Politica, scienza della
(v. politologia, App. V, iv, p. 166)
Genesi e definizioni
È impossibile stabilire la 'data di nascita' della s. della politica. Il nome - politiké epistéme - è antico, ma il suo significato cambia al variare dei significati che via via prendono, nell'esperienza storica occidentale, i termini scienza e politica (Sartori 1979; Ornaghi 1993; Pasquino 1997).
Proprio perché le parole assumono, di volta in volta, significati differenti, è certamente corretto procedere individuando certi punti di frattura nell'evoluzione della scienza della politica. Convenzionalmente, si fa risalire a N. Machiavelli la nascita della s. della p. moderna. Ciò ha senso, ma solo se si intende che con Machiavelli emerge l'idea moderna di politica, in contrasto con la tradizione aristotelica e con le concezioni medievali. Se invece si guarda all'evoluzione dell'altro termine, scienza, si deve spostare la datazione più avanti, di almeno un secolo, si deve aspettare che emerga l'idea moderna di scienza.
Nel suo significato più generale, la s. della p. è, nell'età moderna, l'indagine sistematica sulle diverse modalità di organizzazione delle unità politiche che essa pazientemente classifica studiandone l'evoluzione, scoprendone le regolarità (o 'leggi empiriche') e le connesse cause. Per es., D. Hume (Essays, moral and political, 1742) ricorre a questa concezione della s. della p. - del resto, comune fra i suoi contemporanei - studiando di volta in volta l'origine dei governi, le specificità dell'esperienza politica inglese, o le cause che spiegano lo sviluppo del commercio, delle scienze e delle arti , nel tentativo di strappare alla storia il segreto che è alla base della nascita e dello sviluppo dei governi 'liberi'. È la stessa concezione che troviamo in altri padri della s. della p. moderna, dal Montesquieu di De l'esprit des lois al Tocqueville de La démocratie en Amérique. O, per venire al primo Novecento, in B. Croce, per il quale, come si può leggere in Etica e politica (1924), la scienza 'empirica' della politica "si esplica mercé la riduzione a tipi e classi degli innumeri fatti della storia, e qui precipuamente della storia economica o politica ed etico-politica, cioè dei fatti presi nel loro astratto contenuto che è la loro materia, e privati della vita loro propria, data dalla loro forma spirituale ossia dall'individualità. Nella classificatoria si fondono, e con essa in sostanza coincidono, le così dette leggi, le leggi empiriche, perché determinare i caratteri dei vari tipi di fatti vale al tempo stesso porre in relazione tra loro questi caratteri e stabilire conformità e difformità, concordanze e sconcordanze di effetti".
Se ciò attesta che, intesa in senso lato, la s. della p. ha un lungo e illustre passato, va aggiunto che anche la s. della p. moderna ha le sue scansioni e fratture interne. Lo strappo cruciale, quello che ha favorito l'emergere, dal grembo della s. della p. così come Croce la intendeva ancora all'inizio del sec. 20°, della s. della p. contemporanea, appare collegato a due fenomeni che prendono forma nell'Ottocento e vengono a piena maturazione nel Novecento. Il primo fenomeno è la democrazia. Con i processi di democratizzazione si è spezzato, o quanto meno si è allentato, il legame fra politica e Stato. Nell'età moderna, dopo Machiavelli e il sorgere del moderno Stato europeo, la s. della p. aveva finito per identificare 'politica' e 'Stato': la s. della p. era diventata, essenzialmente, studio sistematico dello Stato in tutte le sue manifestazioni. Con la democrazia la politica 'fuoriesce' dallo Stato, acquista una 'ubiquità' (Sartori 1979) che prima non aveva. La s. della p. contemporanea diventa, anzitutto, studio della democrazia (e anche, certo, degli altri regimi politici contemporanei, ma sempre nel confronto, implicito o esplicito che sia, con la democrazia). Dagli elitisti italiani (G. Mosca, V. Pareto, R. Michels), i cui contributi sono stati decisivi per la nascita della s. della p. contemporanea, fino agli sviluppi più recenti, il rapporto fra s. della p. e democrazia sarà sempre un rapporto complesso, delicato e nevralgico (v. oltre). Il secondo fenomeno cruciale è la diffusione e il successo della concezione positivista della scienza. Essa ha legittimato lo studio dei fatti umani, e dunque anche di quelli politici, con metodi, se non identici, quanto meno simili a quelli usati dalle scienze della natura. Assecondata e incoraggiata dal positivismo nell'Ottocento (v., per es., Sola 1986) e dal neopositivismo nel Novecento, la s. della p., al pari delle altre scienze sociali, ha conosciuto un impetuoso sviluppo in tutto il mondo occidentale. Dopo la Seconda guerra mondiale saranno soprattutto le concezioni sviluppate fin dalla prima metà del secolo negli Stati Uniti a influenzare maggiormente gli sviluppi 'nazionali', in particolare europei. Anche se con differenze, dovute alle diverse tradizioni nazionali, che, pur nella fase di massima influenza della s. della p. statunitense, continueranno a pesare in Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Italia e negli altri paesi europei.
Metodi e approcci
Una grande frattura metodologica divide la s. della p. in 'scuole' contrapposte. Nei termini di B. Barry (1970), si tratta della divisione fra approcci economici e approcci sociologici (o storico-sociologici): da un lato, c'è la scuola che parte dall'idea di attore politico come soggetto razionale teso alla ottimizzazione di alcune funzioni-obiettivo (potere, status, ricchezza, sicurezza ecc.), deduttivamente inferendone le 'leggi' dell'agire politico; dall'altro, c'è la scuola che procede induttivamente, comparando le diverse situazioni e istituzioni politiche al fine di scoprire 'regolarità'. La prima scuola assume a modello l'economia; la seconda guarda alla sociologia e alla storia comparata.
Parzialmente oscurata nell'epoca del comportamentismo (v. oltre), che aveva imposto altre priorità e altre preoccupazioni, questa antica 'grande divisione' si ripresenta con forza nell'età post-comportamentista.
La disputa fra James Mill e T.B. Macaulay sui fondamenti della s. della p. è ancora rappresentativa di quella divisione. Nell'Essay on government (1820), Mill applica i principi dell'utilitarismo benthamiano allo studio della politica. Lo fa rifiutando la lezione della storia e deducendo natura e ruolo del governo dai principi che, secondo gli utilitaristi, guidano il comportamento umano. Polemizzò con lui duramente Macaulay (Mill on government, 1829), rifiutando l'approccio utilitarista all'interpretazione della politica e contrapponendo a esso lo studio della storia come nutrimento di quella che, enfaticamente, chiama "that noble science of politics". Scriveva Macaulay: "La nostra obiezione al saggio del signor Mill è radicale. Noi pensiamo che sia assolutamente impossibile dedurre la scienza del governo dai principi della natura umana". E precisava : "Come possiamo pertanto arrivare a corrette conclusioni su un soggetto così importante per il benessere dell'umanità? Sicuramente utilizzando il metodo che, in ogni scienza sperimentale alla quale è stato applicato, ha significativamente accresciuto il potere e la conoscenza della nostra specie [...] - il metodo induttivo - che consiste nell'osservazione dell'attuale stato del mondo, nello studio assiduo della storia delle epoche passate, nella valutazione delle evidenze fattuali, nella attenta combinazione e nel confronto fra i fatti autentici, nella generalizzazione prudente e diffidente, nel continuo mettere alla prova la teoria che abbiamo costruito confrontandola con nuovi fatti, nel correggerla o anche abbandonarla se i nuovi fatti risultano in parte o in tutto incoerenti con essa". È interessante osservare che il figlio di Mill, John Stuart, non troverà affatto irrilevanti le obiezioni di Macaulay al padre e nella sua principale opera politica, Considerations on representative government (1861), sceglierà una posizione intermedia fra i due orientamenti.
L'antica disputa Mill-Macaulay è di nuovo attuale. La s. della p. è oggi divisa fra scuola economica e scuole storico-sociologiche. La teoria della scelta razionale (Martelli 1989) rappresenta nella s. della p. contemporanea la riproposizione in veste aggiornata dell'impostazione dei benthamiani del secolo 19° (Barry 1970). Essa adatta alla s. della p. gli approcci dell'economia neoclassica. Le si contrappongono altre scuole, spesso fra loro piuttosto distanti (gli approcci statist, neo-istituzionali ecc.; Lanzalaco 1995), che, sulla scia di Macaulay e della s. della p. comparata ottocentesca (Collini, Winch, Burrow 1983), traggono dalla comparazione storica l'individuazione di regolarità e la costruzione di teorie (benché i lavori migliori, assimilata la lezione weberiana, evitino di affidarsi al crudo induttivismo di Macaulay).
La disputa fra teorici della scelta razionale e (neo)istituzionalisti (March, Olsen 1989), cuore del dibattito teorico-metodologico della s. della p. attuale, ripropone dunque, in veste aggiornata, una contrapposizione antica ma in parte oscurata ai tempi del predominio del comportamentismo. Il comportamentismo (che non ha dato solo un grandissimo impulso alla ricerca empirica, ma ha tenuto a battesimo anche importanti opere di teoria politica, come, per es., Lasswell, Kaplan 1950, Easton 1953, Deutsch 1963) ha avuto una parte assai rilevante nel rinnovamento degli studi politologici del Novecento. A esso si devono sia importanti innovazioni sostanziali (soprattutto nello studio della democrazia, v. oltre) sia importanti innovazioni teoriche: basti pensare che tanto il funzionalismo (Almond, Powell 1966) quanto l'analisi sistemica (Easton 1965), pur arrivando alla s. della p. da ambiti disciplinari diversi, si sono sviluppati sotto l'impulso ed entro la cornice teorico-metodologica fornita dal comportamentismo (Morlino 1989). E il declino del comportamentismo ha portato con sé anche la perdita di forza e di importanza di tali approcci.
Che cosa è politica
Tradizionalmente, la s. della p. oscilla, nella definizione/delimitazione del suo oggetto, fra due concetti: potere e Stato. Oscilla cioè fra la tentazione di fare della s. della p. la "scienza del potere" (Lasswell, Kaplan 1950), esponendosi all'obiezione di dilatare eccessivamente la politica, e la tentazione di farne la 'scienza dello Stato', esponendosi all'obiezione di identificare la politica con una sola delle sue tante possibili modalità di manifestazione e di organizzazione. Se nel primo caso il rischio è di vedere la politica ovunque (relazioni di potere caratterizzano qualunque ambito sociale), nel secondo il rischio è quello dell'eurocentrismo: non solo esistono o sono esistite 'società senza Stato' e tuttavia non senza politica, ma inoltre lo Stato, così come lo ha inteso la cultura occidentale - e anche la s. della p. -, è un fenomeno che nella sua pienezza è inestricabilmente legato all'esperienza storica europea (Poggi 1978).
Il tema è controverso, ma appare improbabile che la s. della p. possa liberarsi, come pure è stato a più riprese auspicato, della centralità dell'idea di potere. In realtà, come l'economista ragiona in termini di costi e ricavi, così lo scienziato politico non può evitare di ragionare in termini di potere, di differenziali di potere e di conflitti per il potere. Si può benissimo, per es., identificare la politica con la sfera delle decisioni collettivizzate (Sartori 1979) - che riguardano l'intera collettività - fatte rispettare attraverso il ricorso alla forza o alla minaccia della coercizione fisica, oppure, nei termini di D. Easton, nella "distribuzione imperativa di valori"; ma, dietro queste e altre definizioni, appare sempre il momento della lotta, del conflitto, che ha per posta la scelta su chi deve prendere le decisioni collettivizzate, su chi deve distribuire imperativamente i valori, anche a prescindere dal contenuto delle decisioni (collettivizzate). Ne discendono due conseguenze. La prima è che il potere di cui la s. della p. si occupa, il potere politico, ha sempre, quanto meno in ultima istanza, a che fare con il possibile ricorso alla violenza, alla coercizione fisica. La seconda è che la s. della p. mostra così il suo debito verso una specifica corrente culturale, il realismo politico: essa non può prescindere dalla lezione di quei realisti che, da Machiavelli ai teorici della ragion di Stato, dagli elitisti italiani a M. Weber, hanno identificato nel potere e nella lotta per il potere l'ubi consistam della politica.
Questo rinvio all'influenza del realismo politico segnala anche la radicale distanza della s. della p. moderna da un'importante e influente corrente della filosofia politica moderna: il contrattualismo nelle sue diverse versioni. A differenza di Machiavelli, i contrattualisti del Seicento e del Settecento non figurano, in tal senso, fra i padri fondatori della scienza della politica. La polemica con il contrattualismo (e il giusnaturalismo) è certo uno dei terreni su cui la s. della p. moderna - da Montesquieu a Hume, a Tocqueville e fino agli sviluppi contemporanei - ha costruito la sua identità di scienza empirica.
Si tratta naturalmente di definire il potere, e il potere politico in particolare, ed è questo uno dei terreni tradizionali, ma tuttora fecondi, di studio e di ricerca della s. della p. (Stoppino 1989). Ma il potere si esercita, e le lotte potestative si verificano, entro istituzioni e per il controllo di istituzioni. Le istituzioni politiche si distinguono dalle altre istituzioni, alla luce delle definizioni sopra riportate, perché hanno direttamente a che fare con le decisioni 'autoritative' collettivizzate. Le istituzioni politiche sono al tempo stesso 'arene' entro le quali si sviluppa la competizione per il potere e 'risorse' per l'esercizio del potere. Che si adotti, per es., l'approccio (economico) della scelta razionale o quello (sociologico) dell'istituzionalismo, le istituzioni sono prima di tutto insiemi di regole e di pratiche stabili nel tempo, che statuiscono premi e punizioni, incentivi e vincoli. Per questa via si torna sempre alle due domande fondamentali della s. della p., cioè chi esercita il potere e come (con quali regole e mediante quali risorse, materiali, simboliche ecc.) il potere viene esercitato. Si tratti di una città-stato o di un impero patrimoniale, di uno Stato moderno o di un sistema internazionale di Stati, di una società primitiva senza Stato oppure del sofisticato e complesso sistema politico di una società postindustriale, le domande cruciali e preliminari che si pone la s. della p. sono dunque sempre le stesse, dai tempi di Aristotele.
Democrazia e scienza della politica
Si è già detto che la s. della p. contemporanea è segnata, più di ogni altra cosa, dall'emergere della moderna democrazia. È la democrazia il problema che gli elitisti italiani vogliono spiegare (e, nel loro caso, anche demistificare). È la democrazia il principale oggetto di studio della s. della p. nel Novecento. Ed è ancora la democrazia il regime politico che gli studiosi adottano come modello implicito quando studiano altri regimi politici, tradizionali, autoritari o totalitari.
Il rapporto fra s. della p. e democrazia, però, è complesso e, soprattutto, ambiguo. Si può dire che questo rapporto ha attraversato due fasi. In una prima fase, quella dominata dagli elitisti italiani (Mosca, Pareto, Michels) o da essi ispirata, la s. della p. si è affermata con un intento polemico nei confronti della democrazia: la teoria della classe politica, la teoria delle élites, la legge ferrea dell'oligarchia, pretendendo di descrivere/spiegare la politica "così come essa è", anziché come si vorrebbe che fosse, rappresentano altrettanti atti di accusa contro la democrazia, che demistificano, e mostrano l'ipocrisia, la falsità del principio della sovranità popolare. La seconda fase vede come principale protagonista la s. della p. statunitense, dagli anni Venti-Trenta in poi. Gli scienziati politici ora simpatizzano per lo più con la democrazia, in molti casi vogliono servirla attivamente con la loro scienza, e tuttavia le loro ricerche finiscono sempre per confermare il grande divario fra gli ideali e la realtà, mostrando il carattere oligarchico, o elitista, dei processi democratici, il disinteresse e la disinformazione del grande pubblico, la manipolabilità delle dinamiche elettorali, la natura non democratica ma tecnoburocratica dei processi di formazione e implementazione delle politiche pubbliche ecc. Ne deriva un paradosso: gli scienziati politici, per lo più favorevoli alla democrazia, vorrebbero contribuire al suo perfezionamento, ma le osservazioni, i risultati che la s. della p. accumula (Purcell 1973; Ricci 1984) mettono a nudo impietosamente il carattere fittizio, se non dell'intera formula politica democratica, certo di molti suoi qualificanti aspetti. Solo in parte il paradosso viene superato, e la connessa tensione allentata, attraverso il ricorso a categorie come quella di "pluralismo" (Held 1987), a sua volta derivata dalla teoria dei gruppi (Bentley 1908; Truman 1951) o, sulla scia di J. Schumpeter (1942), quella di "poliarchia" (Dahl 1971), che consentono, o dovrebbero consentire, di salvare l'analisi realistica della democrazia rassicurando però anche sulla sua perdurante 'superiorità' etico-politica rispetto ai regimi non democratici. Il problema dell'analisi realistica della democrazia è tuttavia che essa non riesce mai a fare i conti fino in fondo con la "pressione assiologica" (Sartori 1957) che gli ideali esercitano sulla democrazia "com'è".
Dedicatasi all'analisi realistica dei processi democratici ed enfatizzando soprattutto il ruolo delle competenze che essa può mettere a disposizione della democrazia, vuoi in termini di policy analysis, vale a dire di analisi delle politiche pubbliche con intenti prescrittivi o normativi (Lasswell, Lerner 1951; Regonini 1989), vuoi in termini di ingegneria politica e costituzionale (Pasquino 1989; Sartori 1994), la s. della p. sembra tuttavia sottovalutare il ruolo forse più importante che essa può svolgere: contribuire a educare il pubblico delle democrazie al dibattito razionale sui problemi politici a partire dalle conoscenze che essa è andata accumulando. Il che non può accadere se, come ha scritto J. Ceaser (1990), essa non prende sul serio la natura "mista" - democratica e liberale - della democrazia rappresentativa moderna riconoscendo, a differenza della tradizione schumpeteriana (o teoria realistica), che il principale problema della democrazia è quello di mantenere un equilibrio accettabile fra la dimensione democratica e quella liberale. Ponendo soprattutto, e prima di tutto, al servizio di questo obiettivo le sue conoscenze, la s. della p. contemporanea, secondo Ceaser, si troverebbe saggiamente a recuperare, avendone tutto da guadagnare, la lezione da troppi dimenticata - e gli intenti prescrittivi - della s. della p. classica, di Montesquieu, del Federalist, di Tocqueville.
La scienza della politica tra crisi dello Stato e nuovi assetti di potere
Al di là delle ambiguità proprie del rapporto fra s. della p. e democrazia, la s. della p. contemporanea deve fronteggiare anche un altro decisivo problema, rappresentato da quella che alcuni indicano come l'irreversibile crisi dello Stato e altri, più prudenti, la sua radicale trasformazione. Figlia, come tutte le altre scienze sociali, della modernità nelle sue due cruciali componenti dello Stato e del mercato, la s. della p., anche quando, dalla fine dell'Ottocento in poi, si è posta come problema principale quello della democrazia, non ha mai messo in questione l'idea che l'emergere della democrazia rappresentasse, fondamentalmente, una riallocazione di potere - e di poteri - all'interno dello Stato. Ridistribuendo diritti e doveri attraverso l'istituto della cittadinanza, trasformando gli antichi sistemi istituzionali e piegandoli al principio della rappresentanza elettorale, facendo emergere partiti e sistemi di partito, dando voce e capacità di pressione politica a una pluralità di gruppi sociali, la democrazia modifica forma e sostanza della politica rispetto al tempo degli anciens régimes, ma non mette in discussione gli attributi dello Stato-macchina costruito nell'età assolutista: il monopolio statale della violenza legittima, la natura gerarchica e centralizzata degli apparati burocratici statali ecc. La democrazia piega gli strumenti dello Stato assolutista a un diverso disegno: al potere "discendente" del principe sostituisce il potere "ascendente" del demos (Bobbio 1984).
Almeno in linea di principio, lo Stato-macchina non è minimamente intaccato dalla democrazia. Anzi, la sua preservazione è condizione di esistenza della stessa democrazia rappresentativa. Essa cesserebbe di esistere, o quanto meno sarebbe in gravi difficoltà, se lo Stato perdesse il monopolio della forza, se il governo non disponesse delle risorse amministrative per attuare le sue decisioni, se l'autonomia e l'indipendenza decisionale dello Stato (la sua 'sovranità') venisse intaccata da forze esterne al punto da mettere parlamenti e governi nell'impossibilità di attuare importanti decisioni volute dagli elettori.
Sul finire del 20° secolo, lo Stato, forgiato dall'assolutismo ed ereditato dalla democrazia, sembra, nell'interpretazione di molti (per es., Strange 1996), in precipitoso declino per effetto di una pluralità di spinte e forze. Di spinte dal basso, quali, per es., le trasformazioni negli atteggiamenti dovute agli effetti della società di massa e della stessa democrazia: venir meno della deferenza e del consenso passivo alle autorità (politiche, amministrative ecc.), revival etnici che mettono in discussione, contemporaneamente, il diritto statuale al monopolio della forza e il carattere universalistico dei diritti di cittadinanza, l'uguaglianza di fronte alla legge ecc. Ma anche di spinte dall'alto: globalizzazione dei mercati (commerciali e finanziari), rivoluzione nei sistemi di comunicazione, di trasporto ecc. erodono i margini di libertà decisionale dei governanti.
Con differenze da zone a zone del pianeta, secondo questa visione, lo Stato è ovunque sotto pressione, in crisi, quando non in declino. Anche se la tesi del declino dello Stato è contestata da diversi autori (per es., Weiss 1998), è comunque indubitabile che all'inizio del nuovo millennio lo Stato si trovi ad affrontare sfide nuove, che lo colpiscono in alcuni aspetti cruciali della sua sovranità.
Nell'area politica e culturale che ha visto la nascita dello Stato moderno, l'integrazione europea sta erodendo molti antichi attributi dello Stato. Contemporaneamente, non sembrano sul punto di emergere nuove e più ampie sintesi politiche. La s. della p. deve così fronteggiare inedite sfide teoriche. Dando per scontato lo 'Stato', la s. della p. ha fin qui studiato i regimi politici - tutti, non solo la democrazia - assumendo che essi si innestino su Stati. E ha studiato le relazioni internazionali assumendo che esse siano, per l'essenziale, rapporti fra Stati (Morgenthau 1948; Waltz 1979). Ma se lo Stato declina o vede radicalmente trasformato - in modi ancora non facilmente identificabili - il proprio ruolo, la s. della p. si trova di fronte a un problema teorico nuovo e di grande momento. Si trova, per es., a dover fare i conti con assetti e configurazioni di potere che per certi versi ricordano il feudalesimo e, di conseguenza, nell'obbligo di attrezzarsi con categorie di cui, in ragione dell'esperienza storica moderna, non aveva in precedenza necessità.
Mettere a fuoco le trasformazioni dello Stato, individuare gli strumenti analitici appropriati per descrivere e interpretare le nuove configurazioni di potere - neofeudali o neopatrimoniali che siano - diventa una necessità per la s. della p., dal momento che la politica (interna e internazionale ) e lo stesso oggetto di studio privilegiato di tutta la s. della p. del Novecento, la democrazia, corrono il rischio di uscirne radicalmente modificate. La s. della p., intesa come studio sistematico del potere e delle configurazioni di potere, se aspira a restare rilevante deve essere in grado di padroneggiare il suo oggetto, la politica, anche in presenza di mutamenti radicali dei contesti nei quali la politica viene svolta.
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