Pietro Apostolo, santo
Secondo la tradizione cattolica (che era quella che D. conosceva e accettava) P. era il capo del collegio apostolico: negli elenchi degli Apostoli tramandatici dagli evangelisti, infatti, egli è sempre citato quale primo a significare il suo ruolo di preminenza fra gli altri (Matt. 10,2; Marc. 3, 13; Luc. 6, 13; Act. Ap. 1, 13 e 15). Fu investito di questa sua autorità direttamente da Cristo (Matt. 4, 19; 16, 18; Marc. 1, 17; Luc. 5, 10) che lo prescelse quale testimone degli episodi più intimi della sua vicenda mortale e lo lasciò come suo vicario in terra (Ioann. 21, 15-23). Dopo la morte di Gesù, P. fu riconosciuto capo della comunità dei cristiani di Gerusalemme (Act. Ap. 1, 12; 2, 14) e quindi al di fuori della Palestina abbiamo testimonianze di suoi soggiorni ad Antiochia (Galat. 2, 11), a Corinto (I Cor. 1, 12) quindi a Roma, che lo riconosce quale suo primo vescovo. Non abbiamo notizie precise riguardo il soggiorno di P. in quella che era la capitale del mondo civile allora conosciuto, sappiamo per certo che vi subì il martirio intorno al 67 d.C. (64, secondo la più recente ipotesi di M. Guarducci). La figura di P., considerata quasi esclusivamente sotto l'aspetto di primo papa, ricorre nelle opere dantesche più volte. E da queste citazioni, sia dirette che indirette, appare evidente come D. fosse bene informato sulla vita dell'Apostolo: cosa d'altra parte ovvia se si pensa alla liturgia, alle prediche, ai trattati che il poeta conosceva bene e maneggiava agevolmente; sembra che, in particolare, molte notizie siano giunte a D. attraverso il Tresor di Brunetto Latini (specialmente I 17-72, 86). Così egli sa che P. era pescatore (Pg XXII 63 e Pd XVIII 136, per quanto nel contesto non si avverta tanto un riferimento al mestiere dell'Apostolo quanto alla missione affidatagli da Cristo: "faciam vos fieri piscatores hominum "), ma seguì senza indugio Cristo che gli disse Viemmi retro (If XIX 93, Mn III XIV 4; cfr. Matt. 4, 18-20; Marc. 1, 16-18; Luc. 5, 11). Fu presente con Giovanni e Giacomo alla trasfigurazione del Maestro (Pg XXXII 76, Pd XXV 33, Cv II I 5, Ep XIII 80, Mn III IX 11; cfr. Matt. 17, 1; Marc. 9, 1; Luc. 9, 28); entrò per primo nel sepolcro vuoto del Risorto perché era spinto da una tale fede da fargli sopravanzare anche più giovani piedi (Pd XXIV 126, Mn III IX 16; cfr. Ioann. 20, 3-10: da questi passi risulta evidente la posizione di preminenza goduta da P. nei confronti degli altri Apostoli). Infine morì insieme con Paolo per la vigna, ossia per la Chiesa (Pd XVIII 131-132), e con quello spargimento di sangue consacrò Roma quale sede apostolica (Ep XI 3).
Una volta P. è chiamato da D. Cefàs (Pd XXI 127; cfr. Ioann. 1, 42 " Tu es Simon filius Iona: tu vocaberis Cephas [quod interpretatur Petrus]), mentre i titoli attribuitigli sono parecchi: gran viro (Pd XXIV 34), alto primiplio (v. 59), baron (v. 115), santo padre (v. 124), Archimandrita nostro (Mn III IX 17; cfr. Pd XI 99), primizia dei vicari di Cristo (Pd XXV 14), Dei vicarius (Ep V 30), colui che tien le chiavi (Pd XXIII 139). Egli è quindi padre vetusto / di Santa Chiesa (Pd XXXII 124-125), la quale pertanto può essere definita simbolicamente la barca / di Pietro (Pd XI 119-120; Pg XXXII 129 navicella mia; Ep VI 3 navicula Petri); è il maggior Piero (If II 24) in quanto è stato capostipite della dinastia pontificia e ogni vescovo di Roma è suo successore (Pg XIX 99, Pd XXV 14-15, Mn III I 5, III 7, Ep V 17; cfr. Matt. 16, 19, e v. PAPATO). Per tutti questi motivi P. può ben essere considerato, con Adamo, d'esta rosa (ossia del Paradiso) una delle due radici (Pd XXXII 120), e sedere alla destra di Maria (cui è attribuito il titolo di Agusta, imperatrice del cielo), avendo al suo fianco Giovanni evangelista mentre di contr'a Pietro siede Anna, madre di Maria Vergine (vv. 118-133).
P. in quanto capo della Chiesa è il tramite fra Dio e l'uomo il quale professando le verità fondamentali di cui la Chiesa è unica depositaria può raggiungere la vita eterna. Si può dedurre quindi che il mondo ultraterreno è sottoposto alla giurisdizione di P., e ciò è messo in evidenza nell'oltretomba dantesco; infatti vediamo che per adire ai luoghi di purgazione bisogna passare per la porta di san Pietro (If I 134; cfr. Pg IV 129, IX 76 e 120) e inoltre l'angelo guardiano del Purgatorio è detto vicario di P. (Pg XXI 54; cfr. IX 127); infine P. è lasciato da Cristo a capo della schiera dei beati scesi a incontrare D.: Quivi trïunfa, sotto l'alto Filio / di Dio e di Maria, di sua vittoria, / e con l'antico e col novo concilio, / colui che tien le chiavi di tal gloria (Pd XXIII 136-139).
Per quanto concerne la personalità di P. il poeta ricorda la sua generosità, lo zelo nel propagare la religione, il totale disinteresse che lo portò povero e affamato a seminare la parola di Dio confidando solo nella virtù celeste e poi lo condusse al martirio (Pier cominciò sanz'oro e sanz'argento, Pd XXII 88 ss.; cfr. Act. Ap. 3, 6), ma in argomento offre il maggiore interesse Mn III IX, che è un acuto studio psicologico dell'indole dell'Apostolo.
Partendo dal noto episodio dell'ultima cena circa le due spade che si trovavano nella sala ove i dodici erano raccolti con Gesù (cfr. Luc. 22, 38) D. ha modo di darci un ritratto di P. fondato sui vari passi evangelici che parlano di lui e più volte, incidentalmente, fa delle osservazioni sul suo carattere. Tra le più significative ricorderemo queste: Petrus de more subito respondebat ad rerum superficiem tantum (Mn III IX 2); de quo Cristus ipsum increpasset sicut multotiens increpavit, cum inscie responderet (§ 8); Et quod Petrus de more ad superficiem loqueretur, probat eius festina et inpremeditata praesumptio, ad quam non solum fidei sinceritas impellebat, sed, ut credo, puritas et simplicitas naturalis. Hanc suam praesumptionem scribae Cristi testantur omnes (§ 9; cfr. Matt. 14, 28; 16, 15-16 e 22; 17, 4; 26, 33, 35 e 51; Marc. 14, 29, 31 e 47; Luc. 22, 33 e 50; Ioann. 13, 6 e 8; 18, 10; 20, 6; 21, 7 e 21); Iuvat quippe talia de Archimandrita nostro in laudem suae puritatis continuasse (§ 17).
Premiato da Cristo per la sua fede con la consegna delle chiavi (Pd XXIV 35, Mn III VIII 9; cfr. If XXVII 104 e Matt. 16, 19), P. poteva ben a ragione essere preso da D. come suo esaminatore intorno a tale virtù teologale (v. FEDE). Infatti Pd XXIV è in gran parte dedicato a questa prova - sulla quale non occorre soffermarsi poiché in essa P. è solo il portavoce di una dottrina codificata molto più tardi da altri -, al termine della quale l'alunno è incoronato tre volte da l'appostolico lume che era rimasto entusiasta di lui e manifestava la sua gioia cantando (Pd XXIV 151-154). Di P. come autore di alcune epistole apostoliche vi è un ricordo indiretto in Pg XXIX 142 ss. (quattro in umile paruta, cioè le epistole canoniche, di cui una scritta da P.), mentre nella grande processione del carro della Chiesa, nel Paradiso terrestre, non viene dato un posto speciale a P. anche se possono forse attribuirsi a lui le parole: O navicella mia, com' mal se' carca di Pg XXXII 129. Gli scritti che la tradizione attribuiva a P. sono menzionati da D. anche in Ep V 30 (cfr. I Petr. 2, 17) e altrove incidentalmente; frequenti gli accostamenti di P. con Paolo (Pd XVIII 131-133, XXI 127-128, Ep XI 3; cfr. If II 24 e 28), ma valga per tutti questa citazione: Come 'l verace stilo / ne scrisse, padre, del tuo caro frate / che mise teco Roma nel buon filo (Pd XXIV 61-63).
Con queste informazioni - e pochissimi altri dettagli che si potrebbero aggiungere; ad esempio in Pg XIII 51 gl'invidiosi invocano insieme con Maria, Michele e tutti i santi anche P., ma è un richiamo puramente casuale - si chiude il primo ciclo di citazioni dantesche sul capo degli Apostoli. L'altro ha il suo fulcro nel canto XXVII del Paradiso ed è, ovviamente, più importante ai fini di una comprensione del pensiero di D. in materia di ecclesiologia e di storia, anche se la figura fisica e morale di P. sfuma e nelle parole di lui si sente ben più presente D. con i suoi risentimenti e le sue idealità che non il pescatore galileo vissuto in tutt'altro contesto e occupato in problemi molto diversi da quelli del tempo del poeta o dei tardi successori del primo pontefice romano.
Nel cielo delle Stelle fisse, dopo la fine delle tre prove subite da D. e terminate le risposte di Adamo, l'anima di P. si fa rossa per lo sdegno che l'agita e un profondissimo silenzio - voluto da Dio - si diffonde tutt'intorno per meglio lasciare intendere che si è in attesa di qualcosa di grande e d'insolito. Infatti la voce del primo papa inizia la sua tremenda invettiva (vv. 19-66) contro la corruzione dei suoi successori (Quelli ch'usurpa in terra il luogo mio, v. 22) provocando nei beati che lo ascoltano vampe rossigne di vergogna; anche Beatrice muta sembianza e l'intero cielo si oscura come avvenne il giorno della morte di Cristo in croce. Il discorso di P. è, a ugual titolo, un excursus nella storia della Chiesa e un ritratto della situazione esistente al tempo di D. nella sede romana.
Invertendo l'ordine tenuto dall'autore conviene anzitutto ascoltare ciò che egli dice del passato e poi venire al presente, perché così si dà all'esposizione un ordine più logico e un carattere meno passionale (anche se è ben comprensibile il proposito di D., e quindi il criterio da lui tenuto mettendo in primo piano ciò che gli era contemporaneo e aggiungendo come conferma il richiamo storico). Citando personalmente i suoi primi successori (Lino, Cleto, Sisto, Pio, Callisto, Urbano; non sembra che vi siano motivi specifici nella scelta di quei nomi, o che questi abbiano brillato in maniera eccezionale), P. ricorda che la sposa di Cristo non fu allevata (v. 40) perché poi altri se ne servisse per acquistare tesori materiali; il sangue di quei pontefici fu sparso per acquisto d'esto viver lieto (v. 43), ossia dell'eterna beatitudine, dopo molto fleto (v. 45). Del pari è malfatto distinguere i cristiani in buoni e cattivi solamente in base alle loro idee politiche, oppure usare le chiavi che mi fuor concesse (v. 49) per assolvere i peccati come vessillo in una guerra combattuta contra battezzati (vv. 50-51), per motivi temporali e non religiosi: anche far sì ch'io fossi figura di sigillo / a privilegi venduti e mendaci (vv. 52-53) e quindi, con altre parole, in vista d'interessi mondani e contingenti invece che per il bene dell'anima e la salvezza eterna.
Il passaggio ai tempi di D. è pertanto ovvio: il luogo mio (la sede di P., la prima cattedra della cristianità) è stato usurpato da una persona indegna, che fatt'ha del cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza (vv. 23, e 25-26). Il posto è vacante al cospetto di Cristo perché tenuto indegnamente (però davanti agli uomini il papa conserva tutta la sua autorità e dev'essere ubbidito in quello che ordina) e di tutto questo Lucifero si rallegra (si placa, v. 27). Se gli accenni ora fatti dovevano riferirsi a Bonifacio VIII - tenendo presente l'anno immaginato dall'autore per il suo viaggio ultraterreno -, subito dopo D. viene a parlare dei pontefici che seguirono il Caetani e cita Caorsini e Guaschi (Clemente V e Giovanni XXII, ma il plurale fa pensare a tutti i loro corregionali, che occupavano uffici ecclesiastici imperversando col loro malgoverno di curia). Costoro del sangue nostro.... s'apparecchian di bere (v. 59: cioè fanno cattivo uso del patrimonio di meriti raccolto dai primi papi morendo martiri) e si dimostrano lupi rapaci pur presentandosi in vesta di pastor (v. 55). Quale triste conclusione ha avuto il buon principio (v. 59) della storia della Chiesa! Occorre davvero che la giustizia divina si muova e colpisca i colpevoli.
La conclusione dell'invettiva è duplice: l'assicurazione di un pronto intervento provvidenziale (con un curioso richiamo a un consimile atto di salvezza compiuto dalla stessa Provvidenza servendosi di Scipione a favore dell'antica Roma; il ‛ salto ' qualitativo è forte ma conferma l'alto concetto che D. aveva dell'Impero universale romano come gloria del mondo, v. 62) e l'esplicito compito affidato - come in diverse altre occasioni - al pellegrino, al suo ritorno in terra, di far sapere a tutti quello che aveva ascoltato e non nascondere ciò che gli era stato rivelato da Pietro.
Il valore letterario del discorso pietrino cede il passo al suo significato storico e al contributo che reca alla dottrina ecclesiologica dantesca. Su questo tema conviene, dunque, fermarsi per ultimo completando in questa maniera il ritratto di P. disegnato da D. nelle sue opere, e soprattutto nella Commedia.
Malgrado la violenza delle accuse mosse, l'autore non si dimostra ‛ anticlericale ' nel significato moderno e deteriore dell'espressione, e neppure antigerarchico. Anzi proprio le sue condanne confermano che egli riteneva indispensabile la funzione dei pastori nel seno della Chiesa, aveva di questa una concezione istituzionale e organizzativa, rispettava le autorità e ne accettava i compiti carismatici di cui esse sole erano i detentori in virtù di un potere che veniva loro dall'alto. Se si tiene presente che le polemiche del tempo di D. erano tutte imperniate proprio su questo punto - la Chiesa spirituale, la validità dei sacramenti amministrati da preti indegni, la negazione della gerarchia sacerdotale, ecc. -, risulta evidente che D. era assai lontano da quelle posizioni e che la sua polemica aveva tutt'altri obbiettivi. Partendo da un indiscusso rispetto per il pontefice (Mn III XV 18) egli intendeva solamente circoscrivere la sua autorità a precisi ambiti, di ordine religioso, criticando la trasposizione che i curialisti facevano nel settore politico e civile del potere pontificio, e condannando in nome della coscienza cristiana le deviazioni temporalistiche, i nepotismi e qualsiasi altro disordine che si verificasse nel corpo immacolato della sponsa Christi (Mn III VIII 10-11, IX 1-2). L'invettiva di P. - così ricca di passioni umane anche se situata nel più alto dei cieli e così traboccante di " parole che hanno il carnale peso del male e della nausea " (Grabher) - è soprattutto un inno di fede e di speranza, un grido di dolore ma anche di certezza, una conferma del " credo " dantesco nei poteri salvifici della Chiesa e dei sacerdoti cattolici (questi ultimi sono tutti riuniti e rappresentati dal primo di essi, il vicario di Cristo e vescovo di Roma, P.) perché il mondo che mal vive non può tornare sulla retta via in altro modo che affidandosi alla guida della Chiesa e aspettando che vero frutto venga dopo 'l fiore (Pd XXVII 148: questo verso pur essendo situato in altro contesto può ben chiudere tutto quanto concerne la figura di P., che di questo canto è stato il protagonista ardente e generoso, pieno di affetto - D. è da lui chiamato fagliuol [v. 64] - e perfettamente consapevole dei suoi doveri in conseguenza dell'alto posto occupato per volere divino nella storia e nella costituzione della Chiesa di Cristo).
Bibl. - Manca uno studio, complessivo su P. e D., che metta in luce come il poeta abbia voluto utilizzare la figura dell'Apostolo: quale ruolo gli abbia voluto assegnare nell'ideale rinnovamento religioso e civile dell'umanità che è il motivo fondamentale della Commedia; come la spiritualità di P. abbia influenzato il concetto ecclesiologico di D., e inoltre quale sia l'apporto della letteratura patristica per la comprensione della figura di P. e in genere del Papato. Si dovranno anzitutto consultare le ‛ lecturae ' più importanti dei relativi canti; del XXIV del Paradiso: L. Pietrobono, in Lect. Romana, Torino 1959; I. Marchetti, Firenze 1963; A. Jenni, in Lett dant. 1821.-1833; G. Getto, Il canto della fede, in "Lettere Italiane" XVII (1965) 1-18; M. Marcazzan, in Lect. Scaligera III 859-891; del canto XXVII: A. D'ancona, in Scritti danteschi, Firenze 1913, 447-515; F. Ronconi, ibid. 1923; G. Petronio, in " Annali Fac. Lettere Filosofia Cagliari " XXV (1957) 401-430; Reto R. Bezzola, in Lett. dant. 1889-1904; M. Sansone, in Lect. Scaligera III 961-998; G. Favati, San P. in D., in Psicoanalisi e strutturalismo di fronte a D., II (Letture della Commedia), Firenze 1972, 327-354. Inoltre si potranno utilmente consultare: E. Pistelli, La "presunzione " di san P. in recenti traduzioni della Monarchia, in " Studi d." IX (1924) 151-156; B. Nardi, Note alla Monarchia, in Nel mondo di D., Roma 1944, 93-106 (già in " Studi d. " XXVI [1942] 97-138); ID., Intorno ad una nuova interpretazione del terzo libro della Monarchia dantesca, in Dal Convivio alla Commedia, ibid. 1960, 151-313; M. Maccarrone, Il terzo libro della Monarchia, in " Studi d. " XXXIII (1955) 5-142; B. Nardi, Filosofia e teologia ai tempi di D. in rapporto col pensiero del poeta, in Atti del congresso internazionale di studi danteschi, Firenze 1965, 79-175; M. Pastore Stocchi, Monarchia. Testo e Cronologia, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 714-721; O. Capitani, Monarchia, il pensiero politico, ibid., 722-738. Per l'interpretazione dei passi della Monarchia riguardanti P. si veda il commento di G. Vinay a D.A., Monarchia, Firenze 1950. Per l'interpretazione storica e teologica della figura di P. si veda: v. Holzmeister, Vita s. Petri apostoli, premessa al Commentarius in primari; Epistulam santi Petri, Parigi 1937; E. Florit, Il primato di san Pietro negli Atti, Roma 1942; V. Mac Nabb, Testimonianze del Nuovo Testamento a san Pietro (traduzione ital. di M. De Luca), Brescia 1943; G. Thils, L'enseignement de saint Pierre, Parigi 1943³; P. De Ambroggi, Le Epistole cattoliche, Torino 1949²; ID., San Pietro apostolo, Rovigo 1951³; P. Gaechter, Petrus und seine Zeit. Neutestamentliche Studien, Innsbruck 1958; A. Rimoldi, L'apostolo san Pietro fondamento della Chiesa... dalle origini al concilio di Calcedonia (Analecta Gregoriana XCIV), Roma 1958; M. Guarducci, P. ritrovato, Milano 1969.