CURTE (Corte), Sceva de
Pavese, giureconsulto, nato presumibilmente all'inizio del XV secolo, si mostrò fin dalla morte di Filippo Maria Visconti (13 ag. 1447) favorevole a Francesco Sforza, già legato a lui da amicizia, che egli invitò ad occupare Pavia. Lo Sforza divenuto duca di Milano, lo utilizzò ben presto nell'amministraziobe civile e militare e in missioni diplomatiche. Morto il 1° ott. 1450 Leonello d'Este, infatti, il C. fu inviato, insieme con il vescovo di Novara, a recare le condoglianze del novello duca di Milano, con un seguito di sei cavalli e con i famigli vestiti "de bruna"; ricevette per questa missione 24 braccia di velluto "afigurato" nero. Il 12 ottobre diveniva castellano del castello di S. Antonino di Piacenza.
Appena pervenuto al potere, Francesco Sforza ebbe l'immediata cura - che rimase costante e frustrata durante tutta la sua vita - di rivolgersi all'imperatore per ottenerne l'investitura. Da un registro di Cancelleria il C. risulta inviato in Germania già l'11 marzo 1450. In effetti, invece, egli partì nel dicembre, dopo che il giorno 4 lo Sforza lo aveva creato suo procuratore per compiere una missione diplomatica presso Federico III. Prestatogli omaggio egli doveva scusare lo Sforza di non averlo fatto personalmente e chiedere - scopo principale della missione - l'investitura del ducato. Nelle speranze dello Sforza c'era inoltre quella di poter contrarre una lega difensiva ed offensiva con l'imperatore. Quest'ultimo sembrò accogliere favorevolmente il C., giunto il 1° gennaio a Neustadt e ricevuto il 13, ma il suo atteggiamento rivelò subito l'intenzione di non accondiscendere ai desideri dello Sforza.
Le trattative il C. le condusse praticamente con i consiglieri dell'imperatore, che dimostrando un imbarazzante interesse per i doni personali, si informarono se lo Sforza si sarebbe contentato del titolo di vicario imperiale. Egli rifiutò recisamente la proposta, ma dovette elencare i non incontrovertibili "fundamenti" su cui si basava il diritto dello Sforza a ricevere l'investitura di duca. Da parte dei delegati del sovrano si saggiò anche il C. per sapere quanto lo Sforza sarebbe stato disposto a pagare l'investitura e se egli, visto che non aveva grandi disponibilità finanziarie, avrebbe ceduto Parma in pegno fino al completamento del pagamento. Le lungaggini delle trattative e forse anche l'ostilità che lo circondava indussero allora il C. a consigliare allo Sforza di stringersi in lega con Giovanni Hunyadi e con Sigismondo, duca del Tirolo, piuttosto che con Federico III. Il 5 febbraio egli, che qualche giorno prima aveva scritto sollecitando il proprio richiamo, non volendo piantare "le radici fin al di del iudicio", ricevuto dall'imperatore, formulò per mezzo di un notaio una protesta ufficiale. Tuttavia nel marzo era ancora a Neustadt e un atto dello Sforza - che aveva finalmente inteso quale era il perno della questione - del 13 marzo, lo abilitava a contrattare una somma di denaro per ottenere l'investitura, che non doveva superare i 20.000 ducati, da pagarsi in quattro anni o al massimo i 25.000 in cinque. Il C. doveva inoltre ricordare all'imperatore che un'alleanza con lo Sforza gli avrebbe procurato oltre al suo, l'appoggio dei Piorentini e del marchese di Mantova, facendo osservare invece che i Napoletani erano alleati troppo lontani ed i Venegiani troppo infidi.
Il capitolato che il C. firmò a nome dello Sforza, insieme con E. S. Piccolomini, che trattava per l'imperatore, risolse, ma solo sulla carta, tutti i problemi, in quanto in base ad esso l'investitura sarebbe stata conferita dall'imperatore stesso a Milano allo Sforza, il quale a sua volta avrebbe dovuto pagare le spese a lui ed al suo seguito nel viaggio in Italia, della durata di non più di tre mesi. Il capitolato non fu mai ratificato, ché lo, Sforza non era assolutamente in grado di far fronte a un impegno così gravoso, ed è strano che il C., che tornò a Milano nella prima quindicina di giugno, non sia stato in grado di valutarlo. Tuttavia non si ritenne la sua missione una prova negativa, se il 18 luglio di quell'anno il C. fu nominato commissario di Piacenza e l'8 dicembre membro del Consiglio segreto "ad beneplacitum".
Com'è noto, agli inizi del 1452 l'imperatore iniziò il suo viaggio in Italia. Il C. non fu inviato subito incontro all'illustre ospite, perché egli era allora a Bologna, dove trattava, con una segretezza che lo Sforza avrebbe voluto più assoluta, le nozze fra Sante Bentivoglio e Ginevra, nipote del duca di Milano. Prima che il matrimonio, fosse, con estrema rapidità, celebrato (8 marzo) il C. si portò a Firenze, dove doveva comunicare lo stato delle trattative bolognesi agli alleati. Era già lì il 16 gennaio e lì, dopo essersi unito ai suoi colleghi Niccolò Arcimboldi e Giacomo Trivulzio, incontrò l'imperatore. Avevano l'incarico di accompagnarlo a Roma e di ossequiarlo a nome del duca in ogni modo; dovevano anche invitarlo in Lombardia.
Partito Federico III per Siena, i tre inviati lo raggiunsero dopo un giorno e furono il 10 febbraio ricevuti da lui. Fu da quel momento che i tre incominciarono una scoperta e irritante lotta per la precedenza con gli ambasciatori veneziani, che non rifuggì - ad opera proprio del C. - da "rebuffi" fatti ai veneziani in presenza dell'imperatore e da proteste verbali e scritte allo stesso. Arrivati a Roma, nell'udienza che accordò loro Niccolò V il 7 marzo, dove si recarono insieme con l'ambasciatore residente, Nicodemo Tranchedini, e con gli oratori fiorentini, oltre a ricordare al papa che sarebbe stato giusto che l'imperatore cingesse la corona ferrea a Milano o a Monza, non mancarono di ripresentargli la questione della precedenza.
Tuttavia, quando l'imperatore e l'imperatrice, entrarono solennemente a Roma, i legati milanesi furono posposti a quelli veneziani. Lo Sforza non aveva che da dolersi dei risultati, che stavano delineandosi, della missione ed ai suoi rimproveri gli oratori cercarono di giustificarsi con lui. Il 16 marzo, dopo essere stati assenti alla prima incoronazione di Federico (come poi fecero anche alla seconda), presentarono una protesta formale al papa, rivolta a lui e all'imperatore, perché questo non aveva cinto la corona ferrea a Milano.
Partito l'imperatore per Napoli i tre oratori rimasero a Roma ad attenderlo e nel frattempo si abboccarono con il pontefice, ricevendo dal colloquio l'impressione di non poter in alcun modo contare su di lui per un miglioramento dei rapporti fra lo Sforza e Federico III. Proprio il C., che era stato il più vivace sostenitore dell'"onore" milanese, tanto che fin da quando gli oratori si trovavano a Firenze egli aveva espresso la sua deliberazione a "zugare le cortellate" piuttosto che patire "vergogna", aveva cercato e riferito informazioni e confidenze sul comportamento del papa e sui sentimenti dell'imperatore. Ad ogni modo, anche a non voler attribuire ai tre oratori la responsabilità di avvenimenti, quali la mancata concessione dell'investitura da parte dell'imperatore e la sua incoronazione a Roma anziché a Milano, che certo travalicavano quanto era in loro potere operare, il loro modo di procedere non era stato esente da critiche e obiettivamente, la situazione, affidata alle loro cure, era invece che migliorata, peggiorata. Consapevoli, essi stessi chiesero al duca di diminuire il loro numero e furono il C. e il Trivulzio che, richiamati, lasciarono la città ai primi di aprile. Il C. si portò, prima di tornare a Milano, a Siena, che lo Sforza non riuscì a muovere dalla sua neutralità. Già dal febbraio il C. era stato nominato capitano della cittadella di Piacenza, di cui aveva fatto luogotenente il fratello Benedetto.
Nell'ottobre del 1453, quando la guerra fra Milano, sostenuta da Firenze, e Venezia, alleata di Napoli, era in atto da piú di un anno, il papa, anche perché sotto la dolorosa impressione causatagli dalla caduta di Costantinopoli, volle interporsi fra le potenze italiane per ricondurle alla pace e indisse una conferenza a Roma fra i rappresentanti dei belligeranti. Il duca di Milano, con istruzioni datate 21 ottobre, inviò il C. e Giacomo Trivulzio, che dovevano prima passare da Firenze e congiungersi con gli ambaciatori fiorentini. Anche se le operazioni militari erano abbastanza favorevoli allo Sforza, tuttavia anch'egli avrebbe conseguito un indubbio vantaggio dal ristabilimento della pace: ciononostante questo non poteva avvenire che a determinate condizioni.
Gli oratori, a cui era raccomandata estrema cautela per la diffidenza che si nutriva nei confronti dei Veneziani, dovevano chiedere la restituzione di Brescia con il Bresciano, Bergamo con il Bergamasco, Ghiaradadda, Crema, Valle San Martino, Valsassina e i passi d'Adda e quanto era stato precedentemente del ducato di Milano; così si pretendeva la restituzione di quanto, già appartenuto a Filippo Maria Visconti, era ingiustamente detto duca di Savoia. In ogni modo le richieste a ciascuna delle parti erano lontane da quanto gli avversari fossero disposti a concedere invano il papa si adoperò per addivenire ànche a paci separate o almeno ad una tregua. I Milanesi erano in effetti resi più intransigenti dai successi militari che lo Sforza conseguiva in Lombardia e Niccolò V non mancò di notarlo con amarezza, apostrofandoli: "Vuy, oratori milanesi, perché sete suso uno poco de victoria ve credete essere suso il polo antartico che sta sempre firmo...". Essi tuttavia non si facevano illusioni e avevano netta la sensazione che la conferenza non avrebbe avuto esiti positivi e. che la pace sarebbe andata "omnino in fumo". Cosa che anche il papa dovette infine ammettere dando licenza agli oratori dei paesi belligeranti; cosicché il C., insieme con il Trivulzio e gli oratori fiorentini, il 20 marzo 1454 partì da Roma.
Per il C., che nel gennaio e nel febbraio aveva avuto uno scambio di lettere con E. S. Piccolomini, durante il quale si era riparlato dell'investitura del ducato, neanche questa missione, totalmente negativa sul piano pubblico, fu del tutto positiva sul piano personale. Infatti nel febbraio Nicodemo Tranchedini aveva scritto al duca che egli non teneva un comportamento irreprensibile nei confronti del Trivulzio e che nel complesso non era in grado di trattare questioni così delicate. In ogni modo, dopo il conseguimento della pace, avvenuto, com'è noto, per vie meno ufficiali, l'8 agosto il C. riceveva dal duca la cittadinanza milanese.
Continuò ad esercitare con assiduità la carica di consigliere e quando fu eletto papa Pio II (19 ag. 1458) fu inviato di nuovo a Roma a porgere all'eletto i rallegramenti del duca. Con Ottone Del Carretto qui ebbe rapporti con Niccolò Cusano, che cercò di fare intervenire presso il papa, affinché questi a sua volta si interponesse presso l'imperatore in favore dello Sforza. Era ancora a Roma nell'estate del 1459, dopo essere stato fatto senatore per un anno dal 10 dicembre precedente, quando chiese licenza al papa per poter ritornare a casa per due mesi per affari di carattere privato. L'ottenne, ma subito dopo cadde ammalato; morì a Roma il 14 agosto 1459.
Era stato in buoni rapporti con P. C. Decembrio e con F. Filelfo. P ricordato in una lapide posta nel 1545 nella chiesa dell'Ara Coeli alla memoria di un suo pronipote.
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