rivelatesi poi infondate. Così, in ambito geografico, Strabone difendeva Omero dagli attacchi di Eratostene, conformemente al risveglio classicistico greco già alla fine del I sec. a.C., e quindi si faceva fautore dell'esistenza di una tradizione unitaria di sapere geografico, accrescibile e perfezionabile. Lo stesso Tolomeo, che pure non sempre dovette tenere conto di indagini svolte dai predecessori, all'inizio dell'Almagesto (I, 2) riconosceva che alla base delle proprie dimostrazioni egli poneva sì i fenomeni direttamente osservati da lui, ma anche osservazioni attendibili fatte da antichi e da contemporanei. In questo contesto potevano coesistere senza contraddizione sia le lodi ripetute da lui tributate a Ipparco, sia le critiche alla rozzezza delle osservazioni fatte dai suoi predecessori, incluso lo stesso Ipparco, e all'imprecisione dei loro calcoli e delle loro misure. Polemiche e critiche di questo tipo, però, non comportavano in genere concezioni radicalmente differenti e alternative del lavoro matematico e astronomico. Questo avveniva invece per la medicina, dove ‒ a differenza delle matematiche e dell'astronomia ‒ era anche in gioco la necessità di procurarsi clienti e ottenere guadagni, come del resto avveniva anche nell'ambito della tecnologia, soprattutto militare. Vitruvio (X, 16, 3 e 6-7) riferisce dell'esibizione pubblica a Rodi di un tecnico, il quale, grazie all'ostensione del funzionamento di una macchina bellica da lui predisposta, soppiantò l'architetto che già godeva di un salario da parte della città e che pure era originario di Rodi. Competizioni del genere si erano diffuse in età ellenistica nelle città che dovevano assumere medici pubblici, ai quali erano offerti privilegi e immunità fiscali; a Efeso avvenivano addirittura gare tra medici, con liste annuali di vincitori, che ricordavano le gare olimpiche. Questa situazione competitiva della medicina è ben documentata, soprattutto per Roma, dal I sec. a.C. sino all'età di Galeno. Dopo un'ostilità iniziale verso la medicina greca, per esempio da parte di Catone il Censore, Roma era diventata un importante centro di attrazione per medici provenienti da varie parti del mondo di lingua greca. Già dalla fine del II sec. a.C. questa diffidenza aveva cominciato a essere vinta, secondo Plinio (XXIX, 12-15), grazie ad Asclepiade di Bitinia, che aveva addirittura rifiutato di lasciare Roma per la corte di Mitridate, dove altri medici erano assai onorati, e sarebbe poi stato considerato uno dei capostipiti della scuola metodica. Il successo di Asclepiade presso una vasta clientela aristocratica dipendeva non soltanto dalla sua innovativa tecnica terapeutica, fondata su bagni caldi, esercizi e alimentazione, anziché su farmaci e chirurgia, ma anche dal fatto che con la sua eloquenza, esibita in lezioni pubbliche, egli vinceva, come dice Cicerone nel De oratore, tutti gli altri medici. Non è irrilevante ricordare che anche il medico di Nerone, Tessalo, sarebbe appartenuto alla corrente dei medici metodici. Anche Sorano, nel secolo successivo, dopo aver iniziato i suoi studi medici nella natia Efeso e averli proseguiti ad Alessandria, avrebbe esercitato a Roma sotto Traiano e Adriano. Infine Galeno, dopo aver studiato a Pergamo, Smirne e Alessandria, ed essere stato, tra l'altro, medico dei gladiatori nel 157 d.C., si era recato a Roma, dove aveva conosciuto Flavio Boeto e altri appartenenti ai ceti elevati. Egli stesso nello scritto Sulla prognosi racconta il successo pubblico incontrato dalla sua terapia rivolta all'anziano filosofo peripatetico Eudemo; la sua fama raggiungeva anche l'imperatore Marco Aurelio, che lo richiamava nel 169 a Roma, dove iniziava anche il periodo più fertile della sua produzione scritta. Galeno si trovava ad agire in una società nella quale esisteva tra i medici una forte competizione per procurarsi una clientela ricca: in assenza di autorità esterne per la professione medica e di regolamentazioni pubbliche sulle forme di terapia lecita o illecita, ogni tipo di medicina, ma anche ogni corrente di pensiero medico era, per così dire, messa in vendita sul mercato. Certo, al successo nei confronti dei rivali potevano contribuire terapie riuscite, ma occorreva anche saper dispiegare capacità oratorie di convinzione e un ricco bagaglio culturale per accreditare la propria immagine di buon medico, soprattutto di fronte a un pubblico colto, in luoghi pubblici come il Tempio della Pace o i bagni di Traiano. Non è un caso che Galeno sia anche autore di un'opera intitolata Il miglior medico è anche filosofo. L'interesse di un pubblico colto per problemi medici generali è attestato anche dalle Questioni conviviali di Plutarco; ma si tratta di un fenomeno che vanta antichi precedenti, basti pensare al fatto che tra quanti nel Simposio platonico pronunciano un discorso sull'amore c'è anche il medico Erissimaco, che ne parla dal punto di vista della sua competenza. Tra gli strumenti di cui Galeno si serviva per costruire la propria immagine e screditare gli avversari c'era anche la pratica di dissezioni anatomiche di animali in pubblico, anche di un elefante ‒ come racconta egli stesso nelle Anatomicae administrationes ‒ oltre che di scimmie, capre, cani o maiali; tale pratica svolgeva una funzione epidittica e spettacolare in un contesto agonistico, non soltanto di ricerca o di insegnamento. A ciò si accompagnava una riconsiderazione dell'intero passato della medicina e dei suoi vari indirizzi, nella quale erano accuratamente distribuite critiche e riconosciuti meriti, in modo da ricostruire una tradizione autorevole, inaugurata da Ippocrate e perseguita fedelmente dallo stesso Galeno, contro le parzialità e gli errori delle altre correnti. La contiguità fisica di cultori di discipline diverse nel Museo di Alessandria e in altri centri importanti delle monarchie ellenistiche e poi a Roma, rendeva possibili scambi tra settori, sia sul piano dei metodi esplicativi, sia sul piano delle applicazioni. La cosa andava da sé per quanto riguarda i vari rami del sapere matematico e astronomico, la cui parentela era già stata teorizzata sia da Platone, sia da Aristotele. Non è un caso che a Euclide siano attribuiti, oltre agli Elementi, anche scritti di ottica e di teoria musicale, e già si è accennato alla poliedricità degli interessi di Eratostene. Lo stesso Archimede introduceva nozioni desunte dall'ambito della meccanica per risolvere problemi squisitamente geometrici. Ma il caso forse più interessante è costituito dai rapporti tra la medicina ellenistica e la tecnologia contemporanea di Ctesibio e di Filone di Bisanzio. Accanto al caso di Erofilo, che costruì una sorta di orologio ad acqua, calibrato secondo le età, per misurare le pulsazioni e, quindi, valutare lo stato febbrile connesso a esse, si deve ricordare l'importanza che per Erasistrato riveste l'analogia con le pompe idrauliche per spiegare il funzionamento del cuore e delle sue valvole e quella con le molle a torsione, introdotte nella costruzione delle macchine belliche da lancio, per spiegare il funzionamento dei nervi motori. Dal canto suo l'erofileo Andrea di Caristo, già ricordato, inventò una macchina chirurgica ‒ descritta da Celso (VIII, 20, 4) e da Galeno nel suo commento allo scritto ippocratico Sulle articolazioni ‒ per praticare un'estensione su un femore lussato. Tecniche di riduzione delle lussazioni erano già state introdotte da medici ippocratici, ma il congegno di Andrea introduceva mezzi nuovi, tra l'altro anche la vite, i quali davano luogo a diversi moti meccanici e consentivano aumenti minori e più dolci di tensione, tanto che il suo congegno continuò a essere usato almeno sino al IV sec. d.C. In quanto medico personale di Tolomeo IV, Andrea aveva una conoscenza diretta della tecnologia militare, in particolare di quella di Filone di Bisanzio per le macchine da lancio, dalla quale desumeva principî e terminologia; ma si può ricordare che prestiti linguistici avvenivano anche nella direzione inversa, dalla terminologia anatomica umana per designare parti di macchine. Medicina e tecnologia militare apparivano legate da scambi reciproci ed entrambe inserite nell'ambiente urbano della corte. Certo, la maggior parte dei tecnici e dei medici continuò a coltivare soltanto il suo ristretto campo di competenza, ma un architetto come Vitruvio e un medico come Galeno teorizzarono la necessità di collegare la loro disciplina a molti altri rami del sapere. D'altra parte, Vitruvio, nel De architectura, deplora che l'architettura sia esercitata da individui incolti. Ai suoi occhi, un buon architetto deve avere conoscenze non soltanto di geometria, se non altro per saper usare regolo e compasso, di ottica, per risolvere problemi di illuminazione, e di aritmetica, per calcolare correttamente misure e costi, ma anche di astronomia, soprattutto per costruire orologi solari, di musica, per questioni di acustica, e di medicina, per saper valutare la salubrità dei luoghi nei quali costruire, anche se in tutti questi ambiti egli non deve mirare a raggiungere un sapere altamente specialistico. Così, in Galeno, uno degli aspetti centrali della costruzione della propria immagine e, quindi, della figura dell'ottimo medico è dato appunto dalla rete di relazioni che egli sa costruire tra la medicina e altri ambiti del sapere scientifico. In vari scritti Galeno attribuisce a suo padre, un architetto affermato e di polivalenti interessi scientifici, il merito di avergli fatto apprendere e approfondire sin da giovane a Pergamo discipline quali la geometria, l'architettura, la logistica, l'aritmetica e l'astronomia, e poi anche la filosofia presso maestri dei vari indirizzi filosofici (stoicismo, platonismo, aristotelismo ed epicureismo). Egli attribuisce proprio alla sua conoscenza delle discipline matematiche il fatto di non essere caduto vittima dei dissensi intercorrenti tra le varie scuole filosofiche e di non aver finito per abbracciare una forma di scetticismo verso la possibilità di attingere la conoscenza (De libris propriis, 11 in: K XIX 40; De dignotione peccatorum, I, 8 in: K V 41-42). Tali discipline, infatti, sono sempre presentate da Galeno come il modello dell'autentico sapere scientifico fondato sulla dimostrazione: soltanto in esse si registra concordanza sui principî e assenza di diaphōnía, ossia di quel conflitto di posizioni che caratterizza sia la filosofia sia la medicina. Se si eccettua Ippocrate, che egli tende a presentare come l'esemplare del vero medico, tra l'altro anche per aver saputo congiungere alla medicina conoscenze astronomiche, Galeno evita in generale di aderire strettamente a una singola corrente medica. Una delle ragioni della sua ostilità verso i metodici, sottolineata nel De methodo medendi (I, 1-2 in: K X 5, 17), è il fatto che essi ‒ promettendo, come faceva Tessalo, d'insegnare la medicina soltanto in sei mesi ‒ sostengono che il futuro medico non ha bisogno di conoscere né geometria né astronomia né musica. Queste dichiarazioni di principio di Galeno, come gli esempi geometrici di cui a volte costella i propri scritti, certamente rientrano nella strategia retorica con la quale egli intende accreditare la propria immagine di medico compiuto e colto dinanzi al proprio pubblico. Ma a volte i riferimenti a nozioni o termini desunti da queste discipline hanno anche una funzione descrittiva o addirittura una reale funzione conoscitiva. Così, nelle Anatomicae administrationes, ma anche in altri scritti, egli usa termini e riferimenti concernenti figure geometriche per fornire più perspicue descrizioni anatomiche. Nel De usu partium accenna alla teoria degli isoperimetri e al riconoscimento che il cerchio è la figura avente la massima area tra quelle dotate di uguale perimetro, per ricordare ‒ come già avevano fatto Aristotele ed Erasistrato ‒ che le ferite circolari sono quelle che richiedono più tempo per guarire. Così, nei commenti a scritti ippocratici quali Le Epidemie o il Prognostico per comprendere con esattezza le indicazioni temporali sui decorsi delle malattie e sulle crisi fornite in questi scritti egli fa ampio uso di nozioni di astronomia calendariale e riferimenti al problema del calcolo della durata dell'anno, nonché delle stagioni, in mesi e giorni, dato che i giorni e le notti hanno durata diversa in zone geografiche diverse e nelle diverse stagioni. Un caso particolarmente interessante è dato dall'ottica, nel contesto della trattazione dell'occhio e della visione nel De usu partium (X, 12-15 in: K III 812-841). Galeno si rendeva conto di dover introdurre su questo tema dimostrazioni specialistiche di teoremi, ma, sapendo che da esse rifuggivano non soltanto gli incolti, ma anche i competenti di medicina, aveva dapprima ritenuto preferibile tralasciarle. Ciò che poi lo aveva indotto a reintrodurle nel suo scritto era stato un sogno, in cui egli era biasimato perché in tal modo faceva un torto all'organo più divino e al divino artefice provvidente che l'aveva costruito. È interessante segno dell'eccezionalità della situazione il fatto che Galeno ritenesse necessario introdurre il riferimento a un sogno divino e ai suoi comandi per giustificare l'introduzione in uno scritto medico, di forte impronta teologica e provvidenzialistica come il De usu partium, di sezioni squisitamente ottico-geometriche. Ciò apre uno squarcio importante sulle attitudini del pubblico colto delle grandi città dell'Impero romano nel II sec. d.C., da una parte verso la medicina e dall'altra verso le matematiche e, più in generale, sui destinatari della letteratura scientifica e sulla sua diffusione e conservazione.
Si tratta ora di considerare le ragioni che possono aver contribuito alla diffusione e alla conservazione oppure alla perdita della letteratura scientifica nell'Antichità. In una situazione nella quale non di rado biblioteche pubbliche e private erano funestate da incendi, la possibilità di diffusione e di sopravvivenza dei testi era legata anche alla ripetuta riproduzione manuale di un'opera in più copie, su papiri prima e su codici poi, e quindi alla richiesta di essa da parte di committenti. Per quanto riguarda la circolazione e la conservazione della letteratura scientifica, un contributo cospicuo non venne certo dall'istruzione generale dei giovani, nella quale matematiche e astronomia non furono mai parte costitutiva, se non a livelli molto elementari, come sembrano provare tra l'altro papiri egizi di età ellenistica contenenti esercizi scolastici. Anche a Roma, stando a Orazio (Ars poetica, 325-330), l'aritmetica che s'insegnava ai ragazzi non doveva arrivare molto oltre i computi con le monete; in ogni caso, la letteratura scientifica di livello più elevato non aveva il suo pubblico nelle scuole volte all'istruzione dei giovani. In assenza di documentazione adeguata, è pressoché impossibile ricostruire i canali attraverso i quali si acquisivano conoscenze matematiche superiori o addirittura si diventava matematici e astronomi. Certamente un ruolo decisivo dovette svolgere in molti casi l'influenza paterna, com'è attestato per Archimede e Galeno; anche il padre di Ipsicle, autore del Libro XIV degli Elementi, era un matematico. Ma non sempre dovette essere così, se Ctesibio era figlio del proprietario di una bottega di barbiere (Vitruvio, X, 8, 2), che difficilmente doveva nutrire interessi scientifici o tecnici. In generale l'interesse di ceti abbienti e colti per le scienze matematiche, nel mondo sia ellenistico sia poi romano, non dovette essere molto grande e diffuso. Cicerone menziona come eccezionali i casi di personaggi che coltivarono tali discipline, come lo zio di Pompeo Magno, Sesto Pompeo, che aveva evitato di dedicarsi alla vita pubblica per impegnarsi nello studio dell'etica e del diritto, ma anche della geometria (Brutus, 175), o ancora un liberto di Crasso. Unico dovette poi essere ‒ come ricorda Plutarco ‒ l'interesse manifestato da una donna, la figlia di Metello Pio Scipione, per matematica, musica e filosofia (Pompeius, 55). Plutarco stesso, pur avendo studiato molto la matematica da giovane ad Atene, aveva poi rinunciato a una specializzazione che giudicava eccessiva (De E apud Delphos, 387 f). Alcuni suoi scritti attestano un'attenzione per questioni astronomiche riguardanti i corpi celesti, ma in essi la matematica non ha pressoché posto: nel dialogo De facie in orbe lunae il matematico Menelao assiste pressoché muto alla discussione; e il fatto che nel catalogo dei suoi scritti compaia un'opera in cui si chiedeva se è migliore il numero dispari o il numero pari, dice molto sul tipo di problemi matematici che potevano attrarre la sua attenzione. Anche Cicerone nel secolo precedente aveva forse appreso dallo stoico Diodoto un po' di geometria, ma confessava all'amico Attico di essere imbarazzato dagli aspetti matematici di uno scritto di geografia (Ad Atticum, II, 4, 1; 6, 1). Il fatto che egli constatasse amaramente che ai suoi tempi la tomba di Archimede fosse caduta in abbandono (Tusculanae disputationes, V, 64-66) e che a Roma la geometria era ormai utilizzata soltanto per misurare e calcolare (ibidem, I, 5), né ancora esistesse un vocabolario geometrico latino (Academica, I, 6), non è prova di un suo desiderio di invertire tale tendenza. Il suo invito a non dedicare troppo studio a cose oscure e non necessarie alla vita, come astronomia e geometria, trascurando in tal modo le incombenze della vita attiva (De officiis, I, 19), se echeggiava analoghe osservazioni attribuite da Senofonte a Socrate, rispecchiava l'atteggiamento diffuso nei ceti nobili e colti di Roma. Non è un caso che non abbiamo notizia del soggiorno a Roma di matematici di rilievo, a differenza di quanto si è visto per i medici. Non era dunque presso il grande pubblico che la letteratura matematica, soprattutto quella concernente tematiche complesse, poteva trovare diffusione: i destinatari di essa rimasero essenzialmente pochi matematici; ciò può spiegare, tra l'altro, anche la scarsa diffusione nel mondo antico degli scritti di Archimede rispetto a quella più ampia degli Elementi di Euclide. Occorre però tenere conto di un altro aspetto che non contribuì a favorire la diffusione e la conservazione di scritti scientifici presso un pubblico più vasto, ossia la composizione di manuali e trattati elementari, nonché di compendi ed enciclopedie riguardanti singoli settori disciplinari o ampi blocchi di sapere scientifico. In certi casi erano scritti autorevoli a soppiantare e rendere obsoleta la lettura e lo studio di testi precedenti; così è per gli Elementi di Euclide, i quali, riprendendo e codificando risultati di ricerche precedenti, mettevano fuori gioco tutta la letteratura antecedente che li riportava. Lo stesso si può dire della Syntaxis (o Almagesto) di Tolomeo, che si sarebbe imposta come il testo di riferimento nell'ambito dell'astronomia matematica, di fatto contribuendo forse alla scomparsa degli scritti del grande predecessore Ipparco. Diverso è il caso della Geografia, contenente in gran parte cataloghi di longitudini e latitudini, basata da Tolomeo sulle sue misurazioni ed essenzialmente su osservazioni astronomiche, più che su relazioni di viaggi, e quindi non alternativa rispetto alla Geografia prevalentemente descrittiva di Strabone, che a sua volta però tendeva a far scomparire buona parte dei resoconti precedenti, in primo luogo la trattazione geografica di Eratostene. Allo stesso modo, se quasi tutta la letteratura medica di età ellenistica non è pervenuta sino a noi, la ragione è probabilmente dovuta all'autorità progressivamente acquisita dagli scritti di Galeno. Lo stesso si può dire del De materia medica di Dioscuride, che col suo prezioso catalogo di circa 600 specie vegetali, venne a sostituire tutte le precedenti trattazioni farmacologiche, anche quella di Crateuas del I sec. a.C., che pure ‒ stando a Plinio (Naturalis historia, XXV, 8) ‒ era stato il primo a corredare il suo scritto con immagini delle piante trattate. Sono pervenuti trattati più o meno elementari di astronomia di Gemino e Cleomede, i quali non si trattengono su nozioni astronomiche più sofisticate; in altri casi, invece, compendi ed enciclopedie, di ben più facile lettura, andavano a sostituire gli scritti originali. Questo fenomeno assumeva proporzioni crescenti soprattutto nel mondo romano e nella cultura di lingua latina. Già il nobile Varrone, contemporaneo di Cicerone e cultore di studi antiquari, nonché di speculazioni numerologiche di stampo pitagorico, componeva un'opera intitolata Disciplinae, comprendente anche libri con nozioni elementari (ma forse non dimostrazioni vere e proprie) di geometria, aritmetica, astronomia e musica, ossia di quello che si sarebbe poi imposto sotto il nome di quadrivio. Un discorso analogo si può fare anche per il De medicina di Celso, che forse doveva essere una parte di una trattazione più vasta di carattere enciclopedico, e per altri aspetti anche per la Naturalis historia di Plinio. Plinio non compone un'opera specialistica, ristretta a uno specifico ramo del sapere, né un compendio di discipline, ma, condividendo un gusto diffuso per le raccolte e le curiosità ‒ tra il suo pubblico egli menziona esplicitamente gli studiorum otiosi, che non sono i dotti, ma quanti, come lui, hanno tempo libero da dedicare alla lettura ‒ intende costruire una sorta di colossale repertorio di tutto ciò che l'Universo contiene e la Terra, in particolare, produce. Per tale impresa egli attinge talora a proprie osservazioni dirette, specialmente in ambito botanico, tra l'altro compiendo una sorta di visita guidata nell'hortulus di Antonio Castore. Ma, soprattutto, egli costruisce il proprio libro di seconda mano sulla base di altri libri, attingendo a un'enorme letteratura scritta, in gran parte andata perduta: egli dice di aver letto ben 2000 volumi (I, pref., 17), di cui ‒ come racconta il nipote, Plinio il Giovane (Epistulae, III, 5) ‒ faceva excerpta o da cui traeva note. E nella prefazione alla sua opera Plinio poteva vantare che nessuno, né presso i Latini, né presso i Greci, aveva trattato praticamente tutto lo scibile da solo, come aveva fatto lui. Il caso dell'opera di Plinio è emblematico di un libro costruito in gran parte su altri testi, il quale col suo successo finiva per condannare alla scomparsa una quantità di altri libri, che ne costituivano la sorgente e in molti casi dovevano essere anche più complessi. Naturalmente ciò non metteva fuori gioco, per esempio, le opere zoologiche e botaniche di Aristotele e Teofrasto, che, pur contenendo dati utilizzati in parte anche da Plinio ‒ come da Eliano nella sua opera sugli aspetti meravigliosi della vita degli animali ‒ avevano un impianto totalmente differente e avevano come destinatari soprattutto un pubblico di scuola. La Natura che interessava a Plinio era soprattutto quella che si manifesta in casi eccezionali e irregolari e perciò desta meraviglia, anziché nella regolarità e costanza delle sue formazioni, come avveniva in Aristotele e Teofrasto. La potenza dell'inventario e l'esigenza di catalogazione totale si misuravano appunto dalla capacità di includere tutti i casi, anche i meno conosciuti e straordinari. Non bastava dunque la sovrapposizione di oggetti per determinare automaticamente la perdita o la conservazione di certi scritti, ma contavano anche gli approcci a tali oggetti e la destinazione di tali scritti. Già il fatto che questi compilatori di enciclopedie o raccolte, a volte anche originali, scrivessero in latino implica che i loro destinatari fossero diversi da quelli dei trattati scientifici elaborati in Alessandria o in altri grandi centri della cultura ellenistica di lingua greca. Essi non si rivolgevano mai a una ristretta cerchia di dotti e di colleghi, ma miravano sempre a un pubblico più vasto. Il problema essenziale era più l'esigenza di far circolare il già noto, ossia di estendere l'area di consumo del sapere, magari semplificandolo, piuttosto che d'incrementare il sapere dal suo interno e pervenire a nuovi risultati; anche se ciò non significa che manuali o enciclopedie non potessero contenere anche contributi personali dei loro autori. A tenere desto l'interesse per tematiche di carattere scientifico contribuì a volte anche la veste poetica nella sua maggiore capacità di rivolgersi anche a strati meno colti, rispetto ai complessi trattati scientifici. Questo vale, per esempio, per tematiche di tipo astronomico e, ancor più, astrologico. Nel clima del gusto antiquario e catalogatorio proprio della cultura che ruotava intorno alla biblioteca di Alessandria, Eratostene si occupò, per esempio, anche della raccolta di storie mitiche e popolari sull'origine delle costellazioni; un tema caro anche al poeta Callimaco, com'è attestato dalla sua Chioma di Berenice, già ricordata, dove la nuova costellazione scoperta da Conone era presentata come il frutto della trasformazione di un ricciolo della regina, moglie di Tolomeo III Evergete. A questi temi Eratostene dedicò uno scritto in prosa intitolato Catasterismi, ma anche due poemi, Hermes ed Erigone. Pressoché nello stesso periodo, la metà del III sec. a.C., il re di Macedonia, Antigono Gonata, chiese ad Arato di Soli di mettere in versi il contenuto dei Fenomeni di Eudosso, vissuto nel secolo precedente (Achille Tazio, In Arati phaenom. comm. fragm., 77); un caso tipico di poesia dotta di tipo ellenistico, incline al catalogo, nel quale gli astri sono raggruppati per costellazioni e, nell'ultima parte ‒ che ha un antecedente già in Le opere e i giorni di Esiodo ‒ sono intesi come segni per effettuare previsioni meteorologiche utili per la semina o per la navigazione. Non si tratta certo di un'opera tecnica di astronomia matematica: in essa, tra l'altro, non c'è alcuna trattazione dei pianeti e dei loro moti e lo stesso Cicerone definisce Arato homo ignarus di astronomia (De oratore, I, 69). È sintomatico tuttavia che nel secolo successivo un astronomo del calibro di Ipparco, pur essendo preceduto da una schiera di commentatori, avvertì anch'egli la necessità di commentare il poema di Arato, apportandovi una serie di critiche, il cui bersaglio ultimo erano le concezioni di Eudosso, e lasciando cadere la parte concernente le previsioni meteorologiche. È significativo che l'opera di Eudosso sia andata persa, mentre il poema di Arato è stato conservato e il commento a esso è l'unica opera di Ipparco pervenuta sino a noi. L'astronomia che circolò a Roma fu quella esemplificata in Arato, più che l'astronomia matematica, che sarebbe poi stata codificata da Tolomeo. Anche la geografia trovò modo di rivestirsi di forma poetica, come avveniva ancora nell'epoca dell'imperatore Adriano con la Periegesi della Terra abitata, composta da Dionisio il Periegeta sulla base della carta di Eratostene, dove sono assenti calcoli di distanze o di aree e i luoghi sono visualizzati con riferimenti a figure geometriche o con analogie con oggetti empirici. Le dediche dei propri scritti a sovrani o personaggi illustri, oltre che essere volte ad assicurare agli autori patrocinio e sostegno, potevano contribuire alla sopravvivenza e forse anche a una certa diffusione degli scritti stessi. L'Arenario di Archimede è dedicato a Gerone e i vari libri delle Coniche di Apollonio di Perge sono tutti preceduti da lettere indirizzate a un Attalo, descritto come capace di apprezzarli e comprenderli e generalmente identificato con uno dei sovrani di Pergamo, anche se è stato avanzato qualche dubbio in proposito. La letteratura tecnico-militare era per sua natura destinata a monarchi o imperatori e ai tecnici al loro servizio. Il trattato di poliorcetica di Bitone è dedicato a un re Attalo, verosimilmente uno dei sovrani di Pergamo, mentre quello di Apollodoro di Damasco, costruttore del ponte sul Danubio sotto Traiano, è dedicato all'imperatore. Lo stesso De architectura di Vitruvio è dedicato all'imperatore e Plinio presenta la sua Naturalis historia come un dono a Tito, oltre che diretto a turbae di agricoltori e artigiani e a studiorum otiosi. Secondo Eliano (Tattica, I, 2), autori di trattati militari di tattica erano stati addirittura Pirro, il re d'Epiro, e suo figlio Alessandro, ma è interessante che questi trattati non siano stati conservati; evidentemente non bastava lo status elevato dell'autore a garantire automaticamente la sopravvivenza di un testo. Anche il commento di Apollonio di Cizio allo scritto ippocratico Sulle articolazioni era dedicato a un Tolomeo e corredato di illustrazioni, conservate nel manoscritto che l'ha trasmesso sino a noi. Nel proemio egli considera questa pratica di illustrare un testo come non eccezionale: essa svolgeva indubbiamente l'importante funzione di rendere perspicuo quanto era scritto nel testo, equivalendo quindi a una sorta di commento, e probabilmente fu una delle ragioni della sua sopravvivenza, l'unica ‒ come si è detto ‒ di un testo medico di età ellenistica. Illustrazioni accompagnano anche la Poliorcetica di Alessandro di Damasco e, stando a Plinio (XXV, 8), dovevano essere presenti anche in scritti farmacologici. La pratica di dedicare scritti medici a illustri personaggi ebbe diffusione anche a Roma: Asclepiade dedicò una sua opera al re del Ponto Mitridate e un'altra al romano Geminio (Celio Aureliano, De morbis chronicis, II, 110). Molti scritti di Galeno sono diretti a uomini della sua professione, ma neppure egli esitò a dedicare proprie opere a nobili romani, come Basso, o a presentarli come composti su esortazione di qualcuno di essi, come il console Flavio Boeto nel caso delle Anatomicae administrationes. Anche rispetto a questa prassi è tuttavia possibile trovare esempi contrari: particolarmente significativo è il fatto che il manuale di astrologia di Tolomeo, la Tetrabiblos, destinato a straordinaria fortuna anche in epoche successive, sia dedicato a un Siro, non altrimenti conosciuto. Ma pare probabile che in generale le dediche a figure influenti esterne allo specifico settore disciplinare e la pratica di corredare i propri scritti con illustrazioni potessero favorire una circolazione di essi anche fuori delle cerchie professionali. E in quest'orizzonte si colloca anche la pratica di rendere pubbliche le proprie scoperte mediante iscrizioni su monumenti. Così è per l'epigramma di Eratostene inciso su una stele per annunciare la propria scoperta della soluzione del problema della duplicazione del cubo. Forse lo strumento da lui escogitato per pervenire a tale soluzione era collocato in un tempio o nel Museo o comunque entro il palazzo reale. Analogamente, una coppa a forma di testa di un dio, con una tromba automatica, era dedicata da Ctesibio ad Arsinoe, figlia di Tolomeo I e di Berenice, e collocata in un tempio dov'essa era venerata su un piedistallo, nel quale era scritto un epigramma di dedica. Una delle ragioni della diffusione di astronomia, geografia e musica nel mondo romano è che esse si occupavano di oggetti e trattavano argomenti che, a differenza della geometria e di altri rami delle scienze matematiche, potevano interessare maggiormente il pubblico colto, saldandosi anche a credenze popolari e religiose, come appare da papiri egizi, a volte bilingui in greco e in demotico, contenenti tavole numeriche sulle posizioni giornaliere dei corpi celesti e oroscopi, i quali mostrano come la competenza dei sacerdoti in astronomia predittiva fosse necessaria per le popolazioni rurali dell'Egitto romano sicuramente sino al II sec. d.C. Stando a Cicerone e Plinio, già verso la metà del II sec. a.C. il nobile Sulpicio Gallo aveva composto un libro, forse in greco, nel quale esponeva le questioni delle eclissi e delle distanze tra i pianeti. Non è un caso, poi, che lo stesso Cicerone, pur non molto ferrato in matematica, s'impegnasse nella traduzione del poema di Arato, come poi avrebbe fatto anche il nipote di Augusto, Germanico. Anche per le sue connessioni con i problemi del calendario l'astronomia costituiva un argomento più appetibile che non i modelli geometrici dei cieli, anche se già nel I sec. a.C. ebbe una certa diffusione a Roma il gusto per i planetari e, in particolare, l'ammirazione per quello di Archimede, salvato dal sacco di Siracusa. Nella sua riforma del calendario Cesare ricorse all'aiuto dell'astronomo Sosigene, probabilmente di Alessandria; Plinio (XVIII, 211-212) parla addirittura di un libro di Cesare in greco sugli astri, forse una sorta di calendario astrometeorologico, che non doveva però richiedere vaste conoscenze astronomiche. Essenziale per la continuità di interessi nei confronti di tematiche astronomiche, più o meno tecniche, fu il contributo fornito dalla diffusione dell'astrologia, sulla base anche di dati provenienti dall'astronomia babilonese. Per il suo successo anche presso i ceti colti non fu irrilevante il supporto fornito dalla maggior parte degli esponenti della filosofia stoica, con i concetti della simpatia cosmica e del rigoroso ordine causale dell'Universo. A Roma l'astrologia trovò diffusione non soltanto grazie a intellettuali di origine greca, ma ebbe anche cultori ed esperti locali, grazie anche alle sue connessioni con le pratiche divinatorie, già diffuse in ambiente etrusco; basti pensare alla figura di Nigidio Figulo, che coltivò anche interessi per la divinazione e la magia, o a quella di Lucio Taruzio di Fermo, che Cicerone definisce familiaris noster, esperto di "calcoli caldaici" (De divinatione, II, 47, 98). La fortuna dell'astrologia si legava indubbiamente alla pratica degli oroscopi non soltanto di individui, ma a volte addirittura di regni o città. A Taruzio, Varrone avrebbe proposto ‒ in base all'assunto che se è possibile prevedere gli eventi della vita di un individuo partendo dalla sua data di nascita, sarà possibile inversamente rintracciare questa data partendo da tali eventi ‒ di stabilire il giorno e l'ora della nascita di Romolo ricavandoli dagli avvenimenti attribuiti alla sua vita, in modo da arrivare a fissare il giorno natale di Roma stessa (Plutarco, Romulus, 12). Ancora, il fatto che nel I sec. d.C. il poeta latino Manilio dedicasse i suoi Astronomica a tematiche astrologiche è una conferma del vasto interesse per tali tematiche. Tolomeo dedicò due opere distinte alla trattazione dell'astronomia e dell'astrologia, ma ritenne che, mentre l'astronomia matematica può svilupparsi a prescindere dall'astrologia, quest'ultima presuppone necessariamente la conoscenza di dati e procedure dell'astronomia matematica: non a caso, un termine con il quale gli astrologi erano abitualmente chiamati era mathematici. Grazie al fatto d'inglobare un apparato di astronomia matematica, l'astrologia consolidava il suo prestigio e, al tempo stesso, contribuiva a tenere vivo l'interesse per l'astronomia. Resta infine da considerare il contributo delle scuole filosofiche per la circolazione delle conoscenze scientifiche e la conservazione di testi scientifici. Intanto, occorre ricordare che la 'fisica' ‒ letteralmente 'indagine sulla Natura' ‒ rimase sempre, anche dopo Aristotele, prerogativa delle scuole filosofiche, che la concepirono come una delle parti della filosofia stessa. Il fatto che intellettuali romani di importanti famiglie municipali provenienti da regioni dell'Italia o della Spagna, come Varrone prima, Seneca poi con le Naturales quaestiones, e Plinio il Vecchio si occupassero di meteorologia e di altri fenomeni naturali, rientrava nel tradizionale ambito di problemi già affrontato dalle varie scuole filosofiche; basti pensare agli interessi di Aristotele, ma anche di Epicuro e poi dello stoico Posidonio per i problemi meteorologici. In Seneca e soprattutto in Plinio l'attenzione ai fenomeni naturali avveniva in funzione dell'uomo responsabile verso la Natura, considerata madre divina di tutto. I loro scritti sono sempre caratterizzati dalla presenza di scale di valori e prese di posizione nei confronti della morale del tempo, anche quando il movente sembrerebbe essere soltanto la raccolta e la contemplazione delle meraviglie della Natura; di qui i loro attacchi contro le violazioni della Natura e contro il lusso, dovuti alle passioni umane, nonché il perseguimento di un modello di filosofia intesa come ars vitae. Più travagliato e meno omogeneo è il rapporto delle filosofie con le matematiche e quindi il loro eventuale contributo alla diffusione e alla conservazione, oppure alla perdita della letteratura matematica. La questione è rilevante perché, mentre medici o tecnologi militari o architetti svolgevano un'attività destinata a precisi committenti e pertanto in una dimensione che li equiparava, anche se verso l'alto, con le professioni artigiane, e quindi ‒ almeno in linea di principio ‒ non richiedevano un sostegno diretto da parte della filosofia, non si può dire lo stesso dei matematici, che non acquisirono mai uno status professionale. Discipline matematiche come la geometria o l'ottica furono coltivate o da singoli individui, ma non per trarne guadagni, oppure all'interno di scuole filosofiche; esse erano altamente apprezzate nella scuola di Platone, e non certo trascurate in quella di Aristotele, anche se non si può sostenere che Euclide derivasse direttamente i suoi principî dalla teoria aristotelica della scienza e tanto meno una tecnica deduttiva di tipo sillogistico. Per quanto riguarda l'età ellenistica, è diffuso invece il luogo comune di una netta separazione, anche geografica, tra filosofia e scienze, la prima coltivata ad Atene e le seconde ad Alessandria. È un fatto che gli scritti dei matematici operanti ad Alessandria, ma anche a Siracusa o Pergamo, non mostrino esplicito interesse per i problemi teorici e metodologici sollevati dalle filosofie a loro antecedenti o contemporanee. Archimede distingue esplicitamente tra risoluzione, cioè ricerca di soluzioni, e dimostrazione, mediante un vocabolario che in certi punti presenta un'aria di famiglia col coevo linguaggio filosofico, soprattutto aristotelico e stoico; ciò non significa però che egli fosse guidato da preoccupazioni filosofiche o fosse direttamente riconducibile a una singola corrente filosofica. D'altra parte, il problema di una logica della scoperta non sembra essere stato discusso dai filosofi di età ellenistica. Inoltre, mentre i matematici, per quanto ne sappiamo, non mettono mai in discussione l'assiomatizzazione, ciò avviene presso alcuni filosofi, come gli epicurei, che si sono occupati pressoché ininterrottamente di geometria, anche se a scopo polemico. Durante il periodo d'insegnamento a Lampsaco, prima di aprire la propria scuola ad Atene nel 306 a.C., Epicuro ‒ per il quale tutti i mathḗmata non contribuiscono alla saggezza ‒ ebbe tra i suoi allievi Polieno, il quale entrò in polemica con i matematici di Cizico, discepoli di Eudosso, e giunse a considerare falsa tutta la geometria (Cicerone, Academica, II, 33, 106). Probabilmente a questa conclusione, che non sappiamo se fosse già propria di Epicuro, egli arrivò sulla base di difficoltà o aporie che mostravano l'incompatibilità della teoria epicurea dei minimi atomici con il presupposto proprio della geometria eudossiana e poi euclidea della divisibilità all'infinito delle grandezze. Questo fu certamente il punto centrale della polemica contro la geometria euclidea anche di un altro epicureo, Filonide, la cui vita è narrata in un papiro pervenutoci (Papiri Herculanenses 1044). Di famiglia abbiente e matematico di formazione, originario di Laodicea, in Siria, a sud-ovest di Antiochia, Filonide fu in rapporto con il re di Siria Antioco IV Epifane, che regnò dal 175 al 164, e con il suo successore Demetrio I Sotere, che regnò sino al 150. Egli intrattenne corrispondenza e legami di amicizia sia con la cerchia di Apollonio di Perge, sia con Basilide, scolarca della scuola epicurea ad Atene all'inizio del II sec., anch'egli interessato alla matematica. Dell'epicureo Demetrio Lacone abbiamo tracce di uno scritto sulla geometria in un papiro (Papiri Herculanenses 1061), dove discute, con l'ausilio di figure, alcune proposizioni del Libro I degli Elementi di Euclide, nelle quali è utilizzato il principio della bisezione all'infinito di un segmento, probabilmente con intento critico. Amico di Demetrio fu Zenone di Sidone, scolarca della scuola epicurea nei primi decenni del I sec. a.C. ad Atene, dove in vecchiaia fu visitato da Cicerone e Attico. Stando al commento a Euclide di Proclo (199, 1-14; 214, 15 - 218, 11), Zenone mirava a demolire la geometria nel suo complesso, argomentando che, anche ammessa la validità dei principî euclidei, da essi non si ricavano dimostrazioni se non facendo ulteriori assunzioni. Ciò non significa che Zenone accettasse gli assiomi euclidei e operasse una critica soltanto metodologica, volta a rifondare in maniera più rigorosa la geometria euclidea con l'aggiunta di nuovi assiomi; in realtà si trattava soltanto di una concessione ipotetica all'avversario, per mostrare l'incompletezza cronica dell'insieme degli assiomi euclidei. È difficile sostenere, come a volte si è fatto, che da queste critiche mosse dagli epicurei scaturisse la costruzione di una geometria alternativa a quella euclidea e compatibile con la fisica epicurea, anche perché di essa non esiste traccia. Né, d'altra parte, i matematici (neppure Archimede), negli scritti che ci sono pervenuti, dicono qualcosa di esplicito e teoricamente articolato sulla questione degli indivisibili che turbò i sonni dei filosofi. Il vero obiettivo polemico delle critiche epicuree era non soltanto la geometria euclidea in sé, ma soprattutto la valutazione positiva e l'utilizzazione che della geometria euclidea, come modello di sapere certo, facevano le altre scuole filosofiche. Non è un caso che a difendere la geometria euclidea contro Zenone scendesse in campo uno stoico con forti inclinazioni platoniche, quale Posidonio. Sulla scia di Platone i filosofi, in particolare gli stoici, avevano ben presto rivendicato alla propria competenza il problema di determinare i principî primi, dai quali potevano svilupparsi i teoremi delle scienze speciali. Questo è il quadro di riferimento rispetto al quale si collocano anche le critiche di origine scettica alla geometria e all'aritmetica, per noi documentate soprattutto nei libri III e IV dell'Adversus mathematicos di Sesto Empirico. Si tratta di un testo che assorbe argomentazioni risalenti, almeno in parte, non soltanto allo scetticismo accademico e pirroniano di età ellenistica ‒ dal momento che Sesto stesso dichiarava di voler fare contro i matematici ciò che il pirroniano Timone aveva fatto nei confronti della procedura dell'assumere per ipotesi, e l'accademico Carneade, stando a Favorino, non aveva prestato credito neppure all'assioma euclideo più evidente, che grandezze uguali a una stessa sono uguali tra loro (Galeno, De optima doctrina, 2 in: K I 45) ‒ bensì anche a scuole filosofiche dogmatiche, quale appunto l'epicureismo, ma utilizzate in funzione antidogmatica. Nello scritto di Sesto si possono trovare raccolte varie argomentazioni sia contro la procedura dell'assumere per ipotesi, sia contro le definizioni degli enti geometrici e la loro pensabilità, ma anche contro la possibilità di costruire teoremi, una volta distrutti i principî. L'obiettivo generale è di rendere filosoficamente impossibile l'assenso alle matematiche, in quanto esse non hanno oggetto né sono vere e proprie forme di sapere e di arte. Queste dispute filosofiche, anche nel loro versante polemico e negativo, contribuivano di fatto a tenere vivo l'interesse per la geometria, ma si conclusero allora con la vittoria degli stoici e soprattutto dei platonici. Le matematiche furono accolte generalmente come un ambito di sapere certo e incontrovertibile, come appare, per esempio, in Epitteto (Dissertationes, I, 29, 53) o, come già si è visto, in Galeno, ma anche nella cultura più corrente (Luciano, Hermotimus, 35-36). All'inizio del II sec. d.C. Teone di Smirne compose uno scritto in cui esponeva le conoscenze matematiche che potevano essere utili per capire Platone. I neoplatonici della Tarda Antichità finirono poi per imporre una concezione delle matematiche come essenziali vie propedeutiche alla teologia e in tal modo ne sancirono pienamente l'importanza anche all'interno di una cultura orientata religiosamente; probabilmente è anche grazie al loro lavoro, talora persino testuale, svolto in Alessandria sulle opere di Euclide, Archimede e Apollonio, che esse sono giunte sino a noi. Analogo contributo, se non altro indiretto, diedero i filosofi a tenere vivo l'interesse per l'astronomia; anche in questo campo la maggiore ostilità venne dall'epicureismo. Epicuro aveva respinto l'uso, diffuso soprattutto nell'Accademia platonica, di modellini meccanici e geometrici per rappresentare i moti celesti. Essi infatti impedivano di formarsi una rappresentazione adeguata dei fenomeni che intendevano spiegare, in quanto pretendevano di far apparire regolari tali moti e di fornirne una causa unica. A ciò Epicuro opponeva la sua metodologia delle molteplici spiegazioni possibili per ciascun fenomeno celeste e meteorologico, nel quadro più generale di un progetto di liberazione dai timori superstiziosi, com'era quello, per esempio, legato alle dimensioni del Sole. Per ragioni inverse, gli stoici erano a favore dell'astronomia, i cui risultati valevano ai loro occhi come conferma dell'ordine divino dell'Universo. Proprio per questo lo stoico Cleante polemizzerà contro l'astronomo Aristarco di Samo, che a suo avviso gli Elleni avrebbero dovuto imputare di empietà, dal momento che aveva spodestato la Terra dal centro dell'Universo per avanzare l'ipotesi di una sua rotazione intorno al Sole; ipotesi che successivamente Seleuco di Babilonia, verso la metà del II sec. d.C., tenterà di dimostrare (Plutarco, De facie in orbe lunae, 6, 922 f - 923 a; Quaestiones conviviales, VIII, 1, 1006 c). Secondo una tradizione (Aezio, I, 15), Aristarco sarebbe stato allievo del peripatetico Stratone, verosimilmente durante il soggiorno di questi ad Alessandria. Si può però sostenere che in generale la filosofia non ebbe influenza diretta sugli sviluppi interni dell'astronomia matematica, che a un certo punto avrebbe assorbito dati e procedure di provenienza babilonese. In età ellenistica ‒ pur entro assunzioni condivise pressoché generalmente, come la posizione immobile della Terra al centro dell'Universo, la circolarità delle orbite dei corpi celesti ruotanti intorno alla Terra e la sfericità del cielo ‒ venne progressivamente affermandosi una divisione di campi e di compiti tra filosofi e astronomi. Questi ultimi si occupavano primariamente della costruzione di modelli geometrici, com'era avvenuto almeno a partire da Eudosso, e dei calcoli delle dimensioni e delle distanze relative dei corpi celesti. Un testo tardo di Simplicio (In Aristotelis Physicam, 291, 21 - 292, 31), dipendente da Gemino, che a sua volta riferiva opinioni di Posidonio, operante nel I sec. a.C., sanzionò esplicitamente questa spartizione: mentre alla fisica, ossia alla filosofia della Natura, pertengono le questioni relative alla sostanza e alle proprietà dei corpi celesti, l'astronomia matematica parla delle dimensioni e delle distanze della Terra, del Sole e della Luna, delle eclissi e congiunzioni di stelle e dei loro movimenti, e richiede dunque l'ausilio delle scienze dei numeri e della misura, ossia dell'aritmetica e della geometria. Per Posidonio si trattava di approcci agli stessi oggetti, ma secondo due metodi distinti: mentre il filosofo naturale fornisce dimostrazioni partendo da principî generali, ossia ricerca spiegazioni causali, l'astronomo fornisce descrizioni di proprietà dei fenomeni particolari, fondandosi su osservazioni e calcoli e su ipotesi che possono anche essere alternative, come quelle degli eccentrici e degli epicicli. Ipparco, in realtà, pare avesse sostenuto che il matematico deve badare alla causa per cui da ipotesi così diverse, come quelle dei cerchi omocentrici o degli eccentrici e degli epicicli, sembrano seguire gli stessi risultati (Teone, p. 166, 4-10, ed. Hiller), ma Plutarco (De facie in orbe lunae, 921 d) osservò che ciò dipendeva del fatto che Ipparco non era ben ferrato sul piano della filosofia della Natura (physiología) e quindi non si rendeva conto che è a essa che compete affrontare e risolvere tale questione. Di fatto il De facie di Plutarco è uno scritto di fisica, ossia di filosofia della Natura, dove si tenta di spiegare, senza alcun corredo matematico, le macchie lunari come risultato di ombre prodotte dai corrugamenti della superficie terrosa della Luna e di un'insufficiente riflessione della luce solare, e si conclude con un mito finale sul carattere divino della Luna, sede delle anime demoni. In questo senso esso è un documento significativo della tendenza sempre più diffusa tra i filosofi, soprattutto di impronta platonica, a scorgere nella teologia il culmine della fisica. Ma già secondo Posidonio l'astronomia non poteva non dipendere dalla filosofia, anche perché partiva anch'essa dall'assunzione preliminare, propria della filosofia, che il cielo è un 'cosmo', ossia un insieme ordinato. In ogni caso, a prescindere dalla pretesa di primato avanzata da Posidonio, di fatto rimase in piedi la distinzione di campi e di metodi tra filosofia della Natura e astronomia matematica. Strabone, nella sua Geografia (II, 5, 2), sostiene che per i principî i geografi devono fondarsi sui geometri, i quali a loro volta devono dipendere dagli astronomi e questi, infine, dalla filosofia naturale, che poggia su principî propri. Anche Tolomeo non respinge però un aggancio con la filosofia, sottolineando come lo studio dell'astronomia e quello dell'astrologia possa risultare utile sul piano etico, il primo in quanto porta a contemplare il buon ordine e la bellezza che regnano tra gli astri, e quindi rende tale anche l'anima (Syntaxis mathematica, I, 1, 7.17 e segg., ed. Heiberg), il secondo in quanto aiuta a vedere e affrontare il futuro con calma. In tal modo astronomia e astrologia venivano a cooperare compiutamente nell'assicurare agli uomini una vita eticamente corretta.
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