GIOVANNI Evangelista, santo
Nella Bibbia portano il nome di G. il IV Vangelo canonico, tre Lettere, delle quali la seconda e la terza brevissime, e l'Apocalisse (v.). Nelle lettere dominano gli stessi concetti e lo stesso stile del Vangelo, di modo che indubbiamente unico ne è l'autore.
G., originario di Betsaida, era figlio di Zebedeo agiato capo di pescatori, e fratello dell'apostolo Giacomo. Fu tra i primi chiamati all'apostolato da Gesù (Matteo, IV, 21) e tra i preferiti di lui, come fu più tardi tra le "colonne" della chiesa di Gerusalemme a testimonianza di S. Paolo (Galati, II, 9). Il IV Vangelo accenna ripetutamente a un "discepolo diletto", al quale sono riferiti alcuni degli episodî più salienti del Vangelo. Questo discepolo innominato che trae la propria designazione dal ricordo dell'amore di Gesù per lui, è della cerchia più intima dei seguaci di Gesù; egli inoltre doveva appartenere ai dodici apostoli scelti da lui. Quel discepolo è infatti tra i primi seguaci di Gesù, insieme con gli altri compaesani di Betsaida, Pietro e Andrea: ha anch'egli un fratello (Giov., I, 41), mentre due sole sono le coppie di fratelli nel numero dei dodici; all'ultima cena ha una posizione d'onore, poiché si trova al fianco sinistro di Gesù, sul triclinio, in modo da posare, chinandosi, il capo su di lui. Pietro prega lui di chiedere a Gesù il nome del traditore (XIII, 23-36). È ancora lui "noto al pontefice", che introduce Pietro nell'atrio del palazzo di Caifa (XVIII, 14). Si trova fra le donne e con la madre di Gesù sul Calvario, e a lui Gesù affida la madre sua, che rimaneva sola (XIX, 25-27). All'annuncio del sepolcro di Gesù trovato vuoto dalle pie donne, corre con Pietro al sepolcro (XX, 1-10): infine diviene sì vecchio che si divulga la voce avergli Gesù permesso di rimanere in vita sino al ritorno glorioso di Gesù stesso, voce che l'ultimo capitolo del Vangelo ha cura di correggere e spiegare (XXI, 20-25). Tali dati non possono convenire che a uno degli apostoli. Ora, molti di questi sono eliminati, perché menzionati esplicitamente dal Vangelo stesso: gli altri non possono avere probabilità alcuna, tanto che la tradizione è unanime per G. I dati quindi preziosi del IV Vangelo sul discepolo innominato vanno uniti con quelli dei tre Sinottici su G. l'apostolo. I Sinottici, d'altronde, come il IV Vangelo, mettono G. in una comunione intima con Gesù. Essi lo presentano fra i tre preferiti dal maestro (Pietro, Giacomo, Giovanni): ora il IV Vangelo mostra con i suoi particolari, col calore delicato del suo dire, il perché di quella predilezione.
Alcuni critici recenti (J. Réville, A. Loisy) hanno cercato d'interpretare il discepolo innominato come una figura ideale, priva di consistenza storica: esso sarebbe simbolo del discepolo perfetto. Ma in favore dell'individuazione stanno episodî così determinati, che non si comprenderebbero d'un personaggio simbolico: di lui viene delineata la vita dal primo contatto con Gesù (dove figura insieme con persone individuate, come Pietro e Andrea) sino alla resurrezione di Cristo, anzi sino alla sua decrepita vecchiezza. Ancora, un discepolo ideale avrebbe dovuto essere presente in molte altre scene, proprie del IV Vangelo e a cui il Vangelo annette speciale importanza dottrinale. Infine le narrazioni hanno l'impronta della realtà. Si è voluto, a esempio, interpretare simbolicamente la scena di Gesù morente che affida la madre al discepolo diletto, ritenendo che la madre rappresenti la sinagoga e il discepolo il cristiano fervente: sennonché, a parte che l'interpretazione letterale è enormemente più ovvia, sembra inevitabile attribuire un significato realistico alla frase: "e il discepolo la prese nella sua proprietà" ἐις τὰ ἴδια (Giov., XIX, 27).
Morto Gesù, G. era con Pietro quando questi guarì lo storpio (Atti, III-IV). Era a Gerusalemme quando vi salì Paolo verso l'anno dal racconto degli Atti, XV, che abbia parlato nella discussione sulla osservanza della legge mosaica. Secondo una tradizione fortemente attestata, egli venne relegato all'isola di Patmo sotto Domiziano; ebbe la visione dell'Apocalisse e vi scrisse le sette lettere iniziali di essa ai vescovi vicini a Efeso. La narrazione ch'egli fosse allora gettato in una caldaia d'olio bollente e ne uscisse più vegeto di prima, è presso Tertulliano ed è raccolta da S. Girolamo: ma manca d'altre testimonianze, e può essere originata dalla frase di Gesù ai due figli di Zebedeo, che entrambi avrebbero bevuto "il calice di lui". Preziosi e del tutto conformi all'animo di G., quale ci appare dal Vangelo e dalle lettere, sono i seguenti episodî conservati dalla tradizione. Uno narra che G., ormai vecchissimo e portato a braccia alle sinassi cristiane, soleva ripetere la sola frase: "Figliuoli, amatevi gli uni gli altri", e che a quelli che si lamentavano di questa monotonia di parole rispondeva: "Se questo solo si compia, basta". Un altro è relativo all'eretico Cerinto (v.): avendolo incontrato casualmente al bagno, G. fuggì per timore che i bagni cadessero (Ireneo, Haer., III, 3, 4; cfr. II Giov., 10-11: nec Ave ei dixeritis). Infine si narrava d'un giovane convertito dall'apostolo a Cristo, divenuto quindi brigante e raggiunto dal vecchio G. tra i monti dove si riparava, e di nuovo per mezzo di lui tornato a saggezza (Clemente Aless., Quis dives salvetur, XLII). Attorno alla vecchiaia dell'apostolo si andò cioè raccogliendo un ciclo di tradizioni le quali, degne di lui per il contenuto, tanto più devono essere conservate, in quanto nel IV Vangelo sorprendiamo l'idea, sorta fra i fedeli nel lentissimo declinare della sua vita, che egli dovesse sfuggire alla morte.
E. Schwartz espose per primo l'idea, accolta poi da J. Réville, W. Bousset, A. Loisy, A. Jülicher, che G. morisse in Giudea, a epoca imprecisata, ma avanti l'anno 70. Fondamenti precipui di quella tesi sono: 1. il testo di Marco, X, 39, secondo il quale Gesù aveva predetto che i due apostoli figli di Zebedeo avrebbero bevuto il calice ch'egli stesso berrebbe, e sarebbero battezzati del battesimo di cui egli sarebbe battezzato; 2. la testimonianza di Papia (verso il 130), quale ci è riferita nel sec. IX da Giorgio Monaco (v.). Ma la frase di Gesù in Marco è troppo generica per esigere un martirio di sangue per ambedue i fratelli. Il "calice" è simbolo anche di dolore e angoscia: le sofferenze dell'esilio di Patmo, se non si accetti la tradizione di Tertulliano del bagno nell'olio bollente, potevano esserne sufficiente avveramento. Se G. fosse già morto al tempo in cui Marco scriveva il proprio Vangelo, rimarrebbe incomprensibile il silenzio degli Atti, i quali pure narrano il martirio di Giacomo fratello di lui. La testimonianza di Papia non è conservata letteralmente, ed è priva del proprio contesto: è probabile che il testo originario parlasse di Giovanni Battista, dato che nel martirologio di Cartagine, la cui redazione finale è di poco posteriore al 505, sono uniti in una stessa frase Giacomo e il Battista per la ragione che entrambi furono uccisi dai Giudei. D'altronde, se Papia nei libri delle Interpretazioni dei detti del Signore avesse esplicitamente parlato della morte di G. apostolo, Ireneo che non solo studiò, ma valutò esageratamente l'opera di Papia, non avrebbe potuto affermare la lunga dimora di G. apostolo a Efeso e la sua morte sotto Traiano. Similmente Eusebio, che cercò in Papia la menzione di un altro Giovanni denominato il "presbitero", non rilevò l'affermazione della morte immatura di G. l'evangelista in terra palestinese. Infine non si potrebbe spiegare il sorgere, teste il IV Vangelo stesso, quindi nell'ambiente e nel periodo stesso delle sue origini, della leggenda d'una sua immortalità, collegata poi con un ciclo di altre tradizioni.
Il IV Vangelo. - Origine. - Questo Vangelo si presenta come opera di un discepolo diretto di Gesù, tra i primi chiamati alla sua sequela e ammesso all'intimità di lui. Né lo scrittore è da paragonarsi agli autori di vangeli apocrifi, i quali mettono in evidenza la propria personalità o ostentano un nome conosciuto e venerato; l'evangelista invece si mantiene anonimo, insinuandosi solo con la frase "il discepolo diletto" (non "prediletto", il che poteva esser forse poco riguardoso per gli altri discepoli): non si pone spettatore di nessuno dei grandi miracoli narrati, ma di minuti episodî d'intimo valore spirituale, se si eccettui il racconto di un'apparizione di Gesù risorto (XXI). Viene indicato qual testimonio per l'uscita di sangue e acqua dal costato aperto di Gesù morto (XIX, 35), e genericamente al termine del Vangelo: "noi sappiamo che la sua testimonianza è verace" (XXI, 24). Quel "noi" ha forse dato origine alla tradizione che i vescovi delle chiese vicine confermassero la sua autorità (Frammento Muratoriano, lin. 9-34). La frase sarebbe in tal caso posteriore al Vangelo, come una specie di sua autenticazione. L'uso del "noi" si può tuttavia spiegare altrimenti, poiché ritorna nelle Lettere, con significato personale: "Quel che fu da principio, quel che abbiamo veduto con gli occhi nostri, quel che abbiamo contemplato... " (I Giov., I, i).
D'altra parte il Vangelo rivela tale sincerità di sentire religioso e tale morale elevatissima, da non potersi attribuire a un falsario: tanto più che uno dei concetti preminenti tanto del Vangelo quanto delle Lettere è quello della "verità". "Dio è verità e i suoi adoratori lo devono adorare in spirito e verità"; Gesù si definisce "via, verità e vita"; dell'uomo retto si dice che "compie la verità".
Non mancano nel Vangelo stesso indizî notevoli che suffragano la sua origine apostolica. L'autore è palestinese, non un greco dell'Asia. Un forestiero, per quanto si supponga aver dimorato lungamente in terra palestinese, difficilmente poteva acquistare una conoscenza e un interesse così spontaneo a particolarità tanto minute di geografia e di costumi. L'evangelista muta con grande libertà rispetto ai Sinottici, il campo d'attività del Battista come di Gesù, creando non pochi problemi: ma nuove ricerche hanno dato valore ai suoi dati. Anche lo stile è ebraico più che non greco: vi si nota un frequente parallelismo simmetrico proprio della poesia ebraica; difetta l'uso sapiente delle particelle del discorso e del periodare di un pensatore e di uno studioso greco: i concetti sono ordinariamente giustapposti, senza che ne sia indicata la relazione che pure esiste: cosicché una delle maggiori difficoltà dell'esegesi del IV Vangelo è cogliere i nessi, che s'intravedono ma non sono espressi.
Con tali circostanze la tradizione presenta il nome di Giovanni l'apostolo. Occorre valutarla. Il Vangelo indubbiamente fu scritto a Efeso (Alessandria, suggerita dal Baur e dal Keim, o la Siria proposta dal Wittichen non hanno base né tradizionale né di critica interna). Ora, sono specialmente le tradizioni efesine o orientali quelle che testimoniano l'origine giovannea del Vangelo. S. Giustino, nato nel primo decennio del sec. II e dimorato varî anni a Efeso, dove scrisse e ambientò il Dialogo con Trifone ebreo, riporta frequentemente idee e brani del Vangelo; possiamo credere che Giustino l'includesse fra quei Vangeli che egli afferma essere letti nelle adunanze sacre, come per Roma testifica il Frammento Muratoriano. Ora, egli parla di "memorie di apostoli" sulla vita di Gesù: non solo, ma attribuisce all'apostolo l'Apocalisse e quindi indubbiamente il Vangelo. Vescovo d'Efeso nell'ultimo quarto del sec. II è Policrate, l'ottavo vescovo di sua famiglia, del quale conserviamo frammenti di una lettera scritta a papa Vittore per la questione sulla data della Pasqua (Eusebio, Hist. Eccl., V, 24, 1-7). Egli, esaltando i grandi nomi che hanno illustrato la chiesa efesina, vi annovera "Giovanni, che posò sul petto del Signore, che fu sacerdote recante il petalon e martire (o testimonio, μάρτυς) e maestro, e che morì in Efeso". È una gloria locale, fissata intorno a una tomba, resa celebre da scritti venerati nella chiesa universale, e coronata dalle leggende e tradizioni che abbiamo visto sorgere attorno alla figura dell'apostolo. La lettera è sottoscritta dai vescovi limitrofi, ed è documento ufficiale mandato alla chiesa di Roma in una discussione divenuta importante. Gli ornati simbolici, di cui essa decora la figura del discepolo, non possono togliere valore al nucleo della testimonianza.
Pure nativo d'Oriente è Ireneo, vescovo di Lione, le cui affermazioni hanno una speciale importanza perché se ne può indicare una delle fonti, cioè Policarpo, discepolo di Giovanni l'apostolo. In una lettera a un suo amico d'infanzia, Florino, egli scrive: "Perché io t'ho veduto, quand'ero giovinetto (παῖς), nell'Asia inferiore, presso Policarpo... Io mi ricordo meglio, infatti, di quei tempi che degli avvenimenti recenti. Perché ciò che s'apprende nella prima età cresce con l'anima e forma una sola cosa con essa: di modo che io posso dire in qual luogo il beato Policarpo sedeva a parlare, come entrava e usciva, e quali il carattere della sua vita, il suo aspetto fisico, i discorsi che faceva alla folla; come egli parlava delle sue relazioni con Giovanni e gli altri discepoli che avevano veduto il Signore, come ricordava le loro parole e le cose che egli da loro aveva udite raccontare sul Signore, sui miracoli come sul suo insegnamento: come Policarpo aveva ricevuto tutto questo dai testimoni oculari del Verbo di vita e lo ripeteva in conformità con le Scritture" (Eusebio, Hist. Eccl., V, 20, 5-6).
Che Policarpo parlasse dell'autore del IV Vangelo, è dimostrato dagli accenni al "Verbo di vita" di cui parla il IV Vangelo in proprio. Si è piuttosto cercato d'infirmare la testimonianza d'Ireneo insistendo sulla sua età fanciullesca: si trovava ai piedi di Policarpo, essendo παῖς. Il vocabolo, tenendo conto delle circostanze della testimonianza e dell'enumerazione delle età dell'uomo presso Ireneo stesso (Haer., II, 22, 4-5), deve designare un giovanetto tra i 15 e i 20 anni. Ma poi Ireneo essendo in rapporto, anche assente, con le cristianità orientali, dovette apprenderne la tradizione comune.
Il Frammento Muratoriano è testimonio importante del pensiero della chiesa di Roma. Si aggiungano le testimonianze di Clemente Alessandrino, di Origene, di Teofilo d'Antiochia, di Tertulliano, ecc. È più che probabile che S. Ignazio d'Antiochia conosca e usi il IV Vangelo, come possiamo desumere dalla mistica conforme a quella giovannea. Tale conformità si rileva pure nell'unica lettera che possediamo di S. Policarpo. Che Papia vescovo di Gerapoli in Frigia, il quale verso il 130 scrisse cinque libri, ora perduti, d'Interpretazioni dei detti del Signore, conoscesse il IV Vangelo lo si può considerare indubbio. Verso il 130 il IV Vangelo certamente era da tempo pubblicato. Per l'antichità della sua origine, oltre alle influenze rilevate sul pensiero di Policarpo e più ancora alle tracce nelle lettere di S. Ignazio, dobbiamo tenere calcolo dell'uso fattone dagli gnostici Valentino e Basilide, testimoniato largamente da Ireneo. D'altra parte, se aveva incontrato favore presso gli gnostici, per l'importanza in esso assegnata alla "verità", alla "luce", per il suo carattere intellettuale, non appaiono nel suo orizzonte i sistemi complicati della gnosi più tardiva. Ma non mancano prove dirette della conoscenza avuta da Papia del IV Vangelo. Egli riporta testi della I Giovanni, inscindibile dal IV Vangelo (Eusebio, Hist. Eccl., III, 39). Riferisce inoltre una frase di Giovanni a difesa del Vangelo di Marco, accusato di narrare in disordine i fatti della vita di Gesù (Eus., ibidem). Ora, mentre l'ordine dei fatti in Marco è comune sostanzialmente ai due Vangeli di Matteo e Luca, un ordinamento cronologico e geografico notevolmente diverso è invece dato dal IV Vangelo: sicché il contrasto risulta evidente. La difesa quindi del Vangelo di Marco non poteva spiegarsi che in un confronto col Vangelo di Giovanni stesso: scusando il disordine del Vangelo di Marco, Giovanni difendeva la propria cronologia. È probabilmente la difesa che riprende il Frammento Muratoriano, lin. 16-34: "sed et scriptorem omnium mirabilium Domini per ordinem profitetur".
Eusebio da un passo del prologo dell'opera di Papia dedusse la distinzione di due Giovanni, l'uno apostolo, l'altro denominato il "presbitero" ossia l'"anziano" (Hist. Eccl., III, 39). Al secondo Eusebio pensò che si dovesse attribuire l'Apocalisse, che gli sembrava per stile e animo non poter essere dello stesso autore del IV Vangelo. Le discussioni sul frammento di Papia per l'esistenza a Efeso di un "Giovanni presbitero" distinto dall'apostolo sono ancora oggi vivaci. Ma, supposta la dualità di personaggi omonimi, è un sopravvalutarne il significato l'attribuire a uno scambio di persone tutta la tradizione relativa alle origini del Vangelo. Se realmente Papia li distinse, per ciò stesso non li confuse: e non dové quindi originare da lui o dall'opera sua l'equivoco. Le tradizioni delle diverse chiese sugli autori dei Vangeli dovevano trasmettersi con i Vangeli stessi, avanti di essere ammessi alla lettura pubblica. D'altronde quel vecchio a cui il Vangelo stesso ci riporta come ad autore non si presenta come un discepolo della seconda generazione, per quanto autorevole, ma come uno dei primi chiamati dal Maestro, vissuto con lui nella più affettuosa intimità.
Oppositori del IV Vangelo furono nell'antichità un presbitero romano di nome Caio (sec. II), contro cui per altre idee, a quanto ci è noto, polemizzò Ippolito e, probabilmente sul tema stesso delle origini del Vangelo, l'autore del Frammento Muratoriano. A Caio forse devono connettersi gli Alogi, "negatori del Logos", di cui parla come d'una setta eretica Epifanio. Non appare però che la loro opposizione avesse origine da un esame dei dati tradizionali, ma piuttosto da divergenze dottrinali sopravvalutate. Gnostici e montanisti abusarono ampiamente del IV Vangelo, che poté quindi esserne messo in sospetto. Ireneo rilevava già l'esagerazione di tali metodici sospetti (Haer., III, ii, 9).
Singolarità del IV Vangelo. - Il IV Vangelo si distingue dai Sinottici specialmente nei punti seguenti:
a) Quadro cronologico e geografico. - I Sinottici presentano la vita pubblica di Gesù come svoltasi entro l'ambito di un solo anno: è narrata una sola visita di Gesù a Gerusalemme, ed è l'ultima, conclusa con la morte. Il IV Vangelo invece accenna a quattro visite a Gerusalemme, tre delle quali nelle festività pasquali (II, 13; VI, 4; XI, 55) e un'altra non sufficientemente determinata (V, 1; cfr. VI, 4): perciò la vita pubblica di Gesù durò due anni e mezzo, ovvero tre e mezzo, secondo l'interpretazione data all'inciso di V, 1: [ἡ] ἑορτὴ τῶν 'Ιουδαίων.
La divergenza fu nota nell'antichità; Ireneo accenna a sostenitori della tesi d'un anno solo: cfr. le critiche rilevate e risolte dal Frammento Muratoriano e prima da Giovanni presso Papia, sull'ordine del Vangelo di Marco. Ora, vi sono ragioni per affermare che la durata di un anno solo nei Sinottici è più un'apparenza di cui eran coscienti, che non la realtà. In Marco, II, 23 (Matteo, XII, 1-8; Luca, VI, 1-5), i discepoli di Gesù sono criticati perché svellono spighe in giorno di sabato; siamo quindi nell'estate. Alcuni capi seguenti, narrandosi il miracolo della moltiplicazione dei pani, si descrive la folla seduta sull'erba verde (Marco, VI, 32-44; Matteo, XIV, 13-21; Luca, IX, 11-17): è giunta quindi la primavera, e infatti il IV Vangelo noterà, narrando lo stesso miracolo, VI, 1-13, "era vicina la Pasqua dei Giudei". Ma si susseguono presso Marco stesso, e ancor più in Matteo e Luca, tanti avvenimenti, che è difficile ammettere che la Pasqua in cui morì Gesù cadesse due mesi dopo. È da notare poi nei Sinottici la frase di Gesù verso Gerusalemme: "quante volte volli radunare i tuoi figli come la chioccia i suoi pulcini e non volesti..." (Matteo, XXIII, 37; Luca, XIII, 34); ora, a prendere letteralmente il racconto dei Sinottici, Gesù non aveva ancora predicato a Gerusalemme. Si veda ancora la parabola in atto del fico disseccato: "sono tre anni che vengo a ricercare frutti da questo fico e non ne trovo" (Luc., XXIII, 7). Qual è il significato, se appena da qualche mese Gesù s'era manifestato? Né mancano altri indizî. Tali le relazioni con la famiglia di Maria e Marta di Betania, nelle vicinanze di Gerusalemme: poiché tutta la famiglia era già credente in Gesù, egli dovette rivelarsi nella Giudea: si spiegano allora i particolari della resurrezione di Lazzaro nel IV Vangelo. A Gerusalemme s'era già tramato, secondo i Sinottici, di sopprimere Gesù quando egli v'arrivasse: forse per riflesso indiretto dei soli fatti avvenuti nella Galilea?
Ora il IV Vangelo ci fa tornare a questo quadro più ampio, che i Sinottici stessi presuppongono. In tali condizioni il problema è piuttosto quello di capire perché i Sinottici abbiano concordemente ristretto quel quadro, che non perché l'abbia ampliato il IV Vangelo. Occorre ancora ricorrere alle spiegazioni sul disordine di Marco, date da Giovanni presso Papia.
Ciò spiega pure la divergenza del quadro geografico. Gesù fu più volte a Gerusalemme, vi predicò la sua dottrina, e vi fece le sue affermazioni, secondo che suppongono le parole di Gesù contro Gerusalemme nei Sinottici. Se Gesù voleva far prevalere la sua dottrina, poteva evitare volutamente Gerusalemme, centro di dottrina e di attività religiosa? Che valeva mandare i Dodici col buon annuncio dell'approssimarsi del Regno in tutti i villaggi e in tutte le città palestinesi, se non era diffuso nella capitale?
Come per l'attività di Gesù, così pure per Giovanni Battista il IV Vangelo allarga il quadro d'attività. Per un procedimento letterario comune, che deve essere analogo a quello che presiedette al raccogliersi dei fatti di Gesù entro l'apparenza di un anno, i Sinottici sembrano concludere l'attività del Battista col battesimo di Gesù. Nel IV Vangelo, il quale non limita questa azione lungo le rive del Giordano, ma designa luoghi come Beth-Abara e le acque di Ainon, viene narrato il naturale sviluppo di essa sino all'arresto del Battista, e Gesù stesso le dà il suo appoggio.
b) Fatti e discorsi. - Il IV Vangelo tiene a non ripetere i Sinottici precedenti, nei discorsi come nei racconti. Ha perciò miracoli in proprio: la conversione dell'acqua in vino alle nozze di Cana (II, 1-11); la guarigione del figlio d'un funzionario di corte (IV, 46-54), dell'infermo presso la piscina di Bethesda (V, 1-16), d'un cieco nato (IX, 1-41), la resurrezione di Lazzaro (XI, 1-46), l'atterramento dei soldati che s'apprestano a legare Gesù nel Getsemani (X, 4-VIII, 6); similmente il IV Vangelo ha apparizioni nuove di Gesù risorto. Oltre a questi fatti, espone molti particolari nuovi non miracolosi, ma di gran valore: tali la partecipazione di Gesù al movimento del Battista (III, 25-30), la lavanda dei piedi agli apostoli (XIII, 2-18), uno svolgimento più logico del processo di Gesù dinanzi a Pilato, la consegna della madre al discepolo diletto (XIX, 25-27), il crurifragium dei ladri crocefissi a fianco di Gesù, mentre rispetto a questo il centurione s'assicura della morte trafiggendogli il cuore con una lanciata (XIX, 30-37). Nei racconti paralleli si può notare come regola costantemente osservata che, dove i Sinottici concordemente lasciano nel vago le persone che hanno parlato e agito in particolari fatti, il IV Vangelo individua e nomina le persone: così Filippo e Andrea nella moltiplicazione dei pani (VI, 5-10); è Giuda quei che critica la donna che ha versato un alabastro di profumo sul capo di Gesù (XII, 1-8); è Pietro che sfodera la spada e tenta una resistenza al Getsemani, e Malco è il servo da lui mutilato d'un orecchio (XVIII, 10-11); alle donne gratificate dell'apparizione di Gesù risorto sostituisce, individuando, la Maddalena (XX, 11-17). Si può quindi affermare che l'autore, già conoscendo i Sinottici (o qualcuno di essi?) tende volutamente a non ripeterli, ma a completarli con elementi nuovi.
Particolare a Giovanni (VII, 53-VIII, ii) è anche l'episodio dell'adultera: in esso si narra che, condotta a Gesù un'adultera sorpresa in flagrante affinché egli sentenziasse l'applicazione della legge mosaica prescrivente la lapidazione, Gesù rispose che chi era senza peccato lanciasse la prima pietra; dopo la quale risposta gli accusatori si dileguarono. Sennonché la trasmissione manoscritta dell'episodio ha creato gravi difficoltà circa la sua provenienza. Moltissimi manoscritti o non contengono affatto l'episodio (così già i due più antichi unciali, Vaticano e Sinaitico), o lo riportano con segni speciali richiamanti in dubbio la sua spettanza al contesto. Così pure non hanno l'episodio molte versioni antiche (siriaca Peshiṭṭa, copto-sahidica, armena, ecc.), e non ne trattano nei loro commenti moltissimi Padri, specialmente greci. È anche certo che il passo manca in molti evangeliarî, perché di fatto non veniva letto nella liturgia a motivo del suo particolare carattere.
Anche i discorsi hanno, rispetto ai Sinottici, una singolarità di forma e di contenuto diversamente valutata. Invece di aforismi morali, di brevi concettose sentenze, si hanno ampî discorsi, frequentemente di contenuto teologico. Non che l'insegnamento morale sia diverso: l'insistenza sull'amore del prossimo presentato come distintivo del cristianesimo ci riporta all'animo di Gesù (XIII, 34-35). Ma l'autore è dominato da una preoccupazione dottrinale, dai concetti di "luce", "verità", "vita", dallo studio di definire i rapporti tra il Padre e il Figlio, che non diremo assenti dai Sinottici, ma che non vi si trovano in eguale grado. Le parabole tendono a svolgersi in allegoria, come le semplici comparazioni in metafore. Gesù, più spesso e più presto, si manifesta come Figlio di Dio. Mentre nei racconti dell'ultima cena i Sinottici narrano solo qualche episodio d'aspetto popolare ed espongono l'istituzione dell'Eucaristia senza un accenno di spiegazione o di preparazione da parte di Gesù, il IV Vangelo conserva invece sublimi espansioni del pensiero e dell'animo di Gesù, che sono l'esplicazione spirituale del rito nuovo. Anehe in quanto rappresentazione della dottrina e della figura di Gesù, il IV Vangelo si presenta come il naturale completamento dei Sinottici. Se è stato rimproverato al IV Vangelo di essere monotono e di rendere smorta, se anche più ieratica, la figura di Gesù, ciò è vero solo in parte. Indubbiamente i prevalenti e limitati concetti teologici, lo sforzo di mantenersi sempre nelle altezze rendono difficile e talvolta pesante la sua lettura: ma non manca certamente calore nell'autore discepolo, me non vuole per sé altro titolo che quello di "diletto", riporta la frase che Gesù avendo sempre amato i suoi li amò all'estremo (XIII, 1), riferisce il titolo d'amici dato da Gesù ai Dodici (XV, 13-15), e trasmette nei discorsi dell'ultima Cena la più sublime espressione della tenerezza, della delicatezza, dell'amore di Gesù per il Padre e per i suoi che lasciava nel mondo (XIII-XVII).
c) La mistica e la teologia. - G. presuppone la teologia di S. Paolo, senza imitarla formalmente. Nelle Lettere egli definisce Dio "carità", e lo poté dedurre dal concetto che Gesù diede del Padre e da quello della redenzione. Gesù nel IV Vangelo, se afferma la sua divinità, insiste sui suoi rapporti di Figlio col Padre in un modo non solo speculativo, ma con l'intimo affetto che il titolo di Figlio suppone. Importante pure l'idea che Gesù è la più limpida manifestazione della divinità, così che contemplando lui si vede il Padre (XIV, 8-13). Con l'idea del Logos (v.), concettualmente maturata dall'idea della Sapienza nei libri dell'Antico Testamento attraverso l'elaborazione paolina, e verbalmente presa dalla filosofia ellenico-alessandrina e dalla religiosità pagana, il Vangelo interpreta in modo accessibile a menti pagane la figura di Gesù, e darà l'abbrivo alla speculazione filosofica cristiana, di cui troviamo già accenni in S. Giustino e più tardi ampî sviluppi in S. Agostino, per non accennare alle farraginose speculazioni gnostiche.
Si tende ora a rintracciare in speciali correnti mistiche della religiosità pagana le origini di quel complesso concettuale di "luce", "verità", "grazia", "vita", ecc., che domina nel IV Vangelo come nelle Lettere, e che si afferma assente nell'ebraismo. Esso lungi dal rappresentare il linguaggio di Gesù, sarebbe una trasposizione del suo pensiero in un ambiente ideale nuovo. Occorre però meglio determinare la data d'origine di quella forma di religiosità. Il Poimandres, e in genere la letteratura ermetica cui si riferì il Reitzenstein, è redatta verso il finire del sec. II se non nel III, e solo mediante deduzioni di critica interna se ne rialza la data di brani o d'idee. Il tentativo di spiegare il IV Vangelo, in tutto o in parte, mediante la letteratura mandea, si può considerare fallito, poiché questi scritti sono tardivi e dipendenti dal Nuovo Testamento. Problematica è una mistica giudaica, dedotta più che altro dal mandeismo, benché taluni elementi, delle fonti stesse talmudiche, non vadano trascurati. D'altra parte, il mondo ideale gnostico, con le sue coppie concettuali, quali appaiono già all'inizio del sec. II in Valentino originario di Alessandria, presuppone idee che non possono spiegarsi completamente dal IV Vangelo. Ignazio, Policarpo, la mistica delle Odi di Salomone sembrano invece, come Giustino più tardi, dipendere dal IV Vangelo. Se a un dato punto della storia delle idee si trovano concezioni così diffuse da sembrare patrimonio comune, occorre tuttavia ricercarne le riposte origini in qualche personalità che le ha fatte prevalere. Il IV Vangelo deve essere la principale, se non l'unica, tra le fonti di quelle idee.
Rimane, delicatissimo, il problema: quelle concezioni si devono all'evangelista o a Gesù stesso? Noi apprendiamo l'anima ed il pensiero di Gesù attraverso il pensiero e l'anima del suo storico. Il IV Vangelo che si stacca come opera fortemente personale dalla trama comune dei Sinottici, rappresentanti la catechesi popolare dei primi decennî della predicazione cristiana, riferisce specialmente le manifestazioni di Gesù al ceto colto di Gerusalemme, e in genere va selezionando fra i ricordi quanto risponde allo scopo apologetico inteso dall'autore e meglio riproduce quel ritratto spirituale che l'animo suo alto e fine si è formato del Maestro, nella lunga meditazione del mistero cristiano.
Era capace il modesto figlio del pescatore di Betsaida di ambientarsi in questo mondo intellettuale e di trasformarsi in teologo, come di scrivere in greco? Lo si è spesso negato, ma senza ragioni sufficienti. Gli apostoli di Gesù, per quanto incolti, abbandonano la Palestina e vanno a cercare altre anime, e per conquistarle si sforzano di avvicinarle spiritualmente. Giovanni, il più giovane tra quelli che seguirono il Maestro di continuo nella vita pubblica, vergine allora e in perpetuo, era nell'età e nello stato di spirito più favorevoli a cogliere la verità e i sentimenti dell'animo di Gesù. È un'osservazione di antichi Padri e ha una rispondenza nella realtà. Lunghi decennî di meditazione amorosa e di sforzo per penetrare e fare penetrare il mistero cristiano in menti pagane dovevano renderlo idoneo a scrivere la "vita spirituale" di Gesù.
Patrono di molte città già dal Medioevo, G. è festeggiato nella chiesa latina il 27 dicembre (che originariamente era la festa dei Santi Giacomo e Giovanni), e nella chiesa greca il 26 dicembre; il suo martirio nella caldaia d'olio bollente è celebrato dai Latini il 6 maggio, mentre l'8 dello stesso mese i Greci festeggiano l'apertura della sua tomba a Efeso: questa festa ha particolare solennità presso i Maroniti. Varie città solennizzano altri giorni.
Lettere - I Lettera.- Dopo un breve esordio (I, 1-4), che ha spiccatissime affinità col prologo e l'epilogo del IV Vangelo, l'autore annunzia che Dio è luce, e che i fedeli devono camminare nella luce e nella verità (I, 5-10); essi devono conservare la carità (II, 1-11), non amare il mondo e gli eretici (II, 12-29). I fedeli sono "figli di Dio" (III, 1-2); perciò devono fuggire il peccato (III, 3-9), praticare la carità (III, 10-22), e credere nel "Figlio di Dio" (III, 23- IV, 6). La carità è già insegnata da Dio, che ha mandato il Figlio suo nel mondo per cancellare i peccati degli uomini (IV, 7-21). La fede in Gesù è principio di carità e di buone opere (V, 1-12). Epilogo parenetico alla fede e alle opere buone (V, 13-21).
In questa Lettera, V, 7, è contenuto nelle comuni edizioni della Volgata il celebre "comma giovanneo": Tres sunt qui testimonium dant in caelo: Pater, Verbum et Spiritus Sanctus, et hi tres unum sunt. Nessun codice greco (salvo quattro tardissimi, posteriori al sec. XV) ha questo comma; il quale è ignoto alle antiche versioni siriaca Peshiṭṭā, armena, alla massima parte dei manoscritti dell'antica latina (Itala) e della Volgata, non è mai citato da nessun Padre greco anteriore al sec. XII, né dai più dei Padri latini (compreso S. Agostino nel suo De Trinitate). Le prime testimonianze certe in favore del "comma" sembrano provenire dalla Spagna. Un decreto del Santo Uffizio del 13 gennaio 1897 dichiarava non potersi tuto negare né mettere in dubbio l'autenticità del comma. Una dichiarazione dello stesso Santo Uffizio del 2 giugno 1927 spiegava che il precedente decreto era stato emanato ut coerceretur audacia privatorum doctorum ius sibi tribuentium authentiam commatis Ioannaei aut dpnitus reiciendi aut ultimo iudicio saltem in dubium revocandi, ma non intendeva impedire che scrittori cattolici, scientificamente e prudentemente, in sententiam genuinitati contrariam inclinarent.
II Lettera. - È indirizzata a "ἐκλεκτῇ κυρίᾳ e ai figli di essa" (1), sotto il quale appellativo alcuni supposero che fosse indicata una "Eletta signora" ovvero una "eletta Kyria"; altri, invece, più numerosi, vi scorgono qualche chiesa dell'Asia Minore personificata in donna. L'autore esprime la sua gioia per la loro perseveranza nella "verità" (2-4), raccomanda la carità (5-6), e di guardarsi da seduttori eretici, che negano l'incarnazione di Gesù, evitandoli e negando loro anche il saluto (7-11). Egli verrà in persona a visitarli; frattanto invia i saluti dei figli di "eletta", sorella di lei (12-13).
III Lettera. - È indirizzata a un Caio, col quale l'autore si congratula perché cammina nella verità (1-4), ed esercita l'ospitalità (5-8): vi si rimprovera Diotrephes, capo della chiesa locale, perché non accoglie né l'autore né chi è in relazione con lui (9-10); si esorta a imitare il bene e si raccomanda Demetrio che riceve testimonianza dalla verità (11-14).
Bibl.: Degli antichi commentarono il IV Vangelo lo gnostico Eracleone (A. E. Brooke, The fragments of Heracleon, Cambridge 1891), Origene, Giovanni Crisostomo, Cirillo d'Alessandria, Teodoro di Mopsuestia (edito in siriaco da J.-B. Chabot, Parigi 1897). La parafrasi poetica di Nonno di Panopoli è ristudiata da J. Golega, Studien über die Evangeliendichtung der Nonnos von Panopolis, Breslavia 1930; altro commento d'un monaco della cerchia di Teodoro Studita (verso l'anno 809) è segnalato da K. Hausmann, Ein neuentdeckter Kommentar zum Johannesvangelium, Paderborn 1930. Fra i latini Agostino, Alcuino, Alberto Magno, Tommaso, Bonaventura, ecc. - Dopo gli Scolastici, i maggiori commentatori sono il Gaetano, Toleto, Maldonato, A. Calmet.
Dal sec. XIX comincia la critica della genuinità e del valore storico del IV Vangelo. Le tesi si svolgono in rispondenza al movimento della critica riguardo al cristianesimo. Per alcuni il IV Vangelo è uno scritto teologico e polemico, in cui la prima attesa cristiana è trasformata dalla filosofia di Filone o più ampiamente alessandrina, ovvero, come si è propensi a credere oggi, da correnti mistiche religiose diffuse. Non volendo negare la sincerità dello scrittore, molti considerano i racconti del Vangelo, miracolosi o no, come simboli usati dall'evangelista a rivestire dottrine religiose; "il discepolo diletto" sarebbe esso stesso un discepolo ideale. Così sostanzialmente, pur con molte divergenze, H. Holtzmann, Evangelium des Johannes, 3ª ed. curata da W. Bauer, Tubinga 1908; J. Réville, Le quatrième Év., Parigi 1901; A. Loisy, Le quatrième Év. 2ª ed., Parigi 1921. Meno trascurati i dati testimoniali e meno svalutato l'apporto storico da A. Harnack, Die Chronol. der altkirchl. Litteratur, I, Lipsia 1897, e da J. H. Bernard, Gospel according to St. John, voll. 3, Edimburgo 1928.
La tendenza a riconoscere elementi tradizionali e di prima mano nel Vangelo ha favorito gli studî per il discernimento delle sue fonti e per la dissezione del Vangelo, ma senza successo: v. B. Weiss, Das Johannesevangelium als einheitliches Werk, Berlino 1902; M.-J. Lagrange, in Rev. Biblique, 1924, p. 321 segg. L'ipotesi di un'origine aramaica del Vangelo, patrocinata da C. F. Burney, non ha trovato accoglimento, mentre si rileva sempre meglio l'origine palestinese dell'autore.
Un rinnovarsi della questione delle origini del IV Vangelo fu occasionato dalla scoperta delle Odi di Salomone: R. Harris, The Odes and Psalms of Solomon, Cambridge 1909; E. A. Abbot, Light on the Gospel from an ancient Poet, Cambridge 1912; J. Labourt e P. Batiffol, Les Odes de Salomon, Parigi 1911; L. Tondelli, Le Odi di Salomone, Roma 1914. Vennero poi usati gli studî sulla mistica pagana e sulle origini dello gnosticismo; ultimamente la versione tedesca degli scritti dei Mandei diede l'illusione del ritrovamento delle scaturigini della mistica del IV Vangelo: R. Bultmann, Die Bedeutung der neuerschlossenen mandäischen und manichäischen Quellen für das Verständnis des Johannesev., in Zeitschr. für die neutest. Wissenschaft, XXIV (1925), pp. 100-146; W. Bauer, Das Johannesevangelium, 2ª ed., Tubinga 1925; A. Omodeo, La mistica giovannea, Bari 1930; in contrario M.-J. Lagrange, in Rev. Biblique, 1927, pp. 321-349, 481-515; 1928, pp. 5-36; L. Tondelli, Il Mandeismo e le origini cristiane (Orientalia, n. 33), Roma 1928, e le decisive osservazioni di H. Lietzmann, in Sitzungsberichte d. preuss. Akademie der Wissenschaften, 1930, pp. 596-608. Per gli elementi di un misticismo giudaico, cfr. H. Strack e P. Billerbeck, Kommentar zum N. T. aus Talmud und Midrasch, II, Monaco 1924; a un misticismo giudaico, dedotto dal mandeismo, ricongiunge il IV Vangelo H. Odeberg, The fourth Gospel, I, Upsala 1929.
Parecchi critici acattolici rimasero invece fedeli alla tesi della genuinità: E. Abbot, External evidence of the fourth Gospel, Boston 1881; B. F. Wetscott, The Gospel according to St. John, ristampa, Londra 1919; A. Resch, Paralleltexte zu Johannes, Lipsia 1896; B. Weiss, Evangelium Johannis, Gottinga 1902; T. Zahn, Das Evangelium des Johannes, 3ª-4ª ed., Lipsia 1912; J. Drummond, The character and authorship of the fourth Gospel, Londra 1903; W. Sanday, The criticism of the fourth Gospel, Oxford 1905.
I critici cattolici, pur valutando con sfumature diverse la storicità dei racconti e soprattutto dei discorsi, misero in luce la tradizione antica. La singolarità della figura e dell'insegnamento di Gesù, rilevata dall'antichità, fu ordinariamente attribuita al carattere personale del IV Vangelo in confronto col carattere popolare delle comuni catechesi dei Sinottici; s'insistette sull'identità sostanziale delle affermazioni di Gesù sulla propria persona, sulla storicità delle figure minori del IV Vangelo, sulla conferma delle nuove scoperte ai dati geografici e storici: M. Lepin, L'origine du quatrième Évangile, Parigi 1907; id., La valeur historique du quatrième Év., voll. 2, Parigi 1909; J. Chapman, John the Presbyter and the Fourth Gospel, Oxford 1911; E. Tillmann, Das Johannesevangelium, 4ª ed., Bonn 1931; T. Calmes, L'Év. selon S. Jean, Parigi 1904; M.-J. Lagrange, Év. selon Saint Jean, Parigi 1925; J. M. Vosté, Studia Ioannea, Roma 1930. - V. inoltre alle voci gesù cristo; logos.