ORMISDA papa, santo
Diacono di papa Simmaco, fu eletto a succedergli e fu consacrato il 20 luglio 514. A Roma egli compose gli ultimi residui dello scisma laurenziano scoppiato alla morte (498) di Anastasio II (v.), quando la maggioranza del senato e quella parte del clero favorevole ai tentativi d'accordo fra la chiesa di Roma e quella greca vagheggiati da questo papa avevano eletto a succedergli l'arciprete Lorenzo, mentre l'opposizione alla politica di Anastasio aveva preso forma concreta nell'elezione di Simmaco (v.). Quest'atteggiamento di O., conciliante verso i seguaci di Lorenzo, doveva lasciare chiaramente intendere quale sarebbe stata la sua politica nei riguardi dello scisma orientale che dal 484 divideva la chiesa di Roma da quella di Costantinopoli a seguito dell'Enotico di Zenone (v.) e della politica filomonofisita (v. monofisiti) perseguita da questo e dal suo successore Anastasio. Ma anche a Costantinopoli i partigiani della fede calcedonese erano numerosissimi e l'opposizione alla politica anastasiana, capeggiata da Vitaliano, deciso partigiano dell'unione con Roma, giunse a tal punto (Vitaliano con un esercito di 50.000 uomini premeva alle mura di Costantinopoli) da indurre Anastasio a iniziare trattative con Roma. O. fu pronto ad accogliere la richiesta. Ma lungi dall'aderire alla proposta di un concilio formulata da Anastasio, diede precise istruzioni ai suoi legati (fra i quali Ennodio di Pavia) di addivenire all'unione solo attraverso la sottoscrizione da parte dei dissidenti d'una formula dogmatica (è il famoso Libellus professionis fidei di O., testo in Collectio Avellana, ed. Günther, II, pp. 800-801), che era una perentoria riaffermazione del sovrano diritto del papa a definire in materia di fede e di disciplina e imponeva la condanna, e conseguente cancellazione dai dittici, di Acacio e dei suoi successori sul seggio costantinopolitano. Era chiaro - com'è stato osservato - che attraverso l'unità della fede si voleva arrivare, da parte di O., all'unità politico-religiosa e a distruggere l'autonomia orientale con una risoluta dipendenza da Roma. Ma Anastasio non intendeva accettare ordini e la legazione romana, partita nel mese di agosto 515, il 16 luglio 516 abbandonava Costantinopoli senza aver nulla concluso. La situazione non mutò per l'intransigenza delle due parti negli anni seguenti, nonostante una missione imperiale inviata a Roma e una seconda papale inviata a Costantinopoli (517). Ma quando ad Anastasio (morto il 9 aprile 518) successe Giustino, ostile, con suo nipote Giustiniano, ai monofisiti, e che proveniva da quelle provincie illiriche che l'abile politica di O. aveva fin dal 515-516 ricondotto alla comunione di Roma, le cose mutarono sostanzialmente. Da allora sono chiaramente discernibili nella politica bizantina verso Roma due tendenze: l'una, che faceva capo a Giustino, preoccupato di raggiungere l'accordo, ma anche pensosa, di fronte alla complicata situazione orientale, di evitare una troppo prona adesione alla rigida intransigenza di O., e quindi favorevole a un atteggiamento moderato e a qualche concessione verso gli scismatici; l'altra, capeggiata da Giustiniano, che vedeva nell'unione piena con Roma il presupposto a quel programma di espansione in Occidente che era al vertice delle sue mire, e non esitava a sacrificare a esso l'indipendenza della chiesa costantinopolitana. Naturalmente O., non bene informato circa la reale situazione della chiesa greca, fidandosi completamente dell'azione dei suoi legati, ligi al partito di Giustiniano, si mostrò irremovibile nelle sue richieste: il 15 aprile del 519 il formulario di fede fu integralmente sottoscritto dal patriarca bizantino e l'unione, almeno formalmente, sanzionata col completo trionfo della tesi giustinianea. Ma la realtà non era suscettibile di una decisione così netta, e dovette ben accorgersene O. di fronte alle resistenze, spesso violentissime, che sorsero in ogni parte dell'impero contro l'unione; dovette accorgersene quando, sorta la controversia teopaschita, una commissione di monaci sciti, insoddisfatti del contegno dei legati papali, venne a Roma a richiedere al papa l'approvazione della formula teologica da essi difesa: "unus de Trinitate passus est". La politica di Giustino si rivelava più adeguata alla realtà della situazione: finì per comprenderlo Giustiniano, e anche O., tornati a Roma i suoi legati, si lasciò piegare. La formula scita fu disapprovata, ma non condannata; la questione della cancellazione dai dittici dei vescovi scismatici abbandonata al buon senso del vescovo di Costantinopoli, che certamente si sarebbe mostrato largo di concessioni.
Anche in Occidente l'azione esercitata da O. contribuisce a fare di lui uno dei più notevoli papi di quel periodo. A lui infatti si deve la riorganizzazione della chiesa spagnola dopo l'invasione visigotica, mediante la nomina di due vicarî papali (uno per la Spagna del nord, l'altro per la Betica e la Lusitania) e la promulgazione di costituzioni generali con regole circa l'ordinazione dei preti, l'elezione dei vescovi e la celebrazione periodica di concilî provinciali. Tentativi di questo genere egli iniziò anche in Gallia e in Africa. O. rinnovò il cosiddetto decreto gelasiano e indusse Dionigi il Piccolo a compilare la sua raccolta di canoni.
Fonti: Nella Collectio Avellana sono inserite 75 lettere di O. e 60 ad O.; il Thiel ne ha dato un'ed. (Epistolae romanorum pontificum, I, Brunsbergae 1868, pp. 733-1006) ristabilendo l'ordine cronologico. Ma il testo migliore è quello nell'ed. della Collectio Avellana di O. Günther (Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, XXXV, 11, Vienna 1898). Cfr. inoltre Ph. Jaffè, Regesta, 2ª ed., Lipsia 1885, I, pp. 101-109; Liber pontificalis, ed. L. Duchesne, I, Parigi 1886, pp. 98-105, 269-274.
Bibl.: R. Cessi, in Archivio Soc. rom. di storia patria, XLIII (1920), pp. 209-321; L. Duchesne, L'église au VIme siècle, Parigi 1925, pp. 43-65, 126-132.