DAMIANO, santo
Nato verso la metà del sec. VII, fu attivo fino ai primi anni di quello successivo. La sua forma;zione, i motivi della sua scelta religiosa, gli inizi della sua carriera di ecclesiastico non sono ben noti per la genericità delle espressioni usate dalle fonti a noi pervenute. Paolo Diacono dice soltanto che la sua santità si univa ad una certa cultura; il suo epitaffio fa pure allusione ai suoi talenti letterari ma accenna anche al fatto che egli era di origine greca od orientale, e che in ogni caso proveniva e si era formato in ambiente di cultura bizantina.
D. compare citato per la. prima volta nelle nostre fonti nel 679, l'anno successivo a quello in cui l'imperatore Costantino IV aveva chiesto al pontefice di inviare a Costantinopoli rappresentanti delle Chiese occidentali per un concilio ecumenico che avrebbe dovuto mettere: fine alla crisi provocata dal monotelismo, la dottrina che affermava che Cristo aveva due nature, ma una sola volontà. Nel 679, infatti, quando, nel quadro dei sinodi provinciali che si tennero in Occidente per preparare i lavori del successivo concilio ecumenico, anche Mansueto - l'arcivescovo di Milano che aveva chiuso l'esilio secolare della Chiesa ambrosiana rientrando, dopo la restaurazione del re Perctarit (671), nella sua sede metropolitica - riunì il suo clero ed i suoi suffraganei, D., aliora semplice chierico. ricevette l'incarico di redigere in greco la professione di fede diotelica approvata in questa sede e la lettera da inviare all'imperatore in cui quella professione fu inserita.
Questo documento ci è pervenuto. Costantino IV vi è invitato a imitare l'esempio degli imperatori di perfetta fede cristiana, Costantino e Teodosio; il sinodo vi proclama poi il suo attaccamento ai cinque concili ecumenici, quindi fa una lunga professione di fede nella Trinità, nelle due nature di Cristo e nel dogma dell'Incarnazione, prima di riaffermare (questo era il punto cruciale) l'esistenza di due volontà in Cristo. La lettera fu letta e approvata all'unanimità nel corso dei lavori del VI concilio ecumenico (III di Costantinopoli: novembre 680-settembre 681): la professione di fede in essa contenuta costituì, insieme con l'altra inviata dalla Chiesa di Roma con la synodica del 27 marzo 680 sulla materia controversá mandata dal papa Agatone, la base essenziale della condanna del monotelismo e dei monotelitici pronunziata da quel concilio. Tale successo spiega senza dubbio la leggenda tardiva, secondo la quale D. sarebbe stato inviato presso Giorgio, patriarca di Costantinopoli (679-686) per ricondurlo all'unione con Roma.
L'elezione di D. come vescovo di P.avia è posteriore al sipodo romano del 679-80 e dovette precedere immediatamente o seguire di poco la terribile epidemia di peste, che colpì Pavia, come Roma ed altre città d'Italia, nell'estate del 680.
Paolo Diacono, parlando del VI concilio ecumenico (III costantinopolitano) voluto da Costantino IV per risolvere definitivamente la questione dell'eresia monotelita, afferma (VI, 4), che "eo tempore Damianus Ticinensis ecclesiae episcopus sub nomine Mansueti Mediolanensis archiepiscopi hac de causa satis utilein rectaeque fidei epistolani conscripsit, quae in praefato sinodo non mediocre suffragium tulit". Prosegue quindi (VI, 5). narrando come "his temporibus per indictionein octavam" - e cioè nel periodo di tempo compreso fra il 1° sett. 679 ed il 31 ag. - 680 - si fosse avuta un'eclissi di luna di poco successiva ad un'eclissi di sole; e come, subito dopo questi due fenomeni astronomici, fosse scoppiata a Roma una terribile epidemia di peste, che infuriò nei mesi di luglio, agosto e settembre, e si propagò in un secondo tempo e con eguale violenza a Pavia. In quella città anzi, - riferisce Paolo Diacono - l'epidemia cessò solo quando, in ottemperanza a ciò che "cuidam per revelationem dictuin est", -non fu innalzato nella locale chiesa di S. Pietro in Vincoli un altare a s. Sebastiano, nel quale fu deposta una reliquia del martire traslata con ogni venerazione da Roma.
La tradizione agiografica pavese, d'altro canto, asserisce che il vescovo D., chieste ed ottenute dal papa reliquie di s. Sebastiano, le fece traslare a Pavia e le ripose in un altare che aveva dedicato, nella chiesa di S. Pietro in Vincoli, al martire romano. Con questo atto di pietà e con il voto di far celebrare ogni anno con la massima solennità dalla Chiesa pavese il dies natalis del santo, D. avrebbe ottenuto la grazia della cessazione dell'epidemia.
Secondo l'epitaffio di D., questo santo sacerdote, tra quanti nati in terra greca vivevano allora nella regione di cui è centro Milano ("... pre omnibus... quos sinus enutrit / Ligurie et gignunt quosquos Athenea rura"), preferì emergere per sapienza cristiana piuttosto che per l'importanza della posizione nella carriera ecclesiastica. Senza vantarsi di tale sua scelta, portava con umiltà i doni celesti: avrebbe anzi potuto ottenere, nel centro stesso della Chiesa, a Roma, di essere posto alla testa del popolo cristiano ("nec [est] se, cuin posset, ceteris preponere nisus i Ecclesie in arce"), ma preferì fuggire, anche se poi fu costretto ad accettare di divenire vescovo di Pavia. Lì, amministrando al suo popolo la mistica parola, rese illustre quella sede episcopale col suo esempio di vita ("... Fugiens, attamen coactus / sumpsit sacerdotium, et Verba Mistica plebi / ut bonus pastor erogans Ticinensem cathedram / decoravit moribus").
Dopo aver ricordato come D. non potesse ancora essere vescovo di Pavia nel marzo del 680, dato che fu il suo predecessore in quella sede, Anastasio, a sottoscrivere - tra gli altri suffraganei del vescovo di Milano Mansueto - gli atti dei sinodo, tenutosi a Roma in quell'anno sotto la presidenza del papa Agatone, in cui furono condannatele dottrine monoteliche; e dopo aver fatto notare come, morto il 10 genn. 681 il papa Agatone, la sede romana fosse rimasta vacante sin quasi alla fine dell'anno, quando fu eletto alla cattedra di S. Pietro Leone II, il Bognetti sottolinea la congruità esistente non solo tra i diversi elementi biografici relativi a D. desumibili dalle fonti appena esaminate, ma anche fra questi elementi ed i dati cronologici risultanti dal quadro storico generale, con'cludendo che'tale congruità, se da un lato testimonia la piena attendibilità delle fonti stesse, suggerisce dall'altro una ricostruzione degli avvenimenti ed una valutazione della personalità e dell'opera di D. diverse da quelle tradizionali (Milano longobarda, pp. 190 s., 193). Premesso dunque che la "qualifica di vescovo ticinese... riferita a Damiano per l'anno 680" deve essere considerata "una anticipazione", lo studioso ritiene che D., greco di origine e di cultura, facesse parte di quel clero "decumano" in gran parte orientale per nascita e formazione, che Roma aveva inviato in diversi momenti con finalità missionarie a Milano e che il vescovo Mansueto, rientrato nella sede metropolitica dopo il secolare esilio genovese della Chiesa ambrosiana, aveva trovato impegnato in una vasta opera di evangelizzazione e di lotta contro il paganesimo e contro l'eresia ariana. Come avrebbe fatto un decennio più tardi per suo incarico il diacono Tommaso, dopo il sinodo pavese del 698, D. portò a Rorna "gli atti della sinodo milanese" da lui "stesi, come appunto dite Paolo Diacono..., per conto del metropolita Mansueto" (ibid., p. 193). A Roma si trovava - come attestano le fonti agiografiche - nell'estate del 680, quando scoppiò l'epidemia di peste. A Roma si trovava ancora ai primi di gennaio del 681, quando morì il papa Agatone: è questo infatti l'unico - momento in cui, non essendo ancora vescovo di Pavia e dipendendo come missionario dalla, Sede apostolica, poté essere stato proposto alla cattedra di S. Pietro, come riferisce il suo epitaffio. "Sarebbe stato", osserva il Bognetti (p. 192), "uno di più nella schiera dei pontefici di origine orientale o africana, che si susseguirono dal quarto decennio del sec. VII al quarto decennio del sec. VIII". Evitò con la fuga un compito, che sentiva troppo grande; non poté evitare invece - appunto per l'esperienza di missionario maturata a Milano - di essere inviato a Pavia, dove forse esercitò, come ipotizza il Bognetti (ibid.), presso quel presule funzioni vicarie. A lui, infatti, la tradizione attribuisce il merito di aver ottenuto dal papa e di aver portato da Roma a Pavia le reliquie di s. Sebastiano, da lui collocate nella chiesa di S. Pietro in Vincoli, ricevendo in tal modo la grazia della fine dell'epidemia. Alla morte del vescovo Anastasio, avvenuta nel 681 e probabilmente il 28 maggio, come vuole il cosiddetto "Catalogo Berretta", venne nominato a succedergli sulla cattedra pavese: missionaria era la sua formazione, e di un missionario aveva bisogno la capitale del Regno dei Longobardi, che "restava tuttavia il luogo di raduno dell'esercito che, più che eretico, continuava ad essere pagano, ed a Pavia erano possibili appunto i contatti fra i rappresentanti della Chiesa di Roma e quella di Aquileia" (ibid.).
D. fu certamente scelto e consacrato dalla Sede apostolica; e scelti e consacrati dalla Sede apostolica continuarono ad essere i vescovi di Pavia dopo di lui, anche quando "il metropolita milanese protesterà, perché gli si sottraeva un vescovo, da lui dipendente almeno dai tempi di Ambrogio. La cosa venne appunto da papa Costantino [I] dichiarata conforme ai canoni, in quanto i vescovi missionari dovevano, per vecchia norma canonica, essere consacrati per l'Occidente dai papa, e per l'Oriente dal patriarca di Costantinopoli" (Bognetti, pp. 192 s.).
Durante tutto il suo episcopato, D. dispiegò una fervida azione pastorale e missionaria in favore della pace civile e dell'ortodossia religiosa, assecondato in questo da un piccolo ma attivo gruppo di dotti chierici di cultura bizantina e romana, come i diaconi Barionas, il fratello di questo Tommaso e Giovanni. Una tradizione, che in verità desta dubbi, vuole che egli abbia anche svolto il ruolo di intermediario diplomatico fra i Longobardi e i Bizantini. È sicuramente attestato, invece, che nel 690, quando l'ariano duca di Trento e Brescia Alachi si impadronì del trono di Pavia, proclamandosi re dei Longobardi e obbligando Cuniperto, sovrano cattolico, a rifugiarsi in un'isola del lago di Como, D. venne a patti con l'usurpatore al fine di risparmiare i gravi lutti di una guerra civile alla capitale longobarda e, al suo clero. In tale circostanza egli incaricò infatti il suo diacono Tommaso di portare ad Alachi la sua benedizione e il suo ammonimento alla moderazione, che d'altra parte non fu seguito. La reazione ariana fu brutale, e D. e il suo clerofurono dunque costretti a sperare e a favorire il ritorno di Cuniperto. Quest'ultimo, una volta restaurato sul trono dopo la battaglia di Cornate d'Adda (693), non pare abbia conservato risentimento contro il vescovo compromessosi con l'usurpatore. Vediamo infatti i due uomini qualche anno più tardi agire insieme per il ristabilimento dell'unità delle Chiese d'Italia.
Già dal tempo di Ariperto (653-661) il vescovo Anastasio, predecessore di D., aveva operato in questo senso, abbandonando l'ariariesimo e passando all'ortodossia con i suoi fedeli. Restava da risolvere il problema dello átisma della Chiesa d'Aquileia, separatasi dalla Chiesa romana dopo la condanna pronunziata nel 553 dal V concilio ecumenico (II costantinopolitano) contro scritti - i così detti "Tre Capitoli" - di Teodoro di Mopsuestia, di Teodoreto di Ciro e del vescovo di Edessa Iba. Lo scisma dei "Tre Capitoli" aveva causato la divisione della diocesi di Aquileia in due osservanze, l'una ortodossa e l'altra scismatica, che fecero capo a due patriarchi e a due sedi metropolitiche distinte. Alla fine del sec. VII, quello dei due metropoliti che risiedeva in zona longobarda era ancora scismatico.
Verso il 698, un sinodo si riunì a Pavia, per iniziativa del re Cuniperto e sotto la presidenza di D. per risolvere il conflitto tricapitolino. Non osando disobbedire al sovrano che li aveva convocati nella capitale, sia il patriarca di Aquileia, che risiedeva in territorio longobardo, sia gli altri vescovi scismatici si presentarono al sinodo. Nel corso dei lavori D. fornì a quelli di Aquileia. pacate spiegazioni e l'intesa fu raggiunta. I vescovi scismatici sottoscrissero l'atto di unione all'ortodossia e alla Chiesa romana, che fu proclamata nel corso di, una cenmonia commovente e solenne. Rappresentanti del re dei Longobardi, della Chiesa di Aquileia e di quella di Pavia - questi ultimi erano il diacono Tommaso e il giurista Teodaldo - rimisero gli atti del sinodo, perché li approvasse, al pontefice Sergio I, che indirizzò i suoi ringraziamenti a Cuniperto, fece bruciare gli scritti scismatici e sanzionò ufficialmente la rinnovata unione delle Chiese d'Italia. Questo successo, nel quale D. e i chierici del suo entourage avevano avuto una pane decisiva, era tanto importante per il Papato, quanto per il re. Esso contribui ad aumentare il prestigio di Pavia, capitale del Regno, e quello della sua Chiesa, che era il centro dell'azione missionaria promossa da Roffia per la conversione dei Longobardi rimasti ariani o pagani. Quest'aumentata importanza della sede di Pavia è con ogni probabilità all'origine del privilegio, difficilmente databile, in virtù dei quale i suoi titolari ricevevano la loro consacrazione direttamente dal papa e non, più da coluì che, prima dell'invasione longobarda era stato, il loro metropolita, e cioè il vescovo di Milano.
L'episcopato di D. rappresentò anche il momento in cui il trionfo dell'ortodossia romana a Pavia si tradusse pienamente nell'organizzazione stessa della città. D. dedicò infatti, con rito esaugurale a s. Eusebio l'antica cattedrale ariana all'interno della città; fondò forse la chiesa di S. Michele, poi detto Maggiore; ripristinò, fuori della città, la chiesa di S. Vittore in Valle Vernasca e l'altra suburbana di S. Nazaro. In passato la sede del vescovo cattolico si trovava fuori delle mura, presso la chiesa dei SS. Gervasio e Protasio, mentre il vescovo ariano risiedeva all'intemo dell'abitato, presso S. Eusebio. D. fece costruire "intra muros" un nuovo palazzo vescovile. L'insieme delle costruzioni di questa domus era probabilmente situato a nord e ad est della basilica di S. Stefano, già esistente forse; nel sec. VI, che D. elevò a cattedrale.
Una tradizione attribuisce - ma a torto - a D. anche l'istituzione dell'uso secondo il quale uno dei cori della cattedrale doppia di Pavia serviva d'estate (S. Stefano) e l'altro d'inverno (S. Maria del Popolo). Questa seconda chiesa, con ogni probabilità, infatti, non fu consacrata che sotto il regno di Liutprando (712-744). È dunque la sola chiesa di S. Stefáno che D. elevò al rango di cattedrale.
Uno stabilimento termale, costruito egualmente per volontà di, D., completava senza dubbio questo complesso monumentale che costituì nel cuore della capitale longobarda un importante centro di amministrazione ecclesiastica e di cultura romana.
D. morì dopo trent'anni di episcopato, probabilmente il 12 apr. 710. Secondo il suo epitaffio, il suo corpo fu inumato "in aula Nazari", da lui fatta costruire in Pavia.
Le fonti dei Liber de laudibus civitatìs Ticinensis (1329) pongono invece la sua tomba nella chiesa dei SS. Cosma e Damiano costruita, secondo la tradizione, dal vescovo Crispino II nel sec. VI. Se dunque si identifica S. Nazaro con la chiesa suburbana dal medesimo nome, anteriore in ogni modo al sec. VII, bisogna supporre che D. non fece che restaurarla e che il suo, corpo fu traslato nella chiesa dei SS. Cosimo e Damiano prima della fine del sec. XIII. Poiché però l'"aula Nazari" dell'iscrizione parrebbe essere di piccole dimensioni, è egualmente possibile pensare che si tratti di una semplice cappella costruita da D. e annessa alla basilica dei SS. Cosma e Damiano.
Considerato ben presto, come santo dalla Chiesa di Pavia, D. fu inscritto nel Martirologio romano alla data del 12 aprile. Il suo corpo fu più tardi traslato nella cattedrale, nella cripta di S. Siro.
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