La vita religiosa
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
II termine “religioso” è inizialmente riferito al concetto latino di pietas e connota semplicemente una vita austera e dedicata alla preghiera. Sarà solo a partire dal XII secolo che si sentirà l’esigenza di normativizzare le forme di religiosità, riferendo lo status religionis esclusivamente alla vita consacrata.
Il campo semantico che attualmente include la definzione “vita religiosa” ha una formazione di lunghissimo periodo che va dall’epoca evangelica al presente del moderno diritto canonico.
II termine religio e quelli da esso discesi, genericamente riferibili al concetto latino di pietas, sono di uso comune nei primi secoli cristiani e si riferiscono a una modalità esistenziale connotata dalla austerità complessiva della vita, talvolta dalla continenza sessuale (o dal celibato) e dalla assiduità nella preghiera: statuto comportamentale che coinvolge molti membri delle comunità cristiana – dal clero alle pie donne (vergini o vedove devote), fino ai coniugati più ferventi – senza che tali modalità siano codificate da precise definizioni normative. Gregorio di Tours nella sua Storia dei Franchi fornisce alcuni esempi di questa condizione i cui caratteri verranno definiti da una serie di concili tenuti in Gallia e Spagna tra V e VI secolo. Anche Girolamo, Giovanni Cassiano o Agostino hanno dato, con accenti diversi, testimonianza del significato che il mondo tardoantico ha attribuito alla vita religiosa prima che Salviano di Marsiglia, attorno al 450, introduca una fortunata distinzione tra coloro che vivono nel secolo (saeculares) e coloro che lo fuggono (religiosi), impegnandosi con una professione pubblica a manifestare uno specifico statuto spirituale caratterizzato dal celibato e dalla pratica devozionale.
Anche le regole monastiche del resto fanno grande uso “tecnico” dell’aggettivo religiosus rivestendolo dei caratteri propri della idealità cenobitica. In seguito alle riforme carolinge la distanza tra le forme di vita consacrata e quelle genericamente ascrivibili alla pietas religiosa si accentua a discapito di queste ultime: tuttavia i testi ci trasmettono, per l’alto Medioevo, molti esempi di laici penitenti per i quali il termine religiosus o l’avverbio religiose rinviano alla pratica eremitica o peregrinante. La riforma del costume ecclesiastico nel corso dell’XI secolo, ponendo l’accento sulla necessità della vita comune del clero, auspica che i canonici siano religiosi clerici, identificando la religio con una prassi fondata più sull’adesione alla lettera evangelica che sul riferimento a una normativa regolare. L’età gregoriana generalizza questo significato rendendolo ugualmente riferibile sia allo statuto laicale sia a quello clericale: e anche l’elaborazione canonistica avviatasi con il XII secolo, col suo rifarsi alla tradizione antica, opera una sintesi rispettosa della tradizione ma non coglie la necessità di una precisazione normativa che è di contro stimolata dal pullulare di proposte religiose – ereticali come ortodosse – in corso in quel tempo di sperimentazioni istituzionali.
Questa domanda normativa giunge a piena maturità nel secolo successivo, trovando un primo, significativo momento di coagulazione nei limiti imposti dal concilio Lateranense IV (1215) alla proliferazione, sentita come eccessiva, delle forme di vita religiosa.
Con il divieto di istituire nuovi ordini e con l’omologazione forzata alla morfologia regolare esistente si codifica lo stato religioso come sistema normativo cui necessita una approvazione; questo controllo genera una procedura di autenticazione pontificia della sperimentazione religiosa che sarà visibile di lì a breve nella faticosa gestazione istituzionale delle religiones novae (i Mendicanti) del XIII secolo, le quali riusciranno a imporsi solo attraverso il filtro della sanzione e dell’approvazione romana. L’assunzione di sempre più forti responsabilità teoriche da parte di esse nel corso del XIII secolo, specie nel quadro del conflitto coi maestri secolari dell’Università di Parigi, farà dei loro pensatori i protagonisti della codifica dello status religionis, con la conseguente definizione delle sue forme e dei suoi specifici attributi.
Elaborata sulla scorta della tradizione e delle istituzioni coeve, la dottrina canonistica successiva al Leteranense IV lega definitivamente il concetto di religio a quello di regula e anche il polimorfismo laicale delle forme di religiosità viene progressivamente normato e controllato, come evidenzia la nomenclatura delle bolle papali (nelle quali i termini religio e religiosus sono sempre più frequentemente affiancati dall’aggettivo regolare). Emblematizzato nella terminologia del diritto, il significato di religio si stabilizza, definendo sia la regola o disciplina seguita dai religiosi sia lo stato religioso, a conferma di un generalizzato processo di disciplinamento delle manifestazioni spirituali in corso tra tardo Medioevo e prima età moderna.
In epoca tridentina la riflessione canonistica sulla categoria della vita religiosa conferma l’omologazione con lo statuto regolare sancito dai voti solenni, mentre a questa restrizione corrisponde una progressiva crescita di istituti ecclesiastici caratterizzati dall’emissione dei voti semplici: solo in età moderna, durate il pontificato di Pio X, questa variegata casistica istituzionale sarà sottoposta alla vigilanza della neo istituita Sacra Congregazione per i Religiosi. Se dunque alle sue origini il campo semantico sotteso al concetto di vita religiosa non implica alcuna categoria giuridica, ma si estende, nella polisemia della tradizione cristiana antica, alle disparate modalità espressive del radicalismo evangelico, la svolta canonistica avviatasi con il XII secolo ne avrebbe progressivamente delimitato la natura riferendolo esclusivamente alla vita consacrata.