SIMMACO, santo
S. nacque in Sardegna e il padre si chiamava Fortunato. Il Liber pontificalis non dice nulla di più della sua famiglia e delle sue origini. Da lui stesso si sa che la sua famiglia era pagana e che fu battezzato a Roma (ep. 10, in Epistolae Romanorum Pontificum, p. 702). Diacono della Chiesa romana, alla morte di Anastasio II fu eletto vescovo della città nella basilica costantiniana, il 22 novembre 498. Nello stesso giorno, nella basilica di S. Maria Maggiore, fu però eletto papa anche il presbitero Lorenzo. L'evento storico più importante del suo pontificato, collegato a questa doppia elezione, fu lo scisma laurenziano. L'Italia era allora governata, per volontà e con l'accordo dell'imperatore d'Oriente, dal re Teoderico, appartenente alla famiglia gota degli Amali, di confessione ariana. A Costantinopoli era imperatore Anastasio I, di orientamento religioso filomonofisita. Tale doppia elezione diede l'avvio allo scisma che da Lorenzo, l'antipapa, prese il nome di scisma laurenziano. Essa era il risultato di una situazione politica e religiosa complessa. A Roma si fronteggiavano opposti schieramenti: una causa di ciò era la frattura politico-religiosa che divideva Oriente e Occidente e che va sotto il nome di scisma acaciano (da Acacio, patriarca di Costantinopoli; 484-519). A tale scisma si era giunti in conseguenza della mancata risoluzione dei problemi lasciati aperti dal concilio di Calcedonia (451). In seguito a questi, ad Alessandria, tra notevoli contrasti, era stato deposto l'ortodosso patriarca Giovanni I Talaia, difeso da papa Simplicio, presso il quale lo stesso Talaia aveva poi trovato rifugio. Al seggio patriarcale di Alessandria era salito il monofisita Pietro Mongo. Costui aveva concordato con il patriarca di Costantinopoli, Acacio, un simbolo con il quale si anatemizzavano Nestorio ed Eutiche, ma che non accoglieva il concilio di Calcedonia. Tale simbolo riconosceva solo le norme di fede niceno-costantinopolitane, i dodici anatematismi di Cirillo e le definizioni di Efeso (431). La formula dottrinale così concordata era stata pubblicata dall'imperatore Zenone con il nome di Henotikon, una legge statale in materia religiosa (482), che aveva l'intento di definire unitariamente la formula di fede. L'Henotikon, però, con le sue ambiguità dottrinali, aveva avuto il solo effetto di aggravare le incomprensioni. Esso era stato rifiutato da tutti e l'allora papa Felice III aveva scomunicato e dichiarato deposto Acacio (484). Si consumava così la frattura tra Oriente e Occidente. La situazione si era ulteriormente irrigidita con Gelasio. Quando divenne papa il predecessore di S., Anastasio II, non del tutto avverso ai monofisiti, sembrò agli Orientali che fosse giunto un momento favorevole per ricomporre finalmente la frattura con Roma. Probabilmente il clero romano si era già diviso una prima volta al momento dell'elezione dello stesso Anastasio. Il rifiuto delle posizioni di eccessivo rigore di Gelasio nei confronti della questione orientale aveva comportato la scelta di Anastasio II, del quale si conosceva l'atteggiamento di maggiore apertura. Ma i tentativi sotterranei di Anastasio di ricomporre lo scisma con l'Oriente, tentativi dei quali non erano stati fatti partecipi presbiteri e diaconi, avevano aggravato le tensioni già esistenti all'interno del clero romano. Molti membri della Chiesa romana finirono per allontanarsi dalla comunione con il papa. Questo comportamento fu probabilmente la causa di un rinserrarsi, tra il clero, delle fila dei sostenitori della linea rigida nei confronti dell'Oriente. La morte di papa Anastasio, infine, comportò il fallimento delle trattative avviate tra Roma e gli Orientali. In questa situazione drammatica - di frattura con l'Oriente - si inserisce, dunque, la doppia elezione papale. S. era il leader dei difensori di Calcedonia, della primazia assoluta di Roma, di una strenua linea di politica religiosa antimonofisita. Lorenzo era invece voluto dalla fazione filorientale che, aggirando tutte le questioni più formali, era soprattutto interessata a una ricomposizione dei rapporti con l'Oriente. Tra gli aristocratici, i principali nemici di S. erano i senatori Festo (Fl. Rufio Postumio Festo) e Probino (Petronio Probino), tra i suoi sostenitori - per il Liber, l'unico - era Fausto (Fl. Anicio Fausto iunior Niger). La dipendenza dalla questione orientale non è concordemente accettata dalla storiografia. Essa è, comunque, testimoniata da un esplicito collegamento tra l'elezione di S. e lo scisma acaciano, dichiarato da Teodoro il Lettore (Historia ecclesiastica II, 17, p. 131). Inoltre, tale connessione è facilmente intuibile anche sulla base della conclusione della Vita Anastasii del Fragmentum, che rinvia alla frattura avvenuta tra il clero romano e il papa, per i tentativi di quest'ultimo di risolvere la questione orientale senza aver consultato lo stesso clero (Fragmentum Laurentianum, p. 44). A dirimere la questione della doppia elezione fu chiamato dalle stesse consorterie papali il re Teoderico. S. e Lorenzo accettarono la mediazione del re e per volontà dei loro stessi sostenitori si sottoposero al giudizio del sovrano. Questi stabilì che legittimo papa dovesse essere considerato Simmaco. La decisione fu presa sulla base di un criterio di oggettività: la maggiore anzianità di ordinazione nella carriera ecclesiastica di S. e la maggioranza di sostenitori a suo favore (Le Liber pontificalis, I, p. 260). L'antisimmachiano autore della Vita del Fragmentum registra, invece, a carico di S., atti di corruzione per ottenere il favore del giudizio di Teoderico. L'accusa non è, però, altrimenti comprovabile. Niente, infatti, autorizza a pensare che il debito di 400 "solidi" contratto da S. con Lorenzo, vescovo di Milano - di questo prestito finanziario a favore di S. parla Ennodio, amico del papa - sia in qualche modo connesso con tali accuse di corruzione. S. iniziava il suo pontificato in una situazione di pregressa frattura con l'Oriente, lo scisma acaciano, e sull'onda del più recente conflitto, legato alla doppia elezione papale, solo apparentemente sedato dall'intervento del re. La doppia elezione rifletteva anche tensioni e problematiche relazioni tra aristocratici ed ecclesiastici: S. e Lorenzo avevano sostenitori e avversari sia tra aristocratici che tra ecclesiastici. Compatto lo schieramento popolare era a favore di Simmaco. Particolarmente complessa appare la posizione degli ecclesiastici, anche a prescindere dalle interessate e contrastanti indicazioni della Vita del Liber e di quella del Fragmentum. L'intervento iniziale di Teoderico potrebbe far pensare che S. fosse stato scelto almeno da una parte significativa e influente del clero. Le fonti consentono di ricostruire con una certa difficoltà il quadro oggettivo della situazione e degli schieramenti interni alla società romana, dal momento che, in massima parte, esse presentano versioni di fatti nettamente favorevoli a S. o a lui duramente contrapposte. Prosimmachiano è il Liber pontificalis con le due redazioni della Vita di S., di cui la prima è giunta solo attraverso le due abbreviazioni, la feliciana e la cononiana. Antisimmachiano è il Fragmentum Laurentianum. Strumenti di propaganda dell'una e dell'altra fazione sono i cosiddetti apocrifi simmachiani. Potrebbero essere più oggettivi i verbali degli Acta sinodali. Ma, anche la posizione dei vescovi era sostanzialmente filosimmachiana. Come primo atto ufficiale del suo pontificato, S. si preoccupò di fissare le modalità di elezione del vescovo di Roma e per questo indisse un concilio. Il papa dovette insistere sull'urgenza della convocazione e contrastare la riluttanza dei vescovi convocati, che tergiversavano nell'affrontare il viaggio per il protrarsi dei rigori invernali. Finalmente, il sinodo si aprì il 1° marzo 499, in S. Pietro, sede preferita dal papa. Le deliberazioni del concilio del 499 sono state giudicate un atto politicamente fazioso di Simmaco. Egli avrebbe così inteso assicurarsi una successione che potesse garantire una linea di continuità alla sua politica di chiusura nei confronti dell'Oriente (E. Caspar, p. 89). In realtà, le modalità di successione del vescovo, così come furono stabilite nel loro complesso dal concilio del 499, sono tali da far pensare piuttosto a decisioni dettate da preoccupazioni normative in una materia, quella della successione papale, estremamente delicata e fino ad allora svincolata da regole (T. Sardella, pp. 70 ss.). In ogni caso, non è sicuro che S. le abbia applicate per l'elezione del successore, papa Ormisda. Il sinodo fu aperto dal diacono Fulgenzio, che anticipò le posizioni sostenute dallo stesso papa. Le parole di Fulgenzio attestavano che era ancora viva la passione politica che aveva animato i primi momenti dell'elezione papale. La relazione di S., infatti, consistette in un attacco nei confronti di presbiteri, diaconi e clerici. Il papa criticava quello che era il modo più frequente di gestire l'elezione del vescovo: trame segrete, patteggiamenti, accordi e scambi di voti avvenivano spesso con il papa ancora vivo, per prepararne la successione. S. non fa nomi, ma i presenti dovevano sapere bene chi, tra i protagonisti delle recenti vicende, egli attaccava. Su proposta di S. il sinodo approvò all'unanimità le nuove norme per l'elezione del vescovo di Roma. Venne stabilito che la nomina del successore da allora in poi dovesse competere di norma al vescovo in carica. Se questi fosse venuto improvvisamente a mancare, senza avere avuto il tempo di designare il futuro vescovo, la scelta di chi dovesse succedergli spettava all'"ordo ecclesiasticus", che avrebbe dovuto decidere all'unanimità. Solo nel caso, giudicato quanto mai inauspicabile, che questa non fosse stata raggiunta, il candidato doveva essere scelto dalla maggioranza. Le pene stabilite per macchinazioni e congiure, in vista dell'elezione del vescovo, venivano fissate nella perdita della dignità ecclesiastica e nell'allontanamento dalla comunità ecclesiale. Erano previste anche imprecisate ricompense per chi, venuto a conoscenza di accordi segreti sulla successione del vescovo, ne informasse il papa. Al sinodo parteciparono il clero romano e vescovi di tutte le parti d'Italia. Il clero romano nemico di S. non riuscì a contrastare la volontà del papa perché il potere del vescovo era decisivo all'interno dei sinodi romani. Anche Lorenzo partecipò al sinodo e ne sottoscrisse le deliberazioni in qualità di arcipresbitero del titolo di S. Prassede (cfr. Lorenzo, antipapa). Nonostante questo atto di sottomissione, dopo poco tempo, S. decise di liquidare l'avversario riuscendo ad allontanarlo, almeno temporaneamente, con una opportuna promozione al seggio vescovile di Nocera. L'autore antisimmachiano del Fragmentum parla di un trasferimento determinato da pressioni pesanti miste a blandizie. Trascorsero un paio di anni in cui la situazione sembrò restare tranquilla. Il 500 segnò il culmine di questo periodo di pace. L'ariano Teoderico andò in visita a Roma alla tomba di s. Pietro, accolto tra due ali deferenti di una folla composta da Senato, clero e popolo riuniti per l'occasione e con in testa papa Simmaco. La visita del re si protrasse per alcuni mesi. Ma la Pasqua dell'anno successivo (501) segnò la ripresa delle ostilità contro Simmaco. Questi aveva scelto, infatti, per celebrare la festività il 25 marzo, una data diversa da quella ormai tradizionale del calendario greco, che era fissata il 22 aprile. Scelta di estrema coerenza o deliberata provocazione, fu l'occasione che i nemici di S. aspettavano per attaccarlo apertamente. S. venne incolpato di non avere rispettato la prassi liturgica, di sconvenienti frequentazioni femminili e di alienazione di parte del patrimonio ecclesiastico: queste ultime accuse sono da collegare, forse, con quelle di corruzione di cui parla il Fragmentum. Le accuse a S. rinviano alle cause dello scisma. Lo scontro dottrinale con l'Oriente aveva determinato la risoluzione di S. di modificare la data della Pasqua, una decisione carica di significati polemici e contrappositivi. Anche tensioni interne alla società romana determinavano gli schieramenti scismatici: e queste riguardavano la gestione del patrimonio della Chiesa e il controllo dei tituli (chiese finanziate dal fondo centrale del vescovo e servite dal suo clero, le quali, a Roma, avevano alcune dotazioni separate). Appare, invece, piuttosto scontata, quasi un topos del genere, la terza accusa riguardante le amicizie femminili di Simmaco. Probabilmente già in questa fase della vicenda gli accusatori formalizzarono le accuse, redigendo un "libellus", presentato direttamente al re. E dal re S. fu chiamato perché andasse a Ravenna a discolparsi dei reati che gli venivano contestati (estate-autunno 501). Durante il viaggio a cui si era accinto accompagnato da fedelissimi, lungo il litorale adriatico, presso Rimini, il papa si accorse di essere seguito. I suoi nemici gli avevano teso un tranello, facendolo seguire dalle stesse donne con le quali era accusato di intrattenere illeciti rapporti. Decise di non raggiungere più il re a Ravenna e di tornare a Roma. Qui si fermò in S. Pietro, zona che, insieme ai quartieri circostanti, divenne la sua roccaforte rispetto al resto del territorio urbano, ormai tutto nelle mani di Lorenzo e dei suoi sostenitori. Già a partire dalla Pasqua del 501, sostenitori e avversari del papa avevano anche prodotto testi di propaganda, che vengono tradizionalmente chiamati apocrifi simmachiani. Si tratta di scritti ambientati in età precedenti a quella di S., tra IV e V secolo, in momenti cruciali della storia del cristianesimo. Lo scopo era quello di avallare le tesi pro o contro S., fondandole su falsi storici e in modo da far sì che eventi e personaggi autorevoli di un passato prestigioso potessero fornire il sostegno di una incontestabile credibilità a queste tesi. L'occupazione dello spazio urbano da parte dei nemici di S. non impedì al papa, e proprio subito dopo la nuova sistemazione in S. Pietro, di convocare qui un altro sinodo (6 novembre 501). Il concilio fu aperto da S., che ebbe parole durissime contro gli ecclesiastici che avevano causato disordini in occasione delle elezioni. E questo chiarisce le vere ragioni del concilio e il senso del dibattito. Il concilio era incentrato sulla discussione e la critica di un documento - una "scriptura", come viene definita negli atti sinodali - risalente al 483. Esso ci è stato conservato proprio grazie alla verbalizzazione dei passi - nel complesso, forse, l'intero documento - letti dal futuro successore di S., il diacono Ormisda, perché se ne potesse procedere all'analisi. Il testo entrava nel vivo dei problemi del pontificato simmachiano: trattava della elezione del vescovo - delle sue modalità e degli aventi diritto - e proibiva l'alienazione dei beni ecclesiastici. Soprattutto quest'ultimo punto era chiamato in causa dai nemici di Simmaco. Col fare riferimento a questo documento, le accuse di corruzione nei confronti del papa potevano assumere una particolare gravità. S. aveva indetto il concilio perché questo annullasse la "scriptura" e togliesse così ai suoi nemici la possibilità di legittimare giuridicamente le accuse di carattere patrimoniale rivolte contro di lui. Questo documento risaliva ai pochi giorni di transizione tra la morte di papa Simplicio (10 marzo 483) e l'elezione del suo successore, Felice (13 marzo 483). Essa era stata presentata da Basilio, prefetto di Odoacre ("sublimis et eminentissimus vir praefectus praetorio atque patricius, agens etiam vices praecellentissimi regis Odovacris"), a un'assemblea convocata in S. Pietro, subito dopo la morte di Simplicio. Basilio si richiamava a disposizioni che sarebbero state date dallo stesso Simplicio in punto di morte, proprio per evitare i disordini spesso connessi all'elezione di un nuovo vescovo. Basilio lamentava che, contro la disposizione ("admonitio") dello stesso papa, volta a far sì che la successione fosse decisa "non sine nostra consultatione", la designazione del successore era avvenuta, a suo dire, non solo "praetermissis nobis" - l'espressione è da intendersi come riferita agli aristocratici, anche se alcune letture la interpretano come riferita a Basilio, in quanto rappresentante del re -, ma per di più quando il papa era ancora vivo, sia pure in imminente punto di morte. La "scriptura" era un documento redatto sulla base di un suggerimento informale di papa Simplicio, ed era stata approvata da un'assemblea alla quale il papa non aveva partecipato. Prima ancora che criticare i contenuti della "scriptura", i vescovi ne contestarono la legittimità giuridica: è significativo che essa non sia stata definita mai né "lex" né "constitutum". Dunque, la "scriptura" non venne abrogata. Semplicemente non venne dichiarata valida, sia perché i laici si erano arrogati una facoltà alla quale non avevano diritto ("facultas de ecclesiastici aliquid disponendi"), sia perché alla stesura del documento non aveva partecipato il vescovo della Sede apostolica (M.G.H., Auctores antiquissimi, XII, p. 447). Alcune disposizioni della "scriptura" vennero riprese dalle deliberazioni conciliari, che apportarono significative modifiche. Ogni alienazione del patrimonio della Chiesa - possedimenti agrari, urbani e suppellettili - era illegittima. In caso di espropriazione già avvenuta era previsto che il bene dovesse essere restituito al patrimonio ecclesiastico insieme all'usufrutto nel frattempo maturato. Era possibile alienare solo i beni di lusso, inadatti al semplice decoro della chiesa, o quelli deperibili, il ricavato dei quali doveva essere utilizzato convenientemente. Il divieto di alienazione del patrimonio ecclesiastico stabilito dal concilio simmachiano conteneva alcune precisazioni significative: nessun presule della Sede apostolica doveva più alienare, a nessun titolo e per nessuna ragione, i terreni in campagna, di qualunque dimensione essi fossero. I "rura" non potevano essere dati in usufrutto, dal momento che siffatto istituto poteva costituire occasione di malversazione, né si potevano invocare a tal fine ragioni di carità assistenziale, per la quale dovevano trovarsi altri proventi. Solo le case che avessero un costo di mantenimento talmente alto da non poter essere sostenuto, dovunque esse fossero, potevano essere vendute a un giusto prezzo. Si diceva che il divieto doveva valere anche per i presbiteri: una precisazione necessaria per i tituli. Questi, infatti, disponendo di alcune dotazioni separate rispetto al patrimonio della Chiesa accentrato nelle mani del vescovo, restavano autonomi e indipendenti dalla sua gestione, soggetti alla disponibilità dei presbiteri, cui sarebbe risultato facile disattendere il divieto. La precisazione di S. rivelava anche preoccupazione per i comportamenti di un clero che tendeva a eludere il rispetto della gerarchia. A questi presbiteri dei tituli venivano imposte norme che ne limitavano la possibilità di alienare i beni patrimoniali della Chiesa. Nei confronti del vescovo, il divieto di alienazione era limitato ai terreni di campagna. Ai presbiteri era vietato alienare tutto tranne i beni di lusso. L'accusa di avere illecitamente usato del patrimonio ecclesiastico aveva indotto S. a controbattere attaccando e a precostituirsi una plausibile linea di difesa. Quest'ultima era definita dalle deliberazioni di questo concilio, le quali stabilivano che l'alienazione dei beni ecclesiastici doveva essere ritenuta illecita non solo per il vescovo. Questi, comunque, poteva alienare i "praedia rustica". Quanto deciso dal concilio non riuscì a fare saltare il piano delle accuse preparato dai nemici del papa. Probabilmente dopo questo concilio i laurenziani ottennero che il re nominasse un "visitator". Si trattava di una situazione del tutto irregolare. Il "visitator", infatti, era un commissario previsto solo nel caso di una vacanza vescovile e nelle more di una regolare alternanza. La sua nomina, in presenza di S. sul seggio vescovile, rendeva la situazione del tutto anomala. La Pasqua imminente (502) aveva fatto anche temere ai nemici di S. il ripetersi di una seconda alterazione nel calendario liturgico e Teoderico cedette alle pressioni. Forse le sue intenzioni - nell'accogliere la richiesta di nominare un "visitator" - erano di pacificare gli animi, ma i risultati furono disastrosi. Teoderico scelse Pietro, vescovo di Altino. Questi celebrò la Pasqua il 22 aprile, mentre S. veniva privato del controllo delle chiese "titulari" e i suoi nemici riuscivano a ottenere, caso unico nella storia, che egli venisse sottoposto a processo. Teoderico stesso convocò i vescovi perché giudicassero il papa (ibid., p. 417). Il Liber, contro le fonti ufficiali - i verbali degli atti e l'epistolario ad essi relativo - ne attribuisce la convocazione al papa. Numero, successione e datazione dei concili simmachiani, dal punto di vista storiografico, sono stati controversi. I.D. Mansi e H. Leclercq (Ch.J. Hefele-H. Leclercq, pp. 957-73 che, però, non conosce l'edizione critica di Th. Mommsen del 1894) contano fino a sette concili, protrattisi fino al 504. Il Mommsen fissa i sinodi nel numero di tre, perché le numerose sedute del sinodo del processo facevano riferimento, comunque, a una sola convocazione conciliare. Mommsen aveva stabilito che il sinodo del processo era il secondo (501). E. Wirbelauer ha ritenuto che l'ordine dei concili stabilito da Mommsen andasse corretto: il sinodo del processo, in base alla successione cronologica dei concili fissata da Wirbelauer, è l'ultimo (502). Il sinodo del processo a S. si tenne a Roma, sotto il consolato di Rufio Magno Fausto Avieno iunior, tra vicende drammatiche che ne videro lo svolgersi in più sedi: nella basilica Iulia (oggi S. Maria in Trastevere), nella basilica di S. Croce in Gerusalemme, nel palazzo Sessoriano, in un luogo detto Palma. La documentazione, pur incompleta, consente di ricostruire l'andamento dei fatti, che procedettero faticosamente tra gli ostruzionismi dei vescovi recalcitranti a celebrare il processo al papa, le scelte di Teoderico, in parte coatte, le attestazioni di umiltà e le impennate di orgoglio di S., la guerriglia urbana tra le fazioni che insanguinavano le strade di Roma, miracolosamente fermandosi sul limitare della basilica dove erano riuniti i vescovi, gli echi rumorosi della folla a favore di Simmaco. Oltre ad attribuire erroneamente la convocazione del sinodo allo stesso papa, il Liber non dice nulla delle travagliate vicende attraverso le quali si giunse alla conclusione. Avviato con una prima convocazione reale, per noi perduta, il sinodo si era riunito dopo la Pasqua celebrata dall'Altinate ("post sanctam festivitatem [...]": Fragmentum Laurentianum, p. 44 e M.G.H., Auctores antiquissimi, XII, pp. 420, 425, 426). Nella prima seduta, di cui non abbiamo i verbali, i vescovi, provenienti anche dall'Italia superior, avevano discusso della liceità del sinodo non convocato dal papa e avevano anche chiesto al re di potersi riunire a Ravenna, perché volevano una sede lontana dai tumulti romani. È andata perduta anche la seconda praeceptio reale, alla quale dovette seguire la lettera pontificia probatoria, pure perduta, inviata dal re ai vescovi. Con questa i vescovi venivano rassicurati del fatto che il papa concordava con la decisione di Teoderico di avviare il sinodo del processo (M.G.H., Auctores antiquissimi, XII, p. 427). Il papa dichiarava non solo la propria conformità alla decisione reale, ma anche la sua volontà di presentarsi personalmente a rispondere delle accuse. I vescovi si riunirono a Roma, probabilmente a maggio, e anche di questa seduta si è perduto il verbale. Il papa si presentò confermando quanto aveva affermato per lettera: all'assenso per la decisione reale, aggiungeva ringraziamenti nei confronti di Teoderico per la convocazione del sinodo. Ma chiedeva anche che venisse allontanato il "visitator" e che a lui venisse restituito il controllo dei tituli, che gli erano stati sottratti per intervento dei suoi nemici. Al ritorno S. venne aggredito in un'imboscata, durante la quale furono assassinati molti presbiteri a lui fedeli. Ma è difficile accettare, come pure è stato fatto, la versione del Liber che pone in questa fase l'uccisione di due suoi fedelissimi, i presbiteri Gordiano e Dignissimo, dei tituli dei SS. Pietro, Giovanni e Paolo. Sia l'uno che l'altro dovevano essere invece morti già nei primissimi scontri. Se non fossero stati eliminati sin dall'inizio non si spiegherebbe, infatti, perché il solo Gordiano è presente nel 499, mentre entrambi sono successivamente assenti. Lo stesso S., salvatosi fortunosamente, dopo aver rischiato di rimanere ucciso nella fase preliminare del processo, tornò a rinchiudersi in S. Pietro. Il sinodo dei vescovi gli rinnovò, tramite ambasciatori, l'invito a presentarsi per altre quattro volte, ma il papa si rifiutò mentre i gravi disordini non consentivano di continuare i lavori. Questa ostinazione a non più ripresentarsi è data come prova di colpevolezza dal Fragmentum, che evita di narrare i pericoli già corsi dal papa. Alla riunione, sciolta senza conclusioni, seguì la richiesta dei vescovi a Teoderico di riconvocarsi a Ravenna, lontano dai disordini della città e sotto la protezione del re. Ma questi rifiutò il trasferimento del sinodo. La terza ingiunzione del re, la prima pervenuta, dell'8 agosto 502, è la convocazione fatta da Teoderico, nella quale è fissata la seduta successiva del sinodo, il 1° settembre. Il 27 agosto la quarta ingiunzione comunicava che il re aveva predisposto una scorta formata da uomini fidati, i "maiores domi" Gudila, Bedeulfo e Arigerno, perché il papa potesse raggiungere al sicuro la sede del consesso. Il 1° settembre, nella basilica Iulia, si riuniva la terza seduta del sinodo. Ambascerie e scorte reali non riuscirono a ottenere che il papa si ripresentasse. I vescovi comunicavano a Teoderico l'impossibilità di continuare perché troppe e troppo gravi erano le irregolarità che rendevano per loro illegittima la situazione. Il 1° ottobre del 502 una lettera e un decreto reale sollecitavano il sinodo a pervenire, comunque, a una soluzione. La quarta seduta, detta palmare, probabilmente dal luogo nel foro romano chiamato Palma, riunitasi il 23 ottobre, decideva per la non processabilità del papa. Si affermava, così, la pregiudiziale storicamente più significativa dal punto di vista giuridico, in base alla quale i vescovi si opponevano alla possibilità di sottoporre a processo il papa. La decisione finale del concilio non fu un'assoluzione in contumacia. Rispetto alla richiesta di processare e giudicare il papa e attorno alle resistenze dei vescovi e all'opposizione dei simmachiani a essa, si definirono le basi del principio giuridico in base al quale il papa non può essere giudicato da nessuno ("papa a nemine iudicatur"). Come gli apocrifi simmachiani, anche gli atti conciliari dimostrano l'importanza delle questioni legislative in questo scisma: al centro del dibattito tra simmachiani e laurenziani stavano temi quali l'alienazione dei beni ecclesiastici (chi e in quale misura ne avesse eventualmente la competenza), il controllo dei tituli e del loro patrimonio, la definizione del potere papale fino alla risoluzione della ingiudicabilità del papa. A conclusione del sinodo del processo, S. venne reintegrato sul soglio pontificio. Pietro di Altino e Lorenzo vennero anatemizzati dal sinodo che decise l'allontanamento da Roma dell'Altinate. Ma le risoluzioni del concilio del 502 non vennero universalmente accettate. L'opposizione a S. riprese il sopravvento. Si riaccese la propaganda contro il papa. Nel Libellus contra synodum absolutionis incongruae i laurenziani sostennero ancora una volta le loro tesi. Il pamphlet perduto, ma in parte ricostruibile dalla controcontestazione di Ennodio, il Pro synodo, consente di dare una personalità culturale definita agli avversari di S., i quali, esperti di diritto, come dimostra l'impostazione dell'impianto accusatorio, ci tenevano a legittimare ogni loro procedimento. Nel tardo autunno del 502 Lorenzo venne fatto rientrare a Roma da Ravenna, dove si trovava temporaneamente, in una tappa che appare di avvicinamento da Nocera a Roma. Né è pensabile che a Ravenna egli si potesse trovare senza l'accordo del re o che il suo rientro a Roma non fosse stato discusso e in qualche modo approvato a livello governativo. Richiamando Lorenzo a Roma, gli avversari di S. non intendevano essere o anche solo apparire dei fuorilegge, ma al diritto si richiamavano per legittimare Lorenzo e tutta l'operazione di esautoramento di S. (Fragmentum Laurentianum, p. 45). Restava congelata la restituzione dei tituli. S. ne aveva chiesta la restituzione come condizione al suo stesso sottoporsi al giudizio dei vescovi. Ma i laurenziani continuarono a tenerli ancora per quattro anni - dal 502 al 506 - durante i quali Lorenzo occupò la sede ufficiale del Laterano e S. rimase emarginato e senza alcun controllo del territorio. Per Roma fu un periodo lungo e tragico. Arroccato nella zona di S. Pietro, da qui S. guidava la resistenza della sua fazione in una città sconvolta da una guerra civile efferata e sanguinaria e da violenze sacrileghe che Teoderico non poté o non volle bloccare. In questi anni, il re era impegnato sul fronte esterno: schierato a favore dei Visigoti opposti ai Burgundi di Gondebaudo, nella Provenza meridionale, nel 503; alla frontiera orientale, nel 504, aveva organizzato contro il re gepido Trasarico, residente a Sirmio, una spedizione di Ostrogoti con a capo il "comes" Pitzia. L'intento era quello di irrobustire le frontiere orientali conquistando la bizantina Sirmio e fu perseguito fino a quando l'imperatore bizantino rimase impegnato nella guerra contro i Persiani. Quando questa ebbe una battuta d'arresto, con la conclusione dell'armistizio tra Persiani e governo bizantino, Anastasio fu libero di occuparsi delle province della diocesi dacica, saccheggiate dagli alleati di Teoderico. Il re goto non aveva, però, alcuna intenzione di scontrarsi con l'imperatore. A conflitto ancora in atto, nel 506, inviò un'ambasceria di pace a Costantinopoli. L'episcopato di Lorenzo e la guerra civile a Roma coincidono con questi problemi di politica estera e il 506 segnò la conclusione dello scisma romano. Il diacono della Chiesa alessandrina, Dioscoro, un cattolico rifugiato a Roma, fece opera di mediazione tra il re e Simmaco. Teoderico intervenne per imporre ai laurenziani la restituzione dei tituli a Simmaco. Insieme ai tituli al papa vennero reintegrati i pieni poteri pontifici. La pubblica ammissione di colpa, con conseguente sottomissione a S. da parte di Giovanni, diacono della Chiesa romana, fino ad allora schierato con i laurenziani, è attestata da un documento (del 18 settembre 506) che può essere considerato decisivo per stabilire il momento conclusivo dello scisma (Iohannes Diaconus, p. 38 e Symmacus, ep. 8, in Epistolae Romanorum Pontificum, p. 697). L'11 marzo del 507, Teoderico prendeva ufficialmente e formalmente atto delle decisioni del sinodo simmachiano relative alla non alienazione dei beni ecclesiastici (E. Wirbelauer, in Libellus quem obtulit, pp. 39-40, ritiene che la data in base alla quale è più corretto fissare la fine dello scisma sia questa, non il 506). Assumendo come proprie tali decisioni, il re chiudeva uno dei capitoli più importanti sui quali si era incentrato lo scisma (Appendix ad ep. 6 seu Praeceptum regis Theoderici). Durante questa vicenda i rapporti tra il papa e l'imperatore sembrerebbero essere stati rari e ostili. L'unico documento che li attesta è una lettera di S. (ep. 10, in Epistolae Romanorum Pontificum, pp. 700-08), che potrebbe risalire a un periodo di poco successivo al 506 (per una sintesi relativa alla sua controversa datazione e per l'attribuzione a S., cfr. T. Sardella, pp. 117 ss.). In essa si fa implicito riferimento a una sola precedente lettera di Anastasio, per noi perduta. Lo scisma laurenziano si articola sull'asse dei rapporti internazionali tra Roma e Costantinopoli. Di questi rapporti con l'Oriente, però, le fonti latine non parlano e rinviano, invece, solo a una situazione di conflitto tra aristocrazia e clero. Le opposte fazioni, d'altra parte, non vedevano schierati in modo uniforme gli aristocratici da un lato e gli ecclesiastici dall'altro. Un'alleanza trasversale univa piuttosto questi due gruppi sociali. Il coordinamento interno era dato, in primo luogo, dalla sintonia tra i membri di ciascuna fazione in merito alle posizioni assunte nei confronti della più lontana questione orientale relativa allo scisma acaciano; in secondo luogo, dalla coincidenza di interessi comuni e dai rapporti personali che legavano tra loro membri dell'aristocrazia e rappresentanti del clero. In questo contesto, decisiva fu la capacità di S. di mantenere il sostegno dell'episcopato e del popolo di Roma sulla cui costante fedeltà al papa non ci sono dubbi. Anche se, in relazione a quest'ultimo punto, i nemici di S. sostenevano si trattasse delle fasce più torbide della popolazione, composte da elementi marginali e abituali fomentatori di disordini. Più complessa la questione dei rapporti tra S. e gli altri ambienti della società romana: aristocratici e clero. Il Liber indica Fausto come unico aristocratico amico di S. ("olim Faustus pro ecclesia pugnabat"), e, tra i suoi nemici, Festo e Probino. Il Fragmentum, con qualche contraddizione interna, afferma che S. era avversato "ab universo clero romano". In realtà, l'epistolario di Ennodio consente di ricostruire un sistema di relazioni all'interno dell'ambiente aristocratico con elementi sia estranei alla vicenda - come la nobile vedova Agnella o Pamfronio (Ennodius, epp. 2, 16; 4, 14) - sia anche vicini a Simmaco. Oltre al citato Fausto, destinatario di molte lettere di Ennodio, alle fila dei simmachiani si può aggiungere il patrizio Agnello (ibid., epp. 4, 18; 7, 15-16), il patrizio Agapito (ibid., ep. 4, 6), il "vir clarissimus" Asterio (ibid., epp. 5, 2; 8, 17), il "vir sublimis" Vitale (ibid., ep. 3, 21) e il "vir clarissimus" Basso (ibid., ep. 1, 20), il "vir clarissimus" prefetto al pretorio della Gallia, Pietro Marcellino Felice Liberio (ibid., ep. 9, 7). Coinvolti nel sostegno a S. sembrerebbero essere stati anche l'ex console Quinto Aurelio Memmio Simmaco (ibid., ep. 5, 1) e Anicio Manlio Severino Boezio iunior. Amici di S. erano, evidentemente, anche i sovvenzionatori di alcune delle innumerevoli opere monumentali da lui patrocinate e incentivate. Tra questi vi era Fausto Albino iunior, della nobile famiglia dei Decii. Costui, insieme alla moglie Glaphyra, costruì sul fondo Paciniano, a 27 miglia da Roma, una basilica che venne da S. dedicata a s. Pietro, quasi certamente su richiesta degli stessi donatori (Le Liber pontificalis, I, pp. 263, 268). Anche il "vir inlustris" Palatino sovvenzionò la costruzione simmachiana della chiesa di S. Martino, vicina a quella di S. Silvestro. Sotto controllo, ma non del tutto eliminata, la resistenza del clero antisimmachiano - un esponente era il diacono Pascasio - continuò fino alla morte di S. e fu definitivamente riassorbita dal successore Ormisda. La rottura dei rapporti con l'Oriente conosce, in base alla documentazione nota, una sola interruzione. Prima del 511 S. fu pregato di intervenire in un momento particolarmente difficile della questione orientale. Tre vescovi, Macedonio di Costantinopoli, Elia di Gerusalemme e Flaviano di Antiochia, filocalcedoniani, avevano reagito alla compatta azione anticalcedoniana di Xenaia (Filosseno) di Mabbug (Gerapoli) e Severo di Antiochia. Isolati e attaccati da tutti, prima di essere destituiti - tra il 511 e il 513 (o 516) - i tre vescovi avevano chiesto aiuto al papa (Symmacus, epp. 12-13, in Epistolae Romanorum Pontificum, pp. 709-22). La risposta di S., piuttosto fredda, ribadisce l'anatema non solo per Acacio e i suoi più o meno diretti sostenitori, ma anche per chiunque non se ne dichiarasse anche formalmente distante: il che era quanto i tre vescovi avrebbero dovuto fare, ma non avevano fatto. A questi, che imploravano da lui aiuto, S. replicò che era meglio si preparassero al martirio. Molto più attiva fu la sua politica su altri fronti. Contro le eresie, perseguitò i manichei di Roma, che condannò all'esilio, dopo averne fatto bruciare, innanzi all'ingresso della basilica costantiniana, simulacri e libri. Altri aspetti della politica del pontefice riguardano i rapporti con la Gallia, in particolare con i vescovi di Arles e Vienne; egli intervenne nell'annoso conflitto tra le due diocesi perennemente in lotta per la supremazia metropolitana. L'intervento di S. si inserisce in una linea di continuità della politica papale romana, che, in linea di massima, aveva confermato i diritti metropolitani di Arles, conferendo il privilegio dell'uso della dalmatica per i diaconi e del pallio per i vescovi. Più disponibile l'atteggiamento del papa fu nei confronti dei vescovi africani, perseguitati dal re vandalo Trasamundo ed esiliati in Sardegna. Dietro loro richiesta, S. gli inviò, a conforto delle sofferenze dell'esilio e della persecuzione, le reliquie dei ss. Nazario e Romano (Symmacus, ep. 11, ibid., pp. 708-09). Questo episodio va collocato nell'ambito di una più generale politica di S. attenta agli elementi cultuali - con la promozione e l'incentivazione del culto dei santi - e liturgici (cfr. Avitus, ep. 20 a Simmaco e Avitus, ep. 29, di re Sigismondo a Simmaco, in M.G.H., Auctores antiquissimi, VI, 2). In gran parte all'interno dei nuovi riassetti territoriali ridefiniti durante lo scontro tra S. e Lorenzo vanno collocate l'intensa attività edilizia e quella di promozione cultuale portate avanti da Simmaco. Egli restaurò e ampliò complessi di culto ed edifici con una notevole tradizione storica, come le basiliche di Agnese (sulla via Nomentana) e di Felicita (sulla via Salaria). Ma promosse anche nuovi culti con l'edificazione o l'organizzazione di edifici per santi il cui culto non era radicato o si trovava in stato di trascuratezza, come nel caso dell'apostolo Andrea (cui dedicò una basilica presso il sepolcro di s. Pietro), di Agata (basilica eretta lungo la via Aurelia) e di Pancrazio (cui dedicò pure una basilica). Nuove costruzioni furono gli oratori per Tommaso, Giovanni Battista e Giovanni Evangelista. Ampliò la basilica dell'arcangelo Michele. Abbellì edifici per il culto, quali quelli di S. Cassiano, dei SS. Proto e Giacinto. Incentivò il culto di s. Apollinare. Restaurò l'abside dell'antica basilica di S. Paolo, sulla via Tiburtina e intervenne con poderose opere di abbellimento nella basilica di S. Pietro. A s. Pietro dedicò, inoltre, una nuova basilica, su richiesta dell'aristocratico Albino e della moglie Glaphyra. Fece completare luoghi di culto presso i sepolcri di Giovanni e Paolo. Vicino al Foro Traiano costruì una basilica dedicata a Martino e una a papa Silvestro. Ampliò il cimitero sorto intorno al luogo dove giaceva s. Alessandro. Dopo la vicenda iniziale del cambiamento della celebrazione della festività pasquale in base al calendario occidentale, S. dimostrò interesse anche per le tradizioni orientali. Estese il Gloria in excelsis a tutte le domeniche e le feste dei martiri. Anche nella liturgia dell'adorazio- ne della Croce è probabile la connessione con il rito bizantino. S. morì il 19 luglio 514 e fu sepolto in S. Pietro. Non restano documenti che attestino il culto di S. nell'antichità, ma il Liber pontificalis lo definisce "confessor" (I, p. 263), epiteto che testimonia una venerazione speciale per la sua memoria sin dagli anni successivi alla morte. Assente nei martirologi più antichi, il suo nome fu introdotto nei martirologi del XV secolo, negli Auctaria di Usuardo, probabilmente a opera di Greveno (fine sec. XV o inizi XVI), alla data del 21 luglio. Baronio lo introdusse nel Martyrologium Romanum al 19 luglio. Fonti e Bibl.: Acta Sanctorum [...], Iulii, IV, Antverpiae 1725, pp. 634-43; I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, VIII, Florentiae 1762, pp. 202-346; Epistolae Romanorum Pontificum genuinae [...], a cura di A. Thiel, I, Brunsbergae 1867 (rist. anast. Hildesheim-New York 1974), pp. 639-738; le epistole 1, 5 e 6 sono state edite da Th. Mommsen in Acta Synhodorum habitarum Romae a. CCCCXCIX. DI. DII, in M.G.H., Auctores antiquissimi, XII, a cura di Id.-L. Traube, 1894, pp. 399-454; Appendix ad ep. 6 seu Praeceptum regis Theoderici, a cura di Th. Mommsen, ibid., p. 392; le epistole 2, 3, 14, 15 e 16 sono edite in Collectio Arelatensis, a cura di W. Gundlach, in M.G.H., Epistolae, III, a cura di W. Gundlach-E. Dümmler, 1892, nrr. 23, 24, 25, 26, 28 (le tre ultime in S. Caesarii Opera varia, II, a cura di G. Morin, Maretioli 1942, pp. 9-14); epistola 4 in Aviti Epistula 33, in M.G.H., Auctores antiquissimi, VI, 2, a cura di R. Peiper, 1883, p. 63; le epistole 7, 9, 11, 18, 19, 20, 21, 22, 23 e 24 edite anche in Epistolae Ennodii, in Magni Felicis Ennodi Opera, ibid., VII, a cura di F. Vogel, 1885 (cfr. anche l'ediz. a cura di G. Hartel, Wien 1882 [Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 6]); l'epistola 10 (per alcuni è di Ennodio) è edita da E. Schwartz, Publizistische Sammlungen zum acacianischen Streit, München 1934 (Abhandlungen der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, 10), pp. 153-57; epistola 12, ibid., pp. 302-03 (attribuita a Doroteo di Tessalonica); epistola 13 (per alcuni è di Ennodio) in Collectio Avellana 104, a cura di O. Guenther, Pragae-Vindobonae-Lipsiae 1895 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 35, 1), pp. 487-93; epistola 17 (di Avito) in Aviti Epistula 29, in M.G.H., Auctores antiquissimi, VI, 2, a cura di R. Peiper, 1883, p. 59; (Magnus Felix) Ennodius episcopus Ticinensis, Epistulae (I-IX), in Id., Opera omnia, a cura di G. Hartel, Wien 1882 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 6), pp. 1-260 (cfr. anche Id., Opera, in M.G.H., Auctores antiquissimi, VII, a cura di F. Vogel, 1885); Id., Libellus adversus eos qui contra synodum scribere praesumpserunt, in Id., Opera omnia, pp. 287-330 (cfr. anche Id., Opera, pp. 48-67); Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I, Lipsiae 1885, pp. 96-100; Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I-II, Paris 1886-92: I, pp. 98-104, 260-63; III, a cura di C. Vogel, ivi 1957, pp. 87-8; Fragmentum Laurentianum (o Fragmentum Veronense), ibid., I, pp. 44-6; Anonimus Valesianus 65, in Chronica minora (saec. IV, V, VI, VII), in M.G.H., Auctores antiquissimi, IX, a cura di Th. Mommsen, 1892, p. 324 (anche a cura di V. Velkov-M. Moreau, Leipzig 1968); Victor Tonnennensis Episcopus, Chronica a. CCCCXLIV-DLXVII, in Chronica minora, II, 497, 2, ibid., XI, 2, a cura di Th. Mommsen, 1894, p. 192; Martyrologium Romanum [...] scholiis historicis instructum, in Propylaeum ad Acta Sanctorum Decembris, Bruxellis 1940, p. 296; Cyprianus, Firminus et Viventius Episcopi, Vita S. Caesarii, in S. Cesarii Opera varia, a cura di G. Morin, Maretioli 1942, p. 313; Theodorus Lector, Historia ecclesiastica II, 17, a cura di G.H. Hansen, Berlin 1995 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller, 3), p. 131. Documenta Symmachiana et Laurentiana (comunemente indicati come apocrifi simmachiani): Gesta Marcellini (o Synodus Sinuessana), in P.L., VI, coll. 11-20; Constitutum Silvestri, ibid., VIII, coll. 822-40, 1388-93 ss.; Gesta de Xysti purgatione, ibid., Supplementum, III, coll. 1249-52; Gesta Liberii, in P.L., VIII, coll. 1387-93; Gesta Polychronii, ibid., Supplementum, III, coll. 1252-55; questi, una lettera dei padri niceni a Silvestro e una seconda edizione del concilio di Silvestro con duecentottantaquattro vescovi, sono editi ora in E. Wirbelauer, Zwei Päpste in Rom. Der Konflikt zwischen Laurentius und Symmachus (498-514). Studien und Texte, München 1993 (Quellen und Forschungen zur Antiken Welt, 16), pp. 226-341. Iohannes Diaconus, Libellus quem obtulit sancto papae Symmacho, a cura di E. Wirbelauer, München 1993, p. 38 (cfr. anche ep. 8: Libellus Johannis diaconi, quem obtulit sancto papae Symmacho, in Epistolae Romanorum Pontificum, I, p. 697); Clavis Patrum Latinorum, a cura di E. Dekkers, Steenbrugis 1995³, nr. 1678 e Appendix, nrr. 1679-82, pp. 546-47. F. Stöber, Quellenstudien zum Laurentianischen Schisma (498-514), Wien 1886; G. Pfeilschifter, Der Ostgotenkönig Theoderich der Grosse und die katholische Kirche, Münster i. W. 1896 (Kirchengeschi- chtliche Studien, 3, 1-2), pp. 36-125; H. Grisar, Geschichte Roms und der Päpste im Mittelalter, I, Freiburg i. B. 1901 (trad. francese, I, Paris 1906), pp. 15-33; Ch.J. Hefele-H. Leclercq, Histoire des conciles d'après les documents originaux, II, 2, Paris 1908, pp. 957-73, 1350-66; L. Duchesne, Les schismes romains au VIe siècle, "Mélanges d'Archéologie et d'Histoire. École Française de Rome", 35, 1915, pp. 221-56; R. Cessi, Lo scisma laurenziano e le origini della dottrina politica della Chiesa di Roma, "Archivio della R. Società Romana di Storia Patria", 42, 1919, pp. 5-229; L. Duchesne, L'Église au VIe siècle, Paris 1925, pp. 109-28; E. Caspar, Geschichte des Papsttums, II, Tübingen 1933, pp. 87-129, 758-62; W.T. Townsend, The So-Called Symmachian Forgeries, "Journal of Religions", 13, 1933, pp. 165-74; Id., The Henotikon Schism and the Roman Church, ibid., 16, 1936, pp. 78-86; Id., Councils Held Under Pope Symmachus, "Church History", 6, 1937, pp. 233-59; Id., Ennodius and Pope Symmachus, in Classical and Medieval Studies in Honor of E.K. Rand, a cura di L. Webber Jones, New York 1938, pt. I, pp. 277-91; W.F. Wyatt, Ennodius and Pope Symmachus, ibid., pt. 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