Gregorio VII, santo
Papa (Sovana fra il 1025 e il 1030-Salerno 1085). Di nome Ildebrando, figlio di Bonizone, fu avviato alla vita ecclesiastica dallo zio, abate in Roma. Caro a Giovanni Graziano, ne fu cappellano quando questi divenne pontefice (Gregorio VI), e lo seguì in esilio dopo la sua deposizione. Dopo la morte di lui, Ildebrando compare ben presto, in posizione influente, al fianco di Leone IX, che lo nominò preposito (1050) al monastero di S. Paolo a Roma, arcidiacono e amministratore della Chiesa, incaricandolo (1054) di risolvere la difficile situazione creatasi in Francia per i contrasti intorno a Berengario di Tours e alla sua dottrina eucaristica. Morto Leone IX, Ildebrando continuò ad avere una certa importanza anche sotto i pontefici Vittore II, Stefano X, Niccolò II; tale importanza crebbe molto sotto il successore di Niccolò II, Alessandro II, che egli spinse a un’attività sempre più intensa diretta alla riforma della Chiesa e alla liberazione della Chiesa stessa da ogni soggezione al potere laico. Alla morte di Alessandro II (1073), la voce unanime del popolo designò pontefice Ildebrando, che prese il nome di Gregorio VII. Egli iniziò subito il suo programma di riforma della Chiesa (la «riforma gregoriana»), con piena consapevolezza della dignità pontificale, che trovò espressione nelle formule energiche e precise del Dictatus papae (quasi certamente l’indice di una collezione canonistica) composto tra il 1075 e il 1076 e costituito di 27 tesi. Vi si afferma la superiorità del papato su ogni autorità terrena e la sua indipendenza completa da ogni potere, si sostiene l’autorità diretta del papa sui vescovi, al di là di quella dei metropoliti, e la sua prerogativa di giudicare e condannare, senza poter mai esser sottoposto a giudizio, e perfino di deporre l’imperatore. Su queste basi G. iniziò la sua attività sforzandosi di far giungere in tutta la cristianità la sua voce e le sue esigenze per mezzo dei suoi numerosi legati: in particolare in Italia egli riuscì a ottenere e conservare l’amicizia della contessa Beatrice di Toscana e di sua figlia Matilde; più difficili invece i rapporti con i normanni, assai ostili, specialmente nei primi anni del pontificato. Convocò un concilio a Roma (1074), che riprese e continuò la lotta contro il clero simoniaco e concubinario, emanando disposizioni che suscitarono vivi contrasti in Germania (malgrado l’iniziale buona volontà di Enrico IV), in Francia e in Inghilterra. Un altro concilio (1075) ribadì le decisioni prese l’anno precedente, punì i riottosi e i ribelli, e sancì infine, con una decisione assai grave, la proibizione dell’investitura laica. Questa decisione, invisa a ogni sovrano laico, fu addirittura un motivo di conflitto in Germania, dove Enrico IV non voleva più limitazioni al suo potere sovrano. Tale contrasto, prima di idee e di concezioni, divenne poi lotta aperta: da un lato l’imperatore e i suoi seguaci dichiaravano che «un re non può essere deposto», dall’altro G. ribadiva che il pontefice ha il diritto d’ammonire, punire e deporre i sovrani colpevoli verso la Chiesa. Alla fine, sospendendo ogni discussione, Enrico IV, riunita una dieta a Worms, deponeva il pontefice, che a sua volta scomunicava Enrico IV e scioglieva i sudditi dal giuramento di obbedienza. Tale deposizione coincise con un momento assai difficile per la situazione interna tedesca, anche perché molti feudatari laici ed ecclesiastici, ostili a Enrico IV, ne profittarono a proprio vantaggio. L’imperatore però, con abile decisione, si presentò (1077) in veste di penitente a Canossa, castello della contessa Matilde di Toscana, dove allora si trovava G., e ottenne l’assoluzione dal pontefice, mentre la piena reintegrazione nei suoi poteri era condizionata al consenso dei grandi dell’impero. Poiché costoro si opposero con le armi, Enrico IV li batté più volte, né desistette dalla lotta quando fu colpito di nuovo dalla scomunica lanciatagli da G. e da un concilio a Roma (1080). Enrico allora piombò in Italia, ove trovò alleati anche fra gli ecclesiastici, si spinse fino a Roma, ponendovi un antipapa (Clemente III) e costringendo G. a rifugiarsi in Castel Sant’Angelo. Tale azione da parte di Enrico IV determinò, grazie anche all’amicizia di Matilde, l’alleanza di G. con Roberto il Guiscardo: questi, di fronte all’accresciuta potenza imperiale, reputò necessaria l’alleanza col papa, dal quale vide finalmente riconosciuta e accettata la sua politica antibizantina, concretatasi nella spedizione contro l’Albania. E proprio da milizie normanne G. fu liberato (1084) a Roma, quando Enrico IV e l’antipapa riapparvero minacciosi; G. credé bene lasciare la città ai normanni che la saccheggiarono e si ritirarono poi insieme con il pontefice a Salerno. Quivi G. morì nell’amarezza della solitudine. La tradizione gli pose sulle labbra le parole: «Ho amato la giustizia, ho odiato l’iniquità, perciò muoio in esilio», adattamento di un versetto dei Salmi (45, 8). Fu sepolto nella chiesa di S. Matteo a Salerno. G. ebbe rapporti più pacifici col potere politico degli altri Stati europei, a cui estese i principi che indirizzavano la sua azione nei rapporti con l’impero. Dappertutto egli chiese e ottenne, più o meno facilmente, la libertas ecclesiae; in alcuni Stati, come il regno d’Ungheria, i ducati di Polonia e di Boemia, il regno di Kiev, egli ottenne il riconoscimento dell’alta sovranità pontificia, sia per gli appoggi morali e materiali dati alla formazione di quegli Stati sia perché ai vari sovrani poteva apparire più utile appoggiarsi al papato per sottrarsi alla pesante tutela imperiale. G. si servì di questa sovranità sia per difendere i diritti della Chiesa, sia per la diffusione della fede in quelle regioni da poco conquistate al Vangelo. Fedele durante tutta la vita all’ideale di liberare la Chiesa dall’ingerenza del potere laico, sforzandosi di tradurlo in realtà contro ogni opposizione, G. fu l’iniziatore della concezione teocratica del papato. Fu proclamato santo nel 1606.