Radhakrishnan, Sarvepalli
Filosofo indiano (Tirutani, Madras, 1888 - Madras 1975).
Nato in una famiglia profondamente religiosa, si formò all’interno di missioni cristiane, dove entrò in contatto con un’intensa spiritualità che metteva in discussione i fondamenti della sua fede tradizionale. Avvertì allora la necessità di uno studio critico delle proprie convinzioni, sottoponendole alla doppia critica secondo cui i pensatori indiani sarebbero credenti ciechi e inoltre si disinteresserebbero ai problemi sociali ed etici. R. procedette così fin dalla sua prima opera, Ethics of Vedānta (1908), a una difesa critica dell’induismo. Nel 1909 iniziò una carriera accademica che lo avrebbe portato a insegnare in India (Madras, Mysore, Calcutta) e all’estero (Oxford) oltre che ad approfondire anche la filosofia occidentale. Attento organizzatore culturale, fu tra i fondatori dell’Indian philosophical congress. Fu membro dell’Assemblea Costituente dell’India, presidente della Commissione dell’Unesco a Parigi, ambasciatore nell’URSS, vicepresidente (1952) e poi (1962-67) presidente dell’Unione Indiana.
R. descrive la propria filosofia come un idealismo monista, poiché sostiene che la realtà sia una e sia di natura spirituale. Analizza però il termine idealismo anche in un secondo modo. Quando, in relazione a un’azione o a un oggetto, ci chiediamo quale ne sia l’idea, la risposta che cerchiamo è lo scopo verso cui tende. Di conseguenza, conclude R., siamo idealisti se affermiamo che l’Universo non sia un movimento irrazionale, bensì una tensione costante verso un ideale superiore. Un idealista, in questo senso, è un teleologista (An idealist view of life, 2a ed. 1947). E nella teleologia affonda le radici anche il monismo, giacché i processi che percorrono il mondo mostrano nella loro non casualità un’unità sottostante. La spiegazione naturalistica è invece rifiutata in quanto si basa sulla presupposizione della realtà del tempo ed è quindi a priori limitata all’ambito dei fenomeni temporali. La spiegazione naturalistica, inoltre, cerca di fornire una spiegazione per l’ordine che riscontra nella natura, ma trascura il fatto che tale ordine non è meccanicamente determinato. La prospettiva teleologica, quindi, non contraddice, ma comprende al suo interno quella scientifica e anche quella meccanicistica.
R. segue il Vedānta nel chiamare brahman la realtà ultima, fondamento logico di tutto ciò che esiste, ma utilizza anche il termine hegeliano «Assoluto». L’influenza hegeliana è riscontrabile anche nella terza caratterizzazione dell’Assoluto, definito come pura coscienza, pura libertà e infinita potenzialità. È pura coscienza perché non possiamo pensare a nessuno stato dell’esistenza senza connetterlo con la coscienza, che è quindi onnipervadente e onnipresente, ed è libero perché in ogni momento in cui una potenzialità viene attualizzata, a determinarla è un atto libero, non esiste infatti alcun ‘altro’ che possa ostacolare l’Assoluto. Se tutto l’esistente non fosse, ci sarebbe solo il nulla. Il nulla rientra quindi tra le possibilità dell’Assoluto, il quale trascende e fonda l’esistente. L’Assoluto è inoltre eterno nel senso di atemporale, poiché trascende il tempo. Tutte queste caratterizzazioni, tuttavia, alludono all’Assoluto, ma non lo descrivono. Al contrario del Vedānta, R. non riduce la distinzione tra Assoluto e Dio all’opposizione fra punto di vista empirico e trascendente (➔ Nāgārjuna, Śaṅkara). Come Whitehead, egli sostiene infatti che l’aspetto dinamico e creativo dell’Universo non possa essere spiegato senza far ricorso a un Essere creatore. La realtà suprema viene concepita secondo due aspetti e Dio rappresenta l’Assoluto in azione, l’Assoluto in quanto oggetto della tensione religiosa e l’Assoluto in prospettiva umana. Dio non è quindi un prodotto illusorio di māyā, Dio crea il mondo e non ne è separato, pur rimanendone distinto. Infatti, la creazione è l’attualizzazione di una delle possibilità inerenti all’Assoluto ed è reale pur essendo accidentale, ossia non necessaria.
Nell’uomo R. distingue aspetti finiti e infiniti (che non coincidono con l’opposizione fra corpo e anima) accettando le spiegazioni scientifiche solo per quanto riguarda i primi. Anche nel suo aspetto finito, l’uomo si distacca comunque da ciò che può essere descritto in termini naturalistici in quanto (al contrario di un cristallo o di un animale molto semplice) l’individuo non è interamente determinato dall’appartenenza a una classe. L’uomo ha inoltre la capacità di riflettere e pianificare; può vivere oltre sé stesso, ponendosi degli obiettivi al di sopra della sua portata secondo quella che R. chiama «autotrascendenza». La stessa coscienza della propria finitezza e temporalità significa che l’uomo è consapevole dell’eternità. L’aspetto infinito dell’uomo coincide con la sua spiritualità. Il termine spirituale indica per R. qualcosa di superiore all’empirico e poiché caratteristica del mondo empirico è la distinzione fra soggetto e oggetto, lo spirituale deve necessariamente trascenderla. Un esempio di tale trascendimento è l’autoconsapevolezza, in cui, fra l’altro, l’uomo percepisce la propria unità nonostante i cambiamenti di età, aspetto fisico ecc. Questa possibilità, come ogni altra azione disinteressata (un gesto altruistico, la dedizione dello scienziato, l’esperienza estetica, ecc.) mostrano la presenza del divino nell’uomo. Hanno realizzato intuitivamente questa presenza divina profeti come Buddha, Zoroastro, Maometto e Gesù. L’intuizione, infatti, al contrario dell’intelletto discorsivo e della percezione sensoriale è l’unica facoltà che possa permettere una comprensione diretta e priva della distinzione soggetto-oggetto.
Il destino dell’uomo è la realizzazione piena della divinità, la salvezza, in cui i confini dell’individualità cadono, come a volte può capitare già nella contemplazione artistica (➔ Abhinavagupta). Chi ha raggiunto tale stadio si dedica perciò alla salvezza degli altri (non più percepiti come diversi da sé), collaborando al fine ultimo, la liberazione di tutti i viventi. Tale fine ultimo corrisponde anche alla fine dei tempi, poiché il processo cosmico non è un fine in sé. Si potrebbe allora pensare che, dato che la salvezza di tutti è il destino ultimo, sia inutile spendersi e basti aspettare. Ma tale inerzia ritarderebbe la salvezza universale e il momento storico non permette ritardi. È necessario perciò risvegliare il senso del divino dentro di noi, ossia praticare la più alta forma di religione, la pratica della presenza di Dio.
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