MATTEO, santo
, Fu uno dei dodici apostoli (v.) di Gesù, di cui secondo la tradizione ecclesiastica scrisse per primo la vita e raccolse gl'insegnamenti. Il Vangelo "secondo Matteo" è nell'ordine corrente il primo dei Vangeli canonici.
Nell'elenco degli apostoli dato dal Vangelo stesso, M. è detto ὁ τελώνης, "il pubblicano" (Matt., X, 3), una specie di gabelliere. La vocazione di lui all'apostolato vi è così narrata: "Gesù passando, vide un uomo chiamato M., che sedeva al banco della gabella. E gli disse: Seguimi! Ed egli, alzatosi, lo seguì" (Matt., IX, 9).
Una scena simile si ha nei Vangeli di Marco e di Luca "Mentre (Gesù) passava, vide Levi d'Alfeo seduto al banco, e gli disse: Seguimi! Ed egli alzatosi lo seguì" (Marco, II, 13-14; cfr. Luca, V, 27 segg.). È l'unica vocazione d' un pubblicano che sia narrata: i particolari e le parole corrispondono talmente che si presenta ovvia l'identificazione delle scene, nonostante la diversità dei nomi, dall'una parte Matteo, dall'altra Levi. Ne consegue che M., l'unico pubblicano fra i Dodici, aveva pur nome Levi: conclusione ammessa comunemente. Due nomi diversi non sono rari nei documenti: Giovanni-Marco; Saul-Paolo; nei quali casi però un secondo nome è adottato per i rapporti col mondo ellenistico-romano; mentre Levi e Matteo (etimologicamente: "dono di Jahvè") sono ambedue ebraici. Vedi però anche I Maccabei, II, 2-5, per i figli di Mattatia; Giuseppe-Barnaba, in Atti, V, 36.
È congettura non inverosimile che Marco e Luca evitassero intenzionalmente l'indicazione della prima professione dell'apostolo: perché il titolo di "pubblicano" era talmente di disonore presso gli Ebrei che era divenuto equivalente di "peccatore" (Marco, II, 16: "Perché il vostro Maestro mangia e beve con pubblicani e peccatori", Matt., XVIII, 17: "Se non ascolti nemmeno la Chiesa, sia per te come un pubblicano e un peccatore"). M. invece, scrivendo di sé, non aveva questo ritegno, come non l'aveva S. Paolo nel confessare d'essere stato un tempo persecutore di Cristo.
In Marco e Luca alla vocazione di Levi segue il racconto di un banchetto da lui offerto, che dà occasione a critiche dei farisei e alla risposta di Gesù: "Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori".
Posta l'identità Levi = Matteo, si hanno due notizie indiziali sull'evangelista: egli doveva essere facoltoso e avere per lo meno una modesta cultura. Questa può spiegare come tra i Dodici fosse M. il primo a raccogliere in scritto il pensiero e la vità di Gesù. Chiamato all'apostolato a Cafarnao, era probabilmente d'origine galilea. Altre notizie mancano, o sono tardive e incerte. Secondo Clemente Aless. (Paed., II, 1) predicò 15 anni in Palestina. Eusebio e S. Girolamo, radunatori di tutta la produzione letteraria cristiana dei primi secoli, non sanno altri particolari, all'infuori che egli scrisse il Vangelo su terra e in lingua ebraica. Predicò in India secondo S. Efrem, in Etiopia secondo Rufino (Hist. Eccl., I, 9) e Socrate (Hist. Eccl., I, 19), in Persia secondo S. Ambrogio (In Ps., 45, n. 21). Gli antichi nulla conoscono del suo martirio. Le notizie sicure sono quindi quelle del Vangelo, benché egli mai vi si presenti.
Il Vangelo. - Ha due caratteristiche principali: la prima è la tendenza a radunare, in grandi raggruppamenti, gl'insegnamenti di Gesù, terminando con una formula che ricorre identica o quasi (v. sotto); la seconda è la cura di fornire le prove della messianità di lui col raffronto di testi profetici.
Tra i discorsi, il più importante è il "discorso del monte" o delle beatitudini. Esso comprende tre interi capitoli IV-VII) ed è presentato come il discorso programmatico del Maestro. In esso è la sostanza della nuova legge e della più abbondante giustizia che devono reggere il Regno di Dio che sta per cominciare.
Per questo, benché il discorso sia collocato al principio della vita pubblica di Cristo, tanto in Matteo quanto in Luca (che ha un discorso parallelo), gli ascoltatori sono un pubblico numerosissimo ed eletto "dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e dal paese di là del Giordano". È chiamato il discorso "delle beatitudini" perché comincia con l'indicare dove si trovi, contro le concezioni volgari, la beatitudine vera: e indica quella "via del Signore", caratteristica del cristianesimo che è inculcata nei primi documenti cristiani. Nella redazione di Luca è quasi scomparso il confronto della nuova Legge con l'Antico Testamento: Matteo invece mette tali rapporti in alto rilievo. Egli ha la netta visione che avviene qualcosa di nuovo nel mondo, e che vi splende una luce nuova la quale non potrà rimanere velata, come non può nascondersi una città collocata sopra un monte. La legge mosaica e le interpretazioni della "giustizia" farisaica sono superate in un insegnamento più perfetto; ma questo stesso è conforme allo spirito divino che aveva ordinato la Legge nella sua letteralità. Perciò Gesù nega di distruggerla, mentre suo fine è compierla. Qualcosa perisce e qualcosa comincia, rimanendo un elemento sostanziale di continuità. Si è talvolta veduto in Matteo uno spirito "giudaizzante". Le antitesi da lui conservate nel discorso del monte: "Voi udiste che fu detto agli antichi... Io invece vi dico" mettono in piena luce la novità dell'insegnamento di Cristo che spezza la corteccia di una religione strettamente nazionale e la rende atta per il mondo.
Non è lungi dal vero l'affermazione che il discorso delle beatitudini ha contribuito moltissimo al successo del cristianesimo e alla conversione delle genti alla sua dottrina: certo il Vangelo di Matteo deve a quel discorso il suo posto preminente nella tradizione cristiana. Il discorso che s'addentra senza esordio nel tema, ha, almeno nel primo capitolo, uno sviluppo logico, e le due parabole finali sono un'ottima conclusione.
La presenza però in Luca di ammaestramenti simili in luoghi e circostanze diverse mostra che a un nucleo iniziale si sono agglomerati detti spersi di Gesù, per affinità di tema o unicità di sentimento. La preghiera, ad esempio, "Padre nostro", inserita nel discorso da Matteo, fu secondo Luca insegnata più avanti a domanda dei discepoli, che ricordavano simile insegnamento di una preghiera da parte di Giovanni Battista. Da diversi indizî e raffronti è visibile in Matteo la tendenza a formare gruppi di sentenze, come anche di parabole e di miracoli.
Dopo quello delle beatitudini, i gruppi più amplî sono: le istruzioni date agli apostoli per una missione temporanea alle borgate palestinesi (IX, 35; X, 42); una serie di parabole sul "Regno dei Cieli", che trova un parallelo in Marco, ma è più ricca in Matteo (XIII); un'altra serie di istruzioni e parabole (XVIII) sulla valutazione delle grandezze nel "Regno dei Cieli", contro lo scandalo, sulla correzione fraterna con le parabole della pecora smarrita e dei servi debitori; un gruppo ancora di parabole (XXI-XXII), che s'incuneano nelle discussioni delle ultime giornate di Gesù a Gerusalemme; le invettive contro i farisei (XXIII); il discorso apocalittico che s'arricchisce e si amplia in nuove parabole (XXIV-XXV). Evidentemente l'autore intende dare il più preciso concetto dell'insegnamento di Gesù, radunandone aforismi e massime.
La premura con cui vengono raccolte le prove della messianità di Gesù, si rileva sino dalla prima pagina. Essa allaccia, con un ampio schizzo genealogico, la figura di Gesù con la discendenza di David e di Abramo: al primo, perché nella tradizione profetica il Messia è rampollo dell'antica dinastia davidica e l'appellativo "Figlio di David" è divenuto indicazione popolare di lui, come tale applicato a Gesù durante la sua vita; al secondo, perché in un testo che la teologia di S. Paolo sfrutterà ampiamente (Genesi, XII, 3; XVIII, 18: Romani, IV), è promessa nel seme di Abramo la benedizione a tutte le genti. Ma poi, metodicamente, sono rilevati i punti di contatto e d'accordo della vita di Gesù coi testi messianici. La prima apologia cristiana negli ambienti giudaici svolgeva ampiamente questo argomento: Matteo ne raccoglie l'eco.
In apparenza almeno, il Vangelo non presenta artifizî di compozione: in pochi libri come nei Vangeli, e in questo specialmente, la sostanza soverchia la forma. Vi si segue, in grosso, l'ordine cronologico; ma abbondano frasi come queste: "in quei giorni" (III, 1), "in quel tempo" (XII, 1), "E accadde, quando Gesù ebbe finito questi discorsi" (VII, 28; XI, 1; XIX, 1; XXVI, 1). Né sono dati espressamente punti cronologici di riferimento, quali si hanno unicamente in Luca. Ma il lavoro di scelta e ordinamento di un ricchissimo materiale di aforismi, parabole, ecc., non deve essere stato lieve, benché la persona dell'evangelista mai si presenti sulla scena.
Le origini del Vangelo. - Il Vangelo di Matteo è quello che ha esercitato maggiore influsso e lasciato più larghe tracce negli scritti dei Padri Apostolici. La Didaché (v. apostolo, III, p. 710), tracciando "la via del Signore" reca larghi estratti del testo di Matteo. Larghi brani sono pure riportati nella prima lettera di S. Clemente Romano ai Corinzî: citazioni sicure si trovano presso S. Policarpo, nelle lettere di S. Ignazio Martire e in quella detta di Barnaba.
La prima notizia esplicita relativa alle sue origini è data da Papia, dalla cui opera Esegesi dei detti del Signore Eusebio di Cesarea stralciò questo brano: "Riguardo poi a M. dice quanto segue: M. adunque raccolse in lingua ebraica i detti (τὰ λόγια) e ciascuno li interpretò (ἡρμήνευσεν) come ne fu capace" (Hist. Eccl., III, 39). La lingua ebraica in cui l'apostolo raccolse le massime di Gesù dovette essere quella allora corrente in Palestina ove Gesù insegnò, cioè l'aramaico, poiché l'antico ebraico era da secoli scomparso. Pochi pensarono che M. componesse il Vangelo nell'ebraico antico, perché usato di preferenza nei libri sacri: è ipotesi che manca di base documentaria e si mostra inverosimile.
Sfortunatamente l'opera, nella sua lingua originaria, andò ben presto perduta. Papia (o il suo informatore che probabilmente fu, come per notizie relative ad altri Vangeli, Giovanni "l'Anziano") l'aveva presso di sé, poiché può valutarne le versioni più o meno precise. Ma Panteno, avanti l'a. 200, ad Alessandria, dov'era maestro prima di Clemente Alessandrino nel celebre Didaskaleion, non la possedeva: Eusebio infatti (Hist. Eccl., V, 10) riporta che l'avrebbe trovata con meraviglia nell'India, da intendersi nell'Arabia Felice. S. Girolamo ebbe l'illusione di ritrovarla nella biblioteca di Cesarea: e ne ebbe sì viva emozione che s'affrettò a tradurre in greco il manoscritto trovato. Ma egli stesso presto si disingannò, e lasciò cadere il testo nell'oblio. Dovette trattarsi probabilmente di qualche Vangelo in uso presso cristianità palestinesi, quali l'apocrifo Vangelo secondo gli Ebrei e l'altro secondo gli Ebioniti; i quali, dai pochi frammenti conservatici, sembra fossero rifacimenti d'opera più antica. Il decadere delle comunità cristiane palestinesi e il prevalervi di sette eretiche che si formarono un proprio Vangelo (v. giudeocristianesimo) permise la scomparsa del lavoro dell'apostolo.
Gli scrittori e le chiese del mondo ellenistico e romano s'interessarono meno di esso, non solo perché la lingua in cui era scritto, dopo il distacco sempre più completo dall'ebraismo, era nota a pochissimi, ma anche perché ne possedevano il contenuto in versione greca, corrente dappertutto, come dicemmo, sino dal finire del primo secolo cristiano. Per la tradizione ecclesiastica infatti non sorge dubbio che il nostro Vangelo greco secondo Matteo non risponda per contenuto sostanziale all'opera scritta dall'apostolo in lingua aramaica. Ecco le testimonianze principali: S. Ireneo (presso Eusebio, Hist. Eccl., III, 1): "Matteo tra gli Ebrei nella loro propria lingua pubblicò anche uno scritto del Vangelo, mentre Pietro e Paolo a Roma predicavano e fondavano quella Chiesa"; Clemente Alessandrino parla senza ambagi dell'"Evangelo secondo Matteo", accennando alla lista genealogica che lo apre (Stromata, I, 21); Origene: "Come appresi dalla tradizione riguardo ai quattro Vangeli, che soli sono ammessi nella Chiesa universale senza controversia, il primo Vangelo fu scritto da M., prima pubblicano, poi apostolo di Gesù Cristo, che lo scrisse in lingua ebraica e pubblicò per i giudei convertiti" (presso Eusebio, Hist. Eccl., VI, 25). Similmente il Prologo monarchiano, col quale concordano in forme leggermente diverse altri prologhi al Vangelo: "Comincia il tema dello Evangelo secondo Matteo. Matteo tra i Giudei, come primo è posto nell'ordine, così primo scrisse il Vangelo in Giudea". Si veda ancora Tertulliano, Adv. Marcionem, IV, 2, e De Carne Christi, 22; Eusebio di Cesarea, Hist. Eccl., III, 24; S. Girolamo, De vir. ill., 3.
Nessun altro nome è accennato in documenti storici, né v'è traccia d'incertezza o di dubbio. Sembra quindi legittima l'induzione che la tradizione riferente l'autore del Vangelo fosse trasmessa alle diverse chiese col Vangelo stesso.
Tesi critiche. - La teoria oggi più corrente nella critica indipendente sulle origini del Vangelo di Matteo è quella denominata "delle due fonti". Essa lo considera infatti composto di due fonti precipue: d'una raccolta di sentenze di Gesù (λόγια), dovuta realmente all'apostolo, e del Vangelo di Marco che avrebbe prestato la trama dei fatti. Un redattore greco ignoto avrebbe unito, insieme con materiale proprio, questi due scritti e ne avrebbe formato il nostro primo Vangelo greco.
Alla prima fonte sono attribuiti i discorsi e le massime più importanti di Gesù, disseminate attraverso il racconto della sua vita. Alcuni tentarono ricostruirne il contenuto. Come criterio di selezione è posto che debbano in linea di principio risalire ai λόγια di M. quanti discorsi e sentenze il primo Vangelo ha in comune con quello di Luca, che avrebbe utilizzato la stessa fonte in forma diretta o indiretta. Sarebbe opera del redattore del Vangelo la fusione dei discorsi di Gesù con la vita di lui, presa e mantenuta nel proprio ordinamento dal Vangelo di Marco.
La teoria involve in pieno la questione delicata dei rapporti interni dei tre primi Vangeli (v. sinottici, vangeli). In appoggio ad essa vengono addotti questi argomenti principali. La prima testimonianza sull'origine del Vangelo, quella di Papia, parla di un'opera di M. scritta nella lingua degli Ebrei: tradizione passata a Ireneo, Clemente d'Alessandria, Origene, ecc. Ma Papia ne delinea il contenuto chiamandola τὰ λόγια, i detti: era quindi una raccolta di sentenze, piuttosto che un Vangelo. Inoltre M. nella sua forma attuale non è traduzione, ma opera originale greca, pur attingendo per le origini stesse dell'insegnamento di Gesù a fonti scritte od orali palestinesi. Le versioni erano usualmente allora servili, mentre il Vangelo ha spigliatezza e buon possesso del greco. Per l'ordine dei fatti Matteo segue strettamente Marco: ora è difficile supporre che un apostolo in un lavoro di getto seguisse l'opera d'un testimonio di seconda mano. Il confronto dei brani comuni induce a ritenere che Matteo abbrevia e smorza la vivacità di Marco. Infine comune a Matteo e Luca sembra essere una fonte fondamentale di sentenze di Gesù. Essa s'identificherebbe bene con la raccolta di M., da ambedue gli evangelisti incorporata in diverso modo e misura.
Una teoria più complessa circa le fonti di Matteo è stata svolta da B. H. Streeter (The four Gospels, Londra 1924): poiché a volte Matteo concorda con Marco parola per parola, e a volte sembra invece contaminare Marco con Luca; e poiché il fenomeno analogo (cioè qui concordanza quasi assoluta, là solo vaga somiglianza) si riscontra anche nei passi comuni a Marco e Luca e che, secondo la "teoria delle due fonti" deriverebbero dalla cosiddetta Quelle (Q.; v. sinottici, vangeli) si è supposto che Matteo abbia contaminato con questa una terza fonte, designata con M. (per il Discorso della montagna e il tratto XV, 21-28, vedi anche A. Pincherle, Il discorso della montagna, in Ricerche religiose, 1925) che si tende a identificare con la raccolta dei Detti aramaici.
Malgrado tali ragioni, l'esegesi cattolica segue i dati della tradizione, la quale, affermando essere di M. il Vangelo greco, suppone l'identità sostanziale di esso col lavoro originario di lui in aramaico. L'unanimità delle testimonianze delle diverse chiese nel sec. II difficilmente può essere spiegata come frutto d'un equivoco. Papia parla dei "detti" di Gesù, λόγια, raccolti da M. perché egli commenta tali detti nella sua Esegesi deí detti del Signore, ma non fornisce né il titolo né il contenuto completo dell'opera di M. Le traduzioni, come appare in Papia stesso, furono diverse: "Ciascuno le interpretò come poté". È quanto dire che l'opera di M. fu sottomessa a un lavoro complesso nelle comunità greche, in seguito al quale essa assunse una forma linguistica greca quasi indipendente; tale da lasciare l'impressione di scritto originario greco.
Per i rapporti di Matteo con Marco e Luca, v. sinottici, vangeli. L'esegesi cattolica tende sempre più ad ammettere che il traduttore greco di Matteo abbia avuto presente il Vangelo di Marco, ispirandosi ad esso per l'ordine e le forme linguistiche. La comunanza di materia con Luca, specialmente importante nelle parti dottrinali, fu variamente spiegata anche dalla critica indipendente. A varî documenti accenna il Prologo del terzo Vangelo, mentre alcuni dànno prevalenza alla tradizione orale.
Le fonti. - Quanto all'opera originale di M., scritta direttamente in terra e in lingua palestinese, da un apostolo chiamato al seguito di Gesù fin dagl'inizî della sua predicazione, pare che essa non dovesse avere fonti scritte a sua disposizione. Secondo la tradizione, M. per primo concepì il disegno di raccogliere in scritto il pensiero e la vita del Maestro: benché non sia inverosimile che qualche tentativo fosse stato già compiuto per l'uso della predicazione. Concretamente alcuni ritengono che anteriore all'opera di M. fosse già in uso un'apologia dell'opera di Gesù, consistente in una raccolta di paralleli (testimonia) fra le profezie dell'Antico Testamento e la vita di lui, a prova della sua messianità. Se non era scritta, la tesi col suo svolgimento, risalente nella sua sostanza a Gesù stesso e al suo ambiente, doveva nella continua polemica essere divenuta tradizionale: al pari dell'insegnamento del Maestro, che segnava, in contrapposizione alle scuole rabbiniche, la nuova "via cristiana".
Luogo e data d'origine. - Le più antiche testimonianze affermano che l'opera aramaica di M. diretta a Ebrei vide la luce in terra palestinese. Il contenuto lo prova. Nessun'altro Vangelo ha conservato alla parola di Gesù così stretti i vincoli che essa ebbe col giudaismo. Gli altri Vangeli, scritti per ambienti greci o romani, hanno smorzato nel linguaggio di Gesù quel colorito locale che esso doveva possedere. Quanto è polemica con le scuole rabbiniche e lotta contro abusi di correnti religiose, viene spesso tralasciato, o conservato in quanto la risposta di Gesù contiene un insegnamento universale. Le antitesi, ad es., della legge nuova di Cristo con l'antica sono nel discorso "delle beatitudini" omesse in Luca. In nessun Vangelo quanto nel primo è sviluppata la prova della dignità messianica di Gesù sui testi profetici ben noti e valutati dagli Ebrei.
Il primo Vangelo è cioè quale si doveva attendere in terra palestinese. È vero che ebreo-cristiani erano un po' dappertutto nelle chiese, anche in quelle fondate da S. Paolo. Ma quando Marco e Luca, ovvero Giovanni, scrivono a queste comunità, tengono miglior calcolo dell'ambiente cui si dirigono. La tradizione quindi dell'origine palestinese di M. ha un buon fondamento.
Nel fissare la data va tenuta distinta la prima origine del Vangelo dalla comparsa del testo greco. L'opera aramaica dové sorgere prima degli altri Vangeli: ma mancano punti più precisi di riferimento. Le date assegnate oscillano tra il 42 e il 50. Per il testo greco invece occorre scendere dopo il 60, se si tiene, come è tesi comune, che esso dipenda da Marco. Gli antichi scrittori ecclesiastici, che pongono come primo il Vangelo di Matteo, non distinguono sufficientemente tra l'opera originaria e la versione. Della prima parla certamente Ireneo nel testo riportato: secondo il quale M. scrisse il Vangelo in Palestina mentre Pietro e Paolo lo predicavano a Roma. Ma Pietro e Paolo si trovarono a Roma a epoche diverse; e probabilmente il testo, più che un sincronismo, intende segnalare il diverso campo di apostolato, rimasto per M. l'ambiente palestinese per il quale compose anche il Vangelo.
Varî critici ritardano la comparsa del Vangelo greco a dopo il 70 e alcuni sino al 90. Ma se era già avvenuta la catastrofe di Gerusalemme, non poteva nei discorsi apocalittici di Gesù non trasparire la profonda impressione lasciata dall'immane disastro della nazione ebraica: specialmente se si affermi che il Vangelo nostro non sia una versione per quanto libera, ma opera nuova concepita in greco. Nel discorso di Gesù sulla fine di Gerusalemme e del mondo la distruzione della città santa è ancora circondata dall'alone della fine cosmica che terminerà la storia umana con il giudizio divino.
Bibl.: Degli antichi Padri greci commentarono il Vangelo di Matteo: Origene, S. Giovanni Crisostomo, S. Cirillo d'Alessandria (rimangono frammenti), Teofilatto, Eutimio Zigabeno, le cui opere sono quasi tutte raccolte nella Patrologia Greca. Un commento di Pietro di Laodicea fu edito da C. F. G. Heinrici, Des Petrus von Laodicea Erklärung des Matth. Evangelium, Lipsia 1908. Fra i Padri latini: Vittorino di Petau, Fortunaziano d'Aquileia (a lui si devono probabilmente alcune esposizioni messe tra le opere di S. Girolamo), S. Ilario, S. Girolamo, Cromazio d'Aquileia. Nel Medioevo: S. Beda, Valafrido Strabone, Ruperto di Deutz, S. Alberto Magno, S. Tommaso d'Aquino e altri. Dopo il Rinascimento, Maldonato, Giansenio di Gand, Luca di Bruges, Salmerone, ecc. Indicazioni sono in ogni largo commento al Vangelo o nelle Introduzioni alla Bibbia.
Tra i cattolici recenti più notevoli: P. Schanz, Commentar über das Evangelium des heil. Matthaeus, Friburgo 1879; J. Kabenhauer, Evangelium secundum Matthaeum, voll. 2, 3ª ed., Parigi 1922; M.-J. Lagrange, Évangile selon Saint Matthieu; Malines 1927. Fra gli acattolici: A. Plummer, An exegetical Commentary on the Gospel according to S. Matthew, Londra 1915; Th. Zahn, Das Evangelium des Matthaeus ausgelegt, 4ª ed., Lipsia ed Erlangen 1922; Mc Neile, The Gospel according to St Matthew, Londra 1915; H. J. Holtzmann, Die Synoptiker, 3ª ed., Tubinga 1901; A. Loisy, Les Évangiles Synoptiques, Ceffonds 1907; E. Klostermann, Das Matthaeus-Evangelium, 2ª ed., Tubinga 1927-29. Contributi illustrativi oggettivi in H. L. Strack e P. Billerbeck, Das Evangelium nach Matthaeus erläutert aus Talmud und Midrash, Monaco 1922; H. J. Schonfield, An Old Hebrew Text of St Matthaeus, Edimburgo 1927. (V. inoltre gesù cristo e sinottici, vangeli).