GIOVANNI Damasceno ('Ιωάννης ὁ Δαμασκηνός), santo
Padre e dottore della Chiesa, morto probabilmente il 4 dicembre 749.
Della sua vita - scartati i dati leggendarî di tardi biografi, quali il patriarca Giovanni (VI) di Gerusalemme (sec. X) - poco si sa: appartenne a ragguardevole famiglia cristiana di Damasco e il padre, Sergio, pare fosse logoteta, cioè esattore dell'imposta dovuta dai cristiani al califfo. Ereditò dall'avo il soprannome di al-manṣūr (il "vittorioso") trasformato da Costantino Copronimo in dileggio, attraverso un giuoco di parole (ebr. mamzer "figlio di matrimonio illegale"). Ricevette l'ordinazione sacerdotale dal patriarca Giovanni (IV) di Gerusalemme, prima del 726. Poiché sappiamo che raggiunse la vecchiaia, si può supporre che nascesse fra il 670 e il 680. Fu monaco nel convento di S. Saba e amico del patriarca di Gerusalemme; ma conservò rapporti col clero di Damasco. Combattuto aspramente dal partito iconoclasta e scomunicato nel conciliabolo di Costantinopoli, venne per contro esaltato dal VII concilio ecumenico (II di Nicea, 787) e fu venerato poco dopo la morte. I Sinassarî antichi e la chiesa greca lo commemorano il 4 dicembre; il Martirologio romano il 6 maggio (forse data della traslazione del suo corpo a Costantinopoli, tra il sec. XII e il XIV), fu proclamato dottore della chiesa universale da Leone XIII (19 agosto 1890), che ne fissò la festa il 27 marzo.
Gli scritti del Damasceno recano ancora le impronte di rimaneggiamenti, che non è improbabile fossero opera dell'autore. Difficile cosa è anche stabilirne la cronologia. Tra tutte, l'opera più celebre è la "Fonte della conoscenza" (Πηγὴ γνώσεως), vasta esposizione sintetica della teologia cristiana, che si compone di tre parti: la prima ("Capitoli filosofici", Κεϕάλαια ϕιλοσοϕικά) è un'introduzione generale, di carattere filosofico, con evidenti derivazioni da Aristotele e dai neoplatonici; la seconda ("Libro delle eresie" Περὶ αἱρέσεων ἐν συντομίᾳ) è una confutazione delle eresie, che per le più antiche riproduce il Panarion di S. Epifanio; la terza, ("Εκδοσις o "Εκϑεσις τῆς ὀρϑοδόξου πίστεως, Expositio fidei orthodoxae), in 100 capitoli, tratta della retta fede cristiana, incominciando da Dio. e dalla Trinità, e seguendo l'ordine del credo niceno-costantinopolitano. È opera dell'età avanzata, essendo posteriore al 742. Alla giovinezza appartiene invece l'Expositio et declaratio fidei, pervenutaci solo in una versione araba; altra professione di fede è il "Libretto intorno alla retta opinione" (Λίβελλος περὶ ὀρϑοῦ ϕρονήματος) scritto per un vescovo Elia, probabilmente un maronita monotelita, e da presentarsi al metropolita Pietro di Damasco. Ma la maggior parte degli scritti di G. ha carattere polemico: ricordiamo due trattati contro i nestoriani (uno pubblicato da F. Diekamp, in Theolog. Quartalschr., 1901, p. 555 segg.), due contro i giacobiti o acefali, uno abbozzo dell'altro, pervenutoci incompleto, ma integrabile per mezzo d'una versione araba; la lettera all'archimandrita Giovanni contro Pietro Fullone, il quale alla triplice invocazione del Trisagion aveva aggiunto le parole "che fu crocifisso per noi", riferendola quindi non alla Trinità, ma al solo Verbo; un trattato contro i monoteliti e i monofisiti; due (uno in forma di disputa, l'altro di dialogo) contro i manichei (pauliciani); altri scritti contro i musulmani e contro superstizioni popolari; infine i tre "Discorsi apologetici contro coloro che respingono le sacre immagini" (Λόγοι ἀπολογητικοὶ πρὸς τοὺς διαβάλλογτας τὰς ἁγίας εἰκύνας), di cui il secondo e il terzo ampliamenti e rimaneggiamenti del primo. Tra le opere d'altra indole sono da segnalare un Commento a S. Paolo, ricavato in gran parte dal Crisostomo, da Teodoreto e da Cirillo d'Alessandria; alcuni trattatelli ascetici; frammenti di catene; le Omelie (fra quelle pubblicate, solo alcune sono autentiche); infine la raccolta di testi scritturali e patristici, disposti alfabeticamente, pervenutaci in due versioni diverse e col titolo di "Paralleli sacri" (Τὰ ἱερὰ παραλληλα): sono rifacimenti dell'originale di G., che probabilmente s'intitolava solo Τὰ ἱερά "(testi) sacri". Altre opere sono inedite o si sono perdute, mentre alcune di quelle che recano il suo nome sono sicuramente spurie, e di altre si dubita. Per le opere poetiche, v. sotto.
La teologia. - Venuto quando l'epoca dell'elaborazione dogmatica era già chiusa e i grandi concilî avevano ormai dato le formulazioni dottrinali fondamentali, G. poco poté compiere di originale; il suo contributo personale più importante fu nel combattere i nuovi nemici della fede, i manichei-pauliciani, gl'iconoclasti e l'Islām. Ma nelle polemiche contro le eresie cristologiche, pur dipendendo in gran parte dai predecessori (soprattutto i Padri cappadoci del sec. IV, Leonzio di Bisanzio, S. Massimo, lo pseudo Dionigi Areopagita) riuscì a esprimere le dottrine tradizionali con maggior chiarezza e rigore, ad approfondire concetti, a introdurre precisazioni nella terminologia. Si può considerare come l'ultimo rappresentante della patristica greca; e dei Padri egli riecheggia le opinioni, ma non senza originalità. Secondo M. Jugie "si è fortemente esagerata l'importanza che G. attribuisce alla filosofia e la parte ch'egli le fa nell'esposizione del dogma. Non si potrebbe, a tale riguardo, paragonarlo a S. Tommaso d'Aquino. Quanto al suo aristotelismo, esso si riduce a ben poco. Attraverso il pseudo Dionigi e alcuni altri, passa nella sua opera altrettanto platonismo quanto aristotelismo e la dose dell'uno e dell'altro è ben piccola". Più difficile è valutare la sua efficacia: che in ogni modo fu grande sui teologi bizantini, come lo stesso Fozio e Michele Glica; e, in misura assai più limitata, si fece sentire anche in Occidente, attraverso la traduzione della Expositio fidei orthodoxae compiuta da Burgundio da Pisa.
L'argomento di cui si occupa con più amore è l'Incarnazione. Siccome le controversie precedenti, come G. riconosce, avevano avuto origine dal difetto di comprensione dei termini "natura" (ουσία) e "ipostasi" (ὐπόστασις), egli ribadisce e si sforza d'inculcare le sue chiarificazioni. "Ipostasi" è ciò che sussiste per sé, indipendentemente; la "natura" invece non ha esistenza indipendente, ma sussiste nell'ipostasi: è chiara qui l'ispirazione, in ultima analisi, aristotelica, mentre presupposto fondamentale è che soltanto l'individuo ha esistenza concreta. Ma vi è qualche cosa che - senza essere pura natura - non è neppure pienamente ipostasi, in quanto può comporsi con qualche altra cosa per dar luogo a una vera ipostasi: è τὸ ἐννπόστατον: ciò che ha la sua esistenza concreta soltanto nell'ipostasi. Unione ipostatica in genere è dunque per G. ogni unione per cui nell'unica ipostasi persistono unite, ma senza mutarsi o confondersi, diverse nature o anche una natura e un'ipostasi, che pertanto diventa "enipostato". Così anima e corpo sono per lui enipostati dell'unica ipostasi che è l'uomo; nel Cristo, invece, l'umanità è enipostata, ha cioè per ipostasi quella stessa del Verbo. G. sottolinea così il concetto che il Verbo si unì a una natura umana non già dotata di sussistenza indipendente, ma che trovò questa tale sussistenza soltanto nell'unione col Verbo. Quanto alla formula "unione per sintesi" (ἕνωσις κατὰ σύνδεσιν) essa significa che una sola ipostasi fa sussistere le nature unite: cioè in Cristo la Persona del Verbo tiene unite e fa sussistere insieme la natura divina e l'umana. Sicché si tratta veramente di Verbo incarnato, non di una carne umana indiata.
Di fronte all'imperversare dell'iconoclastia, G. difese il culto dei santi e delle immagini. I santi sono da venerare per la relazione speciale in cui si trovano con Dio; del pari le reliquie e le immagini, nelle quali rimane alcunché della grazia e del favore divino di cui furono insigniti i santi. Altri argomenti addotti contro gl'iconoclasti sono che essi violano la tradizione della Chiesa, che del resto il culto non va all'immagine bensì alla persona del santo, che l'Antico Testamento non vieta le "immagini" (εἰκόνες) bensì gl'"idoli" (εἴδωλα), infine la distinzione tra l'"adorazione" (λατρεία) riservata a Dio e la "venerazione" e l'"onore" (προσκύνησις, o προσκύνησις τιμητική: v. adorazione, I, p. 518 seg.) verso i santi, le reliquie, gli oggetti consacrati, ecc.
Su altri punti della teologia G. si sofferma meno a lungo; solo è da osservare ch'egli è in un certo senso un teologo antiquato: gli nuoce cioè il non aver conosciuto - eccetto il Tomo di S. Leone Magno - gli Occidentali e in particolare S. Agostino. Per ciò che riguarda lo Spirito Santo, egli ammette una processione dal (ἐκ) Padre attraverso (διὰ) il Verbo: riconosce cioè al Verbo una mediazione tra il Padre e lo Spirito Santo, lasciando quindi la dignità di principio assoluto (non dipendente da altra persona) al solo Padre. Quanto alla soteriologia, G. riconosce la piena libertà umana, e distingue in Dio la prescienza dalla predestinazione; Dio prevede ciò che noi faremo, in quanto lo faremo. Si tratta cioè di una predestinazione susseguente la previsione dei meriti (post praevia merita). Le accuse di superficialità o addirittura di pelagianismo, mosse da alcuni (p. es., D. Petau) e le difese di altri, specie moderni (Jugie), sono forse, specie le prime, eccessive: storicamente è da considerare che G. fu tratto ad accentuare l'importanza e il valore della libertà umana dalla sua polemica contro il dualismo manicheo-pauliciano. Riguardo all'Eucaristia, G. formulò esplicito - circa un secolo prima di Pascasio Radberto - la dottrina che gli elementi, con l'epiclesi (v.) si trasformano (μετακοιοῦνται εἰς σῶμα καὶ αἶμα ϑεοῦ).
L'opera poetica. - G. si è acquistato, come Cosma il Melode, nome imperituro nella poesia liturgica bizantina, benché sia da ritenere non più autore, ma solo riformatore dell'Ottoeco (v.). Coltivò specialmente i canoni (v.), tra i quali sono da ricordare quelli giambici per Natale, Epifania e Pentecoste, in cui accoppiò il principio della prosodia con quello della ritmica accentuativa. Anche fra le strettoie di artifizî complicati e difficili non resta soffocato il calore del sentimento e lo slancio della fantasia. Quei pregi di precisa esposizione teologica che si ammirano negl'inni di S. Tommaso si ritrovano con più varietà ed elegante preziosità in quelli del Damasceno. Resta però da definire la paternità di molti inni con l'acrostico di G. e di talune opere attribuitegli, tra cui il romanzo di Barlaam e Josaphat (v.). Per l'eloquenza, a G. fu dato il titolo di Crysorrhoas (χρυσορρόας "dall'aureo flusso"). V. bizantina, civiltà: Letteratura, Musica, VII, pp. 153 e 166.
Ediz.: Le opere furono pubblicate da M. Lequien, Parigi 1712 e Venezia 1748; in Patrologia Graeca, XCIV-XCVI; dei canoni giambici, ed. A. Nauck, Mélanges greco-rom., Pietroburgo 1894; v. anche: F. Diekamp, in Theolog. Quartalschr., 1901, p. 555 segg., e 1903, p. 371 segg.; E. Bouvy, Anacréontiques toniques dans la Vie de Saint J. D., in Byzant. Zeitschr., 1893, p. 110 segg.; Hanssen, Über ein dem J. fälschlisch zugeschriebenes Gebet, in Philologus, suppl., V (1899), p. 210 segg.; sui Sacri paralleli, A. Ehrhard, in Byzant. Zeitschr., X (1901), pp. 396-415; M. Jugie, Remarques sur de prétendus discours inédits de Saint J. D., in Échos d'Orient, XVII (1922), p. 343 segg.; id., Le récit de l'Histoire enthymiaque sur la mort et l'assomption de la Sainte Vierge, ibid., XXI (1926); id., Une nouvelle vie et un nouvel écrit de Saint J. D., ibid., 1929, p. 35 segg.; C. Van de Vorst, À propos d'un discours attribué à Saint J. D., in Byzant. Zeitschr., 1914, p. 128 segg.
Bibl.: H. Lupton, in Diction. of christ. biogr., III (1882), s.v.; id., S. John of D., Londra 1882; Dyovouniotis, 'Ιωάννης ό Δαμ., Atene 1903; D. Ainslee, John of D., 4ª ed., Londra 1906; S. Vailhé, in Échos d'Orient, IX (1906), p. 28 (per la data della morte); V. Ermoni, S. J. D., Parigi 1904 (La pensée chrétienne: testi scelti e introduzione); J. Bilz, Die Trinitätslehre des hl. J. v. D., Paderborn 1909; fondamentale, pur invitando a qualche riserva, l'articolo di M. Jugie, in Dictionn. de théol. cathol., VIII, i, coll. 693-751; O. Bardenhewer, Gesch. d. altkirchl. liter., V, Friburgo in B. 1932, pp. 51-65.