Scienza egizia. Tecniche e rituali di mummificazione
Tecniche e rituali di mummificazione
di Beate Gessler-Löhr
La mummia è un cadavere conservato ‒ e quindi messo a riparo dalla decomposizione ‒ grazie a procedimenti artificiali ('imbalsamazione') o anche solo per effetto di circostanze naturali; nell'un caso e nell'altro si parla di 'mummificazione', ma nell'uso corrente e in questo articolo ci si riferisce specificamente al processo d'imbalsamazione.
La parola latinizzata mumia, di provenienza persiana, giunta successivamente in area arabofona, originariamente significava 'cera', anche se con il tempo ha acquistato il significato di 'asfalto', o 'bitume'. L'errata ipotesi di medici arabi del Medioevo, secondo la quale la dura massa catramosa per l'imbalsamazione delle salme degli antichi Egizi, per lo più ben conservate, contenesse sostanze medicalmente attive, derivate soprattutto da oli minerali, indusse a trasferire il termine 'mumia' al corpo esanime. Di conseguenza, attraverso i secoli si sviluppò con l'Occidente un vasto commercio di mummie per la produzione di mumia, un rimedio considerato prezioso e dalle vaste applicazioni.
Come dimostrano le anfore, le armi, i gioielli e gli amuleti ritrovati nelle tombe del IV millennio, gli Egizi, già in epoca predinastica, credevano nella vita ultraterrena. In quel periodo i defunti erano sepolti in posizione accovacciata all'interno di semplici fosse scavate nella sabbia del deserto. Il contatto diretto dei corpi con la sabbia calda e asciutta, talvolta ricca di ossido di sodio, provocava un rapido essiccamento dei cadaveri e, nel contempo, la loro conservazione naturale. Quando si passò a una forma di sepoltura più ricca ‒ in stuoie o sarcofagi di legno ‒ e al consolidamento delle tombe, l'effetto dell'umidità provocò l'infestazione di microorganismi e, di conseguenza, la decomposizione. Un processo di disfacimento della salma era però incompatibile con la concezione egizia della morte. Per poter soggiornare nell'aldilà era infatti indispensabile che i corpi fossero conservati nella loro interezza, provvisti di tutti gli organi vitali e, pertanto, pienamente funzionanti. La paura della decomposizione del cadavere è espressa in maniera molto drastica nella massima 154 del Libro dei morti in una preghiera al dio dei morti:
Salute a te padre mio Osiride! […] Questo mio corpo non deve svanire, poiché io sono integro […], non marcisco, non mi gonfio, non mi decompongo e non mi trasformo in vermi. Io sopravvivo […], non sono svanito con i miei visceri […], il mio capo non si è separato dal collo […] Il mio corpo perdura, non va in rovina, non svanisce in questa terra, per sempre. (Libro dei morti, cap. 154, in Hornung 1979, pp. 331-334)
Il desiderio di conservare il corpo in maniera duratura richiese uno sviluppo ulteriore dei metodi di conservazione che precedevano la sepoltura. Si tentava così di restituire al corpo sembianze il più possibile simili a quelle avute in vita; facevano parte di questi procedimenti l'introduzione della posizione distesa, l'imitazione delle forme del corpo mediante imbottiture e l'impiego di bende di lino impregnate di resina per fasciarlo e modellarlo. Nell'Antico Regno (2750-2190) erano anche usati vari supporti per il volto e per il corpo modellati con lo stucco e in parte dipinti. Nel corso di un periodo che copre più di tremila anni la tecnica della mummificazione in Egitto subì numerose modifiche, passando da una lunga fase di sperimentazione nell'Antico Regno a un momento di massimo sviluppo nella XXI dinastia (1080 ca.), fino alla produzione di massa, nell'epoca greco-romana (332 a.C.-395 d.C.). Tuttavia le notevoli differenze nello stato di conservazione delle mummie e negli ornamenti di cui esse sono dotate dipendono non soltanto dalle diverse origini temporali, ma anche dalle differenti posizioni sociali dei defunti. Il membro di una casa regnante, per esempio, poteva permettersi una mummificazione estremamente più dispendiosa di un sacerdote o di un funzionario. Come risulta dal resoconto dello storico greco Erodoto, che intorno all'anno 445 a.C. percorse tutto l'Egitto, esistevano tre tipi di imbalsamazione, distinte in base al prezzo e alla qualità (Historiae, II, 85-90).
Ora descriveremo, a titolo di esempio, le operazioni di una mummificazione, ricostruite sia sulla base delle indagini compiute sulle mummie, sia sull'esame delle fonti scritte e figurative, conservate soltanto parzialmente per il Nuovo Regno (1540-1076) e per l'Età Tarda (712-332). Si deve tenere presente, tuttavia, che in ogni singolo caso erano possibili numerose varianti. Una raffigurazione ritrovata su un sarcofago conservato a Hildesheim, in Bassa Sassonia, suddivisa in tre scene che si susseguono una sull'altra, illustra in maniera schematica, ma efficace, quali fossero le fasi principali della mummificazione (fig. 2).
Il defunto, o la defunta, era portato nella sala d'imbalsamazione, situata in un luogo appartato, e consegnato ai sacerdoti funerari. Le operazioni che erano effettuate sul corpo, fino al completamento della mummia, duravano abitualmente 70 giorni. Come si vede nella fig. 2a, dove il defunto è rappresentato da una sagoma nera, s'iniziava con un lavaggio del cadavere, compiuto versando acqua e natron (carbonato di sodio idrato). In seguito, il cadavere era disteso su un tavolo a forma di leone coperto da una stuoia e i sacerdoti iniziavano il loro lavoro (fig. 2b). Durante la cerimonia d'imbalsamazione, il capo dei sacerdoti, indossando una maschera, svolgeva il ruolo del dio dei morti Anubi, dalla testa di sciacallo, che, secondo la leggenda, aveva presieduto all'imbalsamazione rituale di suo padre Osiride (fig. 2c). Dapprima, con un lungo uncino di metallo introdotto nel naso, o attraverso il foro occipitale, era asportato il cervello; per mezzo di una pietra affilata il sacerdote praticava poi un'incisione sul lato sinistro inferiore della cavità addominale, per estrarne l'intestino e gli altri organi; nell'interno del corpo rimanevano soltanto il cuore, il centro della vita, e i reni, difficilmente afferrabili nella cavità addominale; infine, il cadavere era ripulito con vino di palma ed essenze aromatiche, per poi essere ricoperto con natron asciutto e con sale marino, nei quali era lasciato a impregnarsi per 40 giorni: in questo modo era eliminata l'umidità dal corpo, impedendo l'instaurarsi del processo di decomposizione.
Soltanto dopo questa fase aveva inizio l'imbalsamazione vera e propria. Il cranio era parzialmente riempito con garze di lino imbevute di resina, oppure con resine liquide. Le orbite oculari erano tamponate, oppure s'introducevano sotto le palpebre piccole cipolle (Allium cepa). La cavità toracica e quella addominale erano imbottite con tamponi di lino, sacchetti di natron, trecce di erbe aromatiche e anche segatura, al fine di evitare l'incavarsi delle parti e di mantenere il volume naturale del corpo. Si aggiungevano spezie, mirra, incenso, oli cosmetici, resine, bacche di ginepro e cera di api e, in epoca greco-romana, anche catrame. Si riteneva infatti che tali sostanze fortemente aromatiche, che si rassodavano in una massa nero-brunastra quasi vitrea a forte componente liquida, fossero in grado di conservare il corpo, oltre che profumarlo. Nella zona del cuore di alcune mummie si trova talvolta il cosiddetto 'scarabeo del cuore', un grande amuleto di pietra, mentre nelle vicinanze dell'incisione addominale si trova un amuleto di ossidiana che raffigura due dita, simbolo dell'attività degli imbalsamatori. Infine, il taglio era ricucito e l'inevitabile 'ferita' del defunto nuovamente 'sanata' dall'applicazione dell'amuleto detto udjat ("occhio"), d'oro o di cera, simbolo di integrità. Nelle mummie regali, che erano ornate in modo sfarzoso, le parti del corpo più delicate, come le dita delle mani e dei piedi, erano protette con copridita d'oro.
Una volta pronto, il cadavere era accuratamente avvolto in fasce di lino, talvolta lunghe alcune centinaia di metri, impregnate di unguenti e di cera. Nelle mummie preparate con mezzi costosi, ogni singolo membro era dapprima fasciato separatamente, poi erano bendate le estremità fra di loro e quindi l'intero tronco. Spesso durante queste operazioni di avvolgimento erano introdotti fra le fasce, o cuciti sulle bende, amuleti di faïence, pietre semipreziose o altri materiali pregiati. A destra in alto nella fig. 2c, la raffigurazione del sarcofago mostra il sacerdote funerario con una maschera di sciacallo, intento a dare l'ultimo tocco alla mummia ormai pronta. Si può distinguere nettamente la fasciatura eseguita con sottili bende di lino che formano un disegno geometrico. In questa fase essenziale, in cui il corpo è stato avvolto con fasce per impedirne il disfacimento e formare un involucro protettivo che, come un bozzolo, avrebbe dovuto favorirne il soggiorno nell'aldilà, l'avvolto (scḥ) era chiamato 'mummia' nel senso di 'venerabile defunto'.
La testa è coperta con una maschera funeraria fatta di un cartonnage (strati di lino pressato e ricoperti di gesso) dipinto in cui il volto ‒ in alcuni casi anche dorato ‒ appare incorniciato da una parrucca suddivisa in tre parti. Le maschere delle mummie regali sono spesso d'oro, decorate con gemme semipreziose e intarsi di pasta vitrea. La barba degli dèi, applicata artificialmente, denota che il defunto, mummificato secondo le regole, ha raggiunto uno stato quasi divino ed è diventato un 'Osiride'. Intorno all'anno 1000 vigeva l'usanza d'inserire le mummie in un involucro di cartonnage dipinto; più tardi si usava sovrapporre soltanto alcune parti rifinite, come maschere o piedi, oppure appoggiare singoli elementi, come collane, divinità protettive o sandali di cartonnage. In epoca greco-romana, cartellini di legno con il nome, le cosiddette "etichette di mummia", servivano per l'individuazione dei defunti. Le maschere erano ormai di stucco; ritratti delle mummie, eseguiti spesso su tavolette di legno o lenzuola di lino, erano applicati sul volto e incorniciati dall'avvolgimento esterno delle bende.
Una volta estratti, gli intestini e gli organi interni erano preparati separatamente e quindi inumati in quattro recipienti, i cosiddetti 'canopi'; a volte invece questi organi erano avvolti nel lino dai sacerdoti imbalsamatori e riposti, sotto forma di pacchetti, nella cavità addominale. I canopi sono vasi alti e panciuti, di pietra o d'argilla, i cui coperchi, dal 1320 ca., sono foggiati secondo le teste dei quattro figli di Horo: Amset (dalla testa umana), Hapi (dalla testa di babbuino), Qebehsenuef (dalla testa di falco) e Duamutef (dalla testa di sciacallo). I vasi erano personalizzati in questo modo e considerati divinità protettrici per i visceri, con il compito di preservare il morto dalla sete e dalla fame.
A questo punto l'imbalsamazione era terminata. La mummia del defunto, racchiusa nel sarcofago, lasciava la sala d'imbalsamazione insieme a una cassa con i canopi contenenti i visceri; in solenne corteo funebre, parenti e amici accompagnavano il morto alla necropoli, dove, terminate le cerimonie di sepoltura davanti alla tomba, il defunto era tumulato nella sua 'Casa dell'eternità'.
Gli Egizi usavano mummificare anche i loro animali prediletti, come i gatti, i cani, le scimmie o le gazzelle, per poi seppellirli con i loro padroni. Gli animali considerati sacri erano mummificati su vasta scala. Inizialmente un tale trattamento era riservato agli esemplari di quelle specie animali che erano considerate manifestazioni di una divinità specifica (per es., i tori sacri, come Api il cui divino signore è Ptah, i gatti della dea Bastet, i coccodrilli di Sobek, gli ibis e i babbuini di Thot, oppure i falchi di Horo, e tanti altri). Dopo la morte, questi animali erano imbalsamati e sepolti in un'apposita necropoli. Una sala d'imbalsamazione per i tori Api, sepolti nelle tombe del Serapeo, è stata portata alla luce nelle vicinanze del tempio di Ptah di Menfi. Come veniamo a sapere da un papiro demotico in cui è descritta dettagliatamente (Vos 1993) la mummificazione di un Api, si usavano metodi d'imbalsamazione oltremodo dispendiosi attuati su monumentali tavoli di calcite a forma di lettiga con bacini per la raccolta dei liquidi.
Nell'Età Tarda, quando il culto degli animali era spinto all'estremo, iniziarono a essere considerati sacri gli esemplari delle più varie specie e la mummificazione assunse dimensioni spropositate. Le stime relative al numero di animali sepolti nelle sole gallerie sotterranee di Saqqara e dei dintorni di Ermopoli, le quali sono state soltanto in parte riportate alla luce, si aggirano su una cifra di milioni di esemplari; si tratta soprattutto di mummie di ibis, di scimmie, di falchi e di gatti.
di Joachim Friedrich Quack
Le modalità talvolta molto elaborate del processo di mummificazione presuppongono speciali conoscenze tecniche. Si tratta di conoscenze che probabilmente derivavano da un uso sperimentale di determinate sostanze ritenute idonee allo scopo e che poi, nei loro diversi stadi di sviluppo, erano state tramandate tra gli specialisti del rituale. Non è possibile stabilire se questa trasmissione avvenisse nella forma di insegnamento orale o se esistessero testi scritti. Per gran parte della storia egizia mancano prove testuali dirette. Testimonianze indirette sono fornite dagli storici greci Erodoto (Historiae, II, 86-88) e Diodoro (Bibliotheca, I, 91), i quali descrivono la mummificazione in modo dettagliato; stando a questi autori sarebbero esistite anche rappresentazioni figurative dei diversi procedimenti. Oltre alle allusioni più o meno brevi contenute nei testi religiosi che accompagnavano il defunto come parte del corredo funerario, soltanto in epoca molto tarda compaiono nelle fonti scritte egizie i primi espliciti riferimenti tecnici.
Il cosiddetto 'rituale d'imbalsamazione' è testimoniato in tre papiri ieratici di epoca romana. Questa denominazione rende soltanto parzialmente giustizia al contenuto del testo: si tratta infatti di una combinazione fra due generi diversi, ossia quello delle istruzioni tecniche e quello dei versi di glorificazione dei rituali. La parte iniziale è andata perduta in tutti i manoscritti, pertanto non si può stabilire se vi fossero anche delucidazioni, più o meno esaurienti, sull'estrazione degli organi e sulla disidratazione. Tutte le parti superstiti del testo descrivono le operazioni successive: l'unzione della testa e del resto del corpo (tra cui i visceri), la doratura delle dita e dei denti, l'unzione finale della testa, come pure la fasciatura delle mani e delle dita, del tronco e delle gambe. Le istruzioni tecniche in merito all'unzione e alla fasciatura sono così scarse e generiche che sicuramente presupponevano l'esistenza di conoscenze pratiche. Sono descritti con maggior precisione soltanto alcuni particolari di difficile memorizzazione e di carattere non tecnico ma religioso: per esempio, l'associazione delle fasce nelle diverse parti del corpo con determinate divinità, l'aggiunta di amuleti prevalentemente vegetali e di disegni raffiguranti divinità su pezzi di stoffa collocati secondo criteri particolari.
I versi esplicativi di glorificazione recitati alla fine di ogni operazione appaiono molto più esaurienti delle istruzioni tecniche; essi prendono spunto dai procedimenti e dalle sostanze utilizzate, che sono considerate divine e, in quanto tali, garanzia per il defunto di una sorte favorevole nell'aldilà. Tuttavia, è verosimile che nella maggior parte dei casi queste sostanze fossero inizialmente scelte in base alla loro presunta efficacia pratica nel processo di mummificazione e, solo in un secondo momento, sublimate in senso religioso. La lunghezza dei versi in questione corrisponde così bene al tempo necessario per l'espletamento delle azioni cui fanno riferimento, da far supporre che essi venissero recitati contestualmente alle diverse operazioni. Ciò nonostante resta dubbio se i due generi costituissero un'unità sin dall'origine.
Sotto il profilo linguistico, i versi di glorificazione sono da considerare dell'Età Tarda (712-332). Le istruzioni tecniche rispecchiano, invece, forme più antiche, probabilmente vicine ai modelli del Medio Regno (2000-1630), ma non sono omogenee, in quanto includono sicuramente componenti più tarde; si può supporre che un nucleo antico sia stato completato e aggiornato con dettagli aggiuntivi e che prescrizioni religiose, all'origine tramandate separatamente, siano state introdotte nel testo in una nuova formulazione. Sebbene la funzione del testo fosse certamente quella di un manuale a uso di quanti si occupavano delle mummie in qualità di ritualisti, i manoscritti in nostro possesso provengono da contesti funerari, erano cioè diventati papiri funerari individuali inseriti nelle invocazioni all'interno delle glorificazioni, con filiazione, relative a un nome concreto.
Ben più esauriente e specialistico è, da un punto di vista tecnico, il rituale d'imbalsamazione del toro Api, conservatosi in frammenti nel papiro Vienna D 3873, di epoca tolemaica (332-30). Quando era integro, il testo abbracciava presumibilmente tutte le fasi, dalla morte dell'animale alla sua sepoltura definitiva. è dato massimo risalto agli strumenti e alle sostanze indispensabili per l'imbalsamazione, nonché al procedimento tecnico. I punti in cui, durante lo svolgimento del rituale, era prevista la recitazione di testi religiosi, sono indicati menzionandone il titolo. Sulla base delle caratteristiche linguistiche, il testo è indubbiamente da considerare di Età Tarda (712-332); soltanto poche parti sembrano riconducibili a una tradizione più antica. Il fatto che siano presenti riferimenti a dati storici di epoca saitica, in relazione a una modificazione del rituale, consente di affermare che la redazione finale abbia avuto luogo non molto prima e sicuramente non oltre il 500. Tra i pochi testi contenenti una descrizione dettagliata ed estesa di procedimenti tecnici, questo documento rappresenta un'eccellente testimonianza della mentalità scientifica degli Egizi.
di Joachim Friedrich Quack
Il mese di khoiak aveva per gli Egizi un grande significato religioso, poiché era legato ai temi centrali del culto di Osiride. Grazie agli elenchi di oggetti indispensabili per la cerimonia, il cosiddetto 'rituale di khoiak' costituisce al contempo una testimonianza di tecnica compositiva codificata. Il rituale è basato sul motivo dell'uccisione del dio Osiride da parte di suo fratello Seth, il quale ne riduce il corpo in brandelli. Il rinvenimento e la ricomposizione delle parti della salma sono rivissute come evento mitologico tramite la creazione di immagini figurate di Osiride. I rituali simboleggiano la ritrovata integrità del dio e la sua corretta sepoltura.
Fonte principale è un'iscrizione geroglifica tardo-tolemaica o degli inizi dell'epoca romana in una cappella del tempio di Dendera (Chassinat 1966-68). Singoli riferimenti o testi più brevi compaiono in diverse composizioni religiose, in particolare nel papiro Salt 825 (BM 10051), 16, 1-17, 13, nel papiro Jumilhac, tb III, 1-10 e in un letto di Osiride della XXII dinastia da Copto, ancora inedito.
Il grande testo di Dendera non è unitario, ma è suddiviso in sette libri distinti, ciascuno con un proprio titolo. In base a criteri stilistici e storico-linguistici, questi libri possono essere attribuiti ad autori ed epoche diversi. Tema principale è la creazione di due figure di diverso tipo. Una di esse, designata come Khentimenti, era solitamente realizzata all'interno di una vasca contenente sabbia in cui era fatto germogliare orzo; essa corrisponde a quegli oggetti che in ambito scientifico si è soliti oggi definire come 'Osiride d'orzo' o anche 'Osiride verdeggiante', sebbene vi siano spesso differenze nei dettagli. Alla stessa tipologia appartiene anche la 'spina dorsale divina', realizzata in maniera analoga. La seconda figura, nota come Sokar, era modellata in una pasta la cui composizione variava a seconda delle località.
I testi dei primi cinque libri potrebbero risalire essenzialmente al tardo Medio Regno (1800-1630 ca.). Nel I libro si fornisce una visione d'insieme dei diversi modi di fabbricazione delle figure nei vari luoghi di culto del paese, alcuni dei quali praticano soltanto il metodo dell'Osiride d'orzo, mentre altri conoscono anche la figura modellata nella pasta. Questa lista, della quale manca per cause ignote la parte iniziale, differisce a volte in modo sensibile dalle altre indicazioni.
Il II libro fornisce una descrizione precisa della vasca di pietra e dei due stampi metallici dell'Osiride d'orzo e della spina dorsale divina. Orzo e sabbia erano mescolati e bagnati quotidianamente. La germinazione dei semi dava origine a una figura che constava di due parti, poi unite con l'aiuto di strisce di papiro e di mirra essiccata come collante; il tutto era lasciato ad asciugare. Dopo lo svolgimento delle cerimonie di culto, che rappresentano un rito funerario, le figure erano avvolte in stoffa e provvisoriamente sepolte, mentre le figure deposte l'anno precedente ricevevano la sepoltura definitiva. Nei due principali luoghi di culto, Busiri e Abido, sono attestati procedimenti alquanto differenti, ai quali si uniformano anche altre località, fatta eccezione per Sais, dove una figura modellata come scultura di sola terra, senza orzo, era gettata in acqua alla fine del rituale.
Il III libro fornisce un'analoga descrizione per il modello della figura Sokar e per la composizione dell'impasto utilizzato. Quest'ultimo consisteva di terra della sacra collina, pasta di datteri, mirra, incenso e altre sostanze aromatiche, pietre preziose finemente triturate e acqua. Questa massa, mescolata per bene e mantenuta umida con una copertura di foglie, era poi pressata all'interno di forme cosparse di grasso.
Il IV libro contiene una breve lista delle divinità dei luoghi in cui erano prodotte tali figure.
Il V libro fornisce numerose e dettagliate informazioni sugli stampi, sul sarcofago per la sepoltura, sui pani rituali, sulle sostanze aromatiche e sulle pietre preziose utilizzate, sulle stoffe, sulla forma e la simbologia dei vasi sacri. Si descrive poi la sistemazione di uno spazio speciale per i prodotti finiti, come pure la produzione dell'olio santo e l'allestimento dell'imbarcazione per il viaggio rituale sul lago. Si parla inoltre del luogo della sepoltura provvisorio e di quello definitivo. Alla fine si forniscono informazioni sulle date del mese di khoiak e sui festeggiamenti celebrati in diverse località.
Il VI libro, il cui nucleo risale alla XVIII dinastia (1540-1293) ma è stato integrato da aggiunte più tarde, offre l'esposizione più chiara e completa. Vi si descrivono le operazioni da effettuare giorno per giorno per la realizzazione dell'Osiride d'orzo e della figura Sokar.
Il VII libro è attribuibile, su base linguistica, a epoca molto tarda. Esso contiene, per lo più nella forma di ripetizioni con alcune variazioni e aggiunte di quello che è già stato trattato nei libri precedenti, i procedimenti per la realizzazione dell'Osiride d'orzo e delle figure Sokar.
La designazione, da parte degli storici moderni, di 'misteri' non rende giustizia a questo testo, che in realtà fornisce precise indicazioni tecniche per la fabbricazione di oggetti rituali, benché, rappresentando un sapere riservato, esse dovessero essere accessibili e divulgate soltanto all'interno di una limitata cerchia di persone.
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