Introduzione
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’influenza sul mondo musicale romano più antico delle civiltà confinanti, sopra tutte quella greca (specie dopo la conquista di una delle sue maggiori colonie, vale a dire Taranto, nel III secolo a.C.) ed etrusca (la cui importanza per lo sviluppo del contesto privilegiato delle esibizioni teatrali e musicali romane, cioè i ludi, è esplicitamente dichiarata nelle fonti) è problematica da misurare nel dettaglio, vista la scarsità di informazioni dirette sulle attività artistiche in Etruria (affrontate nella sezione sulla musica del volume dedicato alle culture più antiche) e nelle città di cultura greca dell’Italia meridionale durante il periodo repubblicano (509-27 a.C.). Quando poi l’Egitto tolemaico diventa provincia romana (nel 30 a.C.) e Roma rileva il ruolo che era stato di Alessandria quale centro culturale del mondo mediterraneo, la politica imperiale promuove l’unità della cultura greca e romana e, da questo momento, diventa ancora più difficile tentare di distinguere ciò che vi è di autoctono nella musica prodotta e studiata nell’impero. Non esiste, infatti, nessun frammento di musica con testo latino, ma ben 40 frammenti con notazione musicale e testo greci di età imperiale (contro i 22 d’epoca classica ed ellenistica), composta da musicisti greci in contesto romano, come i brani del cretese Mesomede, citaredo attivo alla corte dell’imperatore Adriano nel II secolo, al quale è dedicato in questa sezione un intero saggio. La stessa trattatistica musicale, che sfocia nel Medioevo nei celebri scritti di Agostino, Marziano Capella e Boezio, ma che vede ancora prima tra i principali protagonisti Varrone, autore del primo trattato in lingua latina sulla musica nell’ambito dei suoi Disciplinarum libri IX (la grande enciclopedia latina che getterà la base della bipartizione medievale delle arti liberali in trivio e quadrivio), non sembra produrre nulla di originale rispetto ai modelli ellenici, ereditando e riproponendo i principi delle teorie musicali pitagorica e aristossenica, con una netta predilezione per l’approccio cosmologico-matematico.Tra gli ambiti più prolifici sviluppati dal mondo romano vi è quello dell’arte oratoria, per il cui insegnamento, come mostra nel suo saggio Donatella Restani, vengono esplicitamente utilizzati (su modello greco) paradigmi musicali al fine di rendere il bonus orator capace di infondere al discorso le giuste inflessioni melodiche e ritmiche. Anche se lo sviluppo in ambiente romano di una trattatistica retorica (in lingua sia greca che latina: Dionigi di Alicarnasso, Cicerone, Quintiliano) che dedica un interesse specifico a questi argomenti è probabilmente legato all’usanza tipicamente romana degli oratori di farsi accompagnare da un musicista nei discorsi tenuti in pubblico, come raccontano Cicerone (L’oratore 3, 225) e Quintiliano (Istituzione oratoria 1, 10, 27) a proposito dell’oratore Caio Gracco (a cui un musico forniva la nota adatta a regolare la tonalità della voce attraverso uno strumento chiamato tonarion), ugualmente il tradizionale accostamento tra i due sistemi di comunicazione della retorica e della musica affonda le sue radici nella cultura ellenica.
Sembra quindi molto difficile valutare l’originalità dell’apporto romano alla cultura musicale dell’antichità e pare non avere molto senso la ricerca di una musica genuinamente romana contrapposta a quella greca: la progressiva e mutua assimilazione tra le due culture musicali tende infatti a produrre un idioma musicale comune, come conferma anche l’uso del calco latino ars musica per indicare la stessa interazione tra componenti poetiche, musicali e coreutiche veicolata dal termine greco mousike techne. È però curioso che, mentre il greco sviluppa a partire dalla tarda età classica una serie di termini tecnici legati all’esecuzione strumentale in contrapposizione alla melodia vocale – krousis vs. melos – riflettendo probabilmente una progressiva emancipazione della musica strumentale dal canto, il latino continui più spesso a esprimere la produzione di suoni strumentali attraverso il verbo cano (“canto”) seguito dall’ablativo dello strumento (fidibus canere, lett. “cantare attraverso la cetra, quindi suonare la cetra”).
A Roma l’interazione tra le arti assume caratteristiche più spettacolari che in Grecia: come viene approfondito dal saggio di Francesco Scoditti su questo tema, le esibizioni musicali romane, specie nel periodo imperiale (27 a.C. - 476 d.C.), combinano danza, parole e musica soprattutto per far divertire il pubblico, spesso con finalità propagandistiche, piuttosto che per veicolare e trasmettere i valori etici e religiosi della comunità, come era avvenuto nel mondo greco. Le vittorie di un generale o la celebrazione di un defunto diventano così veri e propri eventi da celebrare pubblicamente (ad esempio nella pompa triumphalis, una fastosa parata religiosa e civile che accompagnava l’ingresso del vir triumphalis in città, o nella pompa funebris, la cui funzione commemorativa dell’estinto si realizzava anche reclutando mimi, danzatori e musici) e attraverso l’uso di numerosi strumenti musicali suonati contemporaneamente, molti dei quali (come trombe e corni) legati al mondo militare.
La “teatralità” della musica romana cresce in modo esponenziale nel tempo, coinvolgendo vari generi. Innanzitutto il teatro vero e proprio, che – pur sviluppandosi sui modelli tragici e comici ellenici – ne accentua a dismisura la componente musicale, specie come canto solistico (si veda l’esperienza della commedia di età repubblicana, in particolare di Plauto). Sempre in ambito strettamente teatrale, enorme rilevanza acquista poi in epoca imperiale una forma di spettacolo denominata pantomimo o tragoedia saltata, una sorta di balletto tragico o mitologico in cui il solista virtuoso (saltator o planipes) è accompagnato da una vera e propria orchestra che riunisce strumenti di varia natura, a fiato, a corda e a percussione. Straordinaria è anche la notorietà assunta dai solisti citharoedi, i virtuosi del canto e della cetra, talora remunerati con somme eccezionali e adorati dagli imperatori.
La crescente importanza dei contesti teatrali è confermata anche dai dati archeologici: sempre più numerosi sono gli edifici – quali teatri e anfiteatri – che, a partire dal tardo I secolo a.C., vengono costruiti negli angoli più remoti dell’impero e ospitano forme di intrattenimento molto diversificate, ma tutte accomunate da un gusto spiccato per la spettacolarità (tra cui i combattimenti gladiatori, anch’essi accompagnati da numerosi strumenti musicali, dove i musicisti erano talora travestiti da animali, quali “l’orso che suona la tibia”/ursus tibicen e “il pollo trombettiere”/pullus cornicen, secondo quanto attestano alcuni mosaici pompeiani). Questo aspetto della cultura romana si sviluppa principalmente per motivazioni politico-propagandistiche, ed è direttamente collegato alla politica culturale del potere imperiale.
L’uso della musica e, più in generale, dell’arte dello spettacolo da parte del potere imperiale è forse il primo esempio moderno di cultura di massa dell’intrattenimento popolare, organizzato su scala “industriale” per creare il consenso nei ceti meno elevati della sempre più vasta popolazione del mondo romanizzato (il famoso panem et circenses della celebre espressione di Giovenale).
Anche l’appropriazione e rifunzionalizzazione in chiave politica, da parte dell’arte pubblica, di alcuni miti musicali già molto popolari nel mondo greco (come quello di Apollo citaredo o la gara musicale tra Apollo e Marsia) si spiega con l’esigenza di enfatizzare, dopo le conquiste militari, la funzione pacificatrice e civilizzatrice dell’impero romano, mentre l’arte privata sembra privilegiare tematiche e strumenti che caratterizzano le divinità orientali, in linea con la crescente popolarità delle religioni misteriche (su questi argomenti si veda il saggio di Daniela Castaldo). Il rigore e la severità delle forme musicali tipiche dei rituali religiosi più antichi, come il Carmen Saliare o il Carmen Fratrium Arvalium, che si fanno risalire al tempo dei primi re di Roma, lasciano progressivamente spazio a tipologie musicali d’importazione (grazie a una colonizzazione delle attività artistiche da parte di esponenti provenienti dalle terre conquistate dal potere militare), percepite e quindi descritte quali “effemminate” e “lascive”. Di qui la concezione alquanto bassa degli “agenti” artistici – musicisti, attori, danzatrici, spesso schiavi o stranieri – da parte delle classi nobiliari della società romana.
In questa sezione, accanto ad alcuni contributi che affrontano tanto la musica greca quanto quella romana individuando un idioma musicale comune ad esse, ve ne sono altri che sviluppano un approccio che riconduce a una prospettiva comune non solo alcune pratiche musicali, ma anche alcune esperienze sonore non musicali coeve: già da tempo è infatti emersa l’utilità, per meglio comprendere una cultura musicale, di considerarne la relazione con il vissuto sonoro extramusicale ad essa contemporaneo.
Nei titoli dei due contributi che maggiormente sviluppano questo approccio sono state poste due delle formule che gli studiosi che seguono questa tendenza ritengono maggiormente ad essa appropriate: “paesaggio sonoro” è l’espressione utilizzata per tradurre in italiano soundscape, coniata da Raymond Murray Schafer, compositore canadese studioso di comunicazione, a fondamento delle proprie ricerche sull’insieme dei suoni udibili da un soggetto umano posto in una certa posizione in una determinata circostanza. Confrontandosi con questi studi, Maurizio Bettini, nel suo libro Voci. Antropologia sonora del mondo antico (Einaudi, 2008), ha utilizzato la formula “fonosfera” per riferirsi al mare di suoni nei quali la vita di una persona è immersa, “infinità di voci, accordi, squilli o semplici rumori della cui esistenza non ci accorgiamo neppure più, se non quando tutto questo, per un motivo o per l’altro, bruscamente cessa”. Donatella Restani riprende invece l’espressione “evento sonoro”, utilizzata soprattutto negli studi di storia della musica (specie per considerare quella medievale) da Franco Alberto Gallo, che la correla a una qualsivoglia forma di sonorità inserita nei vari momenti della vita quotidiana, o di azione della vita quotidiana degli uomini, che non solo si può udire, ma si può anche percepire visivamente e su cui si è riflettuto e scritto. In tutti questi casi ci si colloca dunque in una prospettiva di ricerca storica e antropologica utile soprattutto quando si studiano sonorità delle quali si è conservata e trasmessa la memoria prevalentemente attraverso le parole e le immagini, come è il caso delle culture affrontate in questa sezione.