Saturno
Secondo il mito greco, Cronos, figlio di Urano e di Gea, aveva cacciato il padre (l'avrebbe anche evirato) impadronendosi della signoria del mondo; in seguito a un accordo col fratello Titano (secondo alcuni mitografi, per il timore di essere a sua volta esautorato da un figlio) obbligava la moglie Opi, o Rea, a consegnargli i neonati, che egli ingoiava. Ma Opi riuscì a nascondergli Zeus, nato in parto gemellare, e a farlo allevare presso il monte cretese Ida, i vagiti del piccolo venendo opportunamente celati dai canti e dai cembali dei sacerdoti Cureti, o Coribanti. Divenuto adulto, Zeus vinse Cronos obbligandolo a vomitare i figli ingoiati e incarcerandolo poi con i Titani nel Tartaro.
I Romani identificarono in Cronos l'antica divinità italica delle sementi, S.: e vollero che S., cacciato dal figlio (latinamente Giove), fosse venuto in Italia dove avrebbe regnato dando il suo nome a un periodo dominato dalla pace e dalla giustizia (cfr. Aen. VIII 319-325), tanto che per " regna saturnia " s'intese non solo il primo tempo della civiltà italica (da S. sarebbe poi disceso il re Latino: cfr. Aen. VII 49, 202-204), ma la stessa mitica età dell'oro.
D., che non fa mai riferimento alla truce storia di Cronos, ricorda sulla scorta degli autori latini a lui familiari il padre di Giove (cfr. Pd XXII 146) con estrema simpatia in quanto simbolo di quel primo tempo umano (Pg XXII 71; per l'espressione cfr. Boezio Cons. phil. II V 1) in cui l'uomo visse felicemente. La sede centrale del regno giusto di S. è posta da D. in Creta (per l'infanzia di Giove trascorsa presso il monte Ida - cfr. If XIV 97-102 - i mitografi parlano di S. come del re di Olimpo avente giurisdizione anche su quell'isola; onde alcuni, banalizzando, dissero S. primo re di Creta), e non in Italia, come pure avrebbero preteso le suggestioni virgiliane. È notevole che il poeta ponga risolutamente in primo piano il re, garante dell'integrità dei costumi mediante la rigorosa osservanza della giustizia: Creta / sotto 'l cui rege fu già il mondo casto (If XIV 95-96; cfr. Giovenale Sat. VI 1-2); caro duce sotto / cui giacque ogne malizia morta (Pd XXI 26-27; cfr. Ovidio Met. I 89-90).
Particolarmente presente alla mente di D. (è citato direttamente in Mn I XI 1, e indirettamente in Ep VII 6) è il famoso verso 6 della quarta egloga virgiliana (per la quale - com'è noto - accolse l'interpretazione allora corrente, che la voleva profezia del prossimo avvento di Cristo: cfr. Pg XXII 67-72): " Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna ": felice età dell'oro che D. considera frutto della giustizia, e dunque rinnovabile solo da un potere politico nemico della cupidigia (l'Impero: cfr. Cv IV IV 4), in una visione di palingenesi politica e religiosa insieme; ché celebrando l'età dell'oro i poeti antichi - opina suggestivamente D. - ebbero l'intuizione del Paradiso terrestre: quelli ch'anticamente poetaro / l'età de l'oro e suo stato felice, / forse in Parnaso esco loco sognaro (Pg XXVIII 139-141; v. PARNASO).
Il Pianeta. - Settimo pianeta del sistema tolemaico. In conformità con la teoria epiciclica del moto dei pianeti, il moto di S. si svolge nell'ultima sezione sferica planetaria. Tale sezione costituisce il ciel di S. (Cv II III 7), che è contiguo, all'interno, col cielo di Giove e, all'esterno, con la sfera delle Stelle fisse.
S. è il pianeta dotato di moto più tardo: il centro del suo epiciclo percorre infatti il deferente in 29 anni, 5 mesi e 7 giorni, periodo che D. riduce per approssimazione a 29 anni. Nell'ipotesi che il moto diurno non esistesse (Cv II XIV 16), S. rimarrebbe nascosto per metà di detto periodo, cioè 14 anni e mezzo. Una tale lentezza, e il fatto che si tratta del pianeta più lontano dalla Terra, suggerisce a D. il paragone di S. con l'Astrologia (XIII 28), che è la più nobile delle scienze, quella il cui studio e la cui determinazione delle leggi richiede lunga pazienza.
La principale qualità astrologica di S. è la freddezza (di qui l'allusione allo specchio, in Pd XXI 18), proprietà che ha in comune con la Luna. Questo spiega perché le notti sono tanto più fredde se S. è al di sopra dell'orizzonte (Pg XIX 3). Ed è appunto quanto avviene durante il viaggio di D.: in questa data infatti S. si trova nel 20° del Leone (cfr. Profacius Almanach, ediz. G. Boffito-C. Melzi d'Eril, Firenze 1908, 9), cioè precede di 124° il Sole. La posizione di S. nel segno del Leone è uno degli elementi essenziali che concorrono a fissare al 25 marzo 1301 l'inizio del viaggio dantesco: in Pd XXI 13-15, D. situa infatti il settimo splendore, cioè S., sotto 'l petto del Leone ardente. E la stella Regulus (detta " cor Leonis ", da cui deriva l'espressione petto del Leone), con una latitudine quasi nulla di 0° 10', secondo le Tavole di Toledo (ediz. P. Kunitzsch, Typen von Sternverzeichnissen in astronomischen Handschriften des X. bis XIV. Jahrhunderts, Wiesbaden 1966, 90), era nel 17° 57' del Leone. Di conseguenza, in quel momento, sull'orizzonte di Firenze alla latitudine di 43° (v. ARIETE), S. appariva vicinissimo alla stella Regulus, ma a un'altezza di poco inferiore, rispettivamente 72° 30' e 73° 20'. Al contrario, alla data spesso accettata per il viaggio dantesco (quella della primavera del 1300), S. era appena nel 7° del Leone, apparendo così sull'orizzonte di Firenze quasi 3° ‛ al di sopra ' della stella.
L'espressione caro duce di Pd XXI 26 viene tradizionalmente interpretata come riferita a S. sia perché dà il nome al cristallo (Dentro al cristallo che 'l vocabol porta, / cerchiando il mondo, del suo caro duce), sia perché presiedette all'età dell'oro (sotto cui giacque ogne malizia morta). Se l'immagine tanto più si spiega quando si pensi che S. è il simbolo del piombo, che entra in modo essenziale nella composizione del cristallo, sarà bene anche notare che D. sembra trovare nel nome di Cristo la spiegazione etimologica del cielo ‛ cristallino ', ultima sfera dell'universo e sede del Primo Mobile.
Cielo di Saturno. - D. dedica alla narrazione della sua ascensione e della sua permanenza nel cielo di S., settimo del Paradiso, ove gli si mostrano gli spiriti contemplativi, il canto XXI e i vv. 1-99 del XXII.
D., lasciato il cielo di Giove, già assorto in contemplazione, quasi preparasse il suo ingresso nel cielo dei contemplativi, fissa di nuovo il volto verso Beatrice, ma essa più non ride perché - come spiega - il poeta non potrebbe più sostenere il fulgore di quel riso (fatto che simboleggia probabilmente il rimaner abbagliato dell'uomo che si è col pensiero avvicinato alle verità supreme). Beatrice rivela che essi sono ascesi al cielo di S., che è congiunto con la costellazione del Leone: essendo S. freddo e secco (come D. scrive più volte: in Cv II XIII 25, in Pg XIX 3, e in Pd XXII 146), e il Leone caldo e secco, si ha, in quel momento, negl'influssi, un congiungimento di contemplazione e di ardore apostolico. D. vede uno scaleo - immagine che simboleggia l'ascensione dei contemplativi, ed è ripresa dal sogno di Giacobbe descritto in Gen. 28, 12 ss. - di color d'oro (a significare forse la purezza della vita contemplativa) eretto verso l'alto, tanto che non può, con i suoi occhi mortali, vederne la sommità; sullo scaleo sono innumerevoli splendori che diversamente si comportano, risalendo, trattenendosi o scendendo, quando giungono a un certo gradino (simbolo, forse, di diversi comportamenti, uniti o no all'azione, dei contemplativi).
Tra queste anime in movimento, una si ferma più vicina sfavillando con particolare intensità, e D. chiede per qual motivo ella gli si sia, fra tutte, accostata, e perché taccia in quella sfera la dolce sinfonia (v. 59) che egli ha udito in tutti gli altri cieli (anche questo silenzio simboleggia, probabilmente, il silenzio che accompagna la contemplazione). Lo spirito risponde che ivi non si canta perché D. da questa musica, come dal riso di Beatrice, verrebbe sopraffatto; e che egli si è a lui avvicinato per un'arcana disposizione della Provvidenza di Dio, poiché neppure il più perfetto dei Serafini potrebbe spiegare la ragione per cui proprio egli sia stato predestinato a tale ufficio: dovrà, questo, servir come monito ai mortali, che pretendono di spiegare in terra quello che i beati stessi non possono conoscere. Così D. si restringe umilmente a chiedere allo spirito che gli ha parlato chi egli sia. L'anima risponde di essere s. Pier Damiano (v.), che servì Dio contemplando finché ebbe quella dignità cardinalizia che è ora via via assegnata a uomini sempre più indegni: poverissimi erano Pietro e Paolo; fastosissimi, sfidando la pazienza divina, sono i prelati moderni. Udendo queste parole, molte anime si adunano intorno a s. Pier Damiano ed emettono un grido di cui, per esser questo forte come un tuono, D. non ode le parole. Vinto e atterrito, il poeta vien tranquillizzato da Beatrice, la quale gli ricorda che tutto - e dunque anche quel grido - è santo in Paradiso, e dichiara che, se egli avesse potuto udire la preghiera in quel grido contenuta, avrebbe conosciuta la punizione da Dio predisposta, e che egli ancora in vita è destinato a vedere (profezia variamente interpretata, come cenno all'umiliazione di Anagni, o all'esilio di Avignone, o a un evento generico volutamente lasciato da D. nel mistero).
La maggiore delle sperule si fa innanzi e si rivela, illustrando con suggestiva sintesi la sua attività contemplativa (ma non soltanto tale), per l'anima di s. Benedetto da Norcia (v.), passando poi a indicare la presenza nel cielo di S. di Macario (di Alessandria, discepolo di s. Antonio, ovvero l'Egiziano, v.), e di s. Romualdo (v.) degli Onesti. A una richiesta conforme di D., che testimonia probabilmente una particolare ammirazione, Benedetto risponde che egli potrà vederlo con immagine scoverta, libera cioè dall'involucro di luce, nell'Empireo. Fin all'Empireo s'innalza la scala della contemplazione: ma nessuno dei suoi monaci si stacca ormai, per percorrerla, dai desideri materiali, benché nulla si ponga contro il volere di Dio in misura sì grande quanto la brama d'impossessarsi dei beni della Chiesa che appartengono ai poveri (D. ripete qui quanto scrive in Mn III X 17). Pietro in povertà, egli con digiuno e preghiere, Francesco umilmente cominciarono la loro opera: situazione ora sovvertita, per la quale occorrerà soltanto sperare in un intervento miracoloso di Dio, tuttavia non impossibile. Dopo queste parole, Benedetto rientra nel gruppo delle anime, e questo si unifica e risale roteando verso l'alto.
Nel racconto della visita nel cielo di S. il poeta ribadisce l'importante concetto dell'insondabilità del consiglio divino; offre un'efficace parte descrittiva, che dà tuttavia - risaltando in essa l'immagine dello scaleo, e nel suo interno quella del vario comportamento delle anime simili a pole - più che un senso di statico silenzio un senso di nuova, animata rappresentazione; riprende il tema della propria debolezza di fronte alle sovrumane sensazioni del Paradiso attraverso l'efficace paragone di Beatrice con la madre trepidamente accorrente presso il figlio malato. Ma la narrazione ha il suo nucleo umano forse più vivo nei discorsi delle due anime di Pier Damiano e di Benedetto, sentiti l'uno e l'altro come personaggi capaci di unire le conquiste intellettuali con l'azione. Così si spiega il fatto che D. abbia sottolineato proprio a questo punto il congiungimento dell'influsso di S. con quello del Leone, con quel che esso significa, e abbia con particolare fervore esaltato Benedetto che aveva unito con singolare precisione - e con sterminata eco nella storia - contemplazione e azione; così si giustifica l'indugio su Pier Damiano, capace nell'atto stesso della meditazione, come D. ben sapeva, di affrontare, oltre che temi mistico-teologici, altri problemi di fremente attualità e cari a D., in primo luogo quello del rapporto fra Chiesa e Impero, col dovuto riconoscimento per di più delle funzioni da attribuire a quest'ultimo.
L'uno e l'altro poi, Pier Damiano soprattutto col Gomorrhianus, Benedetto con la severa regola, apparivano a D. come ideali anticipatori di quella contrapposizione dell'umiltà attiva e pietosa alla ricchezza che D., sulla scorta soprattutto del francescanesimo (non a caso la poesia della povertà vissuta in letizia è al centro del racconto di Pier Damiano sulla propria esistenza di asceta contento ne' pensieri contemplativi, ai vv. 115-117 del canto XXI, che sono tra i più belli), riviveva ai suoi tempi, da lui sentiti malamente intrisi soprattutto di materialismo. In queste figure il poeta riconosce e ritrae, in definitiva, taluni propri atteggiamenti. La descrizione del cielo di S. si attua dunque attraverso un alternarsi, ricco di suggestione, di visioni luminose, di problemi teologici, di rapida sintesi di vite esemplari fatte concrete anche attraverso particolari geografici e storici, e di crudissime, diversamente concrete, invettive.
Bibl. - ‛ Lecturae ': F.P. Luiso, Il c. XXI, Firenze 1912; A. Chiari, Tre canti danteschi, Varese 1954; R. Ramat, Il c. XXI, in Saggi e ricerche in memoria di E. Li Gotti, Palermo 1962; A. Seroni, Il c. XXI, in Lett. dant. 1773-1785; T. Leccisotti, Il c. di S. Benedetto, Torino 1964; M. Pecoraro, Il c. XXI, in Lect. Scaligera III 735-782; G. Varanini, Il c. XXII, ibid. 789-813; P. Vannucci, Il c. XXII, Torino 1965; S. Pasquazi, Il c. XXII, in All'eterno dal tempo, Firenze 1966.