SCANDELLA, Domenico detto Menocchio
– Nacque a Montereale Valcellina, presso Pordenone, verso il 1532. Il padre si chiamava Giovanni e la madre Domenica.
Si sposò ed ebbe undici figli, di cui sette vivi nel 1584: Zanut (Giovannino), il primogenito, Stefano, Daniele, Menica, Iseppia (Giuseppina), Maria, Giovanna. Gestiva due mulini in affitto, ma faceva vari mestieri: falegname, muratore, insegnante d’abaco. Suonava la «citara» nelle feste: forse un salterio tedesco (Hackbrett) o una cetra da tavolo (Zither). Nel paese ebbe un posto di rilievo: fu podestà nel 1581 e amministratore dei beni della chiesa prima del 1584 e nel 1590.
Menocchio aveva idee originali su tante questioni religiose e ne parlava spesso in pubblico, incontrando una blanda opposizione. Entrava in contrasto invece in modo acceso con il pievano. Quest’ultimo, pre Odorico Vorai, era giunto a Montereale nel 1574. Era un prete abbastanza istruito, che cercava di rinnovare la vita religiosa dei fedeli secondo le norme del Concilio di Trento. A differenza della gran parte dei preti di allora, che avevano una donna fissa come concubina e serva, egli ne cambiava molte, anzi ne sollecitava i favori ai genitori o ai parenti, rappresentando un notevole problema per la comunità. Chiese anche a Menocchio la ‘concessione’ di una o due figlie, ma il mugnaio rifiutò.
A causa delle sue idee Domenico Scandella era destinato a finire sotto il giudizio dell’Inquisizione. Già era stato nominato in una denuncia contro quattro abitanti di Fanna e il cappellano di Montereale, databile tra giugno-luglio del 1580 e agosto-settembre del 1583. Un processo formale contro di lui cominciò invece il 28 settembre 1583 con una inquisitio specialis da parte di Giovanni Battista Maro, vicario generale del vescovo di Concordia, che il 29 ottobre interrogò tre testimoni alla presenza del commissario dell’Inquisizione, fra Andrea da Sant’Erasmo, e del provveditore veneziano; e il 30 un altro testimone con due consultori ecclesiastici. Le domande furono uguali per tutti, con citazioni di frasi dell’imputato. In realtà era stato il pievano a fare la denuncia, ma in modo extragiudiziario per paura delle reazioni della gente. Alcuni abitanti di Montereale erano sicuri che fosse stata una vendetta di pre Odorico per la negazione delle figlie ai suoi piaceri da parte di Menocchio.
L’altro giudice della fede che processò Scandella, l’inquisitore fra Felice Passeri da Montefalco, minore conventuale, era occupato a Udine, sede principale dell’Inquisizione di Aquileia e Concordia e arrivò nella diocesi di Concordia solo per questa causa. Alcune delle eresie emerse erano gravissime: l’aria è Dio, Maria non è vergine, Gesù Cristo non è onnipotente, anzi è un semplice uomo. Il 9 dicembre l’inquisitore interrogò un testimone a Portogruaro e il 2 febbraio nella sacrestia di Montereale altri nove. Ordinò poi la perquisizione dei libri in casa dell’imputato, senza esito, e l’arresto, che venne eseguito da un messo della Curia vescovile con altri armati locali. Menocchio fu condotto nelle carceri vescovili di Concordia. L’inquisitore rientrò a Udine.
I giudici della fede avevano entrambi i pieni poteri e quindi il vicario generale passò da solo agli interrogatori di Scandella il 7, 16, 22 febbraio e l’8 marzo con l’assistenza di due ecclesiastici. Il 16 e il 21 marzo interrogò di nuovo due testimoni importanti. Nei primi due interrogatori l’imputato cercò di seguire i consigli avuti da un amico prete e dall’avvocato Alessandro Policreto, ovvero di parlare poco e in modo reticente, ma in seguito decise di manifestare apertamente il suo pensiero. Il 27 aprile tornò l’inquisitore Passeri, il quale continuò il processo con il vicario generale alla presenza del provveditore veneziano Pietro Zorzi, che volle fossero rispettate le leggi della Repubblica. Quindi il giorno dopo furono riletti all’imputato, che li ratificò, i costituti precedenti. Negli interrogatori che seguirono in maggio il provveditore fu comunque assente.
I giudici della fede si proponevano di accertare la verità degli indizi proposti dai testimoni o di chiarire le nuove affermazioni dell’imputato, non di ricostruire tutte le sue eresie. Mentre il vicario generale aveva una cultura canonistica, era più conciliante e poneva domande semplici, l’inquisitore aveva una cultura teologica, era più stringente nelle domande e cercava di mettere Scandella in contraddizione. Loro compito era inoltre quello di qualificare teologicamente le eresie emerse in vista della sentenza. La situazione di Menocchio era gravissima. Tre dei delitti contro la fede ampiamente provati comportavano la condanna a morte al primo processo, vale a dire anche se l’eretico si pentiva, secondo la bolla di Paolo IV Cum quorundam hominum del 22 giugno 1556: la negazione della Trinità, della divinità di Cristo, della verginità di Maria. La maggior parte delle domande ruotarono attorno ai primi due dogmi.
L’imputato rinunciò alla difesa e presentò il 17 maggio un testo scritto da lui, in cui cercò maldestramente di riconoscere delle colpe per alleggerire la sua posizione e chiese perdono e misericordia. Il 19 maggio i giudici sentirono il parere di due consultori laici, che dichiararono Scandella eretico formale e anche eresiarca. In data non precisata i giudici citarono l’imputato per la sentenza di condanna. Nella chiesa cattedrale di S. Andrea a Portogruaro Scandella lesse l’abiura e la sentenza fu promulgata in pubblico tra il 21 e il 31 maggio, come si deduce da altri atti, non il 17 maggio, come scrive Carlo Ginzburg. Manca il giorno preciso perché il documento conservato è una minuta incompleta. I giudici non applicarono il disposto della bolla di Paolo IV, risparmiando la vita a Menocchio e nel dispositivo finale della sentenza comminarono le seguenti pene: il carcere perpetuo, una veste grigia con due croci gialle, una davanti e l’altra dietro, da portare in perpetuo, l’obbligo (da ottemperare momentaneamente fuori della prigione) di restare per sei feste davanti alla porta della cattedrale di Concordia a capo scoperto, con una candela accesa in mano e una correggia al collo, il digiuno ogni venerdì a pane e acqua e una serie di pratiche religiose, tra cui ogni giorno i sette salmi penitenziali e il rosario. Gli vennero confiscati i beni, ma furono lasciati ai figli, secondo le norme della Repubblica di Venezia, detratte le spese del processo e del carcere.
Il condannato rimase nelle dure prigioni vescovili di Concordia. Il paese reagì violentemente contro il pievano pre Odorico, cercando di ammazzarlo nella notte della festa popolare di San Giovanni, il 24 giugno, e denunciandolo poi al visitatore apostolico Cesare de Nores, di passaggio in paese, ma senza alcun esito. Il 18 gennaio 1586, un anno e otto mesi dopo la condanna, il figlio di Scandella, Giovannino, presentò al vescovo e all’inquisitore una domanda per ottenere la commutazione della pena. La risposta fu positiva e a Menocchio venne assegnato come confino l’abitato di Montereale. Scandella si reinserì nel paese, tornò al mulino, ebbe incarichi di fiducia, ma gli pesava molto portare l’abitello degli eretici. Né riusciva a tacere le proprie idee, anche se si limitava a comunicarle a estranei incontrati nelle puntate che faceva fuori Montereale: Scandella dunque non rispettava gli obblighi impostigli dal tribunale.
I tempi erano molto cambiati. L’Inquisizione pubblicava ora degli editti, portando così a notizia di tutti indistintamente il grave obbligo di denunciare gli eretici. Il 7 marzo 1596 Leonardo Simon da Porcia, in osservanza di questi editti, denunciò all’inquisitore, alcune frasi eretiche di un certo Menocchio, mugnaio di Montereale, udite a Udine durante il carnevale. Fra Giovanni Battista Angelucci chiese al viceinquisitore di Concordia di interrogare il denunciante. Fra Girolamo Asteo da Pordenone mandò il verbale il 3 aprile, ma non successe nulla. Angelucci era vecchio e all’inizio del 1598 morì. Il nuovo inquisitore fra Girolamo, però, accertò che il tale Menocchio era Domenico Scandella, ascoltò diversi testimoni e il vescovo di Concordia fece arrestare l’imputato il 21 giugno 1599. Menocchio fu interrogato il 12 e il 19 luglio. Era recidivo e per lui era prevista la condanna capitale. L’inquisitore informò a più riprese la Congregazione del S. Uffizio, che non diede indicazioni particolari, se non che il papa stesso raccomandava ogni diligenza in questa causa gravissima. L’inquisitore scrisse il 14 luglio a Roma, ma la risposta del 14 agosto, che chiedeva copia del processo e consigliava la tortura per scoprire i complici, fu del tutto inutile perché arrivò soltanto il 15 settembre, a sentenza già eseguita.
Nel frattempo il processo era andato avanti: il 22 luglio l’avvocato concesso dal tribunale presentò la difesa, il 2 agosto il tribunale ritenne Scandella relapso e convinto, e lo fece torturare per costringerlo a confessare i nomi dei complici, ma inutilmente. Peraltro, il 3 agosto giunse un’ulteriore denuncia. La sentenza di condanna a morte, quindi, fu promulgata l’8 agosto a Portogruaro nella chiesa di S. Andrea e l’imputato fu consegnato al provveditore veneziano. Nei documenti del S. Uffizio non c’è mai la registrazione dell’avvenuta esecuzione, fuorché eccezionalmente in alcuni casi veneziani del secondo Cinquecento. Invece, in un atto notarile del 16 agosto Scandella è nominato come defunto: «Cum sit quod alias quondam ser Dominicus Scandellae et Stephanus, eius filius...». Quindi la sentenza fu eseguita qualche giorno dopo la promulgazione: l’imputato fu decapitato e bruciato.
Occorre precisare che le lettere della Congregazione del 30 ottobre e 15 novembre 1599, riferite da Ginzburg a Menocchio, in realtà sono pertinenti ad Antonio Scodellaro, come l’inquisitore stesso segnò sul dorso delle lettere. Ed è anche da rilevare che la condanna a morte fu decisa dai giudici locali senza alcun avallo della Congregazione del S. Uffizio e del papa, perché non c’è nulla al riguardo nelle lettere e neppure nei Decreta dell’Inquisizione. Fra Girolamo Asteo il 5 settembre, ovvero un mese dopo, notificò alla Congregazione il rilascio dell’imputato alla corte secolare e il cardinale Giulio Antonio Santori rispose il 16 ottobre in modo laconico, senza nessun commento né alcun rimprovero.
Se le tragiche vicende della vita e della morte di Domenico Scandella sono relativamente semplici, le sue idee risultano invece complesse e sono state oggetto di interpretazioni e dibattiti tali da assumere una dimensione che supera la storia individuale di Menocchio. La scoperta e la valorizzazione dei processi che lo concernono si devono a Carlo Ginzburg.
In un libro, divenuto un classico della storiografia (Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino 1976), Ginzburg si propose di studiare la cultura di questo mugnaio, ipotizzando «un influsso reciproco tra cultura delle classi subalterne e cultura dominante». Come metodo scelse di confrontare la cultura di Menocchio con la cultura dell’epoca per individuare quanto ci fosse in essa di irriducibile. Lo storico isolò così «uno strato ancora non scandagliato di credenze popolari, di oscure mitologie contadine», accompagnato da alcune idee risalenti ai «gruppi intellettuali più raffinati e consapevoli del suo tempo». Questa constatazione, secondo Ginzburg, evidenziava «con forza il problema della circolazione culturale formulato da Bachtin» (pp. XVIII s.).
Problematica appariva l’ascrizione delle idee di Menocchio a quelle della Riforma, diffuse nella Repubblica di Venezia negli anni Quaranta e Cinquanta, e pure a quelle dell’anabattismo antitrinitario. Quando fu interrogato espressamente dall’inquisitore sulla giustificazione e sulla predestinazione, non capì cosa fossero. Si possono intravvedere delle vaghe analogie con l’anabattismo per alcuni elementi, quali «il rifiuto delle immagini sacre, delle cerimonie e dei sacramenti, la negazione della divinità di Cristo, una religiosità pratica imperniata sulle opere, la polemica [...] contro le pompe ecclesiastiche, l’esaltazione della tolleranza», ma mancano le dottrine fondamentali e il mugnaio non era settario come loro (Ginzburg, 1976, pp. 22-25).
Andrea Del Col, che ha pubblicato i processi contro Menocchio, ha ritenuto che le somiglianze con gli anabattisti siano ancora più labili. Ginzburg ha evidenziato anche un’altra radice della cosmogonia del mugnaio, al di là dell’evanescente rapporto con le eresie a lui contemporanee. Secondo la concezione di Menocchio, dal caos primordiale nacquero degli spiriti, come i vermi dal formaggio, e questi spiriti furono gli angeli e tra essi lo stesso Dio. Il creato e gli stessi uomini erano Dio: «Tutto quello che si vede è Iddio et nui semo dei». Queste affermazioni, secondo Ginzburg, si possono «attribuire, provvisoriamente, a un sostrato di credenze contadine, vecchio di secoli...», a «un filone autonomo di radicalismo contadino» (pp. 25-26). Inoltre i miti della cosmogonia lattea sono antichissimi e attestati nei Veda indiani e tra i Calmucchi.
Domenico Scandella durante il processo sostenne più volte di avere l’ingegno acuto e di avere pensato da sé le proprie idee, ma ammise di aver letto una dozzina di libri in volgare, testi tardomedievali, eccetto il Sogno del Caravia e il Corano. Tra il contenuto effettivo dei libri e le conclusioni che ne trasse Menocchio si riscontra uno «scarto [...] profondissimo, verosimilmente non comune» (p. XXI). Scandella era un lettore selettivo, che frapponeva tra sé e lo scritto una griglia che era data da una cultura diversa, orale: la cultura contadina, precristiana, imbevuta di «materialismo religioso» (p. 80).
L’idea più rilevante di questi diversi elementi della cultura di Menocchio è quella dell’origine del cosmo: Dio non è creatore e la materia è eterna. Questa cosmogonia è «sostanzialmente materialistica e tendenzialmente scientifica» (p. 67), mentre l’immagine del formaggio che si coagula dal latte e produce i vermi-spiriti riecheggia un mito indiano ricordato nei Veda. Menocchio aveva una «visione cocciutamente materialistica», che «non ammetteva la presenza di un Dio creatore, di un Dio sì, ma era un Dio lontano». Nel contempo ammetteva «un Dio vicinissimo, disciolto negli elementi, identico al mondo» (p. 76).
In questo complesso molto coerente c’era tuttavia un’idea confusa e contradditoria: quella dell’anima. Secondo Scandella l’uomo ha un corpo, un’anima, che è mortale, ma anche uno spirito, che è immortale, anzi gli spiriti sono due, uno buono e l’altro cattivo. Ginzburg spiega la distinzione tra anima mortale e spirito immortale, collegandola al pensiero di Pietro Pomponazzi, semplificato dall’eretico Girolamo Galateo e passato tra gli anabattisti veneti con la dottrina del sonno delle anime fino al giorno del giudizio. Si tratterebbe quindi di una concezione dotta, che potrebbe essere arrivata al mugnaio attraverso il pievano di Polcenigo, amico di Menocchio. Scandella aveva infine il desiderio di un mondo nuovo e più giusto, e portava così «alla superficie le profonde radici popolari delle utopie, sia dotte sia popolareggianti» (p. 101).
Nonostante il fascino dell’interpretazione di Carlo Ginzburg, che ha fatto di Menocchio un paradigma storiografico, sono maturate maggiori cautele nell’uso delle fonti inquisitoriali e nuove letture sono state proposte di questo caso di studio ricollocando le risposte di Menocchio alle domande dei giudici nel contesto giuridico del processo. Il procedimento prevedeva che l’eretico potesse concepire da sé le eresie, oppure trovarle nei libri, oppure sentirle da altri e insegnarle ad altri. Menocchio decise di non coinvolgere nessuno. Non poteva attribuire sempre tutto a se stesso e quindi citò dei libri. Questi libri erano ortodossi, ma li indicò come origine di alcune sue eresie. Da qui le notevoli incongruenze, compresi alcuni testi che furono nominati proprio a caso. Se le risposte del mugnaio sui libri vanno considerate così e non come spiegazioni delle sue letture, non ha più ragion d’essere la griglia della cultura contadina che egli avrebbe usato per rielaborare a suo modo la cultura dotta. Due opere invece erano proibite, il Decameron di Giovanni Boccaccio nell’edizione non espurgata, citato da Scandella, e il Corano, attribuitogli da un testimone. Di esso Domenico non parlò mai, ma lo aveva letto sicuramente, perché in una risposta del 28 aprile 1584 disse: «Non vedete che Abram buttò per terra tutti li idoli et tutte le imagini et adorò un solo Iddio?» (Domenico Scandella, 1990, p. 66), chiaro riferimento alla «sura dei profeti», come ha mostrato Pier Maria Tommasino.
Secondo il mugnaio, nel caos primordiale erano compresenti sia la materia sia lo spirito, cioè Dio. L’eternità della materia non era un’idea di origine popolare, ma era stata proposta dai filosofi presocratici, come ha rilevato lo stesso Ginzburg, e da Aristotele, le cui dottrine erano insegnate nel Cinquecento nelle università, soprattutto a Padova, centro europeo dell’aristotelismo. Possibile quindi che Menocchio abbia sentito in qualche modo tale teoria e l’abbia fatta propria. Inoltre nella sua concezione dell’uomo c’è un elemento secondo Del Col poco considerato, l’angelo. L’uomo è composto da corpo e anima, che sono mortali e dallo spirito, che è immortale. Il mugnaio crede che, dopo la nascita, all’uomo «Dio li dia poi un anzolo [...] Et quando l’homo poi vien grande, o che sii da Dio o dal demonio, in noi viene un altro spirito, che contrasta con quel angelo. Et morto poi l’homo, li spiriti tutti doi vano là che pare a Dio» (p. 55). Un’altra volta dice che lo spirito di Cristo, e quindi dell’uomo, è «uno de quelli angeli creati antiqui, overo un Spirito Santo l’ha creado dalli elementi, come semo creati nui» (p. 73). Nell’antropologia propria di Scandella lo spirito che costituisce l’uomo è dunque un angelo e i due termini sono sinonimi. Ora l’idea che lo spirito dell’uomo sia un angelo è propria ed esclusiva del catarismo. Del Col ha ritenuto che fosse giunta in qualche modo a Menocchio, pur con le evidenti difficoltà della trasmissione dal Piemonte del tardo Trecento, comunque meno rilevanti di quelle poste da una cultura contadina plurimillenaria collegabile ai Veda.
D’altronde, ci sono altri riferimenti diretti e indiretti al catarismo. Scandella infatti non parla della cosmogonia a se stante, ma come parte di una storia della salvezza, che ha delle forti analogie con l’Interrogatio Ioannis, testo bogomilo molto diffuso tra i catari. Le concezioni di Menocchio non rispecchiano dunque un materialismo, ma un dualismo, dove gli spiriti sono più rilevanti della materia. Tanto è centrale lo spirito che alla fine dei tempi nessun corpo risorgerà, nemmeno quello di Cristo e tutto sarà puro spirito, come credevano i catari. Scandella tuttavia non è classificabile come cataro perché non segue tutte le loro concezioni e soprattutto ha una visione panteistica, dato che crede che Dio sia tutte le cose buone e che tutto sia Dio (pp. LIII-LXXII). Si tratta di un complesso di idee a suo modo coerente, rielaborato in forma personale, ma con origini disparate, in buona parte lontane dalle dottrine del tempo e con modesti e isolati elementi della cultura popolare.
Luca Addante è ancora tornato sulla questione della cultura di Menocchio e ha sottolineato invece la circolazione di alcune idee tipiche del radicalismo valdesiano presenti nell’Italia del Nordest negli anni Cinquanta e seguenti. In conclusione, nonostante Domenico Scandella abbia cercato di esprimere a suo modo chiaramente le proprie idee ai giudici dell’Inquisizione, gli storici fanno ancora fatica a capirle e restano aperte varie possibilità interpretative.
Fonti e Bibl.: Padova, Archivio Vescovile, Biblioteca capitolare, Visite, bb. 6, 7: Visitatio apostolica... Concordiensis, cc. n.n., parti riguardanti Montereale. Una copia parziale della b. 6 si trova in Pordenone, Archivio Vescovile, Visite pastorali, b. 3, reg. Sacrarum visitationum Nores ab anno 1582 usque ad annum 1584.
C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino 1976; G. Spini, Noterelle libertine, in Rivista storica italiana, LXXXVIII (1976), pp. 792-802; G.G. Merlo, Eretici e inquisitori nella società piemontese del Trecento, Torino 1977, p. 60; A. Del Col, Eterodossia e cultura fra gli artigiani di Porcia nel secolo XVI, in Il Noncello, 1978, n. 46, pp. 9-76; P. Zambelli, Uno, due, tre, mille Menocchio?, in Archivio storico italiano, CXXXVII (1979), pp. 51-90; D. LaCapra, The worms and the cheese. The cosmos of a twentieth century historian, in Id., History and criticism, Ithaca 1985, pp. 45-69; D. S. detto Menocchio. I processi dell’Inquisizione (1583-1599), a cura di A. Del Col, Pordenone 1990 (recensione di S. Bertelli, in Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance, LIII (1991), pp. 535-541); R. Chartier, Letture e lettori ‘popolari’ dal Rinascimento al Settecento, in Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura di G. Cavallo - R. Chartier, Roma-Bari 1995, pp. 318 s., 333 s.; G. Zanella, Hereticalia. Temi e discussioni, Spoleto 1995, pp. 187-193; La cena segreta. Trattati e rituali catari, a cura di F. Zambon, Milano 1997, ad ind.; Uno storico, un mugnaio, un libro. Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi, 1976-2002, a cura di A. Colonnello - A. Del Col, Trieste 2003; L’Inquisizione del patriarcato di Aquileia e della diocesi di Concordia Gli atti processuali, 1557-1823, a cura di A. Del Col, Udine-Trieste 2009, pp. 147-149, 231 n., 243; L. Addante, Eretici e libertini nel Cinquecento italiano, Roma-Bari 2010, pp. 30 s., 39, 126-128; F. Benigno, Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Roma 2013, pp. 87-99; P.M. Tommasino, L’Alcorano di Macometto. Storia di un libro del Cinquecento europeo, Bologna 2013, cap. 9, par. 2; O. Niccoli, Cultura popolare: un relitto abbandonato?, in Studi storici, LVI (2015), pp. 998 s., 1003-1006. Moltissimi contributi citano in breve il caso di Menocchio, come: J. Revel, La culture populaire: sur les usages et les abus d’un outil historiographique, in Culturas populares. Diferencias, divergencias, conflictos. Actas del coloquio celebrado en la Casa de Velázquez, los días 30 de novembre y 1-2 de diciembre de 1983, Madrid 1986, pp. 227, 234; L. Felici, La Riforma protestante nell’Europa del Cinquecento, Roma 2016, p. 158.