SCENOGRAFIA
. Il termine trova la sua giustificazione nel disegno in prospettiva d'una architettura: viene, infatti, dall'antichità e dal Rinascimento usato come sinonimo di prospettiva. Dei tre elementi del disegno architettonico, ichnographia "pianta", orthographia "alzato", scenographia "prospettiva", l'ultimo significa per Vitruvio, molto probabilmente per derivazione dai teorici della geometria e dell'architettura greca, disegno prospettico d'un edificio, e cioè il modo di rappresentare l'insieme d'un edificio non solo nella fronte o in una faccia, ma in profondità, usando il raccordo di tutti gli elementi a un punto centrale.
Antichità classica. - I documenti forniti dall'archeologia confermano la convinzione che, anche in epoca arcaica, la scenografia aveva raggiunto una notevole complessità tecnica: tuttavia non è possibile immaginare nell'antica scenografia alcuna ricerca puramente illusionistica o verista in senso moderno. Anche la scenografia doveva ubbidire a quel principio di sintesi e di dominio lirico di tutta l'opera teatrale quale ci viene offerta dallo studio dei drammi antichi. Nel ditirambo e nei drammi satireschi, quando il teatro all'aperto dovette essere assai simile al palco ligneo della Commedia dell'arte (Carro di Tespi) con la partecipazione dello stesso pubblico allo spettacolo, si assisteva ad apparizioni di divinità, evocazioni di morti dall'Averno, improvviso scomparire di personaggi. Questo poteva ottenersi con una costruzione centrale che, allo stesso tempo, poteva servire alla truccatura degli attori e (quando questi fossero sul proscenio) alla presentazione del nume.
Costituitosi il teatro stabile, di pietra, con le sue gradinate a semicerchio, e l'orchestra al centro, il palcoscenico, situato verso il fondo, era collocato in età più antica sullo stesso piano dell'orchestra poi, probabilmente dopo il 200 a. C., su un rialzo sul piano dell'orchestra, posto poco dopo il diametro ideale del teatro, separato dalle gradinate e dall'orchestra (dove pure scendevano gli attori e quasi sempre si situava il coro nel teatro più arcaico), da uno spazio corrispondente alle entrate laterali per gli spettatori e al fossato nettamente segnato, dove scendeva il grande sipario, arrotolato sul piano stesso dell'orchestra (v. sipario).
La scena propriamente detta era costituita da un corpo centrale, prima di legname, poi di pietra (di due o più alzate, con tre o cinque porte), che formava il "fondale" costruttivo, lasciando altri due spazî laterali liberi per le "quinte" dette periacti e trigoni versatiles nel teatro romano: specie di prismi geometrici a tre facce sulle quali, quando gli spettacoli assunsero aspetto sistematico, erano dipinti elementi architettonici o vegetali. L'esistenza di questi tre aspetti della scena coincideva molto più tardi con le tre scene classiche "tragica), "comica", "satirica" o boschereccia: in origine dovettero essere tre momenti particolari del dramma. Essendo impossibile immaginare che, quando le quinte cambiavano, restasse identico il "palazzo" centrale, è ammissibile che con tele dipinte (svolte dagli ultimi ripiani del fondale, a guisa di arazzi) si mascherassero o trasformassero gli elementi dell'architettura: questo è provato dalla scena del teatro di Sabratha (v.); certo è, dunque, che ben diverse dovettero essere le esigenze scenografiche del pubblico antico di fronte alle moderne e persino a quelle del Medioevo.
Dal Prometeo di Eschilo, emerge tutta una tessitura così progredita da far pensare insistentemente alla tradizione che ci tramandò un Eschilo scenografo o, per lo meno, grande "regista". Il dramma si svolge, infatti, in una serie di quadri e, quasi, di "presentazioni", in cui la scena doveva avere grande importanza: l'apparizione delle Oceanine, l'arrivo di Posidone sul cavallo marino, la conclusione coi tuoni, rombi e terremoti, il finale delle rupi che, crollando, seppelliscono l'eroe, dovettero costituire uno "spettacolo", per quanto stilizzato in maniera arcaica e inteso come sottolineatura del grande dramma umano. Per la messinscena di questi drammi, risulta che sulla scena del teatro di Siracusa esisteva un complesso di rotaie, cunicoli e incastri, nei quali le parti lignee del palcoscenico dovevano innestarsi e anche muoversi.
In alcuni casi, poi, dal centro del palco, aprendosi i tendaggi (o abbassandosi questi nei canali) doveva offrirsi allo spettatore il gruppo plastico della scena madre, che, descritto prima dall'araldo o dal protagonista, si spingeva innanzi, sul proscenio, a mezzo di rulli.
Con Sofocle, sviluppandosi l'ambiente paesistico del dramma, in contrasto con l'azione umana dell'eroico teatro eschileo, la scenografia dovette svilupparsi anche in questo senso. Luoghi silvestri e ricchi di alberi vengono additati da Antigone nell'Edipo a Colono, mentre in Euripide domina una maggiore mobilità scenica, nata come necessità dal gusto particolare del poeta verso l'intreccio complicato, che spesso esigeva l'intervento del deus ex machina. Questo mezzo meccanico, nettamente scenografico, giunge allo spettacoloso nell'Ercole furioso. Nelle Troiane si vede, in fondo alla scena l'incendio di Troia: nelle Supplici poi, l'apparizione della sposa di Capaneo, incontro alla pira, con i cadaveri dei sette eroi e l'improvviso gettarsi di lei sul rogo, suscitano l'impressione di soluzioni scenografiche a base meccanica e pittoresca notevolmente progredite.
Da forme di scenografia tarda, di questo genere, dové trarre il grammatico Giulio Polluce le sue confuse notizie sulle scene e sui meccanismi teatrali nell'Onomasticon: vi si ricordano l'ekkìlēma, impalcatura che poteva mostrare l'interno dell'edificio, portato innanzi da argani, la distegía, frammento di costruzione posticcia, e altro. Quanto alle macchine (v. scenotecnica) per l'illusione scenica, v'era il keraunoskopeīon, ordigno per vibrare fulmini, il bronteêon, macchina per simulare il tuono, formata di vasi di bronzo entro cui si lasciavano cadere dei ciottoli; la géranos "gru" serviva a portare in alto o a tener sospeso l'attore; mentre le Chárontos klímakes "scale di Caronte" appartenevano anche al più antico palcoscenico e servivano alla discesa nell'Ade o all'evocazione di eroi dal regno delle ombre. Da un bassorilievo del Museo Nazionale Romano, ex-voto di un attore, si ricavano interessanti particolari sulla disposizione dei pínakes; altri elementi dalla scena del teatro di Aspendo (v.).
Di questa scenografia parla Vitruvio nel cap. VII del V libro del suo trattato; ma è lecito qualche dubbio sulla conoscenza che l'autore poté avere della scenografia greca: nel suo temperamento di teorico, egli schematizza, rende sistematica ogni notizia e vede, da un punto di vista parziale e limitato, quel che fu prima di lui. Secondo Vitruvio, la scenografia fece molto conto dei trigoni versatiles (o períaktoi) posti ai lati del proscenio, in modo da presentare una sola faccia allo spettatore: dietro tali elementi, che sono le moderne quinte, indica due ambienti detti "spatia ad ornatus comparata", dove anche nell'antica Grecia dovevano prepararsi le macchine, da far scorrere poi sul palcoscenico, lungo le rotaie ricavate sul piano stesso del palco. Il fondale, che particolarmente interessa la scenografia, è a guisa di prospetto architettonico, con tre porte, e più ordini di loggiati. Lo spazio riserbato alla scenografia, sul palcoscenico romano, sembra esiguo, ma immaginando costruzioni lignee improvvisate e montate a sipario alzato (e cioè chiuso) l'ambiente scenico assume notevole importanza. Si nota però subito l'assenza dell'elemento fondamentale del palcoscenico dal Rinascimento in poi: la profondità spaziale.
La mancanza di profondità nel palcoscenico antico doveva avere complesse ragioni che riguardano in pieno la scenografia: per il palco del teatro greco, intanto, lo sviluppo ampio del coro, il carattere processionale di molti episodî e la necessità che la mimica delle masse fosse visibile dagli spettatori; poi l'importanza grande data dagli autori greci all'uomo, come massa e come protagonista di fronte allo sfondo architettonico o paesistico. Non ultima ragione (e questo tanto per il palcoscenico greco quanto per quello romano) fu la scarsità di luce che rapidamente doveva accentuarsi nel passaggio dai primi piani del palco al fondale; approfondire gli scenarî (che erano coperti da un breve tetto) era inutile quando lo spettacolo, all'aperto, non poteva usare che la luce naturale.
Quel che dovette essere la pittura delle quinte girevoli e di quegli scomparti del fondale architettonico che eventualmente fossero destinati a contenerne, ci è mostrato da alcune pitture parietali di carattere prospettico, di quello stile detto "delle architetture in prospettiva" dominante al sec. I e che si trova in numerose varianti negli affreschi provenienti dalla Farnesina, o nella Casa dei Vettii a Pompei. La pittura illusoria in prospettiva distesa su pareti piane, a breve distanza dal proscenio, poté così essere chiamata, in tempi tardi, a supplire alla mancanza di profondità del palcoscenico antico. Si può pensare che questo accadesse soprattutto nelle commedie, dove il palcoscenico era più piccolo e l'episodio, anche paesistico, aveva maggiore interesse.
Estremo Oriente. - Per il carattere tradizionalista di tutte le manifestazioni artistiche dell'Estremo Oriente si può supporre che in gran parte gli elementi della scenografia ancor oggi in uso nelle città storiche dell'India, della Cina, del Giappone, rispondano a quelli antichi. Gl'ideali, profondamente radicati, di un teatro mitico, ieratico, eroico, sono accompagnati e interpretati da una scenografia fatta di pochi mezzi, che sembra conservare l'antica struttura del teatro ligneo improvvisato.
Questo senso d'improvvisazione scenografica si è, però, ben presto fissato in norme tradizionali rispondenti al gusto e alle tendenze dominanti in ciascun popolo. Il teatro indiano, favoloso, ieratico e fortemente mimico svolse soprattutto gli elementi decorativi del costume e della scenografia: costruzioni delicate, minuziose, ritagliate in legni leggieri e lumeggiate di specchi, incorniciano stoffe sontuose destinate a formare fondali o cortinaggi: le persone del dramma, letteralmente coperte di stoffe, con vasti e bizzarri copricapi, fortemente truccate e talvolta con maschere complicate, campeggiano sullo sfondo con vivacissimi costumi. Nessuna forma di scenografia si studia d'illudere prospetticamente, o, comunque, di suggerire aspetti della realtà: talvolta un tronco d'albero, un mostro di bronzo segnano tutto il necessario allo spettacolo che è prevalentemente mimico-coreografico. La scenografia indiana, però, nella scelta dei colori dei tendaggi o dei pannelli posti come fondali, si giova del simbolismo dei colori, mettendo tendaggi bianchi in un dramma d'amore, gialli per i soggetti eroici, violacei per le tessiture patetiche, rosso sangue per le azioni passionali, variegati e brillanti per le produzioni comiche, neri per la tragedia (v. messinscena).
Si può immaginare quale fosse l'antica scenografia del teatro cinese attraverso il permanere di altri elementi in quella giapponese, specialmente in quei drammi eroici di carattere arcaico che maggiormente conservano il carattere scenico tradizionale.
La scenografia giapponese parte da principî diversi da quelli della scenografia classica: anticostruttiva per eccellenza, essenzialmente cromatica, tende a suggerire e non a rappresentare l'ambiente: ma nell'aver ridotto al minimo la rappresentazione pittorica della natura e nell'aver asservito gli elementi scenici strettamente all'azione, con particolare riguardo alla psicologia dei personaggi, idealmente ci ricorda, per il suo aspetto arcaico e sacro, quel che dovettero essere certi suggerimenti scenici del teatro greco più antico. La costruzione lignea del palcoscenico favorisce la mobilità delle sue parti: in alcuni teatri, infatti, il palco è girevole, e permette di presentare agli spettatori la nuova scena, già preparata all'inizio dello spettacolo. Caratteristica della scenografia giapponese è di aiutare al massimo la penetrazione dei sentimenti drammatici nell'animo del pubblico. Nella parte centrale del palcoscenico si elevano poche ripartizioni a telai di legno e tela dipinta, facilmente spostabili: il suggerimento del paesaggio è dato da pitture a ritaglio, a guisa di paraventi, talvolta fortemente colorati: a destra e a sinistra, su semplici quinte, saranno dipinti, p. es., dei bambù verdi, sul pannello di fondo (fondale o fondalino) un grande pino. Ogni parte risponde al massimo raffinamento di un'antica tradizione che, perpetuandosi, ha scaltrito i suoi mezzi: soprattutto il gesto e gli accordi di colore tra costumi, scenarî, luce. La funzione delle luci nella scenografia giapponese è particolarissima: mentre si mantiene un'illuminazione pacata e normale sui fondali e le quinte, accanto all'attore si muove quasi sempre un servo, con una grande lampada opaca perché risaltino le espressioni del suo volto durante l'azione del dramma o, più modernamente, l'attore si porta sotto la grande lanterna (con un pretesto mimico) per offrire la propria maschera all'attenzione del pubblico.
In Bushido, nella scena del testamento e della morte di Isogai, lo scenario è composto da una stanza a forma di scatola aperta sul davanti, posta a sinistra della scena: è lì che Isogai scrive il testamento e agonizza, sotto una grande lampada biancastra. Sulla destra è la desolata, fangosa campagna nei pressi di Yokohama, di notte: solo un usignolo, insistentemente, per tutta la scena ritma l'agonia affannosa del protagonista. In un dramma del repertorio Kabuki, intitolato Aritsuhide, invece, la scenografia è composta di grandi pannelli di stile antico e di mobili laccati, intonati spesso in rosso-corallo: si tratta, infatti, di un dramma eroico a sfondo storico in cui i costumi e le armature debbono avere il maggior risalto. Di questi esempî, che appartengono al gusto più strettamente "asiatico", si gioveranno poi gli scenografi moderni, specialmente L. Bakst.
Medioevo. - Ci fu un primo periodo della scenografia sacra medievale in cui la scena non Iu che un'accentuazione teatrale del rito stesso: così avviene nell'Ufficio del Sepolcro, il cui carattere simbolico, piuttosto che indicare il tipo comune dei primi drammi sacri, particolarmente dimostra l'accentuazione evocatrice e rituale del culto. Movimento scenico si ha già nello stesso Officium sepulcri, specialmente se ci si riporta alla Regularis concordia del benedettino Ethelwold (sec. X) che descrive il sepolcro così: "In un lato dell'altare dove sarà stato fatto un cavo, si disponga un'imitazione del sepolcro e vi sia un velario teso attorno". Le interferenze, a questo punto, tra arte figurativa e scenografia si fanno attivissime, pur non essendo possibile attribuire alla pittura e alla scultura medievale una stretta influenza sulla scenografia embrionale o viceversa, meglio ritenendosi che dalle stesse aspirazioni artistiche, nel particolare gusto medievale, nascessero opere d'arte e attrezzatura scenica.
È verosimile pensare che, all'interno della chiesa, nel dramma liturgico, i progressi scenografici siano piuttosto di rudimentale meccanica scenica: come nell'Annunciazione della Vergine che, dalle più antiche didascalie, si sa già avvenire con l'intervento di un angelo, calato "a fenestris voltarum... per funes" verso la Vergine sul pulpito. Più tardi, questo intervento di personaggi a mezzo di funi diverrà più complesso e prenderà maggiore campo nello spettacolo sacro.
Certa libertà inventiva, perché meno strettamente legata alla funzione sacra, ebbe la scenografia medievale nella lauda drammatica che si svolse ad opera di confraternite, con maggior gusto per l'aneddoto e ricchezza di particolari scenografici. Questa scenografia, specialmente praticata nell'Umbria, fortemente sviluppata per opera dei disciplinanti, rappresenta, di fronte alla scena del dramma liturgico, una sana vena popolaresca inserita nella compagine coreografica di tradizione cristiano-bizantina. Per questo la scenografia embrionale della lauda drammatica fu più realistica (per quanto sempre nel gusto simbolista e trascendente del Medioevo) ed ebbe bisogno di luoghi raffigurati e non soltanto descritti o sinteticamente accennati.
Dal fondale, costruito in legname, a mezzo di porte e balconi, avvengono primitive apparizioni e ascensioni: un monte serve a molti usi a seconda della sua forma e rappresenta, con simbolo scenico di carattere sintetico, il paesaggio. La costruzione del monte, forse volumetrico, nel primitivo teatro medievale, permetteva di nascondere la preparazione di varî episodî e segnava, in confronto alla scena rituale del dramma liturgico, una reale conquista scenografica: ma se il monte era un elemento necessario, altrettanto lo furono i cosiddetti "luoghi deputati" e altre piccole costruzioni architettoniche posticce, esistenti sul primitivo palcoscenico, senza alcun legame prospettico tra loro e riserbate a un dato episodio del dramma sacro. Anche nel dramma liturgico, dall'Officium sepulcri in poi, si assiste alla moltiplicazione di questi luoghi. Del resto, in piccola misura così avveniva già nel teatro classico dove le scale carontee sembravano anticipare la celebre "bocca di Inferno" che di rado mancherà nel palco medievale e si spingerà attraverso i secoli, fino allo scenario del mozartiano Don Giovanni.
Questi "luoghi deputati", erano piccole e provvisorie costruzioni di legno e tela, facilmente spostabili, che con pochi elementi architettonici decorativi o paesistici suggerivano la reggia di Pilato, Gerusalemme, Damasco o il Paradiso e il Limbo, a seconda degli spettacoli: gli attori dovevano passare da uno all'altro con facilità ed è probabile che, per intensificare l'attenzione drammatica, l'interno di questi "luoghi" fosse mascherato con una cortina che s'abbassava all'atto dell'episodio assegnato. La forma caratteristica del Paradiso, ancora in un dramma liturgico intorno al 1000 ci appare come un luogo eminente, circondato di tendaggi e di drappi di seta: i Beati e i santi ne sporgono "fino agli omeri" divisi tra loro da fiori e fronde. È assai probabile l'ipotesi di contatti fecondi del teatro sacro italiano medievale con quello bizantino durante il sec. XIII, quando fin dal sec. IX le omilie dialogate bizantine avevano già assunto l'aspetto di vero dramma liturgico. Tracce di forme scenografiche che servivano di sfondo a storie del Cristo, della Vergine, del Battista (figure sulle quali era imperniato il teatro sacro bizantino), si ritrovano anche nelle arti figurative (Paliotto di Siena, S. Giovanni al Limbo).
Del 1210 è la decretale di Innocenzo III contro gli eccessi del teatro sacro, e perché si potesse parlare di abusi, si deve immaginare, in tutta Europa, alla metà del sec. XIII, una ricca produzione teatrale sacra rappresentata nelle chiese o all'esterno, notevolmente sviluppata dal punto di vista scenografico.
La figura di San Francesco di Assisi è legata anche alla storia della scenografia per la creazione plastica, che egli realizzò a Greccio, del Presepe. Siamo ormai al tempo della rinascita di uno spirito latino e italico nelle arti figurative, nelle lettere, nella musica e la contemporaneità delle manifestazioni artistiche che si evolvono con nuova vigoria fino a tutto il sec. XIV investe anche la scenografia medievale: il moto dei disciplinanti, Iacopone da Todi, gli anonimi raccoglitori di laudi drammatiche a guisa di "tessiture" di misteri provocano l'arricchirsi e l'accentuarsi dei caratteri scenografici nell'allestimento di simili spettacoli.
Quando il carattere popolaresco dominava, s'intende che gli elementi scenografici si facevano elementari, cosa comune ad espressioni artistiche d'ogni tempo, tantoché non è lontana dal vero la ricostruzione d'uno spettacolo di lauda drammatica popolare alla fine del Duecento, sulla base di sacre rappresentazioni che si svolgono ancora oggi in provincia: caratteristica fra tutte la festa di santa Cristina a Bolsena in cui, sul palco disposto contro un antico muro, con poche tende e attori rozzamente truccati si ottengono scene di potente suggestione medievale, come nella scena della "morte del peccatore".
Tracce vivissime di scenografia trecentesca si hanno nelle devozioni e nei laudarî, specialmente in quello di Orvieto, dove la parte architettonica assume maggiore importanza che non avesse nei "luoghi deputati"; vi si nota il Tempio, ricavato forse, nell'interno della chiesa, dalle stesse transenne, soprattutto nella rappresentazione d'Ognissanti, nella morte di S. Giovanni, in quella del Corpus Domini. Questa costruzione assume maggiore rilievo nel teatro abruzzese, svolto all'aperto, dove il Tempio sembra piuttosto avere solidità d' impianto e non mancare mai d'un elemento tipico di quell'edificio: la gradinata. Queste devozioni abruzzesi, prevalentemente eseguite ad Aquila, offrono tipica varietà di pretesti scenografici: nella "Devozione della testa di Pasqua" dietro la Prigione e il "luogo" dei sacerdoti vi sono il Sepolcro, l'Inferno, il Limbo, il Paradiso. Novità paesistiche sono, poi, nella "Rappresentazione del deserto" le rocce, il fiume, e il monte della Tentazione dove salgono Gesù e Satana e donde questo è sprofondato.
Durante il sec. XV e oltre, specialmente in Francia, Germania, Inghilterra, ma anche in Italia, continuano gli spettacoli sacri con maggiore o minore sfoggio scenico: una forma intanto, distinta dalle laudi drammatiche dei disciplinanti, perché meno popolare, creazione invece d'arte, a scopo di festività e, perciò, con carattere di scenografia decorativa, è la sacra rappresentazione, che ha importanza nel riflesso scenografico per una specie di "assestamento" di quegli elementi scenografici intuitivi del Medioevo.
Tipica, per questo, la "Rappresentazione di Abramo e Isacco" allestita nel 1449 dalla chiesa di Cestello a Firenze: come scenario v'è la casa di Abramo, aperta verso il pubblico (uso comune nelle pitture di "interno" dal Medioevo in poi); altri elementi sono il monte, a gradoni per permetterne la salita, decorato di verde; Abramo è in atto di sacrificarvi il figliuolo quando appare l'angelo: e qui potremmo avere una delle "discese" tipiche dall'alto, essendo già al tempo degl'"ingegni" del Brunelleschi.
Rinascimento. - Gli allestitori di spettacoli nel Rinascimento si trovano innanzi due forme di spettacolo: l'uno, ancora sacro, con forte sviluppo del senso del "miracoloso" derivato dal Medioevo attraverso la sacra rappresentazione, l'altro invece cortigiano, umanistico, essenzialmente letterario. L'uomo che impersona le due esigenze attraverso la sua attività di inventore di macchine teatrali e di prospettico è il Brunelleschi. Il Vasari, mettendoli forse in relazione con la meccanica gotica, dice che i celebri "ingegni" per la festa dell'Annunciata "furono trovati da Filippo, sebbene altri affermano che gli erano stati trovati molto prima".
Dalla ricostruzione dei congegni e dal commento del passo vasariano, messo in relazione con le sacre rappresentazioni eseguite all'interno delle chiese fiorentine del Quattrocento, si ricava nettamente l'impressione che questo congegno del Brunelleschi, e gli altri da lui ricordati, del Genga, fossero il capolavoro della meccanica teatrale del tempo, usato ad arricchire le feste religiose. Da congegni simili si svilupperanno poi durante il Cinquecento, e più nel Seicento, le infinite soluzioni scenografiche "a trucco" e si conquisteranno i più rapidi spostamenti delle "scene mobili" barocche.
Intanto, fondamentale per gli sviluppi scenografici moderni, ecco il ritrovamento delle leggi della prospettiva lineare nei primi anni del Quattrocento, da attribuirsi al Brunelleschi e all'arte fiorentina. La scenografia profittò vivacemente della prospettiva lineare, tornando esattamente alla propria significazione etimologica. Lo scenario, invece d'essere suddiviso in episodî o embrionalmente costituito, per via di "suggerimenti" ambientali, diveniva esso stesso l'ambiente entro cui la fantasia dello spettatore cominciava a spaziare, illusa dalla prospettiva: gli episodî, le apparizioni, i cambiamenti di scena saranno sempre più legati a questo ambiente prospettico.
È da notare però come l'allestimento scenico continuasse per decennî a profittare anche delle esigenze della sacra rappresentazione, com'è evidente nella tessitura dell'Orfeo di Poliziano: ma il gusto umanistico per maggiore chiarezza impose le nuove leggi che furono ritrovate negli scritti di Vitruvio. Il nuovo gusto scenico non può essere meglio espresso che dalle prospettive illusionistiche ideate e dipinte dallo stesso Brunelleschi. Nacque, intanto, la possibilità del fondale, non più costruito o formato da cortinaggi, ma dipinto: e su di un solo piano "i casamenti" e il paesaggio, tirati in prospettiva, permetteranno ormai qualunque effetto di lontananza.
Dalla corrente prospettica derivano, accanto ai primi scenarî dipinti, anche i primi trattati di scenografia: Piero della Francesca, Luca Pacioli, Leon Battista Alberti, non sembra facessero parte al disegno delle scene nei loro scritti: ma Francesco di Giorgio Martini, il Peruzzi, Raffaello, Bramante, della generazione seguente, se ne appassionarono.
Per quanto sia da credere che molti disegni quattrocenteschi, di carattere prospettico, servissero a dipingere scenografie per le feste di corte, i primi progetti di scenarî si hanno da Baldassarre Peruzzi ai primi del Cinquecento e rivelano, con quel misto di costruzioni quattrocentesche e rovine romane, come il gusto umanistico dominasse anche nella scenografia. A Urbino, dove, alla corte dei Montefeltro sembrò convergere la passione per i nuovi spettacoli, s'incontra, in qualità di scenografo del duca Guidobaldo, Girolamo Genga.
Venivano attrezzati per gli spettacoli cortili o grandi stanzoni, non facendosi ancora netta differenza fra teatro al chiuso e all'aperto, anzi, non essendovi ancora un luogo determinato dove si svolgessero gli spettacoli stessi. Nelle corti, a Urbino, Mantova, Parma, Milano, Padova, Verona, il montaggio del teatro era assai semplice. L'uso della luce artificiale dovette essere ancora moderato e, naturalmente, assai più sviluppato e studiato nei suoi effetti, quando lo spettacolo si dava al chiuso, nel salone principale. Lo spettacolo entro lo stesso "quadro" scenico, a cui assistono i personaggi reali dell'Amleto di Shakespeare, i disegni di Inigo Jones per le figure di Oberon e di Florimene dicono come si perpetuasse questo costume di allestimento improvvisato anche oltre il Rinascimento, quando queste forme di scenografia italiana passarono, prima alla corte di Francesco I, a Fontainebleau, poi in Inghilterra e Spagna. Dalla metà del sec. XVI in poi si ebbe un'intensificazione eccezionale nella scenografia umanistica, di cui il Trattato del Serlio è un riflesso chiaro e sistematico, nel campo teoretico. Lo studio dei canoni dell'architettura antica che, attraverso la cultura classicheggiante aveva portato alla riscoperta dei libri quale lo spirito umanistico tendeva spontaneamente: furono ritrovate e studiate di nuovo le leggi del teatro greco-romano e si giunse così a prescrivere le tre classiche scene "tragica", "comica", "satirica" le quali non corrispondevano quasi mai alle esigenze immediate degli spettacoli d'allora, ancora per molti versi coloriti dalle sacre rappresentazioni. Tuttavia, le produzioni teatrali, di carattere occasionale, cortigianesco, letterario e culturale, si distanziavano sempre più dallo spettacolo festaiolo del primo Quattrocento, e vennero a innestarsi facilmente nei tre scenarî tradizionali. Infatti la scena "tragica", costituita da architetture nobili con un palazzo eminente nello sfondo o un tempio rotondo all'antica, quella "comica" con casette basse, borghesi e popolari, l'altra "satirica" o boschereccia, con verzieri, boschetti, talvolta di verde vivo, segnano in loro stesse i tre momenti fondamentali di qualunque spettacolo. Nella scena "satirica" è, in genere, la scena paesistica, con intervento di "moresche" e intermezzi contadineschi che tanto sviluppo prenderanno nel Seicento.
Sebastiano Serlio (1475-1554) codifica con viva chiarezza, sulle orme di Baldassarre Peruzzi, la scenografia del tempo; tutte le sue prescrizioni sono derivate dagli appunti peruzziani. Ma più che le norme tecniche per la costruzione del teatro e per la scenografia interessano certi elementi che conservano la freschezza dell'esperienza diretta. Per esempio la prescrizione delle case più piccole da mettere sul davanti, "acciocché sopra queste si scuoprano altri edifici... onde per tal superiorità della casa più addietro, viene a rappresentar grandezza e riempie meglio la parte della scena che non farebbe diminuendo". Questo consiglio ancora sembra ubbidire a un gusto pittoresco, già praticato da B. Peruzzi nei suoi disegni di scena, tutti affollati di casamenti e ricchi di "profili" di nuovi edifici e rovine antiche, che s'affacciano al di là dei tetti.
Quanto al "colore" di queste scene, si direbbe che la nuova conquista della luce artificiale nella scenografia, stimoli gli artisti ad accentuare il colorismo: i boschi e i giardini con frutta e piante fiorite, sono descritte con entusiasmo dallo scenografo, che consiglia di arricchire le scene architettoniche con lumi o "bocce" di vetro riempite di liquido colorato trasparente "per maggiore vaghezza". Nell'impossibilità di avere sott'occhio documenti pittorici di questo scenografo, dobbiamo figurarci dalle descrizioni che ci ha lasciate il suo mondo apparentemente classicheggiante, ricco di colore, per effetto di quell'ambiente veneto in cui anche il classicismo più spinto si risolve in pittoresco. Una forma già in uso nella scenografia sacra, ma ancora non definita, nel Quattrocento, prende a questo punto chiarezza d' intenti e si prepara ai grandiosi sviluppi seicenteschi: l'intermezzo che assai spesso, divenuto nel corso della sua evoluzione un vero arricchimento dello spettacolo, servirà a mettere in opera la valentia dello scenografo e del coreografo.
Leone de Sommi, autore d'un grazioso trattato a forma di dialogo, tra Massimino, Santino e Veridico (il maestro di cose teatrali) mostra a quale perfezione tecnica fosse giunta la scenografia nel Rinascimento. Egli fu, alla corte di Mantova, il direttore di scena, impresario e anche autore di divertimenti teatrali: è tra i primi perciò che, scrivendo di scenografia, fa chiaramente distinzione tra direttore di scena e "attore" o "istrione". Anch'egli è infarcito di idee classicheggianti, ma si mostra sensibilissimo agli effetti che la scena deve produrre sullo spettatore: prescrive l'illuminazione a seconda degli scenarî e insegna a graduare le luci per maggiore effetto, sia di sorpresa, all'aprirsi del velario, sia di mestizia allo spegnersi delle luci. Consigli pratici, per quanto più semplici, dà anche allo scenografo Angelo Ingegneri il cui trattato, compilato sulla fine del sec. XVI, fu pubblicato a Bologna nel 1604; egli propende per una maggiore immobilità della scena.
Fondamentale, per lo studio della scenografia, è il classico Teatro Olimpico di Vicenza, ideato da Andrea Palladio, messo in opera dallo Scamozzi: in questo, che servì di modello a molti altri (come a quello di Sabbioneta, dello Scamozzi, al Farnesiano di Parma, di G.B. Aleotti) si può riscontrare la perfetta fusione degl'ideali architettonici e scenografici del Rinascimento con le aspirazioni e le dirette esperienze vitruviane.
L'aver aperto il "fondale" tipico del teatro classico facendone tutt'una cosa con l'arco trionfale all'antica, attraverso i cui fornici s'allungano i "casamenti" in prospettiva, realmente costruiti, sebbene minuscoli, fu una delle grandi rivoluzioni scenografiche del Palladio. Creando tre aperture nell'arco trionfale e diramando al di là le strade prospettiche (le cosiddette "vie di Tebe") l'artista ottenne nuove illusioni spaziali non tanto pittoricamente, quanto immaginando dei reali edifici, rimpiccioliti dalla prospettiva. Dal Serlio il Palladio si distaccò per l'accentuazione del carattere monumentale e prospettico e per la coraggiosa attuazione delle sue idee scenografiche. La costruzione dell'Olimpico di Vicenza è del 1580: nella scena soprattutto dobbiamo vedere l'opera di Vincenzo Scamozzi, il quale accentuò il carattere di moderna e libera prospettiva nel teatro palladiano.
Per Sebastiano Gonzaga, lo Scamozzi costruì, nel 1588, il teatro di Sabbioneta, sviluppo, in minore, di quello palladiano di Vicenza. Per quest'ultimo sono interessanti gli studî di scena, disegnati dallo stesso Scamozzi, nello spirito peruzziano, ma destinati alla materiale costruzione in rilievo. Ultima derivazione dei teatri palladiani, è quello monumentale, di Parma, costruito nel 1618 per ordine di Ranuccio I Farnese. Lo scenografo-architetto, che l'ideò mantenendo lo schema del Palladio nella costruzione, modificò, tuttavia, il palcoscenico, tornò senz'altro alle scene mobili, alle quali riserbò un grande vano che nelle numerose cavità della muraglia tradisce ancora oggi lo spazio per complessi macchinarî scenici.
Con questi saggi si chiudeva la breve, ma nobilissima esperienza dei teatri "classici" del Rinascimento: al trarre delle somme s'era conquistato: 1. il teatro al chiuso; 2. la logica disposizione dei posti per gli spettatori; 3. l'approfondimento del palcoscenico, col maggiore vantaggio per la scenografia. S'era dunque, dal provvisorio, passati allo stabile. Ci troviamo alle soglie del teatro moderno.
Il barocco. - Mentre s'andavano vivamente sviluppando, attraverso il perfezionamento della meccanica teatrale, durante la seconda metà del Cinquecento, quegli elementi di pittoricità, di sorpresa e di meraviglia che costituiranno la base del nuovo gusto scenografico, la padronanza del disegno prospettico, la liberazione da certo spirito scientifico di ricerca nel campo teorico, verso una più libera interpretazione dell'illusionismo scenico, portarono a quel complesso di problemi, più schiettamente barocchi che dovevano trovare, nella grande scenografia dei Bibiena il loro coronamento.
Con la maggiore libertà di movimento negli scenarî, con l'introduzione sempre più ampia degli "intermedî" e il posto a parte riserbato alla danza e alla musica, l'elemento pittorico prende il sopravvento su quello strutturale. Il contenuto dei libretti e dei macchinosi drammi perde semplicità e concretezza, diventa il canovaccio o il pretesto (salvo pochissime eccezioni) per la scenografia e la nuova musica: già nel Cinquecento si notava come non si facesse più attenzione al testo lirico o drammatico, in vista degl'intermedî, nei quali fu maestro il Buontalenti.
Gli architetti teatrali italiani passano in Francia, in Inghilterra e creano meraviglie scenografiche; in Inghilterra, proprio per questo nuovo impulso, si passa in pochi decennî, ai primi del sec. XVII, dagli spettacoli improvvisati, in cortili e saloni (quali fin dal Quattrocento si eseguivano nelle corti italiane), al teatro di legname preparato con ogni cura, che ancora conserva dell'antica sala la ricercata intimità. Inigo Jones (v.), nel suo ammirativo attaccamento al teatro del Rinascimento italiano, giunse a copiare disegni e bozzetti del Buontalenti.
I fratelli Vigarani, stabilitisi col vecchio Gaspare a Parigi per la rappresentazione dell'Ercole amante che segnò una data memorabile per la coreografia francese, descrivono, in alcune lettere, dalla Francia, i preparativi per le scene da loro immaginate; lo spettacolo richiedeva apparecchi grandiosi: Venere, Giunone ed Ercole apparivano sulle nuvole. Giunone era seduta sopra un enorme pavone che sventagliava la sua coda sul palcoscenico, la Luna, in mezzo alla scena, doveva aprirsi e mostrare all'interno una grotta argentata dalla quale si snodavano danze di stelle. Corneille, Molière e Lulli furono entusiastici ammiratori e organizzatori di questi spettacoli: il "ballet de Cour" trionfava. L'idea, lo schizzo, il bozzetto scenico vanno assumendo sempre maggior importanza, fondati sulla "trovata" geniale dello scenografo. I cambiamenti di scena, prodotti rapidamente, divengono sempre più ricercati e necessarî: tutto tende alla "meraviglia", meta dell'estetica barocca.
Nel 1617 il Francini, nella grande sala del Louvre, applicando la "quinta" poliedrica come nel teatro antico, produceva nella Liberazione di Rinaldo tre cambiamenti di scena successivi; a distanza di pochi anni, invece, i cambiamenti avvengono per mezzo di quinte su telai mobili, scorrevoli, che scompaiono salendo verso il tetto del palcoscenico, con sistema analogo a quello dei teatri moderni: nel Dario, per es., dato a Venezia nel teatro Vendramin, l'anno 1671, mentre lo spettacolo era diviso in tre atti, i cambiamenti di scena erano, invece, tredici.
Per ricostruire questi spettacoli, mancando avanzi di scenarî dipinti, anche se esistano moltissimi disegni e bozzetti in collezioni pubbliche e private, gioverà servirsi di quei "libretti" che dalla fine del Cinquecento si cominciarono a stampare in pochi esemplari per distribuirli agli spettatori di riguardo o fissare il ricordo di eccezionali festeggiamenti. Per la scenografia hanno pure importanza le numerose incisioni che illustrano le scene principali della produzione teatrale: è di lì, con l'aiuto delle didascalie e delle descrizioni contemporanee, che si può assumere qualche coscienza dell'effetto scenografico "in atto" quale volle l'artista. Il centro maggiore di produttività scenografica è l'Emilia e, in particolare, Bologna: vi si formano gli scenografi nella scuola prospettica, architetti, decoratori che improntano di sé oltre un secolo di attività artistica in questo campo: in Francia è appunto Gaspare Vigarani di Reggio Emilia, che trionfa, mentre Giacomo Torelli (1608-1678) viene detto il "grande stregone". La fantasia del Torelli ha tratti vivaci e particolarissimi: propenso alle forme pittoresche e ariose, sfrutta tuttavia la tradizione architettonica toscana con libertà inventiva e sviluppa, negli scenarî per l'Andromeda di Corneille, per es., il palcoscenico multiplo, o almeno in due piani non visibili agli spettatori, con aperture improvvise di "glorie" celesti al di sopra dei casamenti. Compagno e concorrente, nella sua fervida attività, gli fu Ludovico Burnacini (1636-1707), squisito compositore di "boschi incantati" e di architetture, quali si vedono nelle scene per il Fuoco eterno del 1674, e originalissime scene di "moresche" o danze di demoni (come nel Pomo d'Oro) che soddisfano il gusto esotico così vivo nel Barocco.
Tutte le nuove ricerche scenografiche ebbero, sempre, quel carattere di provvisorietà piacevole, di "stupore" sollecitato con sempre nuove idee, spesso mostruosamente sovraccariche: dove, invece, la scenografia si rinsalda e prende assestamento nobilissimo, è nell'arte dei Bibiena. Pur nella varietà degli scenarî inventati dai Bibiena secondo il temperamento di ciascuno, si può dire che dominò in loro quel carattere che è tipico della decorazione bolognese dei frescanti, prospettici e quadraturisti, in cui l'elemento architettonico ha decisamente la massima importanza. La prospettiva, che era rimasta, anche attraverso le molteplici interpretazioni del primo Seicento, fondamentalmente la "prospettiva centrale" con un solo punto di vista, che si cercava di mascherare con infiniti e talvolta geniali pretesti, riceve dai Bibiena un nuovo impulso e si sposta dal principio quattrocentesco della "prospettiva centrale" verso la maggiore complessità della "prospettiva d'angolo". Come il secolo della chiarezza plastica e del sicuro dominio del proprio mondo aveva riscoperto una legge per specchiarsi nitidamente nel mondo scenico, il barocco, attraverso la "scena d'angolo" con un punto di vista che si perde dietro le quinte all'infinito, trova una soddisfazione alla propria sete di meraviglioso e di illusione.
Fra tutti ha massima importanza Ferdinando Galli Bibiena (1657-1743), figlio di Giovanni Maria (fondatore della gloriosa famiglia di scenografi); egli rappresenta assai bene questa vivace ripresa del gusto prospettico e architettonico nella scenografia, asservita ai nuovi ideali illusionistici: i suoi due volumi di Direzioni ai giovani (che si stamparono nel 1753 e nel 1777) restarono, come il trattato del Serlio per il Cinquecento, il libro canonico della prospettiva barocca.
Di questo scenografo, del fratello Francesco (1659-1739) e dei figli: Giuseppe, Alessandro, Antonio e Giovanni Maria, si conservano numerosi disegni originali. Le incisioni che illustrano il trattato di prospettiva sono state indurite dal bulino dell'incisore, P. Abati, ma anche attraverso questa interpretazione, possiamo godere del "Carcere", composto su scena d'angolo, monumentale e solenne; della superba "Scena d'assedio" in cui, da macchine guerresche, prima di Piranesi, e in un senso di alto decorativismo, seppe trarre la massima teatralità; del "Giardino", anch'esso d'angolo, con la bellissima serie di arcate verdi a perdita di vista e il lungo spazio di cielo, tagliato di sghembo; dei "chioschi di verde", capolavoro della coll. Duomo, a Milano, dove il segno diretto dello scenografo ci permette d'entrare più intimamente nel suo mondo fantastico; infine, della "Scena esotica" con rustica e assolata capanna che ci porta oltre il gusto seicentesco, per la chiara pittoricità che vi domina, immediatamente prima che Tiepolo, nella villa Valmarana, traducesse lo stesso sentimento in piena pittura.
Con gli ultimi Bibiena si giunge, così, al Settecento in perfetto svolgersi di ricerche, fondate anche sul paesaggio, sulla chiarezza di masse architettonicamente composte.
G. L. Bernini non poteva non impegnarsi anche nella scenografia. Di lui ci resta un largo e splendido disegno acquarellato per un sole al tramonto dietro un braccio di mare: vero scoppio di fantasia teatrale: mentre sull'allestimento scenico del Sant'Alessio quel che possediamo non ci rivela gran che di nuovo. Bisogna invece rammentarlo come "improvvisatore" scenografico; si compiaceva di mettere in scena, con pochi mezzi e molta genialità, brevi commedie o spettacoli in cui tutto consisteva nella satira e nel "trucco" scenico. È questo un modo tutto suo d'essere scenografo: da un apparente episodio, far nascere l'illusione che la scena vada a fuoco; o che l'acqua invada la sala: gli spettatori stanno per fuggire, ma ecco che s'apre una botola o si cambia la scena e tutto torna come prima.
Andrea Pozzo, invece, diede vivissimo impulso alla scenografia architettonica, dettandone le norme in un trattato di prospettiva e considerando massimo raggiungimento artistico l'illusione di sfondare pareti con la decorazione o l'innalzare complicate macchine, sia sugli altari sia sui palcoscenici, per spettacoli prevalentemente religiosi. A. Pozzo riesce a creare scenarî fastosi ma chiari, logicamente organati, quali ci sono offerti dalle stampe del suo trattato di prospettiva. Con questi ideali e con la eccezionale preparazione teorica e tecnica, come prospettico, giovò grandemente allo sviluppo di quel che modernamente venne detto il "teatro gesuitico" rivolto a educare dilettando e a conquistare anche la fantasia dei fedeli, talvolta in paesi lontanissimi, specialmente in India e in Estremo Oriente, dove il gusto per il teatro fu sempre vivissimo. Ma con A. Pozzo e i Bibiena s'entra già, attraverso l'estremo Seicento, nella scenografia settecentesca, ancor meno solida, più ricercata, assai meno monumentale e con viva accentuazione del gusto per il pittoresco, l'arcadico e il boschereccio.
Filippo Juvara (1676-1736) rivela ancora, squisitamente, tendenze verso la scenografia architettonica, e, come le sue fabbriche sono ricche di sorprese e di trovate improvvise, con prospettive d'angolo e ariosi cortili che s'aprono dopo complesse gradinate, così, quale scenografo, inventa delicati arabeschi architettonici dove il peso e la monumentalità sono vinti dal predominio dei vuoti sui pieni e dalla straordinaria varietà dei motivi di portici e loggiati. Mentre il Servandoni, prospettico e impresario di spettacoli, porta all'estero nuovi elementi scenografici italianizzanti, il Settecento offre moltissimi nomi di scenografi, per vario riguardo importanti: Vittorio Bigari (1692-1776), Pompeo Aldovrandi (1677-1735), Stefano Orlandi (1681-1760) e, sulla fine del secolo, Francesco Fontanesi e Mauro Braccioli.
Caratteristico, per la maturazione già neoclassica degli elementi scenografici settecenteschi, è lo stile di Mauro Tesi (1730-1766), geniale pittore di scene meno affastellate di architettura, dove, invece, domina l'ispirazione rovinista, con spunti di esotismo egizio che sembrano alludere a Piranesi (si vedano le collezioni di Genova e la serie di disegni Olschki): amico dell'Algarotti, interpretò le idee classiciste del critico. Gaspare e Bernardino Galliari, maturati nell'ambiente milanese, sono precocemente neoclassici negli scenarî già austeri e sfrondati dalle forme barocche, mentre il tardo Carlo Bibiena (1728-85), soprattutto negli scenarî del teatro di Carlo III a Napoli, si diffonde in un gusto "rococò" con tracce interessanti di "cineseria" nella preferenza per architetture lambiccate e leggiere, nell'immaginare paesaggi rocciosi e quasi di gusto ellenistico.
È dunque ormai tramontato il trionfale motivo centrale delle grandiose architetture, sviluppate dagli scenografi bolognesi e soprattutto dei maggiori Bibiena: ne resterà solo l'impalcatura, alla fine del Settecento: in questo tempo la scenografia architettonica cede il passo a quella pittoresca con spunti, contemporaneamente, neoclassici e preromantici.
Pietro Gonzaga (1765-1831), per la vivacità pittorica del suo ingegno e per la facilità prodigiosa delle sue invenzioni, può servire assai bene a comprendere il carattere assunto nell'estremo Settecento dalla scenografia italiana. La sua fantasia è schiettamente veneta, ma la formazione artistica di lui è dovuta alla varia esperienza dei Bibiena e dei Galliari dai quali fu avviato ai segreti prospettici e pittorici. Dagli scenarî delle collezioni private russe e da quelle del Museo teatrale di stato si ricava la convinzione di trovarsi di fronte al più tiepolesco degli scenografi: dappertutto domina la più grande chiarezza e larghezza di spartiti paesistici e costantemente è tenuto conto dei contrasti fra quinte cupe, frastagliate e improvviso schiarirsi di "fondali" e "fondalini". Proprio con lui s'inizia la scenografia più strettamente "pittorica" che, maturatasi attraverso la semplificazione neoclassica, sboccherà nel romanticismo scenografico.
Volutamente non si è fatto cenno a Giambattista Piranesi (1720-1778), nello sviluppo della meccanica e della pittura scenica del Settecento, perché non risulta certo che egli eseguisse vere scenografie: ma si pone qui il suo nome, a conclusione della grande scenografia barocca italiana perché, se l'artista di rado operò per scene teatrali, indirettamente assunse il carattere di scenografo partendo, per le incisioni celebri delle "Carceri", da invenzioni di Francesco Maria Galli Bibiena (da lui portate ad altezza e significazione ben diversa); d'altro lato, proprio per le sue Carceri così intensamente espressive e d'un gusto tanto libero e moderno, formò più d'un caposaldo della scenografia romantica, assetata dell'effetto e ricercatrice di "ambientamenti" suggestivi per lo sboccio della grande opera lirica italiana.
Primo Ottocento. - Fino alla metà del Settecento gli scenografi sembrarono nuovamente preoccupati di fare opera d'arte, cercando particolari ambientamenti con l'opera letteraria o musicale che interpretavano. Questo atteggiamento creativo, più che culturale e intellettualistico, andava d'accordo con l'arte figurativa che, tranne alcuni secondarî elementi di costume, tutto rappresentava nell'attualità del tempo in cui l'artista viveva. Durante il secolo XVIII si maturano, invece, complesse tendenze critiche, si approfondiscono motivi "sociali" di portata già moderna, e noi vediamo gli scenografi preoccuparsi più che mai della verità o verosimiglianza storica della loro scena.
Di qui la preoccupazione (già viva nell'Algarotti e quindi in Mauro Tesi) che lo scenografo sia "colto" soprattutto nella storia e nel costume e in modo particolare nella storia dell'antica Grecia e di Roma, secondo il gusto del tempo: ciò non impedisce che si scrivano trattati di scenografia con tendenze razionalistiche, effetto di esperienze ottiche sull'efficacia dei colori a distanza e sul modo di aumentarla artificialmente.
Tipico, per questo atteggiamento, il trattato di Baldassarre Orsini, pubblicato a Roma nel 1775. Il mediocre scenografo, che dipinse le scene del teatro Verzaro di Perugia, si svela tipicamente enciclopedico, esamina il modo di dipingere le scene, trascurando ormai la grande tradizione architettonica: parla di "dirompere" le tinte (cioè spezzarle quasi in un divisionismo inconsapevole), giustificando questo variare delle tinte con qualche pretesto naturale. La scenografia dell'ultimo Settecento e del primo Ottocento che sarà prevalentemente dipinta e interprete di sentimenti di calma, anche in luoghi "orridi" e disusati: il bizzarro, lo strano, il motivo preromantico e capriccioso saranno messi negli scenarî come le idee peregrine nella letteratura. Dappertutto si affacciano preoccupazioni culturali e critiche. Lo scenografo non può abbandonare ad altri l'esecuzione del bozzetto, ma deve metterlo in opera da solo, e il posto riserbato all'attore o al ballerino non è più secondario: la scena dovrà essere come "un quadro" e cioè composta in armonia, e, talvolta, in dipendenza degli attori.
Queste aspirazioni di maggiore intonazione fra dramma e scena, personaggi e fondali dipinti, si ritrovano nei grandiosi scenarî di Giovanni Perego (1783-1817). Più vivace e ricco di trovate si dimostra Ludovico Pozzetti (1782-1854). L. Cini e P. Palagi, che lavorarono fino alla prima metà dell'Ottocento, sono invece enfatici e magniloquenti, tutti conquistati dalla cultura archeologica o dell'alto Medioevo.
Una delle caratteristiche di questa scenografia neoclassica, che aspira al grandioso, e deriva le sue architetture dalle Terme romane o dalle rovine della Campania, è la continua preoccupazione della "storicità" del proprio stile. A confondere ancor più la già vacillante tradizione scenica, giunge la moda dei "balli" coreografici, derivati, nel primo Ottocento, da ricostruzioni classiche, come il ballo intitolato La morte di Ettore del 1821, per il quale A. Sanquirico, forse il più rigido e significativo neoclassico, eseguì solenni scenarî. Lo stesso scenografo, per La Vestale, del 1818, ricostruisce stanze greche, invece che romane, con un gusto non troppo lontano dalle aspirazioni di un Winckelmann. Per fortuna era ancora vitale qualche propaggine della vecchia scuola emiliana e più strettamente bolognese, di cui Antonio Basoli (1774-1848) è degnissimo rappresentante e lascia, alla sua morte, elenchi di qualche centinaio di scene eseguite. Egli s'era liberato dalle forme neoclassiche e, rifacendosi al Gonzaga, seppe improntare vivacissimi bozzetti d'uno spirito più personale che nella maggioranza dei contemporanei, evidente in quelli dell'Istituto di belle arti di Bologna. Francesco Cocchi (1788-1865) fu forse più vario, ma meno originale del Basoli. Con lui siamo già di fronte a una scenografia eclettica, di gusto romantico e atta a interpretare qualsiasi opera teatrale: il concetto "illustrativo" domina quasi sempre quello più nettamente decorativo della scenografia: con lui vengono di moda quegli imprecisi luoghi abbandonati, vere illustrazioni di Walter Scott, nei quali la luce fioca piove a tratti e lascia gran parte dello scenario nell'ombra: alla stessa maniera il Ruggi introduce diroccate cattedrali e cimiteri "gotici" di gusto inglese come fecero anche L. Cini e G. Baldiali.
Sopraggiunge così, dato il carattere illustrativo e storico-documentario della scenografia verista dell'Ottocento, non soltanto in Italia, ma anche in Francia (dove hanno particolare importanza i ritrovati meccanici e luministici), un genere di pittura scenica che potremo dire anonimo e internazionale, tanto difficilmente s'incontra una personalità nettamente riconoscibile tra cinquantine di artisti operosi e coscienziosi. Il predominare del carattere sentimentale e letterario, specialmente nelle opere francesi, trova facilmente il suo sfondo in questi scenarî; molto spesso una scena si completa con frammenti d'un'altra e, più che alla creazione d'un insieme artisticamente unitario, si tende a un certo rapporto con la tradizione, ripetendo tipici soggetti scenografici come "il bosco", "la reggia", "un braccio di mare", derivati dalla tendenza già nettamente segnata nel primo Ottocento.
Carlo Ferrario (1833-1907) può segnare da solo il tono di questa pittura scenica: allestitore delle maggiori opere di Verdi alla Scala, lasciò gran numero di bozzetti acquerellati e fece incidere in veri "Albi" gli scenarî che ebbero maggior successo. II museo teatrale della Scala e molte collezioni private milanesi possono servire di utili riferimenti. Nella scenografia verdiana, come in quella per le opere di Donizetti (Don Sebastiano, 1862) e di Bellini (Capuleti e Montecchi, 1861; Norma, 1863), egli si applicò con notevole impegno tecnico allo studio delle luci per trarne il massimo effetto e contribuì a mantenere la scenografia al livello d'un dignitoso commento di sfondo per le opere da rappresentare. In questo senso, fra i più originali scenografi "verdiani", va ricordato Luigi Bazzani, vivace creatore di bozzetti largamente acquerellati.
Maggiore goffaggine si osserva nel tentativo di fare appello alla "fantasia" teatrale, che era stata gloria della pittura e dell'architettura scenica dei secoli XVII e XVIII. Contribuisce alla mancanza di gusto e di possibilità espressive l'astrusa e frigida commistione di simbolismo e di materialismo che investe gran parte delle manifestazioni artistiche del secolo XIX. Per questo, si osservino le scene per Fiammella o la figlia del diavolo di Gorza e Meiners (C. Ferrario), in cui una "bolgia infernale" (stagione 1886) non possedendo alcun appiglio veristico e invocando, d'altronde, sterili motivi fantastici, resta come testimonianza dell'impoverimento della facoltà immaginativa negli scenografi dell'Ottocento. Né si ricorda senza un severo giudizio l'imperversare di quei "balletti" coreografici (tentativi di riabilitazione decorativa del genere barocco attraverso i progressi della meccanica scenica), nei quali le ultime scoperte dell'ingegno umano: il vapore, l'elettricità, ecc., pedissequamente simboleggiate nell'adorazione per il "Progresso", venivano portate sulla scena in un barbarico insieme di realismo crudo e di allegorismo superato da secoli. Urgeva alle porte della scenografia, su tutte le scene, di nuovo il diritto all'opera personale dell'artista, alla libera interpretazione del soggetto teatrale, alla creazione di quel clima lirico che è conquista dei nostri giorni.
Scenografia moderna. - La scenografia moderna si sviluppa di pari passo con le nuove teorie della messinscena e comincia dalla riforma wagneriana del melodramma: dal momento in cui supera l'idea di décor, scenografia a sé stante, che assiste passiva all'azione, per divenire parte integrante del dramma, che, per la scenografia moderna, significa tutto l'ambiente dove esso si svolge. Il teatro di Riccardo Wagner si allaccia a un romanticismo che dal punto di vista pittorico si collega alla tradizione dei realisti. Del pari la visione d'insieme trascende il fatto pittorico preso separatamente e scenografia diventa l'illuminazione atmosferica, l'armonia degli elementi paesisistici col significato mitico dell'azione, la misura del gesto dell'attore creante una nuova plastica fusa nel ritmo della musica. In vero, è Wagner che pensa alla fusione di tutte le arti sul palcoscenico e a questo scopo si fa costruire a Bayreuth, nel 1876, un teatro apposito.
Il primo colpo dato alla pittura scenografica di tradizione romantica è rappresentato dalle teorie veriste per cui la messinscena deve essere intonata fedelmente all'ambiente della vita (Théatre libre di Antoine a Parigi). Esse risalgono al 1887. Si giunge a portare sulla scena appositamente dipinta per Les Bouchers di Fernando Feres un bove squartato; ma l'eccesso dell'analisi conduce a una pittura scenografica fatta di minuzie farraginose che si dimostreranno non essenziali all'opera drammatica. A un male inteso realismo risale la responsabilità di una scenografia di seconda mano praticata dal teatro mediocre e durata fino ai nostri giorni.
Al realismo reagisce il "simbolismo" francese col quale si affaccia il problema dell'espressione degli stati d'animo (1890): primo passo verso l'allegorizzazione, l'interiorizzazione e la semplificazione dello scenario (Théâtre mixte di Paul Fort divenuto poi Théâtre d'art e caratterizzatosi per la discussa rappresentazione di La fille di P. Quillard). Gli sforzi francesi si seguono incalzanti. Il Théâtre moderne di Alfred Vallette contemporaneo del Théatre d'art contribuisce anch'esso alla smobilitazione del realismo verso una sintesi parlante, auspici Lugné Poë, che rivediamo con Camille Mauclair fondare nel 1892, con lo spettacolo Pelléas et Mélisande di Maeterlinck, il Théatre de l'Œuvre, e i pittori Denis, Vuillard, Ranson. Verso il 1912 il Rouché al Théâtre des Arts - rappresentando le prime sere il Carnaval des enfants di Saint-Georges de Bouhélier e Le Sicilien ou l'Amour peintre di Molière - stabilisce il servizio esclusivo della scena alle necessità del dramma dichiarandone l'assoluta inseparabilità, quindi: potenza e armonia unitaria di ogni elemento fino alla suppellettile e al costume, qualunque sia la tendenza spirituale del lavoro da rappresentare. Si vale dei più brillanti pittori che si mettono a disposizione del regista: Dethomas ricercatore di semplicità; Drésa, all'opposto, ricchissimo e fantastico; Piot evocatore leggendario; Guérun decoratore magico. Questo connubio con i pittori d'ogni sorta conduce allo scenario ricreato sull'azione con grande libertà interpretativa. Si giunge così, accanto al Fauconnet, che rimane aderente alla sostanza del dramma, a Picasso e Matisse i quali, trascinando nella scenografia le proprie inclinazioni pittoriche di fissità il primo, d'impressionismo luminoso il secondo, giungono - come il Poiret o il Léger, dinamista originale più adatto al balletto che all'azione castigata di qualche intollerante autore - a un'individualismo che si sovrappone all'esigenza del dramma. Questo è il pericolo che si corre tutte le volte che, seguendo le mode pittoriche del momento - tentativo già esperimentato nel 1918 dalla compagnia di balletti russi di Sergio Diaghileff (Djagilev) - si trasportano nella scenografia i problemi e le polemiche proprie della pittura da cavalletto.
Perno della messinscena contemporanea è Gordon Craig le cui teorie appaiono nel 1896. Stilizzazione, sintesi di elementi simbolici grandiosi suggeriti all'immaginazione dell'inscenatore dal carattere della poesia teatrale del lavoro. Distruzione definitiva della didascalia scenografica. Grande importanza della tonalità del colore dominante l'azione intera rispetto alla natura di quella poesia o dei momenti della medesima, tonalità estensibile al costume dell'individuo, delle folle, donde: concezione rigidamente unitaria della messinscena, di un solo maestro regolatore, principe della complessa dinamica dello spettacolo: il regista. Poiché Craig sviscera le finalità dello spettacolo rifacendosi dall'attore - il quale è il personaggio artistico che misura e calcola ogni passo della realtà da rappresentare - accade che lo scenario, vivendo in armonia col dramma, vive in armonia con l'attore. Importanti, su queste basi, sono i suoi bozzetti shakespeariani.
Da una interpretazione geometrica del complesso scena-attore scaturiscono i principî dello svizzero Adolfo Appia. L'attore è qualcosa di più di un corpo solido e di una macchia di colore semovente: ha un valore rigidamente stilistico il cui giuoco si manifesta mediante la ritmica dei movimenti. Da qui l'uso di scalini e blocchi cubici che aiutano il rendimento dinamico-espressivo del corpo umano. Concentrata su ciò l'importanza dell'azione, è intuitivo che naturalismo e storicismo scenografici sono distrutti per un mondo architetturale che è una vera e propria astrazione orchestica di forme. Allegorizzando il senso di quella ritmica formale e spaziale la musica è grande alleata e l'Appia ebbe agio di trasportare la sua teoria nel dramma wagneriano.
Si è visto a poco a poco la scenografia da dipinta divenire plastica e non già per scopi meramente architettonici, che potrebbero richiamare alla mente le scene costruite degli antichi, ma per fini spirituali. Così nasce la scenoplastica la quale ha trovato buon campo di sfruttamento attraverso il futurismo. In virtù della produzione teatrale futurista ("teatro sintetico") insieme con la scenoplastica si ode parlare per la prima volta di "scenodinamica", "scenosintesi", "spazî polidimensionali", "atmosfere", "compenetrazioni", "simultaneità" "architetture spaziali", tutte asserzioni di cui sarà facile trovare il significato nelle analoghe teorie estremiste proprie alle arti plastiche di questo periodo. La modernolatria futurista, sondando le possibilità di moto esteriore della vita (velocità meccaniche) e interiori (forze di volontà, stati psicologici, drammi umani ed extraumani), escogita tutti i mezzi meccanici possibili per avere dal teatro i massimi equivalenti di quelle attività. Ciascun nome di artista (Balla, Depero, Prampolini, Marchi, Pannaggi) risponde a una visione personale integrante della visione totale del teatro contemporaneo.
La luce elettrica è uno dei capitali elementi tecnici della rivoluzione teatrale (v. Scenotecnica). Una nuova sinfonia è possibile, superiore alla luce di per sé stessa: quella dei colori vibranti nell'atmosfera, mobili, compenetrabili.
Ancella dapprincipio del realismo romantico e del verismo, si libera da queste servitù per mezzo delle teorie di Achille Ricciardi sul "teatro del colore" lanciate dal 1906 in poi, quando le nuove idee sulla messinscena non erano ancora giunte in Italia. Lungo sarebbe rifarsi alle premesse estetiche che conducono alla teoria ricciardiana. Ci varremo di una felice frase di Gino Gori per riassumerne il significato: "Tutta la sostanza del teatro del colore, a parte i valori tecnici che esso vuole realizzare, sta in questo: che oppone un'arte irrazionale al razionalismo estetico di tradizione". Di fatto il giuoco deriva dal "rapporto intuito fra lo stato psichico dell'eroe e il colore, il colore e le vicende dell'ambiente, queste ultime e il lirismo panico della danza". Dalla penetrazione del ritmo della danza e della musica il colore animato e vibrante s'integra dapprima col gesto umano, lo insegue liquefacendolo in una composizione nuova. Si può giungere a decorporizzarlo finché rimanga colore agente da solo sotto l'impulso di andamenti orchestici. La teoria di Ricciardi, poggiante sul puro lirismo, incontrò grandi contrasti quando egli tentò di ridurla in pratica nel Teatro Argentina di Roma, anche per la deficiente attrezzatura della tastiera meccanica oggi di gran lunga progredita. Ma essa rimane ad aprire l'orizzonte a sviluppi molteplici, a estreme conseguenze.
Le ricerche teatrali di Anton Giulio Bragaglia marciano parallele a quelle del Ricciardi. La luce colorata e liricizzata partorisce la "luce psicologica". Se è stata scoperta un'anima nella luce moderna è naturale che debba partecipare dell'anima dei personaggi drammatici. Essa vien presa dal turbine dei fatti, dagli svolgimenti dialogici. Se nella luce del Ricciardi sembra di scorgere una specie di scatenamento musicato essa va condotta verso l'humanitas. L'atmosfera ambiente deve partecipare del contenuto di ciò che accade, sollevarlo ad alta potenza. Da qui la definizione tutta spirituale di "clima scenico". A ciò si arriva, secondo il Bragaglia, con la mobilità dei bagni colorici dai proiettori. Giunti a simile punto dell'interpretazione luminosa del dramma si giunge al totale annientamento dei comuni mezzi scenografici per comporre, con mezzi inusitati, la somma dello "spettacolo". Le cui risorse non vanno ricercate tutte nella natura letteraria del copione il quale deve dare adito a "rendere, con mezzi plastici, decisi, varî, ogni teatro altrui, al quale si deve aggiungere come interprete il mago di scena". Il Teatro degli Indipendenti aperto nel 1926 a Roma, esperimenta queste teorie, attraverso spettacoli di balletto mimico, danza, e commedia, pone la scenografia in sottordine all'organizzazione scenotecnica e ne fa uno strumento intimo della rappresentazione in mano del regista. Queste teorie passano sotto la denominazione di "teatro teatrale" in cui tutto vive nel fine supremo di una spettacolistica unità rappresentativa.
Dal canto suo il futurismo anela spingersi alle più estreme conseguenze. Il "teatro plastico del colore" è applicazione della luce colorata al volume colorato quale si vide al Costanzi di Roma nel 1917 per merito di G. Balla, nel Fuoco d'artificio di Igor Stravinskij per la compagnia di S. Diaghileff (Djagilev), primo tentativo di formare di detto volume l'equivalente plastico e luminoso della musica. Il "teatro magnetico" tentato da E. Prampolini nell'intento di superare anch'esso ogni "materialismo scenico" si basa sulla "metafisica degli spazi" per cui le interferenze di piani astratti e le conseguenti profondità colorate creano gli spazî scenici della suggestione. Quando sembrerà ai futuristi che il palcoscenico abbia limiti troppo angusti per contenere l'immensurabile dell'azione scenica, si si predicherà la distruzione dell'arco scenico - limite del vano illusorio della finzione - per spaziare entro a tutto il teatro considerato non più come architettura donde si ammira l'opera ma come luogo architettonico dell'opera.
Indubbiamente alcune di queste teorie hanno un valore polemico, ma sarebbe ingiusto non riconoscere che le loro conseguenze si ritrovano nell'elaborazione di alcuni generi del teatro contemporaneo. È facile riscontrare nelle applicazioni del Ricciardi la grande aspirazione wagneriana o i sensi misteriosi del teatro di Maeterlinck. Certe opere di Pirandello giustificheranno poi questi principî (Sei personaggi in cerca d'autore), che diverranno anche la base di qualche commedia (Questa sera si recita a soggetto, I giganti della montagna). Non è a dire che l'importanza delle teorie sia stata sempre e prontamente assorbita dal teatro italiano. Se quello di prosa è il primo ad assorbirle, il teatro lirico si mostra più restio se pure da tutto questo e dalle invenzioni scientifiche dovrà uscirne influenzata la sua tenace tradizione pittorica; di modo che aggiungiamo alla nostra breve rassegna i principali nomi di coloro che, in un senso o nell'altro, continuano il glorioso cammino della scenografia italiana.
Il Rovescalli, lo Stroppa, il Parravicini, il Grandi, il Marchioro, il Polidori, il Bianco si possono considerare i continuatori della scuola scaligera ravvivata dal progresso dei sistemi tecnici; l'Oppo, il De Chirico, il Conti, il Sironi vi portano il contributo della loro esperienza di pittori da cavalletto con la varietà delle loro tendenze applicata alle interpretazioni singole del dramma; l'Aschieri, il Cito Filomarino, il Fagiuoli, il Cambellotti vi recano la loro visione ed esperienza di solidi architetti. Pregio particolare del Cambellotti è di essere stato il primo ad affrontare magistralmente i problemi del teatro classico all'aperto (Teatro greco di Siracusa) dove spiegò una scenoplastica arcaicizzante adattissima alla suggestione dei movimenti delle folle e dei protagonisti, affermando una delle più significative manifestazioni architettonico-scenografiche dell'epoca nostra.
Al presente una pleiade di giovani forze pare aver fatto tesoro delle teorie scaturite in Italia da circa un ventennio ed è tesa alla loro applicazione pratica.
Alla somma dei sopraenunciati principî - a parte i Francesi - si appoggiano gli indirizzi stranieri.
Legittimo vanto di propaganda portano i Russi per avere assorbito prontamente gli aspetti del teatro nuovo creando scorci scenici che hanno, a loro volta, influenzato tutta Europa. Stanislavskij si è formato nel movimento realistico francese. Lo ritroviamo a Mosca con Meierhold e Dantčenko a gettare le basi di quel "teatro d'arte". Per Stanislavskij il realismo non è bandito dalla scena ma è ridotto a una sintesi la quale racchiude in sé l'essenza dei caratteri peculiari dell'ambiente che si rappresenta.
Quindi: stile. Siccome lo stile è espressione degli atteggiamenti dell'individuo e dell'epoca, questo periodo del teatro russo - iniziato nel 1898 - tende a raggiungere attraverso lo stile le notazioni psicologiche del dramma. Una frase individua questa visione della messinscena: "La permanenza dei caratteri, delle attitudini, dei gesti".
Alta aspirazione stilistica guida la Compagnia dei balletti diretta dal Diaghileff. Egli si giova di ogni movimento pittorico contemporaneo e segna il trionfo di L. Bakst, il quale, scenografo dei teatri imperiali, pare rappresentare l'apoteosi dello scenario dipinto. Il bizantinismo del colore ci pone dinnanzi quell'indimenticabile fantasmagoria che lo trova alleato della tragedia dannunziana quanto di una fantasia da Mille e una notte. È maestro insuperabile nel considerare il costume come macchia luminosa in movimento intonata al quadro. È decoratore sino all'ebbrezza orgiastica della policromia. Lo stile diviene in lui esaltazione colorica della forma e la sua forza di attrazione è tale che una pleiade di scenografi ne rimane avvinta: Roenich, Solovin, Ferodovskij, e altri sino al Benoit. La preoccupazione interiore non si fa strada con questa scuola che rimane più adatta al coreografico che all'azione intimista. Di conseguenza a tale scuola si collegano la Gončarova e Larionov, sebbene con essi il futurismo faccia l'ingresso sulle scene del balletto. Un futurismo che rimane lirica pittorica fino al rabesco stravagante e al misticismo slavo della prima, fino alla dinamica sprigionata dalle forze simpatiche delle forme oggettive che il secondo chiama rayonisme.
Per ritrovare lo scenario in cavità interiore occorre tornare a Meierhold. Aggiornatosi coi tempi nuovi egli diviene maestro di scena del Teatro di stato russo e appartiene alla categoria dei cosiddetti costruttivisti. L'azione sembra svolgersi nell'anima di una costruzione scenica più che in una scena. È un portato del meccanicismo moderno - conseguenza estrema dovuta in parte al futurismo - che sopraffà il concetto storico dell'azione. Il mettinscena non si adatta né si annulla nell'interpretazione ambientale, ma impone il suo ambiente psicologico persino a fatti proprî ad altri ambienti. Non v'è chi non veda il pericolo insito in tale tendenza la quale conduce Meierhold all'interpretazione di lavori nuovissimi adatti a una forma mentale che egli trova nel Teatro della Rivoluzione.
L'estremismo russo è rappresentato da Tairov. Il "surrealismo" di Tairov si collega alle esperienze futuriste e integra quelle di Craig e dell'Appia. In brevi termini il suo punto di partenza sta nella differenza che corre tra una "realtà superficiale" e una "realtà profonda". L'attore s'ingigantisca e la scena contribuisca all'ingigantimento. Per dare il rendimento massimo la scena dovrà sviluppare quella terza dimensione che lo scenario realistico limita alla barriera del fondale.
Risultato: una successione plastica di elementi in relazione ritmica con l'attore, ma tale che le orizzontalità, verticalità, obliquità creino la maggiore illusione di grandezza di quest'interprete.
Molti sono i maestri russi che approdano ai suaccennati principî. Le macchine dei palcoscenici mobili in ogni parte, trovano applicazione adeguata agli scopi del teatro nuovo (v. scenotecnica), sia che servano alle sensazioni veloci di un Dolinov, agli scenarî della Exter o alle architetture di un Vesnin e d'un Ferdinandov.
I Tedeschi risentono di Craig e di Appia, ma la loro perfetta organizzazione meccanica permette di ottenere risultati formidabili. Giorgio Fuchs e Fritz Erler, antinaturalisti sintetisti del Künstlertheater di Monaco, sono per il predominio dell'attore nell'unica tonalità drammatica. Trionfatore in teoria e in pratica è Max Reinhardt. Direttore di spettacoli, assorbe dalle varie tendenze quel tanto che necessita alla natura del dramma. Antinaturalistico anch'egli converge le forze scenografiche sulla essenza dello spettacolo. Parola d'ordine del suo teatro è il "senso" della cosa da rappresentare. Ora, il senso, esteriorizzato, non è che sintesi architettonica immersa nei momenti psicologici della luce. Non si polarizza su culmini aprioristici. Da grande organizzatore realizza dapprima il Deutsches Theater di Berlino e si vale della collaborazione di pittori come Stern, Corinth, Slevogt, Walser. La perfezione meccanica tedesca si conclude in Paul Viecke ideatore del palcoscenico mutiplo dello Staatstheater Schauspielhaus di Dresda sul quale opera, appoggiandosi alla teoria della luce interprete del dramma, su una tonalità generale nella quale subentrano a tempo i singoli momenti colorati. Egli introduce importanti modifiche meccaniche di cui si varranno gli estremisti Strand e Stern che, attraverso l'"astrazionismo" si collegano ai futuristi italiani. Piscator è importante per l'introduzione del cinematografo in una messinscena fatta di movimento continuato di episodî, anche simultanei, e per il carattere sociale della produzione derivante dal teatro russo della rivoluzione: cioè teatro per folle e di folle: queste intervengono sulla scena con mezzi di proiezione, fondendosi con l'attore vivente. Effetti di luci veloci su attori; simultaneità di ambienti; compenetrazione di attori con immagini di attori. A proposito di proiezioni va accennato al tentativo della Exter per la quale la scena fissa, anziché essere dipinta su fondale, viene dipinta sopra una lastra e ingigantita sul fondale medesimo per mezzo di macchine a lente.
La Boemia, sorta a nuova vita nazionale, rompe i ponti con la tradizione classica e romantica appena centenaria e assimila tutte le teorie contemporanee. Principio di un'era nuova è Kvapil che sente l'influenza di Reinhardt. Quel che preme al teatro cecoslovacco è di essere "attualista". Ogni tentativo è escogitato, a seconda della natura delle opere e del carattere del maestro scenico. Wlastislav Hofman è l'architetto principe. Pur cercando qua e là nelle molteplici tendenze i gradi massimi dell'espressione, si rifà principalmente a quello schematismo costruito che sembra divenuto il dominio generale degli architetti scenici di polso. Egli sa bene adattarlo all'estrinsecazione lirica e tragica. "Attualismo" è sinonimo dell'"attivismo" di Hilar, "riflesso di tutte le idee che vanno per il mondo" e quindi, teatralmente parlando, di tutte le teorie. Dalle quali non vanno separate le scene di più posati scenografi pittori ma caratteristici come Wenig, Gottlich, Brumer e l'originalissimo Iosef Čapek, autore singolare e affascinante illuminatore; Zelenka efficace metafisico e altri della schiera dei Babanech e Milan, schiera che aumenta anno per anno.
La Spagna ha sentito ultimamente lo stimolo dell'arte scenografica. Emerge un Barradas: eclettismo, scene dipinte, macchiettismo operettistico e qualche deformazione espressionista, ma un vero e proprio problema scenografico che assilli gli Spagnoli non esiste almeno per ora. Si sa di progressi del teatro romeno e del teatro greco. Si può dire ormai che ogni popolo evoluto cerca di porsi al corrente con le moderne questioni scenografiche e aggiorna in tale senso i proprî teatri.
Scenografia di carattere modernissimo è quella "cinematografica", regolata da altre leggi. Il divario fra questa e quella teatrale sta principalmente in ciò: mentre la scenografia teatrale si esplica sopra un palcoscenico, con punti di vista degli spettatori al difuori, nella sala, per l'altra l'osservatore è, in primo luogo, costituito dall'obbiettivo della macchina da presa occupante l'interno del luogo drammatico. Insegue gli attori nei loro movimenti per tutti gli angoli in un giuoco di analisi ben diverso dalla visione per sintesi che si ha del quadro teatrale. Da uno scenario visto quasi frontalmente e ad obbligata altezza di orizzonte si passa a una stereometria dove la quarta parete è chiusa e lo spazio scenico vive in tutte le profondità. Ogni punto morto della scena può essere scovato dall'obiettivo e bloccato sotto tutti gli angoli visuali. Da lì il pregio della "inquadratura" o rettangolo entro cui è limitato il quadro. Il particolare, la scena ripresa da vicino ("primo piano"), è tanto importante quanto una scena d'insieme giocata sulla distanza ("campo lungo"); intendendosi per "campo" lo spazio che la camera da presa può abbracciare entro il proprio angolo visuale. Si tratta di una scenografia plastica la cui illuminazione si fonda sulla valorizzazione del chiaroscuro fotografico. Quanto v'ha di pittura è subordinato a speciali leggi policrome tese ad assecondare quel risultato chiaroscurale. Accorgimenti speciali sono nati a scopi illusivi e anche economici, come la "miniatura", bozzetto plastico della scena in proporzioni ridotte; la costruzione dell'"angolo essenziale" quando la scena avvenga in una parte sola dell'ambiente che tuttavia potrà essere inteso nella sua vastità mediante accorgimenti luminosi; il "camuffamento" per adattare ambienti interni ed esterni all'azione, ecc., per non parlare dei trucchi che si applicano in sede puramente fotografica.
La scenografia cinematografica è quando lo spettatore viene portato al centro dell'azione (d'onde lo stesso attributo applicato per metafora a certe azioni teatrali sviluppate centralmente al teatro)- Essendo questa scenografia, come si è visto, di natura eminentemente architettonica, dicendo scenografia cinematografica deve essere sempre presente l'idea di ambiente. Si ha quindi adesso con più proprietà, il senso di "costruzione" cinematografica. Ogni scena di un film si gira nell'ambiente che gli è proprio. Dunque ogni scenografia parziale, cioè ogni costruzione particolare, è un elemento di quella più complessa scenografia totale che risulta dalla somma di tutte le costruzioni che appariranno inserite e visionate dinamicamente, talvolta addirittura compenetrate nel film intero dopo il montaggio (v. cinematografo). I compiti di questa scenografia sono pure storici, realistici, fantastici a seconda della natura del soggetto. Non sarà male chiarire un diffuso significato acquisito sotto la denominazione di "realtà cinematografica". S'intende parlare di una scenografia la cui realtà si pone al di là della fredda riproduzione documentaria, ma è arricchita da valorizzazione leggermente paradossale delle impostazioni dello scenario. Buona parte ha su questo effetto la disposizione e l'intensità delle luci, la vicinanza delle loro fonti, la scelta dell'inquadratura che possono bastare da sole a far trascendere la scena verista in un tono sopra del reale. Compito della scenografia cinematografica, almeno al momento attuale, pare quello di consentire al bisogno di varietà dinamica insito nella natura medesima di questa grande invenzione artistica e scientifica. (Per la tecnica scenica cinematografica, v. scenotecnica).
V. tavv. III e IV e tavole a colori.
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