SCARAMUCCIA ANGELITA
ANGELITA. – Nacque tra il 1580 e il 1590 a Montecassiano, piccolo borgo del Maceratese, da genitori appartenenti a una famiglia nobile locale. Il padre, Antonio Scaramuccia, fu al servizio di Emanuele Filiberto di Savoia.
Scaramuccia fu prozio dello storico Giovan Francesco Angelita e pronipote, da parte materna, di Girolamo Angelita, noto per aver scritto una Historia dell’origine della casa di Santa Maria di Loreto... (Ancona, Astolfo de Grandi, 1574). Si unì in matrimonio con Ottavia Leopardi, sorella di Tommaso, dalla quale ebbe almeno un figlio di nome Francesco.
La sua abitudine a firmarsi e qualificarsi con il doppio cognome («Angelita Scaramuccia») non ha reso possibile l’identificazione del nome di battesimo. Erroneamente, l’identità di Scaramuccia è stata spesso declinata al femminile, causando una serie di equivoci (fra cui l’alterazione del cognome di parte materna «Angelita» nel prenome «Angelica»), sciolti soltanto dagli studi recenti (Costa Zalessow, 2012). Del resto, consultando le stampe delle sue opere è possibile riscontrare come il nome sia spesso declinato al maschile negli appellativi che campeggiano sui frontespizi.
Poco o nulla sappiamo della sua formazione culturale, che dovette però svolgersi con ogni probabilità a Montecassiano; infatti, da quel che si evince dalle lettere di dedica delle sue commedie a stampa, indirizzate a vari esponenti della nobiltà marchigiana, Scaramuccia soggiornò tra Montecassiano e Macerata fino agli anni Venti del Seicento, periodo durante il quale dovette svolgere alcune mansioni amministrative.
Nel 1609 vide la luce a Viterbo presso Girolamo Discepolo la «tragicomedia» Stratonica, che mette in scena le vicende della regina siriana Stratonice, sposata prima al re Seleuco I e poi ceduta al figliastro Antioco: uno tra i soggetti novellistici più celebri della tradizione classica, sul quale si cimentò fra gli altri Luca Assarino che, per il suo romanzo dal titolo eponimo, lesse certamente la tragedia di Scaramuccia, con ogni probabilità nella ristampa veneziana del 1616 (M. Zaltieri).
L’edizione, curata da Tommaso Leopardi, si apre con un «prologo», nel quale Scaramuccia polemizza contro i «seguaci» del «Prencipe de’ Peripatetici», che avrebbero ritenuto questo esperimento tragicomico non conforme al principio delle ‘unità’ aristoteliche. Il testo della tragicommedia, suddiviso in tre atti, presenta una prosa lineare, ove le vicende relative al mal d’amore di Antioco, rese note con un abile espediente dal medico di corte Erasistrato, sono ripercorse fino al lieto fine, attingendo dal racconto che ne fornì Plutarco nella Vita di Demetrio. Non manca tuttavia qualche anacronismo che vede Apollauro, il «trattenitor di corte», comporre «madrigali e sonetti» (p. 48) ed esprimersi con toni elegiaci, all’interno di un contesto a lui ostile che declassa a giullari i poeti, definiti «buffoni del volgo» (p. 49).
La produzione teatrale abbraccia l’intera parabola letteraria di Scaramuccia, con una predilezione assoluta per il versante comico. Prima di sei commedie, pubblicate nell’arco di un ventennio (1618-1638), furono Gli amor concordi, editi presso Pietro Salvioni (Macerata 1618), con un prologo nel quale viene inscenato uno scontro tra le allegorie dell’«Istoria» e della «Comedia»; la contesa è ricomposta assegnando alla personificazione della commedia una funzione specifica, ossia quella di narrare la verità, «adornarla con varie e maravigliose fittioni pur che dal credibile non si partino» (p. 10). Una commedia che sappia ricavare «dal vero e l’utilità e ’l diletto» è quella ideata da Scaramuccia, che nei cinque atti degli Amor concordi, ambientati nella Roma antica, rispolvera, sulla scia dei precedenti comici e novellistici cinquecenteschi, il repertorio (amore ostacolato, travestimenti, equivoci, scambi di persona e via enumerando) della commedia latina di Plauto e Terenzio, evocati come modelli assoluti in una lettera scritta da Roma il 7 febbraio 1638 al Marchese di Coeur Francesco Annibale e apparsa a margine della Rosalba (Velletri, A. dell’Isola, 1638). Su questa falsariga si muovono le altre quattro commedie, edite in blocco da Salvioni: La schiava di Cipro (Macerata 1624), Il garbuglio (Macerata 1624), La damigella (Roma 1631) e La vagante di Egitto (Macerata 1631), che ripropongono i topoi e gli intrecci consueti della tradizione comica ponendo al centro degli eventi rappresentati il tema dell’astuzia, personificata nel Prologo del Garbuglio e solitamente calata nella figura del servo.
Di rilievo risultano gli inserti dialettali (romano, napoletano o veneziano) che contraddistinguono uno o più personaggi coinvolti nel dialogo comico, la cui resa assume spesso una vivacità prossima agli esiti della Commedia dell’arte.
Degna di nota è l’unica tragedia scritta da Scaramuccia, La regina Rosmonda (Macerata, P. Salvioni, 1619), che recupera l’impianto classicistico dell’omonima tragedia di Giovanni Rucellai, rappresentando la sanguinosa vicenda di Rosamunda e della sua vendetta ai danni del re dei Longobardi Alboino; proprio la vendetta, allegorizzata nel Prologo, diviene il baricentro tematico della tragedia.
Non sono ben note le amicizie culturali di Scaramuccia, ma è certo che egli dovette entrare sin dal primo decennio del Seicento in contatto con alcuni letterati attivi a Roma, città dove sostò con maggiore stabilità durante gli anni Trenta del XVII secolo, come attesta il luogo di spedizione di alcune dedicatorie delle sue opere a stampa (1631-1638).
Scaramuccia risulta attivo, inoltre, su un versante teatrale di matrice religiosa e devozionale con la «rappresentatione sagra» della Santa Casa di Loreto (Roma 1631), edita da Francesco Corbelletti con dedica ad Antonio Barberini.
Ricalcando l’Historia del bisavolo Girolamo Angelita, l’opera descrive il «miracoloso passaggio che sovra le nubi da Galilea in Dalmatia e quindi in Italia fece l’adorata Casa di Maria Reina del Cielo» (p. 3). Pur affermando di aver deviato «dal sentiero di detta historia», Scaramuccia, nella prefazione ai lettori, dichiara di aver elaborato una «sacra poesia, tutta lontana da favolose inventioni e da vivezze troppo ardite» (p. 8), ribadendo così il rispetto del principio classicistico della verosimiglianza e del decoro formale che fu elemento distintivo della sua poetica.
Nel 1635 uscì a Roma per i tipi di Grignani la sua opera più nota e ambiziosa, Il Belisario, un «poema eroico» suddiviso in diciannove canti. La novità più rilevante riguardò il metro impiegato nel racconto dell’azione eroica, non più la tradizionale ottava, ma la sestina, d’uso comune nell’encomio, scelta che Scaramuccia motivava in una lettera a Nicola Villani pubblicata senza indicatori cronologici tra i paratesti introduttivi allo scopo di arginare eventuali critiche.
A fronte delle «avvedutissime considerationi» del corrispondente, Scaramuccia, dopo aver elogiato l’endecasillabo sciolto e averne rammentato l’impiego nell’Italia liberata di Gian Giorgio Trissino, nell’Eneide di Annibal Caro e nel Mondo creato di Torquato Tasso, sosteneva di essere stato mosso alla «sesta rima» per la sua capacità di «stringere i concetti brevemente», criticando il ‘primato’ dell’ottava nel genere epico, ricevuto «dall’uso» ma non stabilito o fissato «da regola alcuna» (Il Belisario, cit., cc. *2v-*5v).
Il poema di Scaramuccia, intrapreso con ogni probabilità nel 1628, va a collocarsi nel solco del cosiddetto ciclo di Giustiniano, incentrando la fabula sulla spedizione di Belisario in Africa per combattere i Vandali. Le azioni della guerra vandalica, il tema dell’assedio e della liberazione di Cartagine, desunti nelle loro linee generali dal De bello Vandalico di Procopio di Cesarea, diventano l’asse intorno al quale Scaramuccia fa ruotare episodi collaterali, tra storia e finzione, il cui sviluppo viene tassianamente ricondotto alla centralità assegnata al «pio Belisario», la cui battaglia contro le truppe di Gelimero garantisce la natura unitaria dell’impresa epica. Sin dal proemio («Io canto l’armi e il gran guerrier d’Augusto / che d’empia servitù sciolse Carthago»), che vede l’azione avviarsi in medias res, con l’approdo in Africa delle navi di Belisario, si evince come la Liberata tassiana influenzi in profondità la struttura e il dettato del poema di Scaramuccia, che popola l’azione di una pluralità di personaggi che devono essere parte integrante e necessaria all’evoluzione della favola principale. E non solo alla Liberata guardò Scaramuccia, ma anche alle altre prove epiche di Tasso, dal Rinaldo alla Gerusalemme conquistata, aspetto che rende ancora più tenace ed esteso il culto tassiano, cui si intrecciano elementi variamente ripresi da Ludovico Ariosto, il cui esempio sigla il finale del poema («Al fin il petto, e quindi l’alma fore / fuggì stridendo al Regno del dolore», Il Belisario, cit., p. 360) sulla traccia dell’Orlando furioso (XLVI, 140). Solo di rado Scaramuccia sa innovare i modelli cui si rivolge (oltre a Tasso, l’Italia liberata di Trissino, la Gotiade di Gabriello Chiabrera, la Croce racquistata di Francesco Bracciolini), come nel caso della descrizione di Satana del VI canto (pp. 109 ss.), che certamente ricalca il grottesco tassiano della Liberata, IV 1-19, ma che pure si distingue per il pathos con il quale viene messa in risalto la disperazione patita dal personaggio.
Il versante della produzione lirica risulta piuttosto scarso ed episodico; oltre a una manciata di sonetti disseminati nelle sezioni paratestuali delle sue opere a stampa, si registra il sonetto encomiastico indirizzato a Giovan Battista Manso, Gloria di Pindo, honor del secol nostro, pubblicato nelle Poesie nomiche del marchese di Villa (Venezia 1635, p. 300).
Gli ultimi anni di vita furono caratterizzati da soggiorni alternati a Roma e Montecassiano. Alle origini di Montecassiano Scaramuccia rese omaggio componendo un Discorso historico [...] sopra l’origine e rovina di Ricinia, e dell’edificatione ed avenimenti di Monte Cassiano (Loreto 1638), nel quale sono compendiate notizie storiche e aneddoti desunti dalla lettura di una cospicua serie di auctoritates elencate in un indice collocato in testa all’edizione.
Come affermato nella dedica al cardinale Giovan Battista Pallotto, scritta da Roma il 2 giugno 1638, l’opera vuole essere una celebrazione della «Marca anconitana», patria di celebri poeti quali Lucio Accio e Annibal Caro, e in particolar modo di Montecassiano, in cui Scaramuccia afferma di aver composto nel «meridiano» dei suoi anni «vari componimenti» (c. †3v). Pur facendo largo uso di materiali di riporto, Scaramuccia si serve in taluni casi di un supporto documentario di prima mano, trascrivendo alcune lettere che forniscono testimonianze preziose sulle varie vicende storico-politiche prese in esame, comprese tra il 404 d.C., anno di fondazione di Montecassiano, e il 1551.
Termine post quem della sua morte è il 4 febbraio 1638, data nella quale scrisse una lettera a Clemente Merlini che apparve in veste di dedicatoria nella ristampa della Damigella (Velletri 1638).
Fonti e Bibl.: La provincia di Macerata. Cenni storici, amministrativi, statistici, Macerata 1906, p. 26; E. Proto, Un epigono poco noto della «Gerusalemme liberata» (Il «Belisario» di A. S.), in Studi di letteratura italiana, VIII (1908), pp. 181-217; A. Calzavara, «Istoria» e «Comedia» nell’opera di un autore marchigiano del XVII secolo: A. S., in Giornale storico della letteratura italiana, CLXXI (1994), pp. 534-552; Dizionario biografico dei Marchigiani, a cura di G.M. Claudi - L. Catri, Ancona 2002, p. 453; D. Conrieri, Scritture e riscritture secentesche, Lucca 2005, ad ind.; N. Costa Zalessow, Chi era A. S.?, in Esperienze letterarie, XXXVII (2012), 1, pp. 119-125.