SCAVO
. La rimozione di grandi masse di terreno, necessaria spesso in molte opere d'ingegneria, richiede l'uso di speciali macchine escavatrici, per le quali v. escavatrici, macchine, XIV, p. 290 segg. Qui ci occupiamo esclusivamente degli scavi archeologici (fr. fouilles; ted. Ausgrabungen).
Tecnica dello scavo archeologico. - Lo scavo archeologico ha come fine essenziale di porre in luce monumenti e documenti delle civiltà passate, o almeno di procedere - quando lasciare allo scoperto i ruderi non sia possibile - alla ricognizione archeologica del terreno, su cui le civiltà antiche hanno lasciato tracce di sé. Se il fine dello scavo è unico, i metodi sono molteplici a seconda del carattere delle ricerche, della natura del terreno da esplorare, del vario tipo delle città o dei monumenti da mettere in luce.
Se si ha come scopo la semplice ricognizione archeologica di un terreno, lo scavo non è che uno strumento sussidiario. Dovendo essere limitato a singoli sondaggi, esso rappresenta uno dei mezzi tecnici posti a sussidio delle osservazioni da farsi sulle particolarità del terreno stesso. Infatti, il rilievo topografico di una regione dove ci siano ruderi emergenti e ruderi sepolti, rilievo a cui molto può essere utile oggi anche la fotografia aerea, può giovarsi dello scavo in quanto questo permette di saggiare il terreno nei punti in cui la sua superficie mostri indizî da far supporre la presenza di vestigia archeologiche.
Ad esempio, saggi di scavo sono utili o indispensabili: a riconoscere i confini di una zona monumentale, città o necropoli; a rilevare la pianta di un monumento o edificio, quando questo non si possa mettere interamente in luce; a individuare gli strati e materiali archeologici del sottosuolo. In tali casi lo scavo non è che un'apertura del terreno a mezzo di trincee, gallerie o pozzi.
Se s'intende procedere a uno studio stratigrafico del sottosuolo, il taglio verticale dovrà essere fatto in modo che consenta agevolmente sia l'asportazione delle terre dal cavo, che può raggiungere notevoli profondità, sia la possibilità di fotografare le pareti della trincea per documentarne gli strati. Le pareti del taglio dovranno avere l'inclinazione sufficiente per non causare franamenti, i quali vanno evitati anche ricorrendo a tavole di sostegno delle pareti stesse. Le terre di risulta vanno sempre gettate lontano dai fondi del cavo per permettere un eventuale ampliamento di questo. Se invece il taglio del terreno ha come scopo di riconoscere l'andamento di un edificio o il carattere delle sue fondazioni basterà che il cavo, fatto a ridosso della costruzione, ne consenta la visione.
Nello scavo stratigrafico, quando siano stati riconosciuti con tagli verticali gli strati successivi, occorre procedere nell'esplorazione per sezioni orizzontali, scavando cioè il terreno, strato per strato preventivamente riconosciuto, con metodo e con la maggiore attenzione: questo soprattutto nel caso di strati preistorici in caverne o villaggi di capanne e stazioni lacustri, in cui le singole testimonianze umane o i singoli manufatti non hanno tanto valore per sé stessi, quanto per il loro aggruppamento originario e per la loro provenienza stratigrafica. Quanto meno è chiaro e importante per sé stesso il documento umano scavato, tanto più attento e intelligente deve essere il metodo dello scavatore. Al quale può nuocere qualsiasi supposizione o preconcetto che egli si sia fatto avanti di iniziare lo scavo, come si è dimostrato anche nel famoso scavo di Troia di H. Schliemann che, intento soltanto al ritrovamento delle testimonianze della civiltà omerica, sconvolse un terreno archeologico prezioso anche per altre documentazioni.
Esempî di scavi stratigrafici sono in genere quelli preistorici degli Scandinavi e degl'Italiani L. Pigorini, P. Strobel, G. Chierici, U. Rellini, quelli di F. Halbherr e di L. Pernier nell'isola di Creta per la ricerca di monumenti e documenti della civiltà minoica, di A. Della Seta in Grecia; quelli della Sicilia e della Sardegna di P. Orsi e di A. Taramelli, nonché quelli di G. Boni nel Foro romano. Ai danni delle precipitose esplorazioni condotte da H. Schliemann a Troia fu posto rimedio da accurate ricerche guidate in seguito con grande saggezza da W. Dörpfeld.
Alquanto tumultuaria è stata pure generalmente l'opera di scavo in Egitto, guidata spesso da filologi unicamente attratti dalla ricerca di papiri o di iscrizioni geroglifiche, e talora, anche peggio, da missioni dilettantesche e disgraziatamente fornite di mezzi abbondanti. I danni prodotti per esempio dalle incomprensioni e dagli entusiasmi di Amélineau ad Abido furono solo in parte riparati dalle ricerche di J. De Morgan e di W.M. Flinders Petrie, che permisero finalmente di come prendere e di determinare le civiltà predinastiche d'Egitto. La ricerca di papiri è degli edifici dalla missione italiana Anti-Bagnani nel Fayyūm.
Così necessariamente incomplete e per certi riguardi dannose furono le esplorazioni di P. E. Botta a Khorsābād, di A. H. Layard a Ninive, di M. Dieulafoy a Susa, ai quali è in ogni modo valida scusante il tempo ormai lontano in cui furono condotte e la difficoltà notevolissima del distinguere i muri di mattone crudo, proprî della costruzione di Mesopotamia, dalle terre prodotte dal disfacimento degli strati superiori dei muri stessi. Ora lo studio stratigrafico e le minuziose cure che esso esige in Siria e in Palestina, forse non senza qualche esagerazione di troppo sottili distinzioni. Esempio della ricognizione archeologica di un monumento ci è fornito recentemente dallo scavo del Mausoleo di Augusto, compiuto per mezzo di trincee e di gallerie, che hanno permesso l'esplorazione della cripta col ritrovamento di marmi e iscrizioni, nonché un rilievo quasi totale del monumento.
Ma lo scavo che richiede metodi tecnici e operazioni più complesse è quello che mira non solo a scoprire ma a restituire una vita archeologica ai monumenti del passato.
Se si tratta di intere città sepolte, il metodo di scavo è determinato in gran parte dall'intuizione o dalla conoscenza delle cause che ne hanno determinato la scomparsa e il seppellimento; ma vanno tenute presenti anche le vicende storiche della città dopo la sua sparizione. Giacché ci possono essere centri urbani che, una volta scomparsi, sono stati abbandonati per sempre; altri invece che, dopo il primo, hanno avuto un nuovo periodo o molteplici periodi di vita attraverso i secoli. Nel primo caso (è quello di alcune città romane in Africa) lo scavo ha raggiunto il suo fine storico e archeologico, quando abbia messo allo scoperto le rovine della città, che sono quasi tutte a uno stesso livello e di una medesima epoca. Nel secondo caso, che è il più frequente (Troia, Cirene, Roma, Pompei, Ostia, ecc.), lo scavo deve rintracciare epoche successive di sviluppo edilizio, e procedere quindi con cautela attraverso varie stratificazioni sovrapposte che contrassegnano le differenti vite dell'organismo urbano.
Tanto nell'uno quanto nell'altro caso la tecnica dello scavo ha fatto notevolissimi progressi in questi ultimi decennî.
A Pompei ed Ercolano si è abbandonato dal principio del sec. XIX l'originario deplorevole sistema di scavare pozzi in profondità e per mezzo di questi penetrare attraverso gli edifici bucando muri per trarre alla superficie oggetti di valore; si è abbandonato anche l'altro, migliore, ma non scientifico, di togliere lapilli e fango lavico dalla superficie fino al livello antico, senza preoccuparsi di controllare ciò che contengono i materiali di riempimento. Si procede oggi invece con un sistema di vaglio rigoroso di tutte le materie che hanno causato il seppellimento della città: tolto il primo strato di terra vegetale, s'incominciano a intravedere le parti alte degli edifici, in parte schiacciati, in parte carbonizzati, tetti, travature, balconi, elementi tutti che vanno conservati al loro posto di trovamento e quindi sostenuti e consolidati prima di procedere alla scoperta delle parti sottostanti. In sostanza, nello scavo pompeiano ed ercolanese si usa il metodo inverso del costruttore: si procede cioè dall'alto in basso per sezioni orizzontali e verticali, in modo che i piani superiori delle costruzioni siano i primi a tornare in luce e ad avere le necessarie sistemazioni.
Tale metodo, adottato già dai primi scavi di Via dell'Abbondanza a Pompei fin dal 1911, contemporaneamente ma indipendentemente da un metodo analogo usato a Ostia, si è venuto sempre più perfezionando, sicché oggi si può dire che nulla di quanto nasconde il terreno vada perduto o resti inutilizzato, appunto perché lo scavo procede di pari passo con la sistemazione del materiale edilizio od ornamentale squassato dal seppellimento: le tegole dei tetti, le travature dei soffitti e delle porte, i balconi delle stanze, le tettoie delle botteghe, gli utensili sui focolari.
Per una città come Ostia, sepolta non per violenti cataclismi, ma per crollo naturale degli edifici, il metodo è un poco diverso. Le macerie degli ultimi piani, formatesi dalla disgregazione delle murature, hanno sepolto i piani inferiori, che hanno resistito sopra una linea di crollo che varia da cinque a dieci metri. Per raggiungere le parti rimaste salde, occorre togliere dunque un cumulo di macerie in cui sono confusi elementi architettonici e decorativi, lanciati spesso a notevole distanza dal loro posto originario. Fino a venti anni fa queste macerie venivano asportate in blocco e gettate via: il nuovo metodo di scavo consiste invece nel gettare soltanto gli sfabbricini o i pezzi informi di muratura, conservando tutto ciò che può essere applicato di nuovo e quindi riutilizzato nell'edificio antico. Va da sé che la restituzione al posto originario dei pezzi ed elementi caduti è molto meno semplice e facile a Ostia che non a Pompei, non solo perché si tratta di frammenti murarî di grande mole, ma per la dispersione e commistione di essi, giacché quasi mai si ritrovano, come a Pompei, vicino alla collocazione originaria. Il pregio della nuova tecnica di scavo si risolve in un maggiore indiscutibile valore scientifico di questo. Infatti, mentre gli edifici pompeiani scavati prima del 1911, conservano assai poco delle loro facciate originarie su strada, la Via dell'Abbondanza è tornata ad essere quasi quale era in antico. Così a Ostia, mentre, ad es., la Via del Tempio, scavata nel 1868, conserva soltanto i pilastri del suo doppio porticato, le altre strade mostrano portici, finestre, balconi, cornici nell'aspetto originario. Compiuta la sistemazione delle rovine emergenti dal piano stradale antico, vanno poi ricercate, con scavi supplementari, le vestigia di età più antiche, sottoposte a quelle di epoca imperiale.
Molto più semplice è la tecnica dello scavo per città seppellite dalla sabbia, come Leptis Magna in Tripolitania, e in genere per le città antiche dell'Africa romana. A Leptis, in parte i terremoti in parte il cumulo delle sabbie hanno fatto inclinare con una pressione uniforme muri e colonne, sicché la tecnica dello scavo consiste nella rimozione delle sabbie stesse e nel raddrizzamento delle parti cadute. Per altre città africane, di costruzione in genere poco solida, eccetto le parti monumentali in pietra, la rimozione delle terre di copertura delle rovine porta con sé la disgregazione delle murature, donde la necessità di consolidarle man mano che si procede nello scavo. Talvolta, come a Timgad, tale ricostruzione è stata eccessiva.
Ci sono poi città, campi fortificati, zone monumentali che sono state distrutte per umana violenza. È il caso delle città o campi fortificati romani nella Gallia, nella Britannia, o sul Reno; è il caso di Aquileia o della Cartagine punica, rase al suolo, e di tante altre. Qui la terra vegetale ricopre, in genere, più la pianta che non l'alzato degli edifici, già in antico distrutti. Si tratta allora di rintracciare le fondazioni degli edifici e di individuarne la pianta.
La difficoltà è, in genere, di ordine preliminare, non inerente, cioè, allo scavo stesso, che si riduce a una rimozione di terre di copertura, che vanno in ogni modo attentamente vagliate perché possono contenere preziosi elementi cronologici, quali monete, mattoni e tegole con marche di fabbrica, strumenti di guerra, ecc., più che elementi di ricostruzione edile. Tanto più che si constata sempre che né il tempo né gli uomini sono mai stati distruttori così violenti da non lasciar tracce utili a riconoscere e le cose distrutte e le cause della distruzione.
Particolare metodo di scavo richiede l'esplorazione delle tombe sia singole sia nel complesso di una necropoli. Lo stesso verbo che si usa comunemente per indicare l'operazione di scavo nelle fosse sepolcrali dà l'idea della grande accuratezza con cui quella va compiuta: si dice infatti spicillare una tomba, giacché, non essendo mai perfetta la chiusura di una deposizione sepolcrale, il terriccio che è penetrato in essa va rimosso e vagliato con somma cura: ogni oggetto unito al cadavere può assumere particolare importanza per la sua collocazione, e ciò anche in vista di una possibile ricostituzione della tomba in museo.
Tenute presenti queste osservazioni generali, si può concludere che non esiste un unico metodo o un'unica tecnica di scavo, giacché questo deve essere subordinato alla natura delle ricerche. In ogni modo non è lo scavo in sé stesso, ma il metodo con cui viene eseguito quello che assicura i risultati migliori per la conoscenza del passato, onde occorre che l'opera dello scavatore-archeologo sia integrata da quella di un disegnatore e di un architetto.
Nella tecnica dello scavo rientrano infine previdenze di vario carattere, come: organizzazione dei cantieri di lavoro, trasporto rapido ed economico delle terre di rifiuto fuori della zona archeologica, redazione del giornale di scavo, calchi in gesso di oggetti mobili e immobili, copie e calchi di iscrizioni, rilievi, fotografie, eventuale rimozione di dipinti e mosaici, consolidamento, ripristino e sistemazione dei ruderi, riparazione, imballaggio e trasporto degli oggetti; tutto insomma l'organico e complesso lavoro che precede, accompagna e segue uno scavo scientificamente condotto.
Bibl.: G. Boni, Il metodo negli scavi archeologici, in La Nuova Antologia, luglio 1901; J. de Morgan, Les recherches archéologiques, leur but et leurs procédés, Parigi 1905; G. Calza, Scavo e sistemazione di rovine, in Bull. comm. arch. com. di Roma, 1916; Ch. du Mesnil du Buisson, La Technique des fouilles archéologique, Parigi 1934.
Legislazione sugli scavi. - Le disposizioni in vigore (legge 20 giugno 1909, n. 364, articoli 15, 16, 17, 18, 19, e regolamento 30 gennaio 1913, n. 363, articoli dall'83 al 127) che disciplinano gli scavi e le scoperte archeologiche si fondano su quattro postulati:1. Il governo ha il diritto di occupare temporaneamente qualunque parte del territorio nazionale per eseguire scavi archeologici. Questo diritto dev'essere espresso da un decreto del ministro dell'Educazione nazionale, il quale dispone anche che il proprietario del suolo dev'essere compensato per il lucro mancato e il danno emergente. Le cose scavate appartengono allo stato; ma di esse, oppure del prezzo di esse, è concessa una quarta parte al proprietario del fondo. Il valore è determinato amichevolmente, oppure mediante perizia di una commissione arbitrale. 2. Il governo ha il diritto di espropriare quei terreni nei quali dovranno eseguirsi gli scavi. In due casi può esercitarsi questo diritto (secondo la legge generale di espropriazione del 25 giugno 1865, n. 2359): o quando l'importanza archeologica del terreno è somma, e gli scavi avranno lunga durata; o quando sono venuti in luce ruderi e monumenti di tale importanza, che si rende necessario determinare una zona di rispetto intorno ad essi e costruire una strada di accesso. 3. Il governo può concedere ad enti e a privati, anche stranieri, e sotto certe condizioni, il permesso di eseguire ricerche archeologiche. Le condizioni riguardano specialmente l'obbligo di sottoporsi alla vigilanza dell'amministrazione e di osservare le norme che da questa saranno imposte nell'interesse della scienza. È necessaria una domanda in carta da bollo, nella quale sarà dichiarata esattamente la località, la durata degli scavi, il nome delle persone che li dirigeranno e sorveglieranno; insieme con la domanda, i documenti comprovanti la proprietà del fondo, dove saranno fatti gli scavi stessi. La licenza può essere revocata: a) quando lo stato intenda sostituirsi nell'iniziativa e nella prosecuzione degli scavi, ma col rimborso delle spese già fatte; b) quando il concessionario non osservi le condizioni imposte dall'amministrazione. Delle cose scoperte sarà rilasciato agli enti o ai privati la metà, oppure il prezzo equivalente. 4. Le scoperte archeologiche avvenute per caso fortuito devono essere denunziate al governo. Lo scopritore fortuito ha il dovere di farne denunzia (al ministero o al soprintendente competente, o all'ispettore onorario dei monumenti e scavi del luogo) e di provvedere alla conservazione delle cose scoperte, lasciandole intatte sul posto sino all'arrivo, non oltre il 30° giorno dalla scoperta, dei funzionarî dell'amministrazione. Anche di queste cose sarà rilasciata metà o il prezzo equivalente al proprietario del fondo, fermi restando i diritti riconosciuti allo scopritore dall'art. 714 (tesoro) del codice civile. Le violazioni a quanto dispone la legge in materia di scavi sono punite con la multa da 1000 a 2000 lire; e, in ogni caso di danni in tutto o in parte irreparabili, il trasgressore dovrà pagare un'indennità equivalente al valore della cosa perduta o alla diminuzione del suo valore (art. 35 della legge).
Dalle disposizioni fin qui riassunte risulta, evidente se non esplicita, un'affermazione di demanialità del sottosuolo archeologico. Giacché, in virtù di quale altro principio giuridico lo stato potrebbe assegnare a sé stesso la metà delle cose scoperte? Ci troveremmo, altrimenti, dinnanzi a una confisca senza causa, il che sarebbe un assurdo giuridico. La legge 20 giugno 1909 avrebbe così risolto in principio la dibattuta questione, ma in pratica solo parzialmente. Si è, però, sulla strada per una dichiarazione esplicita e totalitaria di assegnazione allo stato di tutte le cose di scavo, e di quelle scoperte fortuitamente. Ormai dopo la legislazione sulle miniere (r. decr. luglio 1927, n. 1448 e leggi 14 aprile 1929, nn. 571 e 572), la quale ha proclamato l'appartenenza allo stato del sottosuolo minerario, nessuna titubanza si potrebbe avere per la demanialità di quello archeologico. D'altra parte in Libia e nell'Eritrea tale demanialità è stata riconosciuta col r. decr. 24 settembre 1914, n. 1271 e luogotenenziale 3 ottobre 1918, n. 1589, e parimenti è avvenuto all'estero, e da più tempo: in Egitto sin dal 1881 (decreto del 18 dicembre), in Turchia dal 1884 (iradé del 21 febbraio), in Tunisia dal 1886 (decreto del 7 marzo), in Grecia dal 1889 (legge del 24 luglio).