PANSUTI, Saverio
– Nacque in Calabria nel 1666 da una famiglia di umili origini.
Del poeta tragico Pansuti (o Pansuto, Panzuti), dimenticato nel corso dell’Ottocento per il ruolo ricoperto a Napoli durante il viceregno austriaco, scarse sono le notizie riguardanti la biografia.
Si formò a Scalea nella scuola del filosofo cartesiano Gregorio Caloprese, come annotò Francesco Maria Spinelli nella sua Vita (Venezia 1753), annoverandolo fra i discepoli del comune maestro. Frequentò Gian Vincenzo Gravina che lo iscrisse all’Accademia dell’Arcadia il 2 luglio 1691 con il nome pastorale di Ursacchio Oressio. Nello stesso anno, Pansuti pubblicò a Napoli la Canzone in morte del serenissimo Carlo V duca di Lorena che conteneva un affettuoso omaggio proprio a Caloprese: «che tutto giorno da’ vostri soli famigliari ragionamenti traggo tanto d’utilità, quanto ire rivolgendo i volumi de’ più saggi filosofanti potessi giammai». Fu allievo anche di Niccolò Caravita, il giurista napoletano che, insieme al figlio Domenico, protesse sempre Giambattista Vico. Lo stesso Caravita fu legato a Caloprese: scrisse l’introduzione alla sua Lettura sopra la concione di Marfisa a Carlo Magno edita a Napoli nel 1691, un anno dopo la fondazione romana dell’Arcadia e l’avvio del confronto fra Gravina e il custode Giovan Mario Crescimbeni.
Pansuti, addottorato in giurisprudenza, ricoprì, in quegli anni, il ruolo di segretario della Santa Casa dell’Annunziata di Napoli. La sua presenza in varie raccolte poetiche curate da Niccolò Caravita e pubblicate fra il 1696 e il 1697 a Napoli fa supporre una stretta frequentazione del cenacolo intellettuale creatosi attorno al giurista napoletano, che solo un anno prima era stato accusato, insieme a Giuseppe Valletta, di eresia e ateismo.
Giunto all’età di trentacinque anni, Pansuti aderì in maniera convinta alla congiura filoaustriaca di Macchia del 1701, denominata così per il ruolo militare assunto negli ultimi giorni da Gaetano Gambacorta, principe di Macchia.
Le Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, letterato e leader della congiura, attribuirono a presunte pressioni cardinalizie l’ultimo testamento aperto alla morte del sovrano spagnolo Carlo II d’Asburgo nel 1700, che lasciò il Regno a Filippo d’Angiò, nipote di Luigi XIV, anziché all’arciduca Carlo, secondogenito dell’imperatore Leopoldo, come da primo testamento. Rigettato da Leopoldo, il secondo testamento scatenò la lunga guerra di successione spagnola durata sino al 1714. In Italia essa fu inaugurata proprio dalla congiura di Macchia, alla quale presero parte inizialmente circa duecento nobili napoletani.
Il confronto fra le varie storie, cronache e memorie mette in crisi il giudizio di Vico circa una congiura aristocratica nata come rivendicazione degli antichi privilegi nobiliari. In realtà, la trama comprese uomini di tutti i ceti sociali, come lo stesso Pansuti, esponente del ceto civile, spinti soprattutto dall’idea di avere un regno autonomo con vantaggi economici e sociali. Il fatto che Pansuti e altri letterati apparissero concordi, nelle raccolte poetiche, nel celebrare il buon governo spagnolo a fine Seicento non significava aver tradito la fede nella figura del sovrano, allora ancora Carlo d’Asburgo. Nel compiangere la morte di Carlo di Lorena, cognato dell’imperatore, la canzone di Pansuti del 1691 rivelava la precoce propensione per la casa d’Austria, condivisa nell’ultimo decennio del Seicento da molti napoletani, preoccupati per l’assenza di eredi di Carlo II e ostili alla Francia.
Lungamente concertata con abboccamenti a Vienna e con l’esercito imperiale ormai entrato in territorio italiano, una volta scoperta, la congiura di Macchia scoppiò a Napoli nella notte del 22 settembre 1701. Le ragioni ideali che spinsero alcuni letterati a partecipare, nonostante il rischio della vita, della perdita dei beni o dell’esilio, furono spiegate nelle Memorie di Tiberio Carafa. In molte lettere, cronache e storie dell’evento (di Gravina, Carlo Maiello, Vico) era espresso lo stupore di vedere Pansuti accanto ai nobili più in vista della città quali Tiberio e Malizia Carafa, Bartolomeo Ceva Grimaldi, duca di Telese, Francesco Spinelli, duca di Castelluccia, Giuseppe Capece, Carlo di Sangro. A eccezione della reticenza di Gravina, il ritratto del congiurato Pansuti era univoco: letterato facondo e ambizioso. Non a caso, Benedetto Croce gli avrebbe dato il calzante soprannome di «poeta della botte» (Croce 1992, p. 153), perché salito su una botte in piazza del Mercato arringò la folla nella veste di futuro ‘Eletto del popolo’. Pansuti prese parte anche alla stesura del proclama lanciato dai rivoltosi, con cui, dopo aver denunciato «il giogo di nazioni straniere» (Granito 1861, I, p. 116), s’incitarono i napoletani a ribellarsi, affermando il diritto di eleggersi un loro re, in quanto era venuto meno il «sacro vincolo di giuramento» per la morte senza erede legittimo di Carlo II (p. 119).
L’attribuzione appare fondata se si confronta il proclama con il Discorso intorno alla successione della monarchia di Spagna dopo la morte di Carlo II, scritto dopo il 1708, ma lasciato incompleto e tuttora inedito (Napoli, Biblioteca nazionale, X-F-72, cc. 1r-44v).
Molti congiurati furono giustiziati, mentre i più riuscirono a fuggire, come lo stesso Pansuti, riparando dapprima nel Mantovano presso l’accampamento di Eugenio di Savoia al comando dell’esercito imperiale nei territori italiani e poi a Vienna. Rientrato a Napoli, Pansuti ricevette il titolo di conte per sé ed eredi dall’imperatore Giuseppe; il titolo gli fu confermato da Carlo d’Asburgo diventato re di Spagna con diploma del 1° settembre 1708. Nella stessa occasione gli giunse la nomina a consigliere della Regia Cura di S. Chiara.
Il dialogo Belvederius sive theatrum del giudice Gennaro Parrino (figlio e fratello rispettivamente degli stampatori Domenico Antonio e Nicola, sotto i cui torchi uscirono le tragedie di Pansuti), pubblicato a Napoli nel 1759 e ambientato a Mergellina in casa del personaggio Pansuti, mostrava un uomo retto molto preso dal lavoro di magistrato, ma anche coinvolto nella composizione di tragedie romane come l’Orazia, il Bruto e il Sejano. Gli altri interlocutori erano: Caloprese, Gravina e Andrea Belvedere, il pittore e scrittore di teatro che mise in scena l’Orazia nel 1719 presso il monastero di Monte Uliveto. La recita replicata venti volte – secondo la testimonianza a posteriori di Parrino – ebbe uno strepitoso successo, travalicando i confini del Regno. Grazie al confronto con la Merope di Scipione Maffei fatto da Sebastiano Paoli nell’edizione napoletana di quest’ultima pubblicata presso Felice Mosca nel 1719 e alla recensione dedicata all’Orazia dal Giornale de’ letterati d’Italia (1722, vol. 33, parte II, p. 471), Pansuti consolidò il suo prestigio. Nella raccolta Delle rime scelte di varj illustri poeti napoletani, pubblicata in due volumi a Napoli con la falsa indicazione «Firenze 1723», fu presente con ben sessantaquattro sonetti, un numero superiore a ogni altro. Le Rime comprendevano componimenti, fra gli altri, di Vico, Gravina, Carafa, Matteo Egizio, Nicola Capasso, Annibale Marchese, Aurora Sanseverino, Domenico Aulisio.
Tutti gli scritti di Pansuti recano traccia dell’evento che sconvolse la sua vita, dalle rime alle tragedie; queste alimentarono il mito dell’eroe italico, il grande generale Eugenio di Savoia, e inaugurarono, all’interno della tradizione tragica italiana, la drammaturgia della congiura. Inoltre il loro rilievo risiedette nella precocità dell’adozione della strategia ciclica, in base alla quale ogni azione tragica d’argomento storico rappresentava in sequenza un diverso governo civile (consolare, militare); in parte già avviato da Gravina, il ciclo tragico fissato dalle tragedie di Pansuti fu seguito in Francia da Voltaire e in Italia da Antonio Conti. Dal 1719 al 1729 egli pubblicò cinque tragedie di argomento romano, lo stesso numero delle Tragedie cinque (Napoli 1712) di Gravina, con le quali le sue inevitabilmente intesero confrontarsi; quelle di Pansuti risultarono più accattivanti nella trama e più fluide nei versi di ottima fattura con esibiti calchi danteschi. Forse il confronto con una personalità così celebre non gli giovò, sebbene le sue tragedie fossero ripubblicate più volte postume nel corso del Settecento.
L’Orazia (Firenze (Napoli) 1719) e la Sofonisba (Napoli 1726) fondarono, accanto alla Merope, la tragedia eroica in linea con il clima militare di quegli anni, volta cioè alla celebrazione in controluce della figura di Eugenio di Savoia, come illustrato nei componimenti poetici non solo di Pansuti e nelle apoteosi pittoriche. Il Bruto (Firenze (Napoli) 1723) e la Virginia (Napoli 1725) erano la chiara proiezione delle riflessioni e dell’esperienza diretta dell’ex congiurato Pansuti che si rifletteva nell’eroico Icilio (che avrebbe ispirato l’Icilio della Virginia di Vittorio Alfieri), fautore di una rivolta popolare senza attendere l’accordo con i patrizi, a differenza dell’Appio Claudio di Gravina. Il divario con gli ex compagni di ventura era raffigurato nelle rivendicazioni del partito patrizio che a Roma tramava contro Bruto e la neonata Repubblica, mentre la disillusione più forte per le attese di un regno autonomo, culminanti nei ripetuti attacchi del ceto nobiliare e delle magistrature contro la politica filoromana del cardinale e viceré Michele Federico d’Althan, accusato di far dominare gli uomini più scellerati, traspariva dal cupo Sejano (Napoli 1729), cifrato da inquietanti interrogativi perfino sulla volontà divina.
Pansuti morì a Napoli nel 1730.
Opere. Versi sparsi di Pansuti furono pubblicati nelle seguenti raccolte: Vari componimenti in lode dell’eccellentissimo signore D. Francesco Benavides conte di S. Stefano, Grande di Spagna, viceré nel Regno di Napoli, Napoli 1696; Componimenti recitati nell’Accademia a’ dì IV. di novembre, anno MDCXCVI. ragunata nel real palagio in Napoli per la ricuperata salute di Carlo II Re di Spagna, I-II, Napoli 1697; Pompe funerali celebrate in Napoli per l’eccellentissima signora D. Caterina d’Aragona, e Sandovale duchessa di Segorbia, Cardona. Con l’aggiunta di altri componimenti intorno al medesimo soggetto dedicate all’eccellentissimo suo figlio D. Luigi della Cerda duca di Medinaceli, viceré capitano generale del Regno di Napoli, Napoli 1697. Oltre ai testi citati si segnalano le seguenti edizioni postume delle sue opere teatrali: Le tragedie di S. P., Napoli 1742 [ma 1743]; Le tragedie di S. P., nuova ed. Roma 1763.
Fonti e Bibl.: Napoli, Biblioteca nazionale, ms. X B 61: T. Carafa, Memorie, 1669-1712, I-XV (la copia di queste Memorie conservata presso l’Archivio di Stato di Napoli è stata, di recente, oggetto di una riproduzione in facsimile a cura di A. Pizza, I-III, Napoli 2005); C. Maiello, Coniuratio inita et extincta Neapoli MDCCI, Antverpiae (Napoli) 1704; F.M. Spinelli, Vita, e studj scritta da lui medesimo, in Raccolta d’opuscoli scientifici, e filologici, XLIX, Venezia 1753, nuova ed. a cura di F. Lomonaco, Genova 2007, p. 59; G. Parrino, Belvederius sive theatrum, Napoli 1759, nuova ed. con trad. a fronte, in I percorsi della scena. Cultura e comunicazione del teatro nell’Europa del Settecento, a cura di F.C. Greco, Napoli 2001, pp. 494-561; F.S. Salfi, Manuale della storia della letteratura italiana, II, Milano 1834, pp. 189 s.; P. Colletta, Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825, I, Parigi 1835, pp. 19-24; B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori e architetti napoletani, IV, Napoli 1846, p. 395; A. Granito, Storia della congiura del principe di Macchia e della occupazione fatta dalle armi austriache del Regno di Napoli nel 1707, I, Napoli 1861, pp. 112 s., 116-119, 193; Diario napoletano dal 1700 al 1709, a cura di G. de Blasis, in Archivio storico per le province napoletane, X (1885), pp. 96 s., 101 s.; A.S. Lopinto, Un poeta tragico napoletano del secolo XVIII (S. P.), Napoli 1910; F. Nicolini, Sulla vita civile, morale e religiosa napoletana alla fine del Seicento, Napoli 1928, ad ind.; V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, V, Milano 1932, pp. 111 s.; A. Quondam, Dal barocco all’Arcadia, in Storia di Napoli, VI, 2, Napoli 1970, pp. 1050-1052; G. Ricuperati, Studi recenti sul primo ’700 italiano: Gian Vincenzo Gravina e Antonio Conti, in Rivista storica italiana, LXXXII (1970), 3, pp. 611-644 (in partic. pp. 622 s.); G.V. Gravina, Curia romana e Regno di Napoli. Cronache politiche e religiose nelle lettere a Francesco Pignatelli (1690-1712), a cura di A. Sarubbi, Napoli 1972, p. 149; G. Galasso, Napoli nel Viceregno spagnolo 1696-1707, in Storia di Napoli, VII, Napoli 1972, pp. 136-200; G. Ricuperati, Napoli e i viceré austriaci 1707-1734, ibid., pp. 349-457; F.C. Greco, Teatro napoletano del ’700. Intellettuali e città fra scrittura e pratica della scena. Studio e testi, Napoli 1981, ad ind.; G. Giarrizzo, Erudizione storiografica e conoscenza storica, in Storia del Mezzogiorno, a cura di G. Galasso - R. Romeo, IX, Napoli 1991, p. 561; B. Croce, I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo, a cura di G. Galasso, Milano 1992, pp. 153 s.; G. Vico, La congiura dei principi napoletani, 1701 (prima e seconda stesura), a cura di C. Pandolfi, Napoli 1992; Id., De Pharthenopea coniuratione, a cura di C. Pandolfi, Napoli 1993; P. Trivero, Tragiche donne. Tipologie femminili nel teatro italiano del Settecento, Alessandria 2000, pp. 137-140; B. Alfonzetti, Congiure. Dal poeta della botte all’eloquente giacobino (1701-1801), Roma 2001, pp. 37-107; Ead., Il «Bruto»: perfetta tragedia del mito asburgico (S. P. e Gioseffo Gorini Corio), in Bruto il maggiore nella letteratura francese e dintorni, a cura di F. Piva, Fasano 2002, pp. 173-206; G. Galasso, Il Regno di Napoli. Società e cultura del Mezzogiorno moderno, Torino 2011, ad ind.; F.F. Gallo, La congiura di Macchia. Mito, storia, racconto, in Studi storici dedicati a Orazio Cancilla, Palermo 2011, pp. 879-926; B. Alfonzetti, Il principe Eugenio, lo scisma d’Arcadia e l’abate Lorenzini (1711-1743), in Atti e memorie dell’Arcadia, I (2012), pp. 23-62; Ead., Voci del tragico nel viceregno austriaco: Gravina, Marchese, P., ibid., III (2014), pp. 207-239.