SCHIPA, Raffaele Attilio Amedeo detto Tito
– Nacque a Lecce, in vico dei Penzini 6, il 2 gennaio 1889 (ma una vulgata, peraltro non avvalorata dal figlio, Tito jr, colloca la nascita al 27 dicembre), figlio di Luigi, guardia daziaria, e di Isabella Vallone, detta Antonietta, ultimo di quattro fratelli, Elvira, Umberto, Carlo.
Nel coro locale la voce e l’intonazione del ragazzo attirarono l’attenzione del maestro Giovanni Albani; già il 29 luglio 1899 fu segnalato dalla Gazzetta di Lecce per gli assoli nei concerti. Nel 1902 lo ascoltò monsignor Gennaro Trama, vescovo di Lecce, melomane, che convocò i genitori di ‘Titu’, cioè ‘piccoletto’ (era di bassa statura), offrendogli un’educazione completa (anche musicale) in seminario. La presenza nell’istituto religioso non è documentata, mentre la tradizione allude a numerose esibizioni locali in piccolissime parti. I sei anni di studio con Alceste Gerunda, già allievo di Saverio Mercadante, diedero a Schipa un saldo controllo della tecnica vocale. Il 22 giugno 1908 una beneficiata fruttò una somma che consentì a Schipa di recarsi a Milano e prendere lezioni da Emilio Piccoli, il quale seppe far crescere una voce per certi versi ancora adolescenziale.
Dopo il debutto al teatro Facchinetti di Vercelli (4 febbraio 1909: Alfredo nella Traviata), la carriera iniziò l’anno dopo al Sociale di Crema, poi al Greco di Lecce, con un’accoglienza contrastata da opposte tifoserie locali. Fu subito intensa, sulle piazze di provincia o su ribalte minori delle grandi città: nel 1910 fu il Duca di Mantova (Rigoletto) al Mastroieni di Messina, Maurizio di Sassonia (Adriana Lecouvreur) al Sociale di Crema, Milio (Zazà) e Faust (Mefistofele) al Greco di Lecce, Faust (Gounod) al Comunale di Bozzolo; nel 1911 Ernesto (Don Pasquale) al Politeama di Terni, Werther (Massenet) e Turiddu (Cavalleria rusticana), Elvino (La sonnambula) al Quirino di Roma, Fra Diavolo (Auber) al Sangiorgi di Catania; nel 1912 Cavaradossi (Tosca) al Biondo di Palermo, Edgardo (Lucia di Lammermoor) e Fernando (La favorita) alla Fenice di Trieste; a dicembre debuttò al Dal Verme di Milano. Nel dicembre 1913, dopo la prima di molte acclamatissime tournées in Sudamerica, debuttò al San Carlo di Napoli come Fenton (Falstaff), seguito da Cavaradossi, Loris (Fedora) e Giorgio (Marcella) di Giordano, ottenendo strepitosi successi e sfidando nel suo stesso teatro Fernando De Lucia. Vi tornò nel 1914, dopo un’altra parentesi americana. Nell’autunno del 1915 fu al Dal Verme per La traviata e Falstaff, diretto da Arturo Toscanini; in dicembre debuttò alla Scala nel Principe Igor di Aleksandr Borodin, seguito nel gennaio 1916 da Manon. Al Costanzi di Roma, il cui pubblico ebbe speciale predilezione per Schipa, diede La bohème, Manon, La traviata, Il barbiere di Siviglia. Sull’onda del successo montante, nel 1917 debuttò con trionfale successo al Liceu di Barcellona e al Real di Madrid in Manon, succedendo nel cuore dei madrileni a un altro idolatrato tenore italiano, Giuseppe Anselmi, e palesando una naturale attitudine per la lingua spagnola, che seppe poi utilizzare nel repertorio leggero. Nel 1917 partecipò alla prima della Rondine di Giacomo Puccini al Grand Théâtre di Montecarlo. Qui conobbe Antoinette (Lilì) Michel d’Ogoy, che sposò nel 1919; dall’unione nacquero Liana ed Elena.
In America fu messo sotto contratto dall’Auditorium di Chicago: il soprano Mary Garden, in veste di manager, riconobbe le risorse artistico-vocali di Schipa e vide in lui il successore di Enrico Caruso, la cui voce manifestava i segni del declino (sarebbe morto nel 1921). Il debutto avvenne il 4 dicembre 1919 nello storico Rigoletto con Amelita Galli-Curci e Carlo Galeffi; seguirono Tosca, Manon, Il barbiere di Siviglia, La sonnambula, Don Pasquale. Gli anni Venti furono segnati dai trionfi statunitensi, che a Schipa procurarono una fama planetaria. Accanto alle recite operistiche, tutte a Chicago, Schipa diede di continuo concerti di arie e canzoni in numerosissime città della provincia americana. Fu un’epoca di successi strepitosi, seguiti dalla stampa e dai cinegiornali, di guadagni vertiginosi, con cachet pagati in lamine d’oro, e di spese pazze, per esempio per acquistare una lussuosa villa a Beverly Hills, oltre alle proprietà comprate in Italia a uso di una famiglia che viveva alle sue spalle. Schipa, che non dimostrò mai talento per gli affari, fuorché quelli rovinosi, entrò così in un tunnel che lo ridusse in condizioni economiche precarie, inseguito dai debitori, e però incapace di dare ordine a una vita di lussi e sprechi. I rotocalchi si occuparono delle sue stravaganze, del tourbillon di donne (fu chiamato il Rodolfo Valentino della lirica), delle avventate dichiarazioni politiche a favore di Benito Mussolini e del fascismo (che gli costarono poi gravi conseguenze), delle conoscenze discutibili, tra cui esponenti della malavita di Chicago, frequentate nei lussuosi ambienti del dopo teatro. Ma per la simpatia e l’eccezionale bravura tutto gli venne perdonato. Grazie ai suoi appoggi il fratello Carlo intraprese una discreta carriera di attore cinematografico; gli fece poi da agente.
Dopo aver cantato a New York su numerose ribalte minori, scioltosi dal contratto con Chicago, debuttò al Metropolitan il 23 novembre 1932, con il Barbiere di Siviglia; vi tornò fino al 1933 e poi nella stagione 1940-41, in Don Giovanni, Don Pasquale, L’elisir d’amore, Lucia, Manon, Mignon, La sonnambula, La traviata e in alcuni galà e concerti. L’attività statunitense, cui aggiunse le piazze di San Francisco e Los Angeles, non gli impedì di prodursi regolarmente in America Latina, da San Paolo a Rio de Janeiro a Buenos Aires, dov’era adorato. Fu spesso in Italia, tra l’altro alla Scala dal 1933 al 1937, all’Opera di Roma, al Carlo Felice, alla Fenice e su ribalte minori; amico fraterno del conterraneo Achille Starace, segretario del Partito nazionale fascista, fu corteggiato dal regime. Nel 1929 iniziò una carriera cinematografica: ebbero successo Tre uomini in frac (1932), diretto da Mario Bonnard, con Assia Noris, Peppino ed Eduardo De Filippo, e poi Vivere! (1936), dove impose Caterina Boratto, con la quale ebbe un’intensa e burrascosa relazione, interrotta nel 1944. Tra gli altri film andrà ricordato In cerca di felicità (1943), di Giacomo Gentilomo, dove recitò con Alberto Rabagliati, il cantante leggero che stava svecchiando lo stile esecutivo della canzone italiana, allora dominata da voci di impostazione lirica.
Dal 1942 l’attività si fece quasi esclusivamente italiana. Si legò a Teresa Jolanda Borgna, in arte Diana Prandi (nata nel 1924 a Cardellini nelle Langhe). Nell’inverno del 1945 si produsse nel Nord d’Italia; nell’autunno successivo, dopo un giro di concerti, fu all’Opera di Roma con L’elisir d’amore, L’Arlesiana, Werther, Lucia, Don Pasquale. Ma la vicinanza al regime gli costò attimi di autentica paura: rischiò l’arresto, e i teatri italiani gli preclusero l’accesso. Nel 1946 intraprese allora una serie di recite in Portogallo: a Lisbona il 18 aprile nacque Tito jr dalla relazione con la Borgna, poi regolarizzata anche con rito religioso dopo l’avvenuto divorzio dalla prima moglie. Tra il 1946 e il 1947 compì una lunga tournée di concerti, da Bruxelles all’America Latina, poi a Boston, Filadelfia, Pasadena, New York, di nuovo in America Latina e ancora a Londra e in Scandinavia. Il ritorno negli Stati Uniti fu segnato dai violenti attacchi mossigli dall’anchorman Walter Winchell, in una campagna d’odio politico che ne incrinò seriamente l’immagine. Alla fine del 1947 fu riammesso alla Scala con L’elisir d’amore, cantato nel gennaio del 1948 anche all’Opera di Roma; vi si aggiunse uno storico Werther. Stanco e diabetico, Schipa, spinto anche dal bisogno di denaro – era rimasto vittima di nuove truffe, tra cui quella dell’Editrice Lanterna, cui aveva prestato con leggerezza la firma e il nome –, continuò una forsennata attività concertistica, con sporadiche recite operistiche; ma i grandi teatri non fecero più affidamento su di lui. Dal 1950 tenne concerti su ribalte illustri e in provincia. Nel 1957 accettò di presiedere la giuria canora nel Festival della gioventù di Mosca, frequentando poi con disinvoltura l’ambasciata russa in Italia, senza rendersi conto che in anni di guerra fredda si sarebbe potuto attirare spietate critiche; il vescovo di Lecce gli interdisse il canto in chiesa per la festa di sant’Oronzo. Per converso nel 1958 Schipa si iscrisse al partito monarchico. Concluse la carriera nel 1963 con un concerto al Teatro da Trindade di Lisbona.
Morì il 16 dicembre 1965 al Wickersham Hospital di New York, dov’era stato ricoverato d’urgenza il 30 novembre.
Nel certificato fu curiosamente qualificato come veterano di guerra, forse per essere stato, come Caruso, nominato capitano onorario della Polizia di New York. Il 30 dicembre la salma approdò a Napoli, poi traslata a Lecce. Schipa fu sepolto nel locale cimitero (dai suoi scritti testamentari risulta che avrebbe voluto essere cremato e sepolto a Roma).
Il figlio Tito jr è cantautore, compositore, attore, produttore, autore della prima opera rock, Orfeo 9 (Roma, teatro Sistina, 23 gennaio 1970).
Il successo planetario di Schipa fu alimentato dal disco, al quale si accostò da debuttante a Milano per la Fonotipia, poi per la Pathé a Milano nel 1916 e nel 1919, e a New York nel 1921. Seguì la serie dei Victor (Stati Uniti), realizzata tra il 1922 e il 1930, che contiene splendide incisioni di pagine operistiche e canzoni. Alla Victor (Argentina) degli anni Trenta appartiene la serie dei tanghi; sono della massima importanza le incisioni per la Società nazionale del Grammofono di Milano degli anni Trenta-Cinquanta con Schipa interprete della canzone melodica italiana, come tale amatissimo da quella fascia di pubblico che non si rivolge all’opera se non per l’ascolto della romanza. Agli anni Cinquanta appartengono un gruppo di canzoni napoletane incise per la Durium e poi per la casa discografica sovietica Melodija. Per iniziativa di Rodolfo Celletti nel 1981 è apparsa in LP una selezione dell’ultimo Werther romano, documento artistico e storico di valore inestimabile.
Nel film già ricordato In cerca di felicità, Schipa recita la parte di Francesco, un maturo tenore maestro che insegna il canto a Massimo, un giovane di belle speranze (Rabagliati). Per fargli comprendere quel che dovrebbe fare, dopo avere eseguito una frase di esempio, dice: «La base del canto è la parola con il suono. Si canta come si parla aggiungendo alla parola la melodia. Sembra facile; ma non lo è». Il segreto di Schipa consiste in questa semplice regola, nella realizzazione di un ‘recitar cantando’ dove la parola intonata incontra il suono e si fa canto in assoluta naturalezza: è l’arte dei fine dicitori appresa da Gerunda (non a caso considerato da Paolo Francesco Tosti esecutore inarrivabile di romanze da camera), innestata sulla lezione belcantistica derivatagli dalla scuola napoletana di fine Ottocento, incline all’elegia e al lirismo: qualità che nella voce di Schipa trovarono spontanea accoglienza. Si trattava di una voce particolare, non estesa, debole nel centro, eppure penetrantissima, capace di delicati colori, ma anche di accenti perentori. Ne sortiva uno stile di canto singolarissimo, che un autorevole esponente della critica inglese (Scott, 1979) guardò sempre con un certo sospetto, non reputandolo del tutto ortodosso. Esso fu invece idolatrato dal pubblico ed è apprezzato da critici insigni come Celletti e Michael Aspinall, che vedono in Schipa uno dei massimi tenori d’ogni tempo. Franco Serpa, dall’alto di una profonda cultura classica, sente rinnovarsi in forma moderna nel canto di Schipa quell’abbandono melico che dovette pervadere l’antica poesia, e nel genere della canzone gli ha riconosciuto un’assoluta preminenza, da tanti imitata.
Schipa seppe piegare questa sua voce piccola ma incisiva a una ricchissima gamma di tinte e colori, e adattare a esigenze diverse una tavolozza timbrica sostenuta da una dizione preclara. Con la cocente, autentica sensualità di cui era capace eccelse nell’opéra lyrique, in Mignon, Manon, Faust, Lakmé e soprattutto nel Werther, che secondo l’uso del tempo cantava in italiano. Fu lui a inaugurare il filone degli interpreti italiani di Massenet, Ferruccio Tagliavini, Cesare Valletti, il primo Alfredo Kraus che poi, mutati i gusti, si indirizzò alla versione francese e seppe trasfondervi la lezione di Schipa. Con una recitazione immobile, il suo canto estatico dava corpo allo spleen che ammorba il protagonista, capace però di arroventarsi nel duetto con Carlotta e di morire con decadente voluttà. Il successo di questa interpretazione fu tale che Beniamino Gigli si astenne dal cimentarsi nell’opera di Massenet. Schipa si segnalò in alcuni personaggi del primo romanticismo italiano (il Conte d’Almaviva, Elvino, Nemorino, Edgardo, Fernando, Ernesto), prestando loro una forte intensità lirica, sebbene, come tutti i tenori coevi, rimase ovviamente estraneo al recupero della vocalità primo-ottocentesca poi perseguito dalle generazioni successive. Fu brillantissimo Duca di Mantova, elegante, libertino, insolente, amatore, tombeur de femmes, un appassionato Alfredo, un delicato Fenton: non mancò l’appuntamento con Fra Diavolo, tappa obbligata per ogni tenore lirico-leggero. Si accostò al Puccini di Madama Butterfly, della Bohème, di Tosca, sebbene alla sua voce non si attagliassero le espansioni di Cavaradossi. Il suo contributo alla Giovane Scuola interessò sia L’Arlesiana – la riprese nel 1932 al teatro Verdi di Trieste alla presenza di Cilea, dando del ‘Lamento’ di Federico un’esecuzione mirabilmente intrisa del belcantismo crepuscolare che caratterizza la pagina – sia Marcella di Giordano, che ripropose autorevolmente alla Scala nel 1938 e di cui incise la romanza Dolce notte misteriosa (poi più volte proposta su disco da celebri tenori, desiderosi di misurarsi con Schipa).
Scrisse anche un’operetta, La principessa Liana, da lui diretta in quattro occasioni, nel 1935 a Roma e Lecce, l’anno dopo a Milano e Torino.
Fonti e Bibl.: T. Schipa, S. si confessa, Roma 1961 (con note critiche di R. Celletti); R. Celletti, Schipa, Tito, in Le grandi voci, Roma 1964, p. 227; D. Faivre, Un attimo d’illusione, in La Gazzetta del Mezzogiorno, Lecce, 3 gennaio 1966; M. Scott, The record of singing, II, London 1979, pp. 98-101; T. Schipa jr, Tito Schipa, Firenze 1993; M. Selvini - G. Landini, Tito Schipa, in Grandi voci alla Scala, Milano 1993, pp. 1-12; F. Armentano, Conversaciones con Tito Schipa, Buenos Aires 1998; G. Carluccio, T. S. L’usignolo d’Italia, in L’Esperto, dicembre 1999, n. 2, pp. 14 s.; Id., Tito Schipa L’“usignolo d’Italia”, in F. Capone, Lecce che suona, Cavallino 2003, pp. 33-38;T. Schipa jr, Tito Schipa, Lecce 2004; G. Carluccio, I “tesori” del grande Tito Schipa alla città, in La Gazzetta del Mezzogiorno, 10 giugno 2006; Id., Tito Schipa un leccese nel mondo, Lecce 2007; P. Padoan - M. Tiberi, Giovanni Martinelli: un leone del Metropolitan, Roma 2007, ad ind.; G. Carluccio, Tito e il “suo dono” alla città, in Il Corsivo, Lecce, 23 ottobre 2008; J. Kesting, Die großen Sänger, Kassel 2010, pp. 570-574; Tutte le registrazioni, Niero 2010 (31 CD, con note introduttive al cofanetto di G. Gualerzi, G. Landini, E. Martucci); M. Aspinall, L’inimitabile S., in Musica, giugno 2011, n. 277, pp. 40-46; Tito Schipa, dal cante jondo di García Lorca alle canzoni spagnole di Tito Schipa, a cura di M. Mura, Lecce 2012, passim; G. Carluccio, Un salentino nel mondo: Tito Schipa, in Divine tavole, a cura di S. Famularo, Lecce 2015, pp. 63-70; S. Zucker, Franco Corelli: a revolution in singing, I, New York 2015, ad ind.; Canto per te, a cura di E. Martinelli, Lecce 2016 (con saggi di M. Aspinall, G. Bianchini, G. Carluccio, M. De Giorgi, A. Laporta, E. Martinelli, P. Menarini e altri); http://www.titoschipa.it/ (con documenti, immagini, registrazioni, 12 gennaio 2017).