SCENOGRAFIA (X, XI, p. 19)
Teatro. - L'intervento di un nuovo personaggio, il regista, non era valso a evitare che negli anni Trenta, dopo una stagione densa di fermenti, la s. europea ripiombasse in un mestiere quasi sempre qualificato ma pressoché privo di autentici impulsi creativi. Se non determinato, questo ritorno alla romtine fu senza dubbio propiziato dall'affermazione dei regimi totalitari che, con premesse ideologiche diverse, arginarono temporaneamente il processo di revisione avviato agl'inizi del secolo.
Germania. - Emblematico l'esempio del teatro di B. Brecht che, stroncato dalla repressione nazista, solo nel dopoguerra, ripreso dal Berliner Ensemble, sarebbe divenuto un punto di riferimento per le forze più vive e impegnate della scena internazionale. Sulla base delle conquiste attuate dalle correnti d'avanguardia, Brecht, già collaboratore di E. Piscator, intorno al 1930 aveva dato vita a un linguaggio nettamente contrapposto al teatro tradizionale da lui definito "teatro gastronomico". Ma, pur utilizzando i mezzi espressivi del dadaismo e del surrealismo, Brecht ne aveva rielaborato i temi in una visione che trascende ogni presupposto di tendenza, così come dell'espressionismo si era limitato a condividere i motivi di fondo: la ricerca dell'essenza delle cose e il rifiuto delle istituzioni borghesi.
Mentre l'impeto della rivolta espressionista si dissolveva nella mistica attesa di un "nuovo regno", Brecht, sostenuto da una precisa coscienza politica, si rivolge alla borghesia della quale demistifica gli aspetti più ipocriti e contraddittori per evidenziarne le misere condizioni esistenziali. Questo compito è affiidato al teatro epico che, nel rifiutare il "sistema" Stanislavskij, configura un tipo di recitazione basato sulla tecnica dello "straniamento", molto vicino al teatro orientale e alla "biomeccanica" di Mejerchol'd. Alla medesima stregua dell'attore, che non "deve dar luogo alla totale metamorfosi nel personaggio", lo scenografo, secondo Brecht, "esentato dal proporre l'illusione di una stanza o di un paesaggio", ha il compito di rappresentare qualcosa di conosciuto e di estraneo al tempo stesso. Se in passato lo spettatore, coinvolto nell'azione, veniva sommerso dall'onda dei sentimenti, nel teatro epico, diretto non più al cuore ma al cervello, il pubblico dev'essere sempre presente a sé stesso per partecipare criticamente all'azione. A tale scopo, gli elementi scenici - concepiti in modo da denunciare la finzione dello spettacolo - invece di amalgamarsi devono risultare distinti, conservando intatta la propria identità. O. Reigbert, T. Otto e C. Neher furono i primi sensibili interpreti di questa s. composita, dove il documento, integrato da proiezioni, era affiancato ai pezzi dipinti e agli elementi più disparati distribuiti, con calcolata efficacia, su un palcoscenico illuminato come un ring da proiettori a vista.
I principi del teatro epico trovarono larga applicazione persino in spettacoli di diverso genere quando, al termine del secondo conflitto mondiale, il realismo di maniera imposto dal nazionalsocialismo lasciò via libera a una scena allusiva composta da pochi elementi simbolici. La funzione preminente della luce ebbe, per es., un ruolo primario negli allestimenti di Bayreuth, per la realizzazione dei quali Wieland e Wolfgang Wagner ripresero i postulati teorici formulati da A. Appia sul finire del secolo Precedente.
Stati Uniti. - Se in Europa le volumetriche composizioni di A. Appia e G. Craig erano servite ad avviare un processo di revisione globale, la mancanza di una solida tradizione fece sì che in America trovassero terreno ancor più fertile. Nel giro di pochi anni, infatti, l'essenzialità quasi astratta dei due maestri europei esercitò un'influenza decisiva sulla s. statunitense orientandola verso un "neoclassicismo" decantato e filtrato che, secondo una linea di sviluppo già seguita nel vecchio continente, si sarebbe affermata innanzitutto nel teatro di prosa e nel balletto.
I primi segni di questa tendenza ancora frammisti a caratteri peculiari della cultura locale si rilevano nel palcoscenico estremamente disponibile e nella scena totale di N. Bel Geddes basati, come tutta la sua opera, sul principio dell'aerodinamica. Ma se i progetti di Bel Geddes - al quale viene attribuita anche l'introduzione dei proiettori in sala - erano destinati a rimanere sulla carta a causa della loro complessa meccanica, diversa sorte toccò ai piccoli teatri off Broadway. I limiti imposti dalle modeste attrezzature di questi locali finirono ben presto col determinare un linguagglo scarno ed essenziale che, pur essendo esemplato sugli schemi appiani, presenta connotazioni assolutamente originali. Precursore dell'insorgente scuola fu R. E. Jones che, dopo breve apprendistato in Europa presso M. Reinhardt, pur senza liberarsi da una facile vena illustrativa, seppe adattare al gusto delle platee americane i postulati estetici di Appia e Craig. Nel 1919, i due gruppi legati a Jones (il "Provincetown Players" e il "Washington Square Players") diedero vita al "Theatre Guild" dove, per opera di L. Simonson, il processo di essenzializzazione della scena venne attuato eon assoluto rigore. L'esempio di Simonson, che articolava spesso su piani sfalsati spazi tridimensionali ricchi di tensione drammatica, ebbe al "Group Theatre" (1931-41) numerosi seguaci, tra i quali emerge la peraonalità di M. Gorelik con una produzione impostata sul doppio binario del dato realistico e della stilizzazione espressiva. Collateralmente, sulla strada di un neorealismo stilizzato, il "Federal Theatre" (1935-39) portava un suo rilevante contributo mediante la divulgazione organizzata dell'opera di H. Bay, M. Essman, J. Pratt, C. Richabaugh, T. A. Craft. La definitiva consacrazione della scuola nordamericana si ebbe con B. Aronson, T. Komissarjevsky, J. Mielziner, D. Oenslager, che introdussero nei circuiti ufficiali dei palcoscenici newyorchesi una scena plastica, semplice e lineare, non estranea alle schematiche strutture del movimento costruttivista e agli effetti di estrazione espressionista.
In questo genere di s., che pur prendendo le distanze dalla tradizione non se ne stacca mai del tutto, l'oggettività barocca, accettata dall'Ottocento con la correzione stilistica, è decisamente respinta. Non più affidato alle fughe prospettiche o alla ricostruzione stilistica, lo spazio scenico viene ora suggerito dall'uso espressivo della luce che, intervenendo sui singoli oggetti, contribuisce a idealizzarli. La funzione degli elementi-base assurti così a valore di simbolo, l'impiego funzionale del colore, la trasfigurazione lirica del dato reale ottenuta con i mezzi tecnici più eterogenei, sono le costanti di un tipo di scena che, per dirla con W. Roth, "deve creare un effetto piuttosto che un'illusione".
Il successo di questa scuola fu anche il motivo principale del suo declino giacché il serbatoio di talenti formato in pochi anni, in pochi anni si sarebbe esaurito per il massiccio esodo degli artisti attratti dal miraggio di Broadway o di Hollywood. I primi segni di ripresa si ebbero sul finire degli anni Cinquanta con il "Living Theatre" di J. Malina e J. Beck, il quale ultimo fu spesso anche autore delle scene (Frankenstein, The brig, The maids). L'evoluzione di questo gruppo che, prima di giungere a un metodo proprio era passato attraverso esperienze diverse, da Stanislavskij a Mejerchol'd, da Brecht ad Artaud, fu largamente influenzata dal lavoro psico-fisico di Grotowski e dalle tecniche orientali dello Zen. Ma non va dimenticata l'importanza che, sulla formazione del Living, ebbero gli Happenings - definiti da J. Cage "rappresentazioni simultanee di eventi privi di interrelazioni" - che, in contrapposizione alla scipita artificiosità dei palcoscenici di Broadway, venivano ambientati nei tipici luoghi dell'antiteatro: un tunnel abbandonato, un'autentica galleria, un cortile, una strada.
Nel solco tracciato dal Living s'inserì l'"Open Theatre" (1963-73), fondato da J. Chaikin e J. Levy, i quali presentarono i loro primi spettacoli, imbastiti alla meglio, nelle soffitte off off Broadway. Opponendosi agli schemi del teatro ufficiale, il programma dell'Open, aperto all'esplorazione di nuove forme rappresentative, intendeva tra l'altro affrontare "le istanze sociali senza cadere nello psicodramma domestico nel realismo sociale o nelle mode e negli atteggiamenti naturalistici". Con un impegno politico poi ripreso dal "Bread and Puppet Theatre", l'Open, in polemica con la società dei consumi, anticipava i motivi di una crisi che, intorno al 1968, avrebbe investito il teatro europeo quale esempio più vistoso della mercificazione della cultura. Le ripercussioni di questi ultimi apporti sulla s. del teatro ufficiale - riscontrabili finanche nell'opera di qualche rappresentante della vecchia guardia (si veda l'Antigone allestita da Oenslager nel 1967) -, con maggiore o minore evidenza, si possono rilevare nella produzione dei numerosi esponenti delle ultime generazioni, tra i quali ricordiamo: R. Ter-Arutunian, R. E. Darling, J. Döepp, P. Harvey, F. Lopez, H. May, R. U. Taylor, D. Mitchell, J. Newton, J. N. Rojo, D. W. Schmidt, O. Smith, P. Wexler.
Italia. - L'attività del "Teatro degli Indipendenti", del "Teatro del Colore" e del "Teatro sintetico futurista" avevano preparato il terreno alle geometrie degli astrattisti che avevano fatto il loro ingresso in teatro attraverso il razionalismo dell'architetto P. Aschieri.
Un sensibile contributo a questa operazione di ammodernamento era stato offerto dagli spettacoli realizzati in Italia da M. Reinhardt e da J. Copeau che avevano aperto gli occhi anche alla critica più conservatrice sulla necessità di rívedere le strutture di un organismo asfittico e inadeguato ai tempi. Tuttavia, la situazione politica del paese non era tale da incentivare gli sperimentalismi, per cui, perduto l'impulso iniziale, la ventata di rinnovamento si diluì in una pratica quotidiana che poco lasciava trasparire delle rivoluzionarie proposte di un Prampolini, di un Balla o di un Depero. Ma, ormai, le conquiste attuate nel periodo precedente avevano modificato in maniera irreversibile i confini tra realtà e finzione scenica, e ciò persino nel teatro lirico dove operavano artisti i quali, pur innestandosi nell'alveo della tradizione, affrontavano con spirito nuovo gli schemi formali di un repertorio che non offriva molti appigli per un rivolgimento radicale. Tuttavia, l'impatto tra una concezione della messinscena articolata e complessa e le difficoltà insite nei libretti tradizionali con i loro continui cambiamenti a vista, aveva portato all'istituzione di un "direttore dell'allestimento scenico" (L. Sapelli [Caramba] e poi N. Benois alla Scala, C. M. Cristini al San Carlo).
A voler condensare in un sintetico giudizio quanto era avvenuto nel settore della s. tra il 1910 e il 1940, si può affermare che, anche tenendo conto dei ristagni e dei cedimenti, il periodo in questione era stato straordinariamente fecondo e ricco di indicazioni. Sostanzialmente diversa una valutazione relativa ai primi decenni del secondo dopoguerra durante i quali la ripresa teatrale, pur con risultati di un certo rilievo, non sembra dar luogo a proposte altrettanto stimolanti. In un teatro "in ritardo di vent'anni sulla cultura ambiente" (C. Pavolini), il risveglio della s. segna più che altro il consolidamento delle posizioni già acquisite sulle quali s'innestano influenze costruttiviste filtrate attraverso le esperienze americane. Accanto alla duttilità inventiva di M. Chiari, l'allestimento degli anni Cinquanta, decisamente orientato verso il genere costruito, allinea opere colte ed estetizzanti di artisti che alle doti di creatività uniscono un consumato mestiere. Tra gli esponenti di questa schiera, che costituisce ancor oggi l'ossatura della s. italiana, ricordiamo: G. Coltellacci, autore di scene stilizzate ed eleganti; F. Clerici, dalla spiccata vena surrealista; G. Polidori e P. Zuffi, attenti ai suggerimenti delle correnti pittoriche contemporanee; E. Luzzati, incline all'uso di un materiale povero; F. Zeffirelli, restauratore in chiave moderna di temi barocchi; il raffinato ed eclettico P. L. Pizzi. E ancora: M. Scandella, V. Colasanti, L. Ghiglia, E. Guglielminetti, ai quali si aggregheranno, nel decennio successivo, L. Sabatelli, M. Monteverde, P. Bregni, S. Falleni, G. Padovani.
L'attività di questi artisti, spesso esplicata nel teatro di prosa, ebbe il merito d'introdurre anche nel teatro lirico un modello di scena sempre più svincolato dal realismo tradizionale. Grazie a loro l'uso della luce, delle proiezioni, dei trasparenti, del colore, degli elementi indicativi, della costruttività, entrano nella pratica corrente dei palcoscenici operistici.
Con allestimenti di una coerenza stilistica esemplare, particolarmente incisiva risulta l'azione del "Piccolo teatro" di Milano che, accanto a G. Ratto e a L. Damiani, formatisi alla scuola di G. Strehler, impegnò nei primi tempi numerosi altri scenografi: T. Costa, A. Savinio, L. Crippa, E. Frigerio, ecc. L'attività dei teatri stabili, la presenza di registi come L. visconti (occasionalmente anche scenografo) e l'istituzione di alcune coppie fisse tra regista e scenografo (Strehler-Damiani, De Lullo-Pizzi, Squarzina-Polidori, Enriquez-Luzzati), contribuisce a rafforzare un mestiere serio e aggiornato. L'ottimo livello professionistico non riesce però a evitare che, soprattutto nei teatri lirici, si continui a far ricorso a pittori affermati quali F. Casorati, R. Guttuso, S. Fiume, M. Cascella, G. Usellini. In questa direzione si muove da tempo il Maggio musicale fiorentino dove, riprendendo la moda lanciata dai Balletti russi, dal 1933 erano stati ospitati, con risultati quanto meno discontinui, M. Sironi, F. Carena, G. Vagnetti, C. E. Oppo, P. Conti, G. De Chirico, F. Casorati, T. Scialoja, P. Annigoni. Al notevole impegno spettacolare degli allestimenti realizzati per l'Arena di Verona da P. Casarini, O. di Collalto, A. Colonnello, N. Benois, fanno riscontro gl'inviti che altri enti rivolgono ad artisti di provenienza diversa: B. Caruso, G. Manzù, A. Sassu. Quali che siano le loro origini estetiche, questi artisti si limitano a esporre in teatro dei quadri ingranditi al pantografo che, nel migliore dei casi, vengono abilmente sfruttati dalla sensibilità del regista. Si veda, per es., l'uso dei fondali di R. Vespignani in Anima nera (1960) o le proiezioni di E. Vedova nell'impianto scenico concepito da J. Svoboda per Intolleranza (1960).
Se questi contributi rivelano una carica scarsamente novatrice e finanche Prampolini ripropone temi già noti, più traumatico sarebbe risultato l'approccio con il teatro da parte di alcuni rappresentanti della seconda avanguardia - J. Kounellis, E. Arroyo, P. Scheggi, M. Ceroli, M. Pistoletto - che, a partire dal 1965, lavorano collateralmente al circuito ufficiale e non di rado all'interno di questo. Ancora una volta per alcuni di essi l'esperienza si risolve nel trasporre in palcoscenico opere derivate dall'attività primaria, improntate però a un'indubbia novità formale. È il caso di Ceroli (Cina diviene la scena del Riccardo III, Mappacubo diviene la scena della Norma), o di P. Scheggi che considera il teatro uno strumento d'informazione più immediato rispetto alle gallerie. Pur rimettendone in discussione i presupposti, maggiormente impegnato e partecipe alle problematiche dello spettacolo appare il contributo di Pistoletto per il quale occorre "fare un rito diverso in un teatro diverso"; o di Kounellis che, nel rilevare il compito di "abbellimento dell'ambiente richiesto dal testo" affidato alla s., afferma: "o si rompe decisamente con questo rapporto funzionale o si pensa a un teatro senza testo". Questi interventi sono agevolati da una singolare tendenza delle arti che, per una sorta di simbiosi, in quegli anni sembrano slittare verso il teatro. Si vuole sostituire all'oggetto artistico duraturo un oggetto-non oggetto, senza durata, da realizzare attraverso il "gesto" dell'artista mediante procedimenti certi e obiettivi. Ricerche e tentativi dànno vita ad alcune mostre-spettacolo nelle quali al rifiuto opposto da Kounellis alla tecnologia fa riscontro un impiego razionale dei materiali moderni da parte di G. Marotta (i cespugli di plastica poi rifluiti nel barocchismo di C. Bene) mentre, a metà strada tra arte povera e struttura ragionata, si colloca Ceroli. Ancora una volta l'orizzonte del teatro, estremamente mutevole, sembra schiudersi a una convergenza tra arti visive, figurazione, musica e sperimentazione di spazi. In un rapporto continuamente aggiornato e aperto al contributo delle varie correnti - dal New dada alla Pop art, dalla Minimal art all'Arte povera, dall'Anti form all'Arte concettuale, dalla Body art alla Land art, al Comportamento -, si tende a considerare l'azione teatrale come scrittura scenica e a superare anche qui il concetto di prodotto.
L'esigenza di un tipo di spettacolo più aderente ai tempi spinge i giovani a disertare il teatro di consumo e, sotto l'urto del movimento studentesco, persino le solide strutture del repertorio brechtiano sembrano scricchiolare a favore di un teatro per le strade. Estremamente feconda risulta la tournée del Living - seguito dall'Open e dal Bread and Puppet Theatre - la cui presenza in Italia costituisce un notevole incentivo per la formazione di un circuito alternativo. A parte il caso isolato di D. Fo (spesso autore delle s. per i suoi spettacoli), accanto alle iniziative di G. Scabia e di C. Bene, prendono consistenza altri gruppi per opera di G. Vasilicò, di G. Nanni, di M. Ricci. Quest'ultimo, rifacendosi al Bauhaus e in particolare a O. Schlemmer, utilizza elementi scenici (suoi o di A. Perrilli) per comporre in azione arti visuali, plastiche, cinetiche, volumetriche e dinamiche. Ma, in pochi anni, l'assoluta mancanza di strutture adeguate e la carenza di strumenti critici esaurisce il potenziale di queste esperienze che vengono assorbite nel circuito ufficiale dei teatri stabili.
Al teatro provocatorio di matrice dadà proposto da Nanni, fa eco la geometrica scena concepita da F. Scarfiotti per Victor di Vitrac (regia di G. Patroni Griffi, 1970). La contaminazione dei testi classici, iniziata da V. Puecher, L. Ronconi e, con maggior mordente, da C. Bene, sfocia nell'Orestea dello stesso Ronconi che - nel tentare un nuovo equilibrio tra struttura scenica e movimento dello spettacolo - pone di nuovo sul tappeto la questione del rapporto rappresentazione-pubblico. Assimilata la lezione precedente, nel 1968 le scene di V. Bertacca per l'Orlando furioso sembrano rispecchiare la ritrovata vitalità del teatro ufficiale il quale, a metà degli anni Settanta, giunto a un'ennesima svolta, presenta una tendenza intellettuale e antiletterale che, nel rifiutare persino l'espressione fisica dei sentimenti tentata dagli epigoni di Grotowski, risulta caratterizzata da un accentuato gusto visivo.
Altre scuole. - In Francia le iniziative promosse dai registi del "Cartel" - C. Dullin, L. Jouvet, G. Baty, G. Pitoëff - avevano coinvolto nella crociata contro il naturalismo scenografi come C. Bérard, A. Boll, A. Barsacq. Fuori della funzione didascalica o puramente esornativa, le loro composizioni, in debito con le più recenti correnti figurative, miravano a creare atmosfere suggestive e un clima psicologico giusto per il lavoro dell'attore. La generazione successiva - alla quale appartennero tra gli altri J. Dupont, J. Carzou, L. De Nobili, L. Fini - si presenta ancor più ricca di personalità spiccate. Basterà ricordare che con il solo J. L. Barrault collaborarono A. Masson, L. Coutaud, C. Bérard, M. Brianchon, Mayo, F. Labisse, A. M. Cassandre. Al "Théátre national- populaire", con J. Vilar, che occasionalmente si avvalse anche dell'opera di A. Calder (Nùclea, 1952), lavora un allievo di F. Léger, L. Gischia, il quale considera la scena uno spazio vuoto che la fantasia dello spettatore, con l'ausilio di pochi elementi stilizzati, deve riempire.
Singolarmente viva - con L. Vychodil, F. Tröster, J. Dušek - la scuola cecoslovacca trova il suo punto di forza in J. Svoboda che, maturato nel clima dell'avanguardia boema degli anni Trenta, può essere annoverato tra i maggiori protagonisti della s. contemporanea. Le ricerche di Svoboda s'incentrano sull'uso della luce, vero fattore costruttivo del palcoscenico, in quanto aiuta a trasformare gli oggetti e a "variare" continuamente la scena che ha il compito di accompagnare l'evolversi delle situazioni drammatiche. Nei suoi allestimenti d'innegabile modernità, Svoboda non parte dal rifiuto programmatico della tradizione, escludendo a priori il gioco prospettico-illusionistico o il pezzo realistico, ma dalla "rigenerazione dei vecchi principi con mezzi nuovi che portano inevitabilmente a nuovi fini" (V. Jindra).
Meno varia, ma non del tutto priva di spunti, la situazione in Inghilterra, dove una corrente tradizionale d'ispirazione realistica e un'altra più incline al genere fantastico (come, per es., la messinscena dell'Old Vic e di Stratford-on-Avon) si affiancano a una terza corrente anti-illusionistica di sapore brechtiano (al Theatre Workshop di Londra).
Cinema. - A seconda delle tecniche prescelte per la realizzazione, la s. cinematografica, con uno schematismo che in qualche caso non trova riscontro nella pratica, può essere suddivisa in s. allestita in studio (o all'aperto) e in s. dal vero.
La s. realizzata in studio - da distinguere a sua volta in dipinta o in costruita - risale alle origini del cinema, al mondo fantastico evocato da Méliès (Le voyage dans la lune, 1902), attraverso fondali e quinte dipinte nel gusto trompe-l'oeil allora imperante in teatro. Con presupposti estetici diversi, alla medesima tecnica realizzativa fecero ricorso alcuni film futuristi (Perfido incanto, regista A. G. Bragaglia, scenografo E. Prampolini, 1916; Vita futurista, regista A. Ginna, scenografo G. Balla, 1917). Ma i risultati più significativi si ebbero con il cinema espressionista (Das Kabinett des Dr. Caligari, regista R. Wiene, scen. W. Reimann, F. Warm, W. Röhrig, 1919; Raskoenikov, regista R. Wiene, scen. A. Andreiev, 1923).
Gli scorci prospettici aberrati, gli spigoli acuti degli edifici, le viuzze tortuose, accentuati da un'illuminazione violentemente contrastata, trovano in questi film una naturale continuità nei personaggi, un equilibrio stilistico tra scena e costume forse mai più toccato. Nonostante tali risultati, la scena dipinta era destinata a essere presto soppiantata dal genere costruito che, con l'aiuto delle luci, offriva possibilità maggiori e meglio aderiva al realismo del mezzo cinematografico. Nel 1913, proprio uno dei rappresentanti della corrente espressionista, H. Warm, in contrasto con le sue stesse affermazioni ("i film devono essere dei disegni resi viventi"), aveva introdotto porte e finestre con spessori reali. La svolta decisiva si ebbe però in Italia quando, per i primi kolossal storici (Quo vadis?, di E. Guazzoni, s. di Lombardozzi, 1912; Cabiria, di G. Pastrone, s. di C. Innocenti, 1913), furono integralmente costruite mastodontiche e complesse architetture in stile classico.
L'esempio italiano trovò largo seguito in America (Intolerance, di D. W. Griffith, s. di R. Ellis Wales, 1916), dove, oltre a H. Horner e a L. Wheeler, lo stile coloniale ebbe in C. Gibbons un interprete straordinariamente fertile anche se lezioso e sofisticato. Meno incline all'ampollosità e a una certa convenzionalità di maniera si presenta l'opera di R. Day che, con H. Dreyer, riesce solo in parte ad animare le stucchevoli e levigate produzioni hollywoodiane. Ma, pur introducendo effetti di marca espressionista, neanche l'intervento di alcuni registi di origine tedesca, E. von Stroheim, G. Pabst, J. von Sternberg, riuscì a riscattare le scipite espressioni del cinema americano improntate a un gusto largamente consumistico.
Ben più sentita fu in Inghilterra l'influenza dell'espressionismo grazie alla presenza di A. Junge, A. Andreev, H. Heckroth, V. Korda, che, nel dar vita a una s. meno accademica e conservatrice, ebbero al loro fianco numerosi artisti di talento: J. Bryan, R. Briton, L. Irving, R. Furse, O. Messel, M. Relph, P. Sheriff. Altrettanto rigogliosa la situazione in Francia dove, alla stilizzazione degli anni Venti (L'inhumaine, di M. L'Herbier, s. di F. Léger, 1923), subentra l'impressionismo della seconda avanguardia con L. Meerson, magico evocatore di atmosfere nei film di R. Clair; A. Trauner, le cui strutture lineari fanno da sfondo a molte opere di M. Carné; M. Douy, versatile collaboratore di C. Autant-Lara; e ancora J. D'Eaubonne, L. Barsacq, G. Wakhévitch. L'origine slava di alcuni di questi artisti sta a dimostrare la vitalità di una scuola che ebbe l'esponente più prestigioso in S. M. Eisenstein, autore delle scene di alcuni dei suoi film (Aleksandr Nevskij, 1938; Ivan Groznyj, 1945).
Benché la s. realizzata in studio trovasse ovunque ampia applicazione, già da tempo alcuni registi avevano tentato soluzioni diverse: L. Feuillade, per es., in qualche caso aveva ambientato nelle strade di Parigi i suoi "saggi di realismo" (Fantômas, 1913-14), ed E. von Stroheim per le riprese di Greed (1925) si era servito di una casa alla periferia di San Francisco. In Italia con l'avvento del neorealismo, diminuito notevolmente l'uso di s. costruite - che avevano avuto artefici di notevole mestiere in G. Fiorini, P. Filippone e, in misura maggiore, in V. Marchi e in G. Medin - si ebbe una diffusione su larga scala della s. dal vero con M. Chiari, C. Egidi, P. Gherardi, M. Garbuglia, F. Mogherini, P. Poletto, L. Scaccianoce, D. Donati.
Forse è opportuno notare che nella s. dal vero i "pezzi reali", prescelti non per l'implicito valore architettonico o paesistico ma in funzione delle finalità drammatiche, forniscono il materiale a una particolare operazione estetica. Questi pezzi, manipolati e adattati alle esigenze dell'azione, con l'intervento dell'illuminazione, della fotografia e del montaggio, comporranno alla fine un organico insieme assolutamente diverso da quello originario. Pertanto, pur non implicando sempre una progettazione grafica, le ambientazioni dal vero presentano la medesima validità creativa di ogni altra composizione scenografica.
Scenotecnica. - Questo termine, impiegato nel periodo futurista per designare la nuova funzione che lo scenografo era chiamato a svolgere alla luce delle sconvolgenti innovazioni tecniche, oggi, in senso più ristretto, indica le operazioni tecniche relative alla realizzazione scenografica. Ciononostante i confini tra le due operazioni, compositiva e realizzativa, sono quanto mai labili e le due fasi del processo creativo strettamente interdipendenti. Negli ultimi decenni la scenotecnica, mentre continua ad avvalersi dei sistemi tradizionali nel caso di s. tradizionali, risulta aperta a tutte le innovazioni imposte dai diversi linguaggi estetici: dall'uso del materiale plastico (Marotta) al legno adoperato con funzione espressiva (Ceroli), dai tessuti sintetici alle applicazioni metalliche. Esemplificativa, sia per quel che concerne l'apporto di nuove tecniche sia per il legame tra composizione e realizzazione, la s. de L'avventura di un povero cristiano (1969). Sorretti da intelaiature metalliche a vista, i fondali ideati da A. Burri per questo spettacolo, in stretta aderenza al testo, utilizzavano, infatti, i tipici materiali dell'artista: nel primo atto i sacchi strappati e ricuciti per simboleggiare la vita penitente; nel secondo atto la plastica rossa per indicare lo sfarzo della corte papale: nel terzo atto il bianco e nero della plastica bruciata per alludere alla rinuncia e alla persecuzione.
Bibl.: Nel rimandare, per le opere anteriori al 1961, alla bibl. della voce scenografia, I - Teatro (a cura di E. Povoledo), in Enc. dello Spettacolo, vol. VIII, 1961, tra le pubblicazioni di carattere generale ricordiamo: Theaterarbeit. Fare teatro. Sei allestimenti del Berliner Ensemble, Berlino 1961, trad. it., Milano 1969; Catalogo della Prima esposizione internazionale di scenografia contemporanea, Napoli 1963; J. Polieri, Scénographie nouvelle, in Aujourd'hui, nn. 42-43, 1963; E. Povoledo, sub v. scenografia, in Enc. dell'Arte, 1964; R. Hainaux, Stage desing throughout the world since 1950, Londra 1964; Nuovi orientamenti della scenografia (a cura di C. E. Rava), Milano 1965; L. Pinzauti, Il Maggio musicale fiorentino dalla prima alla trentesima edizione, Firenze 1967; Bühne und bildende Kunst im XX Jahrhundert. Maler und Bildhauser arbeiten für das Theater (a cura di H. Rischbieter), Hannover 1968; Autori vari, Il momento della negazione, in Sipario, nn. 268-69, 1968; Il Maggio musicale fiorentino dal 1933 al 1967. Immagini e documenti, Firenze 1969; G. Boursier, I. Moscati, M. Rusconi, Pittori e scultori all'assalto dello spazio scenico. Dopo la scenografia (interviste con J. Kounellis, E. Arroyo, M. Pistoletto, M. Ceroli), in Sipario, n. 276, 1969; G. Bartolucci, Experimenta 3. Nuovi luoghi scenici a Francoforte, ibid., n. 281, 1969; Dalla scenografia allo spazio scenico, ibid., n. 284, 1969 (l'intero fascicolo è dedicato alla scenografia); G. Schönenberger, Esperienze al di là della pittura, in Dramma, n. 12, 1969; Teatro su palcoscneici di lingua tedesca (a cura di S. Melchinger), Catalogo, Monaco 1969; Scenografia italiana contemporanea (a cura di F. Mancini), Catalogo, Napoli 1969; J. Roose-Evans, Experimental Theatre from Stanislawsky to today, New York 1970; Les vois de la création théâtrale (a cura di D. Bablet e J. Jacquot), Parigi 1970-75; E. B. Burdick, P. C. Hansen, B. Zanger, Contemporary stage design USA, Middletown 1974; E. Rebora, Scenografia in Italia oggi, Milano 1974; F. Mancini, L'evoluzione dello spazio scenico dal naturalismo al teatro epico, Bari 1975. A questi saggi si devono aggiungere alcune pubblicazioni dedicate a singoli artisti che spesso non mancano di affrontare i problemi della scenografia nel loro insieme: R. Carrieri, Fabrizio Clerici, Milano 1955; C. Niessen, Brecht auf der Bühne, Colonia 1959; G. R. Morteo, Scenografie e costumi di Guglielminetti, Torino 1966; G. von Einem, S. Melchinger, Caspar Neher, Hannover 1966; S. Gottlieb, The Living Theatre in Europe, Amsterdam 1966; D. Cooper, Picasso et le Théâtre, Parigi 1967; D. Milhau, Chagall et le Théâtre, Tolosa 1967; Bertolt Brecht in scena. Esposizione presentata da Inter Nationes, Bad Godesberg 1968; F. Casorati, Appunti scenografici, in Casorati. Opere grafiche sculture scenografie, Milano 1968; L. Piccioni, Il medioevo di Alberto Burri, in Dramma, 1969, n. 12; V. Jindra, Don Giovanni a Praga e altre ricerche di Svoboda, ibid., 1970, n. 2; D. Bablet, La scena e l'immagine. Saggio su Josef Svoboda, Torino 1970; E. Zocaro, Orlando furioso, versi, scene e fantasia, in Sipario, n. 311, 1972; B. Heynold von Graefe, Manzù e il palcoscenico, Milano 1972; M. Ceroli, Scenografia come scultura, in Sipario, n. 321, 1973; L. Codignola, Lo scenografo della simpatia (dedicato a E. Luzzati), ibid., nn. 327-28, 1973; Cagli, scene e costumi (1952-1972), a cura di G. Tani, Firenze 1974. Importanza tutt'altro chet rascurabile assumono inoltre alcune opere teoriche di uomioni di teatro, attori, autori, registi, con pagine significative sui problemi dell'allestimento scenico: A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Parigi 1964, trad. it., Torino 1968; J. Grotowski, Per un teatro povero (1968), Roma 1970; G. Strehler, Per un teatro umano. Pensieri scritti, parlati e attuati, Milano 1974; B. Brecht, Scritti teatrali, Francoforte sul Meno 1963-64, trad. it., Torino 1975; J. Beck, La vita del teatro. L'artista e la lotta del popolo, San Francisco 1972, trad. it., Torino 1975. Nel ricordare che molti dei saggi rivolti alla scenografia riguardano anche la scenotecnica e viceversa, riportiamo alcuni contributi più specificamente dedicati ai problemi realizzativi, rimandando per la parte anteriore al 1961 alla bibliografia a cura di E. Povoledo, annessa alla voce scenotecnica, in Enc. dello Spettacolo, vol. VIII, 1961; B. Mello, Trattato di scenotecnica. Prospettiva teatrale. Restituzione. Materiale elettrico. Illuminazione. Macchineria. Trucchi di palcoscenico. Pratica nella pittura e nella confezione delle scene, Milano 1962; W. Oren Parker, Harvey K. Smith, Scene design and stage lighting, New York, Chicago, San Francisco 1963; G. Bartolucci, Materiali e tendenze del nuovo teatro, in La Biennale di Venezia, nn. 57-58, 1965; Le lieu théâtral dans la société moderne (a cura di D. Bablet e J. Jacquot), Parigi 1966. Più circoscritta la produzione saggistica relativa alla scenografia cinematogrfica per la quale rimandiamo, per la parte anteriore al 1961, alla bibliografia a cura di L. Eisner anenessa alla voce scenografia, II - Cinema, in Enc. dello Spettacolo. Oltre ai capitoli dedicati alla scenografia di film inclusi nella collana "Dalla sceneggiatura al film", cfr.: A. Valente, sub v. scenografia, II - Cinema, in Enc. dello Spettacolo, vol. VIII, 1961; A. Manetti, Ricordo di Virgilio Marchi, in Bianco e nero, nn. 7-8, 1961; G. Fiorini, Considerazioni sulla scenografia cinematografica, ibid., n. 12, 1962; A. Moravia, "Grande angolo Sogni & Stelle di Mario Schifano", in Sipario, nn. 261-62, 1968; D. Palazzoli, Nuovo cinema come utopia, con Bibliografia italiana al cinema underground (a cura di N. Lodato), ibid., n. 266, 1968; A. Cappabianca, M. Mancini, U. Silva, La costruzione del labirinto. La scena, la maschera, il gesto, la cerimonia, Milano 1974.