Scienza greco-romana. Galeno
Galeno
Galeno rappresenta senza dubbio, e per molti motivi, un caso eccezionale nel panorama intellettuale e scientifico del II sec. d.C.; medico e filosofo, lo stesso ordine di priorità di queste prerogative costituì infatti argomento di discussione polemica da parte dei suoi contemporanei.
A quanto egli stesso racconta, amici come il filosofo aristotelico Eudemo (n. 100 d.C. ca.) e illustri pazienti come l'imperatore Marco Aurelio lo consideravano più filosofo che medico; un filosofo di professione che praticava a tempo perso la medicina, il "primo" (De praecognitione, p. 76), e soltanto "primo", "fra i medici", ma "unico tra i filosofi" dell'imperiale paziente (ibidem, 11, p. 128). Il primato del filosofo sul medico echeggia anche, ma questa volta spregiativamente, nell'appellativo di logíatros, "medico a parole", ma anche "medico in teoria", con cui lo definivano i suoi rivali nella professione (De libris propriis, 1, in: K XIX 15). Per contro, la tradizione biografica araba, basata sul giudizio di un grande aristotelico come Alessandro di Afrodisia, gli riconosce senza dubbio il primato nella medicina ma gli attribuisce capacità filosofiche decisamente inferiori ("testa di mulo" l'avrebbe definito il grande commentatore).
Per lo stesso Galeno questa controversia valutativa non aveva motivo di esistere. Non si può essere un buon medico, sosteneva in uno scritto significativamente intitolato Quod optimus medicus sit quoque philosophus (Il miglior medico è anche filosofo), se non si conoscono logica, fisica ed etica, cioè l'insieme dell'autentica filosofia. D'altro lato, senza una solida base scientifica la filosofia si riduce a pura retorica e insanabile controversia di scuola, come accade inevitabilmente in quelle sue parti (la cosmologia, la teologia e la psicologia metafisica) che appunto si sottraggono per loro natura al controllo scientifico (De placitis Hippocratis et Platonis, IX, pp. 576-578; 586-590; 596-600). Medico e, dunque, filosofo, ovvero filosofo scientifico: così amava presentarsi, e su questo canone basò sia la ricostruzione esemplare della propria autobiografia sia il suo progetto di rifondazione complessiva del sapere medico. L'eccezionalità del caso Galeno non si esaurisce però in questa doppia appartenenza disciplinare; ci sono motivi oggettivi che vanno al di là, sul piano storiografico, del progetto soggettivo dell'autore.
La sua enorme produzione (circa cento opere nell'edizione Kühn) ci è pervenuta quasi completamente in greco (l'eccezione maggiore è il grande trattato logico-epistemologico De demonstratione, per la gran parte perduto) e può essere integrata con le traduzioni arabe. Circa l'autenticità e la cronologia relativa della maggior parte di queste opere siamo ragionevolmente sicuri (anche qui c'è un'eccezione importante, l'Ars medica, che ebbe un enorme successo nel Medioevo ma deriva probabilmente da una compilazione di scuola); questa sicurezza dipende dal fatto che Galeno stesso ‒ unico fra gli scienziati antichi ‒ ci ha lasciato un'autobibliografia ragionata, lo scritto De libris propriis, nonché un programma di lettura per le sue opere differenziato per pubblici, De ordine librorum suorum. E a questi due scritti ha aggiunto una sorta di testamento filosofico-scientifico, Le mie teorie, in cui sono riassunti per i posteri i dati fondamentali e costanti del suo pensiero.
Un secondo tratto dell'eccezionalità galenica consiste nella straordinaria varietà dei suoi interessi, messi al servizio dell'altrettanto grande ambizione del suo progetto culturale complessivo. Egli scrisse decine di trattati su tutti gli aspetti del sapere medico, dall'epistemologia all'anatomo-fisiologia, dalla diagnostica alla terapia e alla farmacologia (molti di essi sono inoltre differenziati per livelli di pubblico: principianti oppure studiosi avanzati). Compose inoltre una vasta serie di commenti alle opere di Ippocrate e numerose opere polemiche contro tendenze mediche rivali. A tutto questo si aggiunge un'ampia serie di trattati di argomento filosofico: di logica ed etica, innanzitutto, poi su Platone, Aristotele, gli stoici ed Epicuro (opere in gran parte perdute, per il disinteresse delle scuole di medicina che si occuparono di tramandare il corpus galenico). Infine, esisteva un gruppo di scritti, anch'essi perduti, di critica letteraria, linguistica e retorica, destinati a integrare, appunto sul piano letterario, la paideía del medico colto, secondo un'esigenza imprescindibile dell'epoca.
Dalla sterminata produzione letteraria emerge un altro aspetto del tutto eccezionale della cultura di Galeno: il suo rapporto con la tradizione scientifica, filosofica e letteraria non era mediato dalla produzione manualistica e dal ricorso alle compilazioni dossografiche di placita ‒ come generalmente accadeva nel suo tempo ‒ ma passava attraverso la lettura diretta dei testi antichi, esibendo una ricchezza bibliografica quasi prodigiosa. Galeno leggeva e citava direttamente i testi non soltanto di Ippocrate, Platone o Aristotele, ma anche dei medici alessandrini, di Crisippo e Posidonio, degli storici come Tucidide e dei tragici antichi; sembra che la sua biblioteca comprendesse persino il testo integrale di Anassagora. Questo aspetto rende naturalmente i suoi scritti un repertorio ricchissimo per la conoscenza della tradizione medica e filosofica (per es., quasi tutto ciò che sappiamo di Erasistrato, e molto di ciò che sappiamo di Crisippo, viene dalle sue opere). Le discussioni galeniche risultano di norma meglio informate e spesso più ricche rispetto alle controversie di scuola proprie dell'epoca, anche se naturalmente lo stesso Galeno faceva delle sue fonti un uso selettivo e talvolta distorto ai fini dell'argomentazione o della polemica che stava conducendo.
Un'ulteriore anomalia della figura storica di Galeno merita infine di essere segnalata: personaggio dotato di eccezionale autostima, ci ha lasciato numerosi resoconti autobiografici in cui descrive la sua carriera nel difficile mondo romano. Osteggiato fino alla calunnia dai suoi rivali medici, rimasto volontariamente ai margini di una società di ricchi di cui egli sostiene di aver ostentatamente rifiutato gli usi clientelari (De methodo medendi, IX, in: K X 609), poteva tuttavia valersi dell'appoggio di alcuni eminenti personalità politiche (come i consoli Flavio Boeto e Sergio Paolo) e intellettuali (come il filosofo aristotelico Eudemo). Grazie a questo, ma grazie soprattutto alle proprie eccezionali capacità mediche (messe alla prova in vere e proprie competizioni prognostiche e terapeutiche, negli spettacoli delle pubbliche dissezioni e nelle conferenze), Galeno racconta di aver percorso le tappe di una folgorante carriera, che lo condusse a primeggiare fra i protagonisti della vita intellettuale romana, fino ad approdare alla corte imperiale come medico personale di Marco Aurelio e del figlio Commodo (De optimo medico cognoscendo, 3, 8; De praecognitione, 1, 2, 11).
L'anomalia consiste nel fatto che Galeno è stato l'unico testimone di questa straordinaria carriera in quanto nessuna voce contemporanea, favorevole o no, parla di lui (fatta eccezione per la polemica di Alessandro, attestata però soltanto nella tradizione araba); ciò non significa probabilmente che le autotestimonianze galeniche fossero puro frutto di fantasia, anche perché erano senza dubbio rivolte a lettori al corrente della situazione; è probabile tuttavia che il protagonismo che Galeno si attribuiva non fosse esente da qualche esagerazione. Il silenzio dei contemporanei risulta del resto compensato dal successo nella posterità. Citato nel IV sec. da Oribasio, fu senza dubbio studiato nelle scuole mediche di Alessandria e di qui le sue opere passarono, in versione siriaca e poi araba, alla cultura del Medioevo islamico; in Occidente giunsero sia tramite traduzioni latine dagli originali greci sia proprio in virtù dell'autorità degli studiosi arabi. In ogni caso, Galeno godette di un'immensa autorità nella medicina medievale, rinascimentale e moderna, affiancandosi ‒ come avrebbe senza dubbio desiderato ‒ alla figura del suo maestro ideale, Ippocrate.
Galeno nacque nel 129 a Pergamo, una città dell'Asia Minore prospera e intellettualmente vivace. Suo padre, Nikon, era un architetto colto e facoltoso. Il suo era dunque un ambiente che, sia pure con una certa improprietà, potrebbe essere definito di 'borghesia professionale', e l'improprietà sta nel fatto che Galeno (al pari dei suoi simili) sottolineava di essere sempre vissuto delle sue rendite e di aver praticato la medicina non per guadagno bensì per filantropia, secondo il modello di medicus gratiosus prevalente nella società romana. Di 'borghese' c'era tuttavia in lui l'avversione verso il mondo dei potenti e dei ricchi, al quale egli contrapponeva con orgoglio il valore intellettuale e l'utilità sociale di professioni come quella dei medici, alla quale erano spesso accostate l'architettura e le discipline matematiche applicate.
Il padre lo avviò a un processo educativo completo, che prevedeva la frequentazione delle lezioni tenute dai maestri delle quattro principali scuole filosofiche (stoica, platonica, aristotelica ed epicurea). La formazione filosofica faceva certamente parte della cultura generale necessaria ai professionisti di alto livello, e Galeno ne ricavò anche qualcosa di più: una sicura competenza nelle questioni filosofiche, una buona conoscenza della logica aristotelica e stoica, la convinzione della necessità di integrare organicamente medicina e filosofia. Dalla sua esperienza scolastica egli derivò, per contro, una duratura diffidenza verso le controversie settarie nella filosofia, di fronte alle quali ‒ scriveva ‒ avrebbe finito anche lui per diventare un seguace dello scetticismo di Pirrone, se l'educazione paterna non avesse compreso anche lo studio dei procedimenti dimostrativi della geometria euclidea (De libris propriis, 11, in: K XIX 40); questi erano un sicuro punto di riferimento e una garanzia di verità, alla luce dei quali andavano messi alla prova i problemi filosofici per distinguere fra quelli razionalmente risolvibili e quelli insolubili, da lasciare appunto allo scetticismo e alla retorica.
Verso il 146 Galeno iniziò gli studi di medicina, professione alla quale il padre avrebbe deciso di indirizzarlo in seguito a un sogno. Studiò prima a Pergamo e poi a Smirne, sotto la guida di maestri come l'anatomista Satiro e l'ippocratico Pelope. Egli stesso racconta che trascorse le notti a studiare le opere dei medici antichi (De naturalibus facultatibus, III, 10, in: K II 179) e c'è da credergli, vista non soltanto la profonda conoscenza della tradizione (che lo accompagnò per tutta la vita), ma anche il grande talento prognostico che, a suo stesso dire, si formò grazie allo studio delle opere ippocratiche con la sola aggiunta della teoria del polso (De praecognitione, p. 126; p. 134). Si recò in seguito ad Alessandria ‒ tappa necessaria per la preparazione anatomica ‒ dove si fermò per cinque anni, specialmente alla scuola di Numisiano, discepolo di Quinto e, tramite questi, del grande Marino. Ritornato a Pergamo nel 157, esercitò per qualche anno la professione di medico dei gladiatori, grazie alla quale arricchì 'sul campo' le sue conoscenze anatomiche e chirurgiche.
A questo punto il giovane medico provinciale, forte di "una meravigliosa e invidiata paideía ottenuta grazie alla liberalità del padre" (De methodo medendi, VIII, in: K X 560-561), si sentì pronto per iniziare la sua carriera nella metropoli imperiale. Giunse a Roma verso il 163; ne ripartì però precipitosamente, nel 166, per ragioni oscure, forse temendo una congiura contro di lui o per sfuggire la peste che infuriava in Italia. Il breve soggiorno romano doveva già avergli assicurato molto prestigio, se è vero che nel 168 Marco Aurelio lo richiamò a Roma da Pergamo perché lo seguisse come medico militare in una spedizione contro i barbari del Nord; riuscì tuttavia a convincere l'imperatore a lasciarlo restare a Roma, in qualità di medico del figlio Commodo. Questi anni gli consentirono un lungo e proficuo periodo di produzione scientifica, nel quale venne portando a compimento il suo progetto di rifondazione della medicina attraverso la stesura dei suoi maggiori trattati. Morì probabilmente a Pergamo verso il 210, ormai nell'età dei Severi, e questa notizia biografica ci viene dalla tradizione araba.
L'abbondanza di riferimenti autobiografici disseminati nelle sue opere non era dovuta soltanto a vanità o desiderio di autoaffermazione; descrivendo (e idealizzando) la propria autobiografia, egli tracciava in realtà il profilo della formazione e del modo di vita del medico ideale. Gli stessi caratteri compaiono infatti, esposti in modo sistematico, in un'opera sul modo di riconoscere il miglior medico (De optimo medico cognoscendo): questi deve avere una profonda conoscenza della tradizione medica, dell'anatomo-fisiologia, della prognosi, dei metodi dimostrativi della logica e della geometria. E altrove, per esempio nello scritto sulla struttura della medicina (De constitutione artis medicae), oltre alla preparazione intellettuale sono richiesti al medico l'amore assiduo per lo studio e il disprezzo per le vanità mondane; è necessario poi che il medico conosca le parti della filosofia essenziali per la sua cultura e la sua scienza (logica, etica, fisica: Quod optimus medicus sit quoque philosophus).
Quella di Galeno è dunque un'autobiografia esemplare che egli proponeva sia come modello ai discepoli sia come criterio di valutazione della qualità del medico al pubblico delle persone colte e competenti; alla fine di questa costruzione, egli era del tutto identificato con la medicina, e la medicina con lui.
Naturalmente, l'identificazione medico-medicina era tutt'altro che scontata; la figura esemplare di medico appena tracciata raffigurava piuttosto l'esito di un progetto epistemologico di ricostruzione della medicina assai complesso e fortemente controverso. Secondo Galeno, il problema della medicina ‒ tanto come sistema di sapere quanto come pratica professionale ‒ consisteva essenzialmente nella perdita di un orientamento unitario. Causa e insieme sintomo di questa crisi di unità era la divisione del campo medico in scuole o sette rivali, al pari di quello filosofico (e al contrario, invece, del sapere matematico, saldamente unificato). Egli lavorò a fondo, a scopo insieme didattico e polemico, a una definizione del profilo epistemologico delle scuole mediche, una definizione che probabilmente andava al di là dell'obiettività storiografica e della stessa autoconsapevolezza delle varie scuole ‒ da lui canonizzate nel numero di tre, la metodica, l'empirica e la razionalista ‒, ma aveva il notevole vantaggio di far corrispondere a ognuna di esse una coerente costellazione di opzioni scientifiche e anche ideologiche.
Alle diverse scuole corrispondevano, secondo Galeno, altrettanti impoverimenti del profilo unitario della medicina, tanto sul piano epistemologico quanto su quello della dignità socioculturale; c'era dunque una stretta connessione tra la diaphōnía e l'inevitabile decadenza della téchnē rispetto alle origini, ippocratiche ma anche alessandrine. In primo luogo, due delle tre scuole, quella empirica e quella metodica, rifiutavano la necessità dello studio dell'anatomia per la formazione del medico professionista; questo rifiuto era motivato in modi diversi, ma in sostanza era dovuto all'evidente inutilità del ricorso a cause 'nascoste' per la diagnosi e la terapia delle malattie che invece potevano benissimo basarsi sull'esperienza diretta e su quella accumulata nella memoria della téchnē (De sectis ad eos qui introducuntur, 5 H.10; De experientia medica, 26, p. 141). In effetti, anche per Galeno era molto difficile mostrare come la terapia (che restava essenzialmente ippocratica, cioè preanatomica) potesse giovarsi di approfondite conoscenze anatomo-fisiologiche, ed egli stesso riconobbe a più riprese la sostanziale correttezza terapeutica degli empirici (De sectis, 5 H.12). Rinunciare all'anatomia non significava tanto, dunque, avere una medicina meno efficiente, quanto ridurla a pura tecnica, a sapere pratico invece che teorico, perdendo così la dignità culturalmente elevata che l'accomunava alla filosofia, alla matematica, alla retorica. Il caso limite di questa temuta degradazione era rappresentato dai metodici, i quali, coerentemente con la loro estrema semplificazione epistemologica della téchnē, sostenevano che bastassero sei mesi per formare un buon medico, con il risultato ‒ scriveva Galeno ‒ di aprire l'accesso all'arte a una "folla di calzolai, muratori, fabbri" (De methodo medendi, I, in: K X 7-11, 19).
L'anatomia non costituiva però soltanto una necessaria integrazione scientifica al sapere medico e una garanzia di selezione fra i suoi professionisti; essa "è utile non tanto ai medici quanto ai filosofi, sia in virtù della pura teoria, sia per insegnare l'arte della Natura all'opera in ogni parte del corpo", egli scriveva nelle Anatomicae administrationes (II, 2, in: K II 286-287). Consentendo di descrivere la perfetta struttura di ogni organo in ordine alla sua funzione, l'anatomia costituiva la prova scientifica dell'esistenza di un ordine e di un senso provvidenziale del mondo, offrendo un fondamento certo a quelle convinzioni che le filosofie potevano argomentare soltanto retoricamente. Essa poteva confutare tanto l'errore di Mosè (su un'onnipotenza divina capace di fermare il Sole o di mutare la pietra in uomo, violando la legalità scientifica della Natura), quanto quello, più grave, di Epicuro, fautore di un materialismo basato sul caso contro ogni forma di provvidenzialità e di teleologia (De usu partium, XI, 14, in: K III 905). In breve, secondo Galeno l'anatomia poteva diventare "il principio di una teologia rigorosa", la cui importanza andava ben oltre i limiti della medicina per concernere l'intera umanità (De usu partium, XVII, 1, in: K IV 360-361). Per questa sua valenza, essa rappresentava quella parte del sapere medico che era in grado di legittimare l'aspirazione della medicina a una leadership culturale complessiva, in una società in cui era forte il bisogno di rassicurazione sull'ordine e il senso del mondo. Di fronte a questa esigenza, e anche a causa del loro rifiuto dell'anatomia, tanto gli empirici quanto i metodici non potevano che restare muti; i primi perché restavano chiusi nei limiti della téchnē, condividendo probabilmente quanto al resto l'epochḗ degli scettici sull'esistenza di un ordine teleologico e provvidenziale della Natura di matrice aristotelica e soprattutto stoica, i secondi perché derivavano dalla loro matrice epicurea (alla quale Galeno a torto o a ragione li faceva risalire attraverso la mediazione di Asclepiade di Bitinia: De naturalibus facultatibus, I, 14, in: K II 45; De constitutione artis medicae, 7, in: K I 246 segg.) un materialismo ateo e comunque antiprovvidenzialistico.
Più complessa era invece la polemica contro la cosiddetta scuola razionalista o "dogmatica" (che includeva in primo luogo erofilei ed erasistratei, la cui unificazione all'interno di un'unica 'setta' si deve del resto in gran parte a un'operazione interpretativa dello stesso Galeno). Essi erano fedeli alla migliore tradizione della medicina e accettavano l'anatomia come fondamento della téchnē, ma ne facevano anche un limite non superabile; la medicina si costituiva come un sapere autonomo, al riparo dall'invadenza delle controversie filosofiche, soltanto entro il perimetro tracciato dall'evidenza anatomica e dalle sue conseguenze fisiologiche e patologiche. Ciò che stava al di fuori di questo perimetro (la composizione elementare della materia corporea in primo luogo) non era di pertinenza della medicina ma della filosofia della Natura (De methodo medendi, II, in: K X 106-107). Secondo Galeno, questo modo di difendere l'autonomia della medicina ne ribadiva la dipendenza (che già Aristotele aveva sancito) dalla filosofia della Natura, alla quale era abbandonata la competenza sui problemi decisivi della 'biofisica' (elementi, qualità e rispettivi processi di composizione e trasformazione); con questa rinuncia, i cosiddetti dogmatici finivano per diventare dei 'razionalisti a metà', lasciando il sapere della medicina infondato e precario. Questo comportava pericolosi slittamenti epistemologici dei razionalisti verso gli empirici nel caso degli erofilei, addirittura verso il materialismo metodico nel caso di Erasistrato, nonostante le sue dichiarazioni di fedeltà al finalismo aristotelico (De methodo medendi, III, in: K X 184; V, in: K X 378-379).
Superare la diaphōnía settaria nella medicina voleva dunque dire per Galeno mirare simultaneamente a due obiettivi: da un lato, ridare orientamento unitario alla professione, il che significava omogeneità nella preparazione del medico, affidabilità delle terapie, espulsione di ciarlatani e incompetenti dalla pratica della téchnē; dall'altro lato, sul piano epistemologico, costruire il sapere medico come una struttura di teorie coerenti, sul modello della matematica. La prima mossa verso questi obiettivi consisteva senza dubbio nella ricomposizione di una tradizione unitaria della medicina; di qui l'insistenza del richiamo al sapere fondatore di Ippocrate e l'enorme lavoro di studio e di commento delle sue opere, ma anche il riconoscimento di un sillabo della buona medicina che includeva fra gli altri Diocle, Prassagora, soprattutto Erofilo e anche Erasistrato. Questa tradizione unificata aveva un doppio effetto strategico: da un lato escludeva il materialismo, da Asclepiade ai metodici, e dall'altro lato offriva il terreno per una ricomposizione della frattura fra gli empirici, che si riconoscevano nell'eredità ippocratica, e i dogmatici, che si rifacevano all'anatomia alessandrina. Questa 'nuova alleanza' era ritenuta da Galeno necessaria e possibile anche per una ragione epistemologica: il sapere medico, infatti, non poteva che avere due fondamenti, lógos e peĩra, cioè l'evidenza razionale da un lato, quella empirica dall'altro (noũs e aísthēsis) (De sectis, 4 H.9; De methodo medendi, I, in: K X 29). Gli empirici dovevano accettare due cose: che nel campo della peĩra rientrava anche l'evidenza anatomica, e che la medicina non poteva fare a meno dell'elaborazione razionale dei "segni indicativi" (De methodo medendi, III, in: K X 159), quelli che permettevano di risalire dal fenomeno alla struttura profonda, dal sintomo alla causa, e dunque anche di dedurre la terapia dal livello non evidente delle cause patogene. Dal canto loro i dogmatici dovevano concedere che la medicina non poteva fare a meno del ricorso all'esperienza, tanto a quella osservativa quanto a quella accumulata nella memoria storica della téchnē; dovevano in sostanza ammettere che senza l'ippocratismo e la sua tradizione, come senza la pratica personale del medico, la medicina non sarebbe neppure esistita (De experientia medica, 10, p. 101).
Da questa conciliazione, che risultava per Galeno tanto più agevole in quanto preparata dal profilo che aveva costruito delle scuole rivali, gli empirici avrebbero guadagnato insomma un 'sapere perché' fare determinate cose, e i dogmatici un 'sapere che cosa' fare nell'esercizio della pratica terapeutica. Al di là delle sette, la medicina ricomposta doveva assumere la struttura di un edificio di sapere dimostrativo, sviluppato sistematicamente dai suoi fondamenti fino alle ultime conseguenze terapeutiche. Galeno non era però a sua volta del tutto coerente nell'indicare quali fossero i fondamenti del sistema, destinati a svolgere il ruolo di premesse sillogistiche o meglio di assiomi euclidei. In opere come il De placitis e il De usu partium sembra trattarsi dell'anatomia; queste opere hanno tuttavia una caratterizzazione accentuatamente filosofica, giacché nella prima è discusso il problema della sede della parte egemonica dell'anima, argomentando a favore di Platone contro Aristotele e Crisippo, mentre nella seconda si persegue il fine di portare a compimento, nel campo dell'anatomo-fisiologia umana, il progetto aristotelico di spiegazione teleologica della Natura vivente. In altre opere, a carattere terapeutico come il De methodo medendi, o fisiologico come il De naturalibus facultatibus, Galeno individuava invece come fondamentale il livello transanatomico degli elementi primari e delle loro proprietà (che i razionalisti volevano lasciar fuori dalla medicina).
Nell'insieme, come si vedrà, era sicuramente questo secondo il livello fondazionale preferito da Galeno, ma poiché l'edificio di sapere della medicina ricostruita non doveva soddisfare soltanto esigenze di tipo epistemologico, bensì anche requisiti di tipo culturale e ideologico complessivo, esso presentava aspetti diversi a seconda dei problemi affrontati e del relativo pubblico. A un pubblico 'generale' di intellettuali, filosofi e politici, parlava il logíatros, il medico teorico in grado di mostrare l'ordine provvidenziale della Natura attraverso l'anatomo-fisiologia; in una discussione di alto livello teorico ma interna alla medicina sulle questioni della terapia, era piuttosto il medico physikós a parlare, meno ottimista circa la provvidenzialità della Natura, ma capace di derivare diagnosi e terapia delle malattie a partire dalla conoscenza dei rapporti fra gli elementi e le proprietà costitutive della materia corporea.
Alla realizzazione di questo progetto, con tutta la sua complessità e le sue articolazioni, Galeno dedicò l'enorme massa dei suoi scritti; anche se il sistema unificato del sapere medico non fu mai portato compiutamente a termine nella forma euclidea, assiomatico-deduttiva, che egli aveva sperato, i suoi lineamenti sono tuttavia ben chiari nel corpus galenico.
Galeno stesso ha più volte indicato i percorsi di lettura dei suoi trattati che meglio consentono di coglierne i lineamenti: in via preliminare bisognerà studiare le opere che forniscono gli strumenti epistemologici (gnoseologia, logica, teoria della dimostrazione) per il controllo della consistenza argomentativa del sistema; si tratta del De demonstratione e del De optima secta, opere entrambe perdute ma il cui contenuto è in parte ipotizzabile a partire da altri scritti (Institutio logica, Subfiguratio empirica, De experientia medica, De sectis). Preliminare è anche considerato lo studio del De sectis, perché l'unificazione della medicina al di là delle controversie settarie è parallela e speculare alla costruzione del suo sistema di sapere.
In tutti i programmi galenici l'opera con cui si apre il sistema vero e proprio è peraltro quella intitolata Gli elementi secondo Ippocrate (nota anche come De elementis). Già il titolo indica la complessità dell'operazione teorica che Galeno vi compie, decisiva per la completezza del sistema; non esiste infatti in Ippocrate alcuna teoria degli elementi (stoicheĩa); mentre esistono, soprattutto nel De natura hominis, una teoria dei quattro umori che costituiscono il corpo (sangue, flegma, bile gialla e bile nera) e accenni a un loro rapporto con le proprietà primarie della materia (caldo/freddo, solido/fluido). Il problema di Galeno è mostrare che il De natura hominis contiene in sé, almeno implicitamente, la dottrina aristotelica degli stoicheĩa (fuoco, aria, terra, acqua) e quella dei livelli di composizione della materia vivente a partire dalle rispettive qualità primarie, sviluppate rispettivamente nel De generatione et corruptione e nel Libro II del De partibus animalium. Ci sarebbe dunque un fondamentale accordo tra uno dei testi maggiori della medicina ippocratica e i principî della filosofia della Natura aristotelica: la materia è composta da elementi qualitativamente diversi, suscettibili di alterazione totale e di dar luogo a mescolanze complete (krãsis); a questi elementi corrispondono le proprietà fondamentali della materia: caldo, freddo, fluido e solido (De elementis secundum Hippocratem, I, 3-5, in: K I 426-457; De naturalibus facultatibus, I, 2, in: K II 4-5). Galeno ha così prodotto la base di una fisica qualitativa, nettamente antiatomistica, che è a sua volta in condizione di fondare una biofisica, cioè di venire direttamente riferita ai corpi viventi. Seguendo Aristotele, dalle qualità risultano composte le "parti omogenee" dei corpi, come i tessuti e il sangue; quest'ultimo, per esempio, è fluido e caldo, e risulta dalla krãsis di acqua e fuoco con l'aggiunta di elemento terroso. Seguendo invece Ippocrate, come Galeno fa simultaneamente, elementi e proprietà sono alla base della composizione dei fluidi organici principali, i quattro umori. Con essi si passa, per usare un linguaggio contemporaneo, dalla biofisica alla biochimica, ma soprattutto ci si avvicina al livello specifico della medicina.
I due trattati che vanno letti dopo il De elementis sono il De temperamentis e il De naturalibus facultatibus, al centro dei quali sta la problematica umorale. La prima opera descrive i tipi di composizione (le "formule") della krãsis elementare-umorale; c'è un solo "temperamento" ottimale, perfettamente equilibrato, e otto sono le forme di deviazione da esso, quattro semplici (prevalenza di una delle quattro proprietà fondamentali) e quattro composte (prevalenza di coppie di proprietà) (De temperamentis, I, 8; II, 1, in: K I 559, 572). Queste disposizioni deviate sono deboli, non propriamente malate ma predisposte alle malattie (De constitutione artis medicae, 9, in: K I 255 segg.); da esse deriva la prevalenza nel corpo di umori o coppie di umori: di qui i temperamenti flegmatico, sanguigno, collerico o melancolico (destinati a una grande fortuna anche in campo fisiognomico e psicologico). La conoscenza dei temperamenti è indispensabile tanto per le misure profilattiche (ognuno di essi richiede trattamenti diversi a seconda delle stagioni), quanto per la diagnosi e la terapia dei singoli morbi che s'innestano su essi. Le cause delle malattie sono infatti di norma esterne (dipendendo dall'alimentazione, dal clima, dal modo di vita, da lesioni traumatiche), ma il modo con cui si sviluppano dipende dal temperamento specifico del malato.
Diverso è lo scopo del trattato De naturalibus facultatibus, che affronta un difficile problema di fisiologia generale: la circolazione dei fluidi organici all'interno dell'organismo e i processi di trasformazione degli alimenti in entrata nel sangue (il principio nutritivo dei tessuti) e negli altri umori, fino alla secrezione dei "residui" (escrementi). Il problema ha un'importanza diagnostica e terapeutica minore ma uno straordinario rilievo epistemologico; infatti, poiché sono gli organi a governare le trasformazioni dei fluidi, Galeno tenta per la prima volta in modo sistematico di saldare la tradizione umorale ippocratica con il privilegio riconosciuto agli organi solidi da parte dell'anatomia aristotelica e poi alessandrina (negli stessi alessandrini, infatti, anatomia degli organi e medicina umorale si erano in qualche modo giustapposte senza trovare una unificazione sistematica). Di fronte a una questione così complessa, la soluzione di Galeno appare coraggiosa ma concettualmente debole, come egli stesso riconosce (De naturalibus facultatibus, I, 4, in: K II 9): occorre supporre che ogni organo disponga per natura di alcune "facoltà" (dynámeis) principali, fra le quali quella attrattiva (per portare a sé il fluido), quella trasformativa (per mutarlo in elementi utili, per es., sangue o seme), e quella secretiva (per espellere i residui, per es., l'urina da parte dei reni). E ogni organo agisce in questo modo automaticamente, in virtù di una sorta di codice assegnatogli dalla Natura. Nonostante la debolezza di questa soluzione, che ipotizza l'ordine delle cause a partire dai loro effetti e rischia di apparire più una ridescrizione dei processi che una loro spiegazione scientifica, Galeno ritiene che essa sia necessaria per dare alla medicina, contro il meccanicismo materialistico dello stesso Erasistrato e poi di Asclepiade, un'indispensabile base di fisiologia generale a impronta finalistica.
A questo punto, il piano di lettura delle opere galeniche va incontro a una svolta, a un cambio di livello che segue del resto il processo di composizione dei corpi. Finora ci si è occupati di elementi, proprietà fondamentali, fluidi organici e parti omogenee; queste ultime (tessuti come carni, ossa, vene, ecc.) compongono a loro volta le parti organiche, cioè appunto gli organi interni (cuore, fegato, cervello, ecc.) ed esterni (mani, organi di senso e di locomozione, ecc.). Questo è finalmente il livello di pertinenza dell'anatomia; cessa qui l'escursione nel territorio della filosofia della Natura per entrare decisamente nei confini che anche secondo i dogmatici sono propri del sapere medico. Il lettore è dunque invitato ad affrontare, insieme a quella di numerosi scritti minori, la lettura di uno dei capolavori scientifici di Galeno, le Anatomicae administrationes (I procedimenti anatomici).
Il sapere anatomico di Galeno si fondava naturalmente sulla scienza alessandrina, dai fondatori fino a Marino, e su un enorme lavoro personale di dissezione e anche di vivisezione. A differenza degli alessandrini delle origini, Galeno operava soltanto su animali, in primo luogo su scimmie (macachi) per la loro somiglianza con l'uomo, ma anche, per facilitare l'osservazione, su animali più grandi, come il maiale e il bue (su cui è condotta in particolare la dissezione del cervello); ad Alessandria, tuttavia, Galeno aveva almeno potuto studiare lo scheletro umano. I quindici libri delle Anatomicae administrationes trattano, nell'ordine, gli arti (muscoli, legamenti e nervi, Libri I-III), gli altri muscoli (IV-V), gli organi della nutrizione (VI), l'apparato respiratorio e il cuore (VII), il torace (VIII), il cervello e il midollo spinale (IX). A questo punto s'interrompe il testo greco, e i libri seguenti ‒ che ci sono pervenuti nella traduzione araba ‒ trattano gli organi di senso (X-XI), le arterie e le vene (XII), i nervi cranici e spinali (XIII-XIV), e gli organi genitali (XV).
L'anatomia di Galeno, per la sua capacità di organizzare sistematicamente le conoscenze precedenti e d'integrarle con nuove osservazioni, costituisce certamente uno dei maggiori esiti della scienza antica e la sua riscoperta rinascimentale ha rappresentato una svolta decisiva verso la formazione della biologia moderna. Galeno si attribuiva il merito di alcune scoperte, come quella del muscolo sollevatore della palpebra, del nervo laringeo ricorrente, della prima coppia dei nervi cervicali e altre, ma l'importanza delle Anatomicae administrationes non sta tanto in queste scoperte quanto, da un lato, nella rigorosa precisione con cui espone l'insieme del sapere anatomico antico e, dall'altro lato, nell'indicazione di precise regole procedurali per ripetere e controllare gli esperimenti. Si tratta, per esempio, di operare su animali soffocati per annegamento (come già aveva indicato Aristotele, per evitare il collasso dei vasi), morti da poco e scuoiati personalmente. Gli strumenti, descritti con precisione, consistono in scalpelli, coltelli, sonde di varia foggia (e alcuni di essi sono progettati specificamente per un particolare esperimento, per es., quelli per la sezione delle arterie intesa a dimostrare, contro Erasistrato, che esse contengono sangue). Il virtuosismo anatomico di Galeno dava prova di sé soprattutto nelle vivisezioni, minuziosamente preparate e descritte, come quelle destinate a mostrare la connessione dei nervi intercostali con la respirazione e con la fonazione (Libro VIII), oppure a chiarire la funzione rispettiva del nervo ottico e di quello oculomotore, che spesso erano confuse fra loro (Libro X).
A partire dal suo straordinario sapere anatomico, egli poté sviluppare l'anatomo-fisiologia del De usu partium, alla cui lettura si può accedere sia a partire dalla fisiologia generale del De naturalibus facultatibus (che questo trattato integra con una più rigorosa descrizione degli organi) sia provenendo dalle Anatomicae administrationes (le strutture qui descritte sono ora interpretate alla luce delle rispettive funzioni). Il De usu partium era esplicitamente destinato a integrare l'anatomo-fisiologia aristotelica del De partibus animalium, correggendone gli errori osservativi e irrobustendone l'orientamento teleologico (De usu partium, I, 8, in: K III 16-21). Un caso esemplare di correzione di Aristotele è la critica galenica al cardiocentrismo, fondata sulla connessione ormai certa del cervello con il sistema nervoso sensoriale e motorio. Un caso di irrobustimento teleologico è quello della milza, di cui Aristotele non aveva compreso la funzione emopoietica e depurativa e che quindi non era in grado, a differenza di Galeno, di spiegare finalisticamente (De usu partium, IV, 15, in: K III 315 segg.). L'oltranzismo teleologico e provvidenzialistico di Galeno (di chiara matrice stoica), non si ferma neppure di fronte a un fenomeno come la crescita dei peli, che Aristotele aveva attribuito all'inerzialità dei processi materiali; anche i peli invece ‒ secondo Galeno ‒ possono venire giustificati sulla base del fine, perché un aspetto barbuto e irsuto esibisce la maggior forza e dignità del sesso maschile rispetto a quello femminile (De usu partium, XI, 14, in: K III 899-900).
Un'altra critica importante alla fisiologia aristotelica (in questo caso indirizzata al De generatione animalium) riguarda la teoria della riproduzione e l'embriologia. La scoperta delle ovaie da parte di Erofilo aveva messo in luce l'esistenza di un analogo femminile dei testicoli; non era quindi più possibile sostenere che la femmina contribuisse alla formazione del feto soltanto con la materia mestruale, mentre il seme sarebbe stato un apporto esclusivamente maschile. Secondo Galeno anche la femmina produce seme, benché più debole e freddo di quello maschile, e al seme femminile si deve in particolare la formazione delle membrane che avvolgono il feto; da questo punto di vista si attenua quindi il privilegio esclusivo che Aristotele aveva riconosciuto al ruolo maschile nella riproduzione. In campo embriologico, è invece il cardiocentrismo aristotelico a essere messo in questione. Non è il cuore, sostiene Galeno, l'organo che si forma per primo; secondo la sequenza suggerita dalla tripartizione platonica delle sedi somatiche dell'anima (Timaeus) ‒ che egli condivide, pur con qualche ritocco ‒ il primo a formarsi dev'essere il fegato, principale organo nutritivo; seguiranno il cuore e il cervello, ultimo nel tempo ma primo per importanza perché centro della vita psichica (De usu partium, XIV, 6, in: K IV 158-160; XV, 6, in: K IV 241 segg.).
Nel suo capolavoro anatomo-fisiologico Galeno cambia linguaggio: se il discorso sugli elementi e i temperamenti aveva a che fare con il territorio più neutrale della composizione elementare della materia e dei corpi, l'anatomo-fisiologia mette invece in luce la meravigliosa organizzazione dell'animale vivente, il provvidenziale adattamento di ogni organo alla sua funzione; essa si può presentare quindi come un "inno agli dèi" (De usu partium, XVII, 3, in: K IV 366) e, lo si è visto, come il fondamento di una "teologia rigorosa" perché scientificamente motivata.
Il grande trattato di psicofisiologia De placitis Hippocratis et Platonis era considerato una sorta di continuazione, più specializzata, del De usu partium; questo trattato, in effetti, può essere letto secondo un doppio punto di vista. Da un lato, si tratta di uno straordinario saggio di storia delle idee, con pochi paralleli nella letteratura antica, nel quale Galeno ricostruisce e discute il pensiero di Platone, Ippocrate, Aristotele, Crisippo e Posidonio, intorno al problema della sede e delle funzioni dello hēgemonikón, la facoltà-guida dell'anima. D'altro lato, però, poiché lo scopo dell'autore non è la ricostruzione storiografica ma l'accertamento della verità, che passa attraverso il confronto con la tradizione ma dipende in ultima istanza dalla spiegazione teorica dei fenomeni anatomo-fisiologici, il De placitis è anche un trattato di psicofisiologia, che focalizza intorno al problema dello hēgemonikón gli elementi di sapere acquisiti nel De usu partium e nelle Anatomicae administrationes.
Secondo Galeno, la scoperta alessandrina dei tre grandi sistemi (quello nervoso connesso al cervello, quello venoso e quello arterioso connessi al cuore) aveva reso obsoleto il cardiocentrismo aristotelico e ripristinato invece la validità della tripartizione platonica dell'anima sviluppata nel Timeo. Per fare coincidere perfettamente platonismo e anatomia, rendendo il linguaggio filosofico traducibile in quello scientifico, occorreva tuttavia correggere sia Platone sia gli alessandrini. Questi ultimi avevano differenziato i sistemi sulla base dei rispettivi fluidi: pneuma psichico per i nervi, pneuma vitale per le arterie, sangue per le vene. Sulla base di un'evidenza settoria ampiamente dimostrata, Galeno non poteva concedere che le arterie non contenessero sangue, ma continuava ad attribuire loro la funzione principale di veicolare pneuma. Egli proponeva tuttavia una più netta distinzione fra i sistemi mediante la connessione a tre diversi 'principî': il cervello (organo di elaborazione del pneuma psichico) per i nervi, il cuore (fonte del pneuma vitale) per le arterie, il fegato (principale organo emopoietico) per le vene. Questa nuova organizzazione dei sistemi comportava, come s'è detto, qualche correzione anche nella tripartizione del Timeo: la parte razionale dell'anima, lo hēgemonikón, andava senza dubbio localizzata nel cervello, com'era provato in modo definitivo dalla connessione di questo sia con i nervi percettivi sia con quelli motori; la parte emotiva, passionale, vedeva confermata la sua collocazione cardiaca, in quanto era il calore proprio del cuore a determinare il surriscaldamento di sangue e pneuma arterioso in cui andava visto il corrispondente somatico di emozioni come la collera; la terza parte dell'anima doveva essere però ora collocata nel fegato (al quale, nel Timeo, si aggiungevano gli organi del sesso). La nuova collocazione non era priva di conseguenze, perché ne derivava che questa parte, connessa com'era con la funzione emopoietica, quindi nutritiva dell'organismo, era ora ribattezzata da Galeno con il nome aristotelico di anima nutritiva-accrescitiva (phytikón, threptikón) e perdeva il nome platonico di anima desiderante (epithymētikón).
Questa correzione della tripartizione platonica eliminava il pericolo di una permanente conflittualità intrapsichica e permetteva di costruire uno schema psicofisiologico integrato in perfetta sintonia con la concezione di un organismo ben costruito e ben funzionante. In questo contesto, Galeno si poneva, senza risolverli, alcuni problemi di grande rilievo scientifico: l'adduzione degli stimoli percettivi degli organi di senso al cervello poteva essere spiegata con il movimento del pneuma psichico all'interno dei nervi sensoriali, molli e cavi (quanto al pneuma stesso, si trattava di un'entità epistemologicamente duttile, vista la sua inosservabilità); ma come era trasmesso l'impulso al movimento dal cervello ai tendini e ai muscoli attraverso i nervi motori, duri e pieni? Si trattava di un problema di frontiera, evidentemente insolubile nell'ambito della neurofisiologia antica, che tuttavia Galeno ha avuto il doppio merito di formulare chiaramente e di lasciare aperto, giungendo a ipotizzare che l'impulso al movimento proveniente dal cervello si propagasse istantaneamente lungo i nervi alla maniera dell'emanazione luminosa (De placitis Hippocratis et Platonis, VII, pp. 448, 452).
Tornando sulla psicofisiologia del De placitis in un'opera tarda, il Quod animi mores corporis temperamenta sequuntur (I costumi dell'anima seguono il temperamento dei corpi), Galeno si poneva nuove domande e traeva ulteriori importanti conclusioni. Che cosa significava che le parti dell'anima "hanno sede" nei rispettivi organi somatici? Non si trattava evidentemente di inquilini che abitavano altrettanti alloggi, e per avere un senso scientifico il linguaggio platonico ("parti"/"sedi") andava ancora una volta tradotto in quello aristotelico ("funzioni"/"organi"): come la visione era funzione dell'occhio, così l'intelligenza lo era del cervello, l'emozione del cuore, la nutrizione del fegato. Tutto questo però spezzava la circolarità anima-corpo asserita nel Timeo (per cui si curava il corpo mediante l'educazione dell'anima, e l'anima mediante la salute del corpo) e instaurava invece un rapporto lineare fra organi somatici e rispettive funzioni psichiche. In altri termini, stupidità e follia (disfunzioni della parte razionale dell'anima) non potevano che derivare da lesioni del cervello, così come la cecità dipendeva dalla malattia dell'occhio. Da questa impostazione decisamente materialistica del rapporto fra anima e corpo Galeno traeva una conseguenza di grande rilievo circa il ruolo sociale del medico. Non si trattava più soltanto dell'esponente di una téchnē culturalmente prestigiosa e neppure solamente dello scienziato in grado di mostrare la provvidenza all'opera nella Natura. Poiché malvagità e devianza sociale dipendevano da malattie cerebrali, il medico, che era in grado di prevenirle o di curarle (mediante una dieta opportuna o altri interventi), diventava direttamente il garante della salute mentale individuale e pubblica (Quod animi mores corporis temperamenta sequuntur, 9, in: K IV 807-808). Esistevano certo lesioni cerebrali incurabili (di solito sopravvenute durante lo sviluppo embrionale), e di conseguenza criminali non guaribili; a questa diagnosi infausta poteva seguire la condanna a morte del malato/criminale, non sulla base di una questione di responsabilità morale (egli non era colpevole di lesioni cerebrali intervenute precocemente), ma per un normale comportamento di autodifesa da parte del corpo sociale (come si sopprimono gli scorpioni non perché siano responsabili del loro veleno, ma perché sono pericolosi: Quod animi mores corporis temperamenta sequuntur, 11, in: K IV 814-816).
Tornando al piano di lettura delle sue opere indicato da Galeno, dopo i grandi trattati anatomo-fisiologici e psico-fisiologici, lo studioso era finalmente pronto a entrare nel terreno della medicina clinica. La prognosi (che, come sempre nella medicina antica, includeva anche il momento diagnostico) era trattata in numerosi scritti e aveva due presupposti teorici forti: da un lato, la ricca tradizione semiotica ippocratica, e in particolare la dottrina dei giorni critici per le febbri ricorrenti; dall'altro lato, la teoria del battito del polso, di derivazione erofilea. La perfetta conoscenza di entrambe queste forme prognostiche, unita naturalmente al talento personale, fece a quanto pare di Galeno un virtuoso della prognosi, tanto da esporlo alla pericolosa accusa di stregoneria (goēteía) (De praecognitione, p. 70, p. 84, p. 106); come se, egli commentava, la prognosi non fosse basata sulle regolarità naturali, la conoscenza del paziente e gli stessi effetti della terapia praticata. La capacità prognostica era considerata doppiamente importante. In primo luogo assicurava successo e prestigio nelle competizioni fra medici e propiziava al medico la fiducia del malato, che poteva verificare la competenza del medico via via che accadevano gli eventi previsti (da questo punto di vista, il ruolo della prognosi nella medicina antica non cambia dal Prognosticon ippocratico fino al De praecognitione galenico); in secondo luogo, un'esatta previsione del decorso delle malattie (ragionevolmente possibile soprattutto per quelle febbrili, in parte anche per quelle respiratorie e gastroenteriche) era indispensabile per graduare e regolare l'intervento terapeutico.
La terapia galenica si basava su una sorta di assioma: la malattia era il risultato dell'influsso di cause esterne su una costituzione temperamentale predisposta a determinate forme morbose. Il tipo specifico di malattia dipendeva poi dal sesso e dall'età del paziente, dalla stagione e dalle condizioni climatiche, e, infine, dalla parte del corpo interessata (un trattato importante era dedicato appunto alla diagnostica dei luoghi affetti, il De locis affectis). Le procedure terapeutiche di Galeno possono essere considerate una versione raffinata di quelle proprie della tradizione ippocratica e qui stava, come s'è visto, la base per una possibile riconciliazione con gli empirici, che non avevano mai cessato di praticarle. Era essenziale in primo luogo un controllo minuzioso e sapiente della dieta e dell'attività del corpo: cibi, bevande, bagni, esercizi fisici; dosaggio e tempi di ognuno di questi elementi erano di importanza capitale. La cura dietetica era poi integrata con un repertorio farmaceutico assai più ricco di quello ippocratico; ai consueti farmaci semplici di origine vegetale si aggiungevano infatti misture complesse, che includevano differenti elementi di origine animale e anche minerale, fino alla celebre thēriakḗ, un elaboratissimo farmaco contro il veleno dei serpenti.
Questo repertorio farmaceutico si articolava sostanzialmente in farmaci astringenti, rilassanti ed evacuanti (questi ultimi distinti a loro volta in flegmagoghi e colagoghi). C'erano poi unguenti e pomate per gli organi esterni (il trattamento delle ferite è ampiamente discusso nella grande opera terapeutica De methodo medendi). Poiché in generale i farmaci erano destinati a compensare, allopaticamente, gli squilibri (discrasie) nella composizione umorale ed elementare-qualitativa ("temperamentale") dei corpi, la farmacologia di Galeno si trovava impegnata nel difficile compito di determinare l'efficacia medicamentosa, la gradazione d'intensità dei farmaci, perché il loro 'temperamento' risultasse proporzionato alla forza della malattia. Una malattia fredda e fluida doveva essere combattuta da un farmaco caldo ed essiccante, ma occorreva trovare la giusta proporzione fra i due poli dell'intervento terapeutico, ulteriormente complicato dalla necessità di tenere conto, come s'è detto, della stagione, dell'età del paziente, della parte affetta. La guarigione consisteva comunque nel ristabilimento della migliore krãsis possibile per il singolo malato, e quindi in una ripresa adeguata delle sue funzioni vitali normali. La salute perfetta, che corrispondeva al temperamento ottimale, era più un canone ideale che un concreto obiettivo terapeutico.
È interessante notare come, mettendosi dal punto di vista della medicina clinica e della pratica terapeutica, Galeno non presentasse più i corpi come prodotti perfetti e meravigliosi della provvidenza artefice della Natura (come aveva fatto in sede anatomo-fisiologica), bensì come fragili manufatti, continuamente esposti al rischio della decadenza e della malattia. Di conseguenza, il medico non era più l'autore di "inni agli dèi" e di "teologie rigorose", bensì piuttosto un "riparatore" di corpi malati, alla maniera dei sarti e dei muratori (De constitutione artis medicae, 1, in: K I 227-229; 5-6, in: K I 237-245).
Sul piano dell'efficacia terapeutica, non c'è motivo di dubitare che la medicina galenica, con il suo impegno prognostico, la sua attenzione dietetica, la sua accurata farmacologia, potesse utilmente accompagnare il decorso delle malattie gastroenteriche e respiratorie, nonché gli stati infiammatori e febbrili, attenuandone i sintomi e le conseguenze sulle condizioni generali del malato. In molti casi di traumi e infezioni erano utili gli interventi chirurgici, basati su una solida competenza anatomica. La medicina galenica era invece del tutto impotente di fronte alle grandi malattie epidemiche, come la pestilenza (forse vaiolo) che colpì l'Impero a partire dal 165; in questa circostanza Galeno sembra aver prudentemente lasciato Roma, e di questa epidemia non si trova quasi traccia nei suoi scritti, che citano invece ampiamente la "peste d'Atene" descritta da Tucidide.
Fin qui l'itinerario di lettura dei suoi trattati delineato dall'autore stesso; esso non esauriva affatto la grande mole dei suoi scritti e ne restavano fuori, per esempio, i commenti ippocratici e i testi più strettamente filosofici, gli uni e gli altri molto importanti per la formazione culturale complessiva della nuova figura di medico; come s'è visto, il percorso consentiva di seguire le linee portanti del sistema di sapere della medicina, dalla teoria degli elementi fino alla terapia.
Galeno rappresentava e condivideva una delle esigenze dominanti nel pensiero scientifico della sua epoca (basti pensare al caso analogo di Tolomeo), cioè quella di consolidare, di concludere sistematicamente il sapere, e ciò in una doppia direzione: da un lato, nel senso di riunificare diacronicamente la grande tradizione scientifica che stava alle spalle di quel sapere (nel caso della medicina, si trattava essenzialmente di comporre la linea Ippocrate-Platone-Aristotele-Erofilo, con qualche aggiunta a seconda delle questioni in gioco) e, dall'altro lato, nel senso di organizzare sincronicamente il sistema della teoria scientifica, nella sua compagine dimostrativa. Le due operazioni potevano confermarsi reciprocamente; la verità della teoria forniva il canone per selezionare la tradizione corretta e, al tempo stesso, l'autorità di questa tradizione convalidava la teoria e la sottraeva al conflitto fra opinioni rivali.
Lo spirito di sistema, che senza dubbio agiva con forza, non significava però chiusura dogmatica. Si è già fatto riferimento allo scetticismo di Galeno verso il dogmatismo settario nella filosofia, ma anche nella medicina egli lasciava aperte, e sottoponeva all'esigenza di ulteriori ricerche, numerose e importanti questioni: dall'incertezza sulla natura delle "facoltà naturali" a quella sul rapporto fra cervello e sistema nervoso motorio, dai dubbi sul principio dello sviluppo embrionale a quelli sulla sostanza dell'anima e sul suo rapporto con il corpo. L'anatomia stessa richiedeva secondo lui uno sforzo assiduo di perfezionamento. Egli, tuttavia, non era fiducioso in questi progressi della ricerca; temeva anzi una crisi imminente, sociale e culturale insieme, destinata ‒ a meno di un miracoloso mutamento di tendenza ‒ a condurre alla rovina le scienze e la loro ricerca della verità (De methodo medendi, I, in: K X 2; II, in: K X 114-115). In effetti, i timori di Galeno si dimostrarono tutt'altro che infondati. Le difficoltà economiche dell'Impero e delle sue classi dirigenti, la decadenza delle grandi istituzioni scientifiche, l'affermarsi di filosofie con accentuati interessi metafisici e religiosi, come il neoplatonismo, determinarono quel progressivo collasso della grande ricerca medica e naturalistica che egli appunto aveva previsto. Del suo pensiero si salvarono attraverso le scuole di medicina alessandrine, arabe e poi medievali soltanto gli aspetti più strettamente sistematici, molto spesso sistematizzati per opera delle scuole stesse (come la riduzione dei fattori patogeni alle "sei cose non naturali", l'introduzione di un sistema di tre "spiriti" ‒ psichico, vitale, animale ‒ o la compilazione del fortunato manuale Ars medica) e questa è una sorte non dissimile da quella che toccò al pensiero aristotelico.
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