SCALZA
‒ Famiglia orvietana di scultori e stuccatori attivi tra il XVI e il XVII secolo in territorio umbro. Capostipite della famiglia fu Francesco, il quale ebbe cinque figli: fatta eccezione per Girolamo, che vestì gli abiti francescani e non si avvicinò all’arte, gli altri furono tutti laici e intrapresero la carriera artistica. Lodovico fu architetto, Francesco e Alessandro furono nel contempo mosaicisti e architetti, e infine Ippolito scultore, stuccatore e architetto, il più importante esponente della famiglia.
Mentre Alessandro e Francesco lavorarono, disegnarono e diressero fabbriche restando sempre a Orvieto, Lodovico si spostò a lavorare a Perugia. Il primo documento che vi attesta la sua presenza è datato 1560: Filippo Baldeschi gli assegnò il compito di realizzare, coadiuvato da Giovanni Caffarelli da Settignano, alcuni lavori per il proprio palazzo in piazza degli Aratri (Mancini, 2003, p. 47). I due, inoltre, collaborarono alla prestigiosa realizzazione dell’altare di s. Bernardino all’interno della cattedrale di S. Lorenzo. I lavori presero il via dopo il 1559, anno in cui viene datata la commissione a opera dell’Arte della mercanzia e terminarono sicuramente entro il 1569, anno in cui Federico Barocci inserì all’interno dell’altare, che i due realizzarono in travertino, stucco e legno, la celeberrima tela raffigurante la Deposizione dalla Croce. L’altare venne demolito nel 1796 per lasciare spazio a una nuova struttura, ma è a noi fortunatamente noto grazie a un disegno conservato presso l’archivio della mercanzia.
Tra il 1564 e il 1569, assieme a Simone Mosca, Lodovico eseguì la decorazione della cappella del Corpo di Cristo nella chiesa di S. Maria Maggiore a Bettona, nei pressi di Perugia. A Perugia, aiutato ancora da Mosca, realizzò cinque scudi raffiguranti le armi di Paolo III, i simboli dei cardinali nipoti e dei legati; tali sculture, non più esistenti, vennero poste sopra una delle porte d’ingresso della Rocca Paolina. Risale al 1567 la decisione presa da Lodovico di stabilirsi in affitto in una casa di proprietà del Capitolo nel «popolo di San Savino» (Mancini, 2003, p. 48). Nel 1575, Pietro Baldeschi conferì a lui in veste di architetto e a Antonio de la Burchia in qualità di muratore i lavori di ammodernamento del palazzo di famiglia lungo corso Vannucci (p. 46). Nel 1576, Lodovico ottenne il titolo di architetto di Perugia. Fu ancora lui a eseguire, questa volta insieme al maggior architetto perugino della seconda metà del XVI secolo, Galeazzo Alessi, i lavori scultorei di una porta del duomo di Perugia.
Essa, pur non essendo il principale accesso al duomo, si affaccia su piazza IV Novembre e, pertanto, gode di grossa visibilità: «sebbene non sia la porta principale, ha però il suo uso come porta maestra» (Orsini, 1973, p. 106).
Per l’interno del duomo, Lodovico lavorò alla cappella del battistero, realizzò gli ornamenti di stucco della cappella Oradini e scolpì il busto di marmo del sepolcro di monsignor Giulio Oradini (p. 114). Nella Kunstbibliothek di Berlino è custodito un disegno realizzato da Lodovico come progetto per il monumento funebre, che egli stesso eseguì (Venuti, 1803, p. 49), «fatto di marmo bianco con perfetto intaglio e buona architettura» (Titi, 1763, p. 260), del canonico Lodovico Pasqualino nella basilica di S. Maria Maggiore a Roma.
Lodovico morì nel 1611 (Sutera, 2013, p. 129).
Alessandro e Francesco, assieme a Paolo Rossetti e a Ferdinando Sermois ‘francese’, su disegno di Cesare Nebbia, realizzarono il mosaico nella facciata del duomo di Orvieto raffigurante il Battesimo di Gesù (sopra il portale sinistro). La figura di s. Giovanni fu disegnata da Ippolito e poi realizzata a mosaico dall’équipe di artisti, tra i quali erano i fratelli Alessandro e Francesco. Francesco lavorò al duomo, con buona probabilità, negli anni che vanno dal 1580 al 1620. Alessandro, in collaborazione con Giorgio il Fiammingo, realizzò colonne, cornici di riquadri e putti in stucco per le cappelle: tali decorazioni vennero progettate da Ippolito (Satolli, 1844, pp. 22 s.).
La fama di Lodovico, Alessandro e Francesco venne completamente offuscata da quella di Ippolito, il quale fu, nonostante la volontaria e singolare omissione fattane da Giorgio Vasari nelle Vite, senza alcun dubbio non solo il più notevole rappresentante della famiglia, ma anche un personaggio artistico di valore.
La sua data di nascita, sebbene non documentata, viene generalmente fissata al 1532, in quanto si tramanda che quando egli morì aveva 85 anni (Cambareri - Roca De Amicis, 2002, p. 9). Nel 1551 Ippolito venne citato come testimone per alcuni pagamenti: tale documento è di grande importanza, in quanto risulta la prima testimonianza che si conosca su di lui e il suo operato in relazione ai lavori che poi si trovò a svolgere per il duomo di Orvieto.
Ippolito acquisì l’arte della scultura marmorea nella bottega di Raffaello da Montelupo, di Simone Mosca e del figlio di quest’ultimo, Francesco Moschino. Fondamentale fu lo stretto legame che strinse, agli albori della carriera, con Raffaello da Montelupo: proprio in virtù di questo legame, egli apprese, seppur indirettamente, a lavorare il marmo secondo lo stile e la tecnica di Michelangelo.
Nel 1554 ricevette, in qualità di scalpellino, il primo pagamento da parte dell’Opera orvietana per aver scolpito gli elementi architettonici marmorei che fanno da cornice all’altare della Visitazione, nel braccio sinistro della crociera del duomo. Fu proprio dal 1554 che Ippolito lavorò in modo assiduo nella fabbrica della cattedrale, venendo stipendiato incessantemente fino alla fine dei suoi giorni: egli era in grado di scolpire diversi materiali (pietre locali tra cui marmo e travertino, ma anche legno e stucco) e secondo stili e tecniche differenti, rispettando la volontà della committenza. Nel 1555, insieme a suo cugino Vico di Meo Scalza e a Francesco Moschino, e sotto la direzione di Raffaello da Montelupo, scolpì una statua in travertino raffigurante un Profeta che si doveva porre in una nicchia alla sinistra del rosone della facciata. Nel 1557 gli venne chiesto da Moschino di completare il S. Sebastiano, opera in marmo iniziata da Moschino stesso: una sorta di subappalto, che ci fa ben comprendere come, in un periodo d’intenso lavoro, Ippolito si ritrovò assistente di Moschino.
Nel 1558, dopo alterne vicissitudini, l’Opera diede a Ippolito l’incarico di realizzare, in soli sei mesi, che poi in realtà divennero due anni, il tabernacolo per l’altare maggiore della cattedrale.
Dopo aver valutato vari progetti e diversi materiali da utilizzare, egli propose l’uso del legno. L’opera è andata perduta ma dalla descrizione tramandataci da Girolamo Curzio Clementini (1710-1714 circa) apprendiamo che la struttura era un «prodigio dell’arte» (Cambareri - Roca de Amicis, 2002, p. 33). Il tabernacolo doveva essere riccamente intagliato, dorato e dipinto: un’opera corale, frutto della collaborazione di diversi artisti; venne infatti progettato da Montelupo, scolpito da Scalza, dorato da Luca Nucci di Gubbio e dipinto, nei pannelli, da Cesare Nebbia.
Sempre per conto dell’Opera, Ippolito, dopo il 1560, si spostò per qualche anno in altre località umbre per effettuare sopralluoghi e lavori. Sebbene le date della sua permanenza lontano da Orvieto non siano a oggi certe, è possibile ricostruirle, in quanto il suo nome non compare nei documenti della cattedrale dal febbraio del 1561 al settembre del 1564, ragion per cui si è propensi a pensare che egli possa aver soggiornato e lavorato altrove. Fu ad Amelia che Ippolito realizzò il suo primo e unico lavoro scultoreo al di fuori del contesto orvietano: la tomba per il vescovo Baldo Farrattini nella cattedrale.
Dal 1564 lo scultore riprese a lavorare nel duomo orvietano, realizzando dei lavori in stucco per le cappelle laterali e, tra il 1565 e il 1566, scolpì in travertino S. Matteo e S. Giovanni, da collocare nella facciata. Nel 1567 passò dalla mansione di scalpellino a quella di capomastro, incarico che ricoprì fino alla morte.
La richiesta per poter ricoprire tale ruolo venne avanzata dallo stesso Ippolito in una missiva datata 13 febbraio 1567, subito dopo la scomparsa di Raffaello da Montelupo nel dicembre del 1566. Pur sembrando voler avanzare una semplice richiesta di aumento di stipendio, Ippolito manifestò, in realtà, una volontà molto più caparbia e tenace: era intenzionato a ricoprire il ruolo di maggior importanza all’interno della fabbrica e, al fine di ottenerlo, mise in risalto tutte le sue qualità artistiche rispetto agli altri artisti forestieri (pp. 25 s.).
Nell’aprile del 1567 Sebastiano Vanzi da Viterbo, vescovo di Orvieto, lasciò all’Opera del denaro con il quale venne acquistato del bronzo al fine di realizzare per lui una tomba monumentale; il materiale non venne, però, mai utilizzato, in quanto Ippolito nel 1571 iniziò a eseguire l’opera facendo uso di pietra locale. La tomba murale venne collocata nella cappella del Corporale.
Nel 1568 Ippolito disegnò un tabernacolo entro il quale racchiudere un dipinto murale realizzato ad affresco da Gentile da Fabriano nella navata sinistra della chiesa, accanto al fonte battesimale.
L’intervento di Scalza fu decisivo, poiché il Consiglio dell’Opera del duomo aveva più volte avanzato l’idea di distruggere la cappella laterale in cui era stato realizzato il dipinto, in quanto, a seguito di vari rimaneggiamenti in quell’area, esso non si trovava più in una posizione simmetrica e aveva perso la sua armoniosità. Grazie al progetto di Scalza, non solo si preservò un’importante immagine devozionale, ma se ne conservò anche la forte valenza storico-artistica.
Nel 1569 Ippolito disegnò le guglie per la facciata del duomo e, nel progettarle, fu in grado di adattare lo stile cinquecentesco all’ambientazione gotica della facciata; la loro realizzazione venne completata solo nel 1591 (pp. 26, 28). A partire dal 1570, l’Opera del duomo iniziò a profondere attenzioni nei riguardi della decorazione della controfacciata: Ippolito realizzò un accurato progetto nel quale fece confluire le tre arti di pittura, scultura e architettura. Nel 1570 gli venne commissionata la Pietà. Questo gruppo marmoreo, completato solo nel 1579, ancora oggi è conservato accanto al pilastro sinistro d’ingresso alla crociera del duomo.
La Pietà è l’indiscusso capolavoro di Ippolito, che scolpì le quattro figure avendo ben presente non solo la Pietà vaticana di Michelangelo ma anche i Vesperbilder tedeschi. Il corpo esanime di Gesù viene sostenuto dalla Vergine, che lo appoggia teneramente e mestamente sul proprio grembo. La Maddalena, inginocchiata ai piedi del Redentore, accosta dolcemente il volto alla sua mano sinistra. Nicodemo, unica figura rappresentata in piedi, tiene in mano chiodi, tenaglie, martello e scala, elementi che alludono alla Passione e alla deposizione.
In veste di scultore e architetto, Ippolito fu a capo dei numerosi lavori di ammodernamento dell’interno della cattedrale e della sua facciata. Suo è il disegno, datato 1572, per il pulpito ottagonale intagliato in legno di noce (Bonelli, 1939, p. 285). Nel 1579 egli scelse di realizzare la statua che raffigura S. Tommaso apostolo, patrono degli architetti: sembra ormai consolidata l’interpretazione secondo la quale il volto, in cui si scorge, nel contempo, un filosofo e un padre di famiglia preoccupato e angosciato per la propria prole, sia un autoritratto di Ippolito. Non appena ebbe ultimata questa scultura, il maestro iniziò a realizzarne un’altra raffigurante S. Giovanni Evangelista e, nel 1599, completò la statua di S. Andrea, iniziata da Francesco Toti. Queste sculture si aggiunsero alla serie degli Apostoli che si sarebbero dovuti collocare lungo la navata centrale del duomo e che sono conservati oggi nel museo dell’Opera.
L’11 gennaio 1580 Scalza scrisse un’altra missiva all’Opera chiedendo un aumento di salario perché, pur non avendo mai manifestato alcuna istanza in tal senso, le sue necessità erano ora mutate (Cambareri - Roca De Amicis, 2002, pp. 28 s.). Dopo tredici anni di servizio, riuscì a ottenere il medesimo onorario che era stato riconosciuto a Moschino e a Montelupo, ovvero 200 scudi annui. Nel 1582 realizzò il disegno per la mostra lignea dell’organo, «l’opera dello Scalza più tendente al barocco» (Bonelli, 1939, p. 285), e sovrintese a tutti i relativi lavori in qualità di capomastro. Con questo progetto creò una struttura scenografica in grado di integrare pittura e scultura in una monumentale cornice architettonica.
Nel 1584 i rettori della chiesa della Consolazione di Todi richiesero Ippolito alla loro fabbrica per delle consulenze (p. 284). Il 2 maggio 1588, il maestro scrisse di nuovo all’Opera orvietana per chiedere che alla sua Pietà fosse data una sistemazione più consona: consapevole del valore della sua scultura sia da un punto di vista artistico che devozionale, fu abile nel rilevare che essa era una fonte di guadagno per l’Opera in quanto incoraggiava i fedeli a lasciare un’offerta, per cui sarebbe dovuto essere interesse della chiesa prendersene cura in modo particolare.
Nel 1603, venne estratto il marmo per realizzare l’Ecce Homo, ultima scultura che Ippolito eseguì, e che completò nel 1608: il vigoroso naturalismo che caratterizza tutta la sua produzione scultorea scompare qui per lasciare spazio a una solidità mista a malinconica tristezza.
Cospicui e notevoli furono i progetti che Ippolito seguì in qualità di architetto, parallelamente all’attività di scultore e stuccatore (Roca de Amicis, 1999).
La morte di Ippolito avvenne a Orvieto il 20 dicembre 1617, come attestato da un registro dello Stato delle Anime nell’Archivio di Stato orvietano, in cui si ricorda che egli venne poi sepolto in S. Francesco.
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