Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tradizionalmente intesa come una tecnica volta a facilitare la comprensione dei testi, nell’Ottocento, accanto all’interesse per i problemi pratici legati all’interpretazione delle Sacre Scritture, delle opere dell’antichità classica e dei testi giuridici, si afferma una nuova accezione filosofica di ermeneutica come teoria generale dell’interpretazione (dal greco hermenéuein, “interpretare”). Grazie a questa nuova accezione sistematica la disciplina potrà esser posta alla base delle scienze dello spirito.
Nel suo saggio sulle Origini dell’ermeneutica, Wilhelm Dilthey osserva come questa branca di studi, inizialmente vincolata all’interpretazione dei testi sacri, per raggiungere una propria autonomia abbia dovuto sganciarsi da ogni limitazione dogmatica. L’esegesi biblica, infatti, poté sfociare in una teoria generale dell’interpretazione solo quando (con Semler, Michaelis ed Ernesti) la comprensione dei testi sacri fu sottoposta allo stesso metodo storico-grammaticale che si applica all’interpretazione dei testi profani e divenne possibile evidenziare i principi comuni a ogni atto interpretativo, indipendentemente dal suo oggetto.
Il primo a concepire il progetto unitario di un’ermeneutica generale è Georg Friedrich Meier con il suo Tentativo di un’arte generale dell’interpretazione (1757). Questo abbozzo settecentesco di teoria dell’interpretazione rimane tuttavia ancora troppo astratto e schematico e solo con Friedrich Schleiermacher Dilthey ritiene si inauguri autenticamente la teoria generale dell’interpretazione. Questi, dopo avere letto l’Interpres di Ernesti nell’autunno del 1804, estende infatti l’ambito dell’ermeneutica alla comprensione di qualunque genere di discorso, scritto o orale.
L’interesse di Schleiermacher per la teoria dell’interpretazione è strettamente legato alla sua concezione etica, imperniata sul principio dell’individualità. Il problema viene da lui inizialmente affrontato nei Discorsi sulla religione (1799) nei seguenti termini: se l’esperienza religiosa è un fatto irriducibilmente individuale, come è possibile comunicarla ad altri? Tradizionalmente uno dei mezzi di trasmissione è la scrittura che, secondo Schleiermacher, è una cristallizzazione dell’esperienza spirituale, una sorta di “mausoleo” sul quale la vita vissuta non può che aver lasciato deboli tracce. Per queste ragioni tale testo non va inteso come prodotto definitivo da contemplare passivamente, ma come spunto di partenza per nuovi, e originali, vissuti individuali: la compiuta interpretazione di un discorso si raggiunge solo allorché l’interprete fa rivivere in sé l’esperienza individuale testimoniata dal discorso stesso.
È sulla scorta di questi principi generali che Schleiermacher intraprende il progetto di traduzione dei dialoghi platonici (concepito insieme a Friedrich Schlegel, ma poi condotto a termine da solo tra il 1802 e il 1804), traendo spunto dai problemi critico-testuali incontrati nel corso dei lavori per precisare meglio il proprio ideale di interpretazione. Riassumibili nella celebre formula secondo cui interpretare un’opera significa “comprendere il discorso anzitutto altrettanto bene e poi meglio di quanto non lo capisse l’autore stesso”, i principi dell’ermeneutica saranno presentati in svariati corsi di lezioni tenuti alle facoltà di teologia e filosofia tra il 1805 e il 1833, nonché nelle tre Dissertazioni presentate tra il 1829 e il 1830 all’Accademia delle Scienze di Berlino.
L’idea di capire il testo meglio di quanto non lo capisse l’autore stesso (già formulata da Chladenius nel 1742 e ripresa da Schlegel nelle sue annotazioni del 1797) racchiude il nocciolo dell’operazione ermeneutica, che svincola il significato dell’opera dall’intenzione autoriale, traendo profitto proprio dalla distanza che separa il lettore dall’autore dell’opera. La relativa estraneità iniziale che l’interprete prova nei confronti del testo, lungi dal costituire un ostacolo insormontabile, è per Schleiermacher la molla stessa che lo induce a indagare l’organizzazione interna dell’opera.
Pur estendendo l’ambito dell’ermeneutica alla comprensione di ogni prodotto della spiritualità umana, quindi di ogni tipo di discorso, nelle prime pagine dell’Esposizione in forma di compendio Schleiermacher distingue tra diversi gradi di interpretabilità dei testi, a seconda del loro carattere più o meno familiare. La maggior parte dei discorsi quotidiani ha un valore pressoché nullo per la comprensione, in quanto la sua unica funzione è di mantenere in attività il linguaggio attraverso la continuità della ripetizione. Nell’elevare a modello di comprensione ermeneutica la comprensione immediata offerta dalla chiacchiera spicciola, in cui non si danno incomprensioni apparenti semplicemente perché non viene detto nulla di nuovo, si commette l’errore di credere che l’ideale per la comprensione di un testo sia l’inserimento del particolare, il fatto che tale testo sia confezionato da un determinato autore, nella totalità delle conoscenze dell’interprete. In quest’ottica, il fraintendimento viene abitualmente inteso come un inciampo, una condizione di disturbo dell’interpretabilità naturale e immediata dei discorsi altrui.
Schleiermacher ribalta questa posizione sostenendo che il fraintendimento è il punto di partenza ineliminabile di ogni interpretazione, giacché proprio il disorientamento che esso provoca nel lettore lo induce a soffermarsi sulla strutturazione interna del testo. Per questo motivo l’oggetto privilegiato dell’ermeneutica è il discorso costruito con arte, cioè quello religioso, artistico e scientifico, dove l’impronta dell’autore è riconoscibile nella forma spiccatamente individuale dell’opera.
L’ermeneutica come arte della comprensione non esiste ancora in generale, esistono solo numerose ermeneutiche speciali. (...)
Solo arte della comprensione; non anche dell’esposizione della comprensione. La seconda sarebbe solamente una parte speciale dell’arte di parlare e di scrivere che potrebbe solo dipendere dai principî generali.
Ma neanche solo di passi difficili in lingua straniera. L’incontro con l’oggetto e con la lingua viene piuttosto presupposto. Se le due cose ci sono, i passi diventano difficili solo perché non si sono compresi neanche i più facili. Solo una comprensione conforme all’arte dell’interpretazione accompagnerà costantemente il parlare e lo scrivere. (...)
Se l’arte di parlare e l’arte di comprendere stanno l’una di fronte all’altra, e il parlare è però solo il lato esteriore del pensiero, allora l’ermeneutica è in rapporto con l’arte di pensare e quindi è filosofica.
In modo che tuttavia l’arte di interpretare sia dipendente dal comporsi dei pensieri e lo presupponga. Il parallelismo però consiste in questo, che dove il parlare è privo di arte, neanche il comprendere ne ha bisogno. (...)
L’interpretazione psicologica è superiore quando si considera la lingua solo come il mezzo attraverso cui la singola persona comunica i suoi pensieri; l’interpretazione grammaticale in questo caso non è che la rimozione di difficoltà occasionali.
L’interpretazione grammaticale è superiore, (in marg.: come lo è la lingua in quanto condiziona il pensiero di tutti i singoli), quando si considera la singola persona solo come sede per la lingua e quel che la persona dice solo come il mezzo in cui la lingua si rivela. L’interpretazione psicologica è così interamente subordinata, come lo è più in generale l’esistenza della singola persona.
Da questa duplicità emerge con evidenza la completa eguaglianza.
Il pensiero ermeneutico: testi e materiali, a cura di M. Ravera, Genova, Marietti, 1986
(...) l’ermeneutica è l’arte di scoprire con necessità i pensieri di chi scrive a partire dalla sua opera. Questa spiegazione salva molto di quel che io speravo di poter ottenere soltanto da quell’altra guida; l’ermeneutica non si rivolge solo all’ambito classico e all’interno di tale ambito non è semplicemente organon filologico; svolge invece il suo lavoro ovunque vi siano scrittori, e anche i suoi principî devono quindi essere sufficienti per questo intero ambito e non riferirsi solo alla natura delle opere classiche. (...) Egli evita, in realtà, il momento più acuto di questo concetto, nel senso che se ciò che deve essere compreso fosse del tutto estraneo a chi lo deve comprendere e se non ci fosse tra i due assolutamente nulla di comune, non ci sarebbe allora nemmeno un punto di congiunzione per la comprensione. Ma devo tuttavia concludere che il senso di questo concetto è relativo, il che verrebbe a significare che, così come nel caso esposto (in marg.: se cioè tutto fosse estraneo) l’ermeneutica non saprebbe affatto come dare inizio al suo lavoro, allo stesso modo, nel caso opposto, se cioè non vi fosse nulla di estraneo tra (in marg.: chi parla e chi ascolta), essa non avrebbe nemmeno bisogno di dare inizio al suo lavoro, giacché il comprendere sarebbe già preliminarmente concesso con il leggere e l’ascoltare in maniera istantanea o forse divinatoria, e sarebbe quindi qualcosa di completamente spontaneo.
Mi soddisfa completamente racchiudere il lavoro dell’ermeneutica tra quei due punti, ma confesso anche che mi piacerebbe lasciarle interamente questo ambito, dicendo che ovunque chi percepisce trovi qualcosa di estraneo nell’espressione dei pensieri per mezzo del linguaggio [Rede], li c’è un problema che egli può risolvere solo con l’aiuto della nostra teoria;
Il pensiero ermeneutico: testi e materiali, a cura di M. Ravera, Genova, Marietti, 1986
Negli Aforismi, stesi tra il 1805 e il 1809, Schleiermacher suddivide il lavoro ermeneutico in tre parti fondamentali: la comprensione di ciò che accomuna l’autore al lettore; la comprensione di ciò che è proprio dell’autore; infine, la comprensione di ciò che è proprio del lettore, nella misura in cui l’autore ne tenga conto al momento della stesura dell’opera. Schleiermacher dichiara di interessarsi poco al terzo aspetto, perché ritiene che si possa scrivere anche senza rivolgersi a un pubblico particolare.
I primi due punti rappresentano invece i poli fondamentali della dialettica tra universale e particolare che fonda ogni operazione interpretativa: affinché ci sia comunicazione, è infatti necessario che un elemento individuale si stagli su uno sfondo comune all’autore e al lettore, l’universale. In certe circostanze particolari – suggerisce Schleiermacher – si può decidere di privilegiare un aspetto a scapito dell’altro. Ad esempio, un testo può essere letto come esemplare di una data lingua, qualora lo si impieghi per l’apprendimento della medesima: in questo caso, l’individualità dello stile dell’autore può essere trascurata. L’opposto è costituito da quei casi in cui, leggendo un’opera, ci si sofferma esclusivamente sulla sua specificità artistica, indipendentemente dalla base grammaticale oggettiva. Tuttavia, Schleiermacher è consapevole del fatto che, per quanto originale, un’opera è sempre condizionata dalla lingua di cui si avvale l’artista. Dunque, per rimanere fedeli alla concreta esperienza dell’interpretazione, occorre tenere presenti entrambi gli aspetti citati: oggettività della lingua e soggettività dell’autore. A questo proposito Schleiermacher riconosce due tipi di interpretazione, grammaticale o obiettiva, e tecnica o psicologica.
L’interpretazione grammaticale fissa i confini oltre i quali il discorso particolare non può andare: le regole della lingua impiegata dall’autore. Attraverso uno studio di tipo filologico e comparativo, l’interprete ricolloca il testo nel suo contesto storico originario, ricostruendo le norme grammaticali e stilistiche alle quali l’autore si è attenuto nella stesura della sua opera. Implicita in questa affermazione è la convinzione che lingue diverse implichino diversi modi di esperire il mondo.
Per comprendere infine l’uso idiosincratico che l’autore fa della lingua occorre impiegare un metodo interpretativo distinto, il metodo tecnico o psicologico, consistente nel cogliere l’unità ispiratrice dell’opera come totalità organizzata. L’interprete scopre così la peculiarità dell’opera, in quanto manifestazione dello stile individuale dell’autore. Egli riesce così a ricostruire il “pensiero fondamentale” dell’opera nonché la “decisione germinale” dell’autore, per poi distinguere all’interno della catena delle riflessioni scritte i “pensieri fondamentali” da quelli “complementari”.
La ripartizione dell’interpretazione in due livelli distinti, ma profondamente intrecciati, proposta da Schleiermacher viene ripresa da August Böckh, suo allievo all’università di Halle, che nell’Enciclopedia e metodologia delle scienze filologiche (1877) suddivide ulteriormente i compiti assegnati all’ermeneutica. Accanto all’interpretazione grammaticale, interessata al senso letterale delle parole, Böckh individua un’interpretazione storica che definisce il senso delle parole in relazione all’ambiente concettuale nel quale l’opera è inserita. Al contrario sul versante delle “condizioni soggettive della comunicazione”, l’interpretazione individuale, che muove dal soggetto in sé, è per Böckh strettamente collegata all’interpretazione generica, che ricostruisce gli scopi perseguiti dall’autore nella stesura del testo e il modo in cui tali scopi prendono forma nell’opera letteraria.
A tutti i livelli dell’interpretazione la comprensione procede secondo un movimento circolare che va dalle parti che compongono il testo al tutto e, viceversa, dal tutto alle parti. Nelle Origini dell’ermeneutica, Dilthey si riferisce a questo procedimento con il termine di “circolo ermeneutico”. Schleiermacher è il primo a occuparsi in maniera estesa della natura circolare del comprendere, sebbene questa idea si ritrovi in forma abbozzata negli scritti di alcuni autori precedenti.
Il filologo Ast (1778-1841), ad esempio, nei Lineamenti fondamentali della grammatica, dell’ermeneutica e della critica (1808) sostiene che i particolari che compongono un testo possono essere compresi solo alla luce di un presentimento indeterminato circa il senso generale dell’opera, mentre con il procedere dell’interpretazione dei particolari tale idea confusa va chiarendosi fino a raggiungere uno stato di completa autoevidenza. L’interpretazione può dirsi definitivamente conclusa nell’istante in cui il lettore riconosca dentro di sé lo spirito che è deposto nell’opera. Alla base di questa concezione vi è l’idea che, “così come l’unica luce infinita si divide in mille colori che tutti dall’Uno sgorgano”, ogni prodotto della cultura umana può essere fatto risalire a un unico spirito, di cui i testi non sarebbero che altrettante manifestazioni particolari. Inoltre, siccome ognuno porta in sé il germe dello spirito universalmente condiviso dagli uomini, è possibile afferrare l’individualità altrui attraverso un confronto con se stessi.
Come Ast, Schleiermacher è consapevole del fatto che “nessun oggetto di interpretazione può essere compreso tutto in una volta, ma che ogni lettura arricchisce le preconoscenze necessarie a metterci al livello dell’autore e ci pone in condizione di capire meglio”. Così, per comprendere il significato di una parola bisogna considerare il contesto in cui essa è inserita ma, d’altra parte, il contesto stesso è fatto di parole che devono essere interpretate. Analogamente, l’opera dev’essere letta sullo sfondo di ciò che il lettore sa sulla personalità dell’autore, sul suo stile, e a sua volta la personalità dell’autore si precisa meglio attraverso la lettura dei suoi scritti.
Diversamente dal circolo ermeneutico teorizzato da Ast, tuttavia, quello di cui parla Schleiermacher rimane un circolo aperto: per Schleiermacher interpretare un testo significa avvicinarsi per approssimazioni progressive a una totalità di senso, che tuttavia non viene mai afferrata definitivamente. Il compito che Schleiermacher assegna all’ermeneutica non è più allora quello di fornire regole metodologiche utili per giungere a una corretta interpretazione dell’opera, bensì di predisporre l’interprete ad assumere un atteggiamento di autentico ascolto nei confronti del testo onde poterlo completare nel proprio intimo.
77. (...) Il comprendere contiene in sé due elementi, il cogliere la singolarità e il ricollegare il particolare al tutto di un’intuizione, di una sensazione o di un’idea: il dividerlo nei suoi elementi o caratteristiche e il ricollegare ciò che è stato diviso nell’unità dell’intuizione o del concetto. Pertanto anche lo spiegare si basa sullo sviluppo del particolare o del singolare, e sul ricondurre questo singolare all’unità. Il comprendere e spiegare è dunque un conoscere e un capire concettualmente.
78. Anche qui si affaccia il circolo di cui si è parlato, secondo cui il particolare può esser compreso soltanto tramite il tutto e viceversa il tutto può esser compreso solo attraverso il particolare, e secondo cui l’intuizione o il concetto devono essere anteriori rispetto alla conoscenza del particolare, e tuttavia è tramite questo che l’intuizione o il concetto paiono formarsi. Come sopra, anche qui questo circolo può essere risolto soltanto se l’unità originaria del particolare e dell’universale, del singolo e del tutto, viene riconosciuta come la vera vita di entrambi. Allora in ciascun singolo elemento c’è già lo spirito del tutto, e più procede lo sviluppo della singolarità, tanto più chiara e viva diviene l’idea del tutto. Anche qui lo spirito non si produce collegando fra loro le singolarità, ma vive già originariamente nel particolare, e questo è così vera rivelazione dello spirito del tutto.
79. Così, nella spiegazione di un’intera opera o anche di una singola parte di essa, l’idea del tutto si produce non in primo luogo col porre insieme tutti i suoi elementi (caratteristiche) particolari, ma viene risvegliata, già nell’afferrare la prima particolarità, in colui che è capace di giungere all’idea, e poi in modo sempre più chiaro e vivo quanto più procede la chiarificazione del particolare. La prima forma in cui l’idea del tutto viene colta tramite il particolare è come un presentimento, cioè una conoscenza preliminare dello spirito, indeterminata e ancora non sviluppata, che diviene conoscenza chiara e intuitiva nel procedere della comprensione del particolare. Quando poi la sfera del particolare è superata, allora emerge l’idea, che nel primo atto del comprendere era ancora presentimento, ed emerge come unità chiara del molteplice dato nella particolarità: la comprensione e la spiegazione sono complete.
80. Il comprendere e lo spiegare un’opera sono dunque un vero e proprio riprodurre o ri-formare ciò che già è stato formato.
Il pensiero ermeneutico: testi e materiali, a cura di M. Ravera, Genova, Marietti, 1986
Il lavoro di Schleiermacher passa essenzialmente sotto silenzio fino alla sua riscoperta fatta da Wilhelm Dilthey che gli dedica, tra l’altro, un’amplissima biografia rimasta incompiuta. Dilthey celebra l’importanza del metodo ermeneutico nell’Introduzione alle scienze dello spirito (1883), dove parte dalla constatazione della fondamentale diversità tra scienze della natura (Naturwissenschaften) e scienze dello spirito (Geisteswissenschaften) per definire le diverse modalità conoscitive che le fondano. L’atteggiamento ricettivo assunto da chi interpreta i prodotti della vita spirituale non può essere ridotto, come invece aspirano a fare i positivisti, a quello metodologico-dimostrativo impiegato nelle scienze esatte.
Mentre l’oggetto di studio delle Naturwissenschaften è l’insieme di fenomeni esterni a chi li osserva, le Geisteswissenschaften si occupano dei prodotti spirituali dell’uomo che diventa qui tanto il soggetto conoscente, quanto l’oggetto conosciuto. Tale congenericità di soggetto e oggetto di studio finisce per avere importanti conseguenze sul piano epistemologico: l’incontro con l’oggetto risveglia infatti delle potenzialità latenti nel soggetto, il quale “riconosce ciò che è già conosciuto”. Ne deriva che lo scopo delle scienze dello spirito non è, come nelle scienze della natura, quello di spiegare i fenomeni mediante rapporti causali e oggettivi, bensì di riattualizzare l’esperienza vissuta (Erlebnis) di cui l’oggetto reca le tracce.
Se nelle Idee per una psicologia descrittiva e analitica Dilthey ancora cerca nella psicologia la fondazione gnoseologica delle scienze dello spirito, successivamente porrà invece l’ermeneutica al centro della sua “critica della ragione storica”. Nell’Origine dell’ermeneutica (1900) Dilthey definisce la comprensione come quel processo grazie al quale noi conosciamo un’interiorità altrui sulla base di segni percepibili dall’esterno. A seconda dell’interesse che proviamo per l’oggetto della nostra attenzione, il comprendere avrà diversi gradi di profondità. Ma affinché la comprensione possa raggiungere un certo grado di “oggettività”, secondo Dilthey è necessario che il discorso sia fissato per iscritto, così che l’interprete possa ritornarvi sopra a più riprese.
L’interpretazione (o esegesi) viene allora definita il “comprendere le manifestazioni vitali fissate in modo durevole” e l’ermeneutica – in quanto teoria generale dell’interpretazione – diventa per Dilthey l’organo delle scienze dello spirito.
Come già in Schleiermacher per Dilthey comprendere un testo del passato significa trasporsi nella vita psichica del suo autore, abbattendo la distanza temporale che ci separa da lui. L’interprete deve insomma cancellare la propria identità storica, per potere rivivere l’esperienza testimoniata dal testo.
Questa volontà di trasporsi in una psiche estranea non tiene conto del ruolo giocato dall’interprete nel mediare tra passato e presente. Yorck von Wartenburg nel Carteggio intrattenuto con Dilthey tra il 1877 e il 1897, nonché nel frammento dal titolo Coscienza e storia, pone le basi per il superamento della visione “oculare” della storiografia, come tendenza a considerare il passato quale inerte cosa in sé che l’interprete possa resuscitare senza mettere in gioco la propria stessa storicità. Egli afferma che al contrario il rapporto che noi intratteniamo con il passato è un rapporto di viva appartenenza e di appropriazione. La coscienza della determinazione storica dell’interprete mette radicalmente in crisi il modello filologico tipico dell’ermeneutica ottocentesca, inaugurando un capitolo nuovo della teoria ermeneutica che culminerà nel Novecento con l’opera di Heidegger.