Cornelio, santo
Il Liber pontificalis, nr. 22, lo dice romano, «ex patre Castino». Fu eletto vescovo di Roma in un giorno imprecisato di marzo o aprile 251, dopo aver percorso, come si ricava da Cipriano (ep. 55, 8), tutti i gradi della gerarchia. L’elezione pose fine a un periodo di sede vacante prolungatosi per parecchi mesi, perché il predecessore Fabiano era stato messo a morte all’inizio della persecuzione di Decio (250) e la comunità cristiana di Roma aveva ritenuto opportuno soprassedere alla nomina del successore in attesa di tempi migliori. Perciò durante il tempo della persecuzione la comunità fu retta dal Collegio dei presbiteri. Terminata la persecuzione già prima che Decio fosse ucciso in battaglia dai Goti, si decise di procedere alla nuova elezione, che per altro riuscì contestatissima dato che due presbiteri della comunità romana, Novaziano e C., si affrontarono senza esclusione di colpi.
Al di là di evidenti antipatie personali, il contrasto era sollecitato da forti motivazioni d’ordine comunitario, provocate dalla questione dei lapsi, cioè dei moltissimi fedeli che durante la persecuzione avevano apostatato o comunque si erano compromessi con le autorità romane e, mentre ancora la persecuzione era in corso, già avevano cominciato a chiedere in gran numero e con insistenza di essere riammessi nella comunità dei fedeli. In essa, come in altre comunità cristiane (Cartagine, Alessandria, Antiochia, ecc.), si fronteggiarono in quella contingenza due tendenze, una rigorista, di chi a nessun costo era disposto a permettere la riammissione dei lapsi, e una lassista, di chi era propenso alla riammissione, a condizione che i lapsi espiassero la loro colpa con un congruo periodo di penitenza pubblica, da valutarsi, da parte della gerarchia, caso per caso; per altro, tra gli aderenti a questa tendenza non mancava chi era disposto ad accordare la riammissione ai lapsi praticamente senza pretendere alcuna concreta penitenza. Novaziano era dalla parte dei rigoristi, C. dei lassisti. I contrasti furono forti, e i contendenti cercarono appoggi anche in altre comunità: Cipriano, vescovo di Cartagine, il cui epistolario è fonte principale per la conoscenza di questi fatti, fu sollecitato in questo senso da una delegazione a lui inviata da Novaziano (ep. 44). Sul conto di C. furono messe in giro voci poco rassicuranti, la cui consistenza oggi non si è in grado di verificare: fu detto tra l’altro che al tempo della persecuzione egli era stato uno dei libellatici (ep. 55), cioè che si era procurato a pagamento il certificato (libellus) che attestava il suo atto di ossequio alle divinità pagane, un peccato meno grave di quello della piena apostasia, ma comunque tale che, se provato, avrebbe reso impossibile a un membro della gerarchia di conservare il suo ufficio e, tanto meno, di poter adire la dignità episcopale. Comunque, l’accusa meglio documentata, che in quella occasione gli fu mossa, fu di aver riammesso nella comunità Trofimo, un presbitero che aveva apostatato e, insieme con lui, molti altri. Cipriano (ep. 55) a questo proposito chiarisce che Trofimo era stato riammesso nella comunità solo in qualità di laico; che C. aveva preso questa decisione in accordo con altri colleghi; che la riammissione era sembrata opportuna in considerazione del fatto che insieme con Trofimo erano stati molti ad apostatare, disposti a rientrare nella comunità a patto che anche quello vi fosse riammesso. Di contro, a danno di Novaziano, al di là di generiche accuse di ambizione, si fece valere il fatto che era stato battezzato, a causa di grave malattia, per aspersione e non per infusione, con una prassi guardata con sospetto nella Chiesa antica.
Nonostante le accuse divulgate a danno di C., la maggioranza della comunità fu dalla sua parte, ed egli fu consacrato vescovo di Roma da sedici vescovi, forse il 6 o il 13 marzo 251; ma Novaziano non volle desistere e si fece ordinare da tre vescovi, e non pochi della comunità furono dalla sua parte, determinandone la frattura: ebbe così inizio lo scisma novazianeo. Di fronte alla scissione, la Chiesa di Cartagine in un primo momento preferì temporeggiare: Cipriano non volle prestare ascolto alla delegazione che Novaziano gli aveva inviato, e invece inviò lui alcuni colleghi africani a Roma per rendersi conto direttamente della situazione e cercare di riportare la concordia. Nel frattempo le lettere ufficiali inviate da Cartagine a Roma furono indirizzate al Collegio dei presbiteri, del che C. ebbe a lamentarsi con Cipriano (ep. 48). Finalmente i vescovi africani tornarono a Cartagine: la loro iniziativa pacificatrice non aveva avuto successo, ma comunque essi sul posto si erano convinti della regolarità dell’elezione di C. e perciò dell’irregolarità perpetrata da Novaziano. A questo punto Cipriano si decise a favore di C. e lo appoggiò con grande energia presso vari colleghi che erano tuttora titubanti, manifestando l’avversione più completa nei confronti di Novaziano. Al di là della più o meno regolare elezione dei due candidati, Cipriano era sollecitato a favore di C., piuttosto che di Novaziano, perché egli stesso nel trattare a Cartagine e nelle altre sedi di Africa e Numidia la questione dei lapsi, si era alla fine deciso a favore di una soluzione moderata, che contemplava, a determinate condizioni, la riammissione di quanti avessero, chi in un modo chi in un altro, ceduto alla pressione dei persecutori. Dal complesso di tutti i dati che vengono dalle lettere di Cipriano e da altre fonti si ricava l’impressione che C. avesse adottato, nei confronti dei lapsi, provvedimenti un po’ più lassisti di quelli presi da Cipriano: ma senza dubbio questi era meno lontano dall’atteggiamento di C. che non da quello di Novaziano. Anche Dionigi ad Alessandria si regolava sullo stesso metro, e perciò anch’egli si allineò con C. e così la maggioranza dei vescovi della cristianità. L’unica eccezione di gran peso che si conosce fu quella di Fabio, vescovo di Antiochia, un rigorista, perciò più portato a favore di Novaziano, al quale C. indirizzò una lunga lettera violentemente polemica nei confronti del suo avversario, di cui Eusebio (Historia ecclesiastica VI, 43) ha riportato ampi stralci: non sembra che questa lettera abbia avuto buona accoglienza da parte di Fabio; comunque questi morì da lì a poco, e il suo successore Demetriano si schierò senza difficoltà sulla linea di Dionigi e di Cipriano. L’appoggio di Cipriano fu particolarmente importante per il trionfo definitivo della causa di C., non soltanto perché con lui si allinearono tutte le Chiese africane ma anche perché egli si adoperò attivamente a favore di quello che considerava il legittimo vescovo di Roma. Anche per sua insistenza rientrarono nelle file della comunità cattolica di Roma alcuni fedeli, tra cui il presbitero Massimo, che si erano illustrati per la loro fermezza nella persecuzione, e perciò godevano di grande prestigio presso i fedeli di Roma, e che in un primo momento avevano aderito alla parte di Novaziano. Riferisce del loro rientro nella comunità cattolica una lettera dello stesso C., indirizzata a Cipriano e conservata nel suo epistolario (ep. 49). Nella lettera è riportata letteralmente la dichiarazione che essi fecero in pubblico al momento della riammissione, riconoscendo C. quale vescovo della Chiesa cattolica eletto da Dio onnipotente e da Cristo signore, ammettendo di essere stati fuorviati dalla perfidia e dalla loquacità di Novaziano ma dichiarando che in spirito essi avevano voluto sempre appartenere alla Chiesa: «Sappiamo che uno solo è Dio Signore onnipotente, uno solo Cristo Signore, che abbiamo confessato, uno solo è lo Spirito Santo, e nella Chiesa cattolica ci deve essere un solo vescovo». Rinforzata così la propria posizione, C. fu in condizione di riunire a Roma, nell’ottobre del 251, un concilio cui presero parte ben sessanta vescovi italiani, oltre a molti presbiteri e diaconi: il concilio confermò le misure che erano state già adottate, a Roma come anche a Cartagine, a favore dei lapsi e ratificò la scomunica di Novaziano, il quale per altro non desistette affatto dal suo atteggiamento contestatore. L’esito del concilio fu comunicato da C. a Fabio, nel tentativo di trarlo dalla sua parte, tramite la lettera già sopra ricordata e conservata da Eusebio (Historia ecclesiastica VI, 43). Di qui, oltre a varie notizie su Novaziano anteriori allo scisma, si apprende che in quel tempo, cioè alla metà del III secolo, nella Chiesa di Roma erano attivi quarantasei presbiteri, sette diaconi, sette suddiaconi, quarantadue accoliti, cinquantadue esorcisti, e che la comunità soccorreva regolarmente millecinquecento tra vedove e indigenti; è questo il dato numerico più attendibile che si conosce su Roma cristiana nel mondo antico, tale da evidenziare una comunità ormai molto numerosa, oltre che bene organizzata: si è ipotizzato che l’intera comunità contasse allora trentamila fedeli (qualche studioso ha calcolato addirittura cinquantamila).
Nell’anno successivo, il 252, fu C. che ebbe occasione di appoggiare Cipriano in una questione interna alla Chiesa di Cartagine. Quando Cipriano, poco tempo prima della persecuzione di Decio, era stato eletto vescovo non molto tempo dopo la conversione, cinque presbiteri di Cartagine, tra i quali Novato e Fortunato, non ne avevano accettato l’elezione e gli avevano rifiutato obbedienza. Essi avevano ordinato diacono il laico Felicissimo, che da questo momento era diventato il principale esponente dell’opposizione a Cipriano. Durante la persecuzione, profittando del fatto che Cipriano per sicurezza si era allontanato da Cartagine, essi avevano sollecitato i fedeli a disattendere le sue prescrizioni ed erano stati tra coloro che avevano sostenuto la riammissione dei lapsi senza l’obbligo di una previa congrua penitenza. Perciò Cipriano li aveva condannati e un concilio di vescovi africani, riunitosi nel 251, aveva confermato la condanna. Mentre nel frattempo Novato si era recato a Roma e, paradossalmente, aveva preso le parti di Novaziano, il gruppo degli scismatici aveva eletto vescovo Fortunato, e con lui Felicissimo e alcuni altri aderenti si erano recati a Roma per cercare di far approvare da C. l’elezione episcopale. Dall’epistola 59 di Cipriano, di risposta a una di C., si apprende che Felicissimo e una «caterva desperatorum» che lo accompagnava avevano cercato di forzare la mano a C., minacciandolo di leggere pubblicamente la lettera che recavano con sé, se questi non l’avesse accettata: ma C. non aveva prestato loro ascolto e li aveva fatti scacciare dalla Chiesa. Dopo questi fatti non si ha altra notizia dello scisma di Felicissimo, mentre invece quello di Novaziano, ben altrimenti motivato (anche se, come si è visto, perdeva a Roma qualche aderente della prima ora), non solo continuava ma si diffondeva ampiamente anche fuori d’Italia. Mentre C. era alle prese con lo scisma, ci fu una nuova breve ripresa di persecuzione, a opera del successore di Decio, Triboniano Gallo. Costui appena salito al trono si era mostrato benevolo verso i cristiani, ma verso la fine del 251 una terribile pestilenza cominciò a devastare varie regioni dell’Impero, per cui l’imperatore indisse sacrifici generali di espiazione. Questa circostanza acuì a Cartagine l’odio per i cristiani da parte della massa dei pagani, convinta che la peste fosse una punizione divina sollecitata dall’empietà di quelli, e provocò tumulti popolari contro di loro. In questa occasione C. fu inviato in esilio (252) a Centumcellae (Civitavecchia), dove morì nel giugno del 253. Dato che non si ha altra notizia della persecuzione a danno dei cristiani in questa occasione all’infuori delle lettere di Cipriano (59 e 61), si è pensato a un movimento popolare anticristiano ristretto a Cartagine e si è ipotizzato che la relegazione di C. debba essere collegata con i disordini provocati nella comunità cristiana di Roma dallo scisma novazianeo. Ma quanto si legge nell’epistola 60 di Cipriano, che parla di un violento terrore che aveva turbato «Christi castra» ed esalta la fermezza manifestata, in questa occasione, da C. e dall’intera comunità, che si era stretta con un solo animo e una sola voce intorno a lui («Dum apud vos unus animus et una vox est, ecclesia omnis Romana confessa est»), fa piuttosto pensare che la violenza della folla a danno dei cristiani si fosse esercitata anche a Roma, e allora l’esilio comminato a C. si presenta come un provvedimento anticristiano grazie al quale l’autorità aveva cercato di placare quella manifestazione di violenza. C. fu sepolto nel cimitero di Callisto.
Dal Liber pontificalis (I, p. 151) si apprende che le spoglie di C. furono deposte in un’area sepolcrale prossima al cimitero di S. Callisto sull’Appia: «Cuius corpus noctu collegit beata Lucina cum clericis et sepelivit in crypta iuxta cymiterium Calisti, via Appia in praedio suo XVIII kal[endas] octob[res]». La figura della pia donna Lucina, che peraltro occorre anche in relazione alle sepolture di Pietro e Paolo, è ovviamente un elemento leggendario. È invece storicamente fondata e archeologicamente documentata in tutti i suoi dettagli la sepoltura di C. realizzata in un cubicolo (L) di una piccola area sepolcrale, a nord-est del cimitero di Callisto, già attiva alla fine del II secolo. Il sepolcro contestualmente all’epitaffio che lo accompagnava fu ritrovato da G.B. de Rossi tra il 1849 e il 1852: una sepoltura a mensa chiusa da una iscrizione lapidaria che reca «Cornelius martyr / ep[iscopus]» (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, I-X, a cura di G.B. de Rossi et al., Romae-In Civitate Vaticana 1922-92: IV, nr. 9367). In questa iscrizione vanno rilevati alcuni elementi di non secondaria importanza che almeno in apparenza risultano incongrui rispetto alla prassi epigrafica dell’epoca: in primo luogo l’uso della lingua latina quando tutti gli epitaffi superstiti dei papi del III secolo sono costantemente scritti in greco (da Ponziano a Caio: ibid., nrr. 10670, 10558, 10694, 10645, 10616, 10584); in secondo luogo l’impiego dell’epiteto «martyr» che infatti, sebbene assolutamente contestuale al resto dell’iscrizione, esercitò a lungo l’acribia di G. Wilpert che tentò di dimostrare un suo inserimento successivo: nell’epigrafia martiriale il titolo «martyr» è infatti attestato solo dall’inizio del IV secolo (all’indomani della persecuzione dioclezianea), come per esempio dimostrato eloquentemente dall’epitaffio di s. Giacinto pervenuto in originale (ibid., X, nr. 26662). È evidente che questi elementi potrebbero portare alla conclusione che l’epitaffio di C. non sia coevo alla sua deposizione ma che sia stato redatto e inserito successivamente (al tempo di Damaso?). A partire dal IV secolo la tomba di C. fu oggetto di particolari cure da parte dei pontefici romani. Damaso soprattutto, come anche descritto in un epigramma appositamente composto in onore di C., pose mano ad alcune opere strutturali che previdero l’ampliamento della galleria che conduceva alla cripta, la realizzazione di un lucernario e la creazione di una scala che dal sopratterra permetteva di raggiungere direttamente la tomba venerata: «[descenso extruc]to teneb[risque fu]gatis» dice Damaso a sintetizzare l’essenziale del suo intervento (ibid., IV, nr. 9368). Successivamente si registra un ulteriore intervento (non meglio precisabile) ad opera di Siricio come sembra testimoniare un frammento di epigramma ancora sul luogo sotto la sepoltura di C. (ibid., nr. 9369); nel primo trentennio del V secolo si realizzò poi una basilica sopratterra per iniziativa di Leone I (Liber pontificalis [I, p. 233]), ma di essa finora non è emersa alcuna evidenza archeologica. Il culto di C. ebbe uno sviluppo immediato e di esso sussistono importanti testimonianze. Una delle più antiche, di carattere privato, è l’iscrizione di tale Serpentius che, verso l’inizio del V secolo, acquista dal fossore Quintus una tomba (una delle tante ad sanctos) nell’area di papa C.: «Serpentiu|s emit loc|m a Quinto | fossore ad santum Co|rnelium» (Inscriptiones Christianae, IV, nr. 9441). Altre rilevanti testimonianze cultuali si colgono inoltre nella presenza accanto alla sua sepoltura di una mensa oleorum (o, secondo alcuni, di un supporto per i pasti funerari) e di pitture ad affresco della metà del VII secolo che raffigurano C. con vesti ecclesiastiche (tunica talare, dalmatica, casula) e insegna vescovile (pallio bianco) insieme a s. Cipriano. Sui bordi di queste pitture così come sulla lastra marmorea che recava l’epitaffio di C. lasciarono la loro memoria scritta «a sgraffio» numerosi pellegrini dei secc. VII e VIII (soprattutto presbiteri) che si recavano presso questa area sacra sulla scorta delle precise indicazioni loro fornite dagli Itineraria del VII secolo: «postea pervenies via Appia [...] Cornelius papa et martir longe in antro altero requiescit» (Notitia ecclesiarum urbis Romae, a cura di Fr. Glorie, Turnholti 1965 [Corpus Christianorum, Series Latina, 175]). Tra le firme lasciate da questi visitatori vi è quella di un «Sergius praesbyter» (Inscriptiones Christianae, IV, nr. 9373a) che con ogni probabilità può essere identificato con l’omonimo pontefice che regnò dal 687 al 701: il Liber pontificalis (I, p. 371) ricorda infatti che papa Sergio «tempore presbiteratus sui inpigre per cymiteria diversa missarum sollemnia celebrabat». Con la metà del VII secolo, a ulteriore conferma del radicamento del culto di C., iniziò la parcellizzazione e la distribuzione in luoghi diversi delle sue reliquie: una parte fu traslata da Paolo I nella chiesa urbana di S. Maria in Trastevere, una parte successivamente fu prelevata da papa Adriano I e donata ad una chiesa da lui fondata in un insediamento rurale presso Roma («domus culta Capracorum»: ibid., [p. 506]). Si trattò comunque di reliquie parziali poiché, ancora tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, è attestato un intervento di restauro presso la tomba originaria di C. da parte di Leone III: «renovavit [...] cimiterium Xysti atque Cornelii» (ibid. [II, p. 80]). L’abbandono definitivo del santuario della via Appia si può fissare al tempo di Gregorio IV che dovette trasferire ancora in S. Maria in Trastevere (chiamata anche dei SS. Callisto e Cornelio) quanto delle spoglie di C. si era ancora conservato nella tomba originaria.
La memoria liturgica di C. viene celebrata il 16 settembre.
fonti e bibliografia
Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I-II, Paris 1886-92: I, nr. 22, pp. 150-52. Il Catalogo Liberiano, contenuto nel Liber pontificalis, fornisce, oltre le coordinate cronologiche, alcune notizie sullo scisma novazianeo, ma la notizia che Novaziano sarebbe stato ordinato da Novato appare poco attendibile. Il Liber là dove non segue il Catalogo dà notizie di evidente carattere leggendario. Di C. sono rimaste tre lettere: una a Fabio di Antiochia riportata parzialmente da Eusebio, Historia ecclesiastica VI, 43, a cura di E. Schwartz, Leipzig 1908 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller. Eusebius Werke, II, 2), pp. 614-22; due indirizzate a Cipriano e comprese come epistole 49 e 50 tra le sue lettere (Sancti Cypriani Episcopi epistularium [...], a cura di G.F. Diercks, Turnholti 1994 [Corpus Christianorum, Series Latina, 3B], pp. 231-39).
Sulla controversia tra C. e Novaziano informano le epistole 44-55 dell’epistolario ciprianeo (ibid., pp. 211-95); su C. e Felicissimo l’epistola 59 (ibid., ivi 1996 [Corpus Christianorum, Series Latina, 3C], pp. 336-73); sull’esilio di Cornelio l’epistola 60 (ibid., pp. 374-79).
Mancano studi specifici moderni sulla figura e l’operato di papa Cornelio. Sulla sua vicenda v.: E. Caspar, Geschichte des Papsttums, I, Tübingen 1930, pp. 66-70; J. Zeiller, in Histoire de l’Église, a cura di A. Fliche-V. Martin, II, Paris 1948, pp. 151-52; J. Lebreton, ibid., pp. 193-95; J. Zeiller, ibid., pp. 409-10; G. Bardy, Corneille, in D.H.G.E., XIII, coll. 891-94; sui caratteri delle persecuzioni di Decio e di Triboniano Gallo, cfr. M. Sordi, Il cristianesimo e Roma, Bologna 1965, pp. 261-86.
Per la documentazione archeologica ed epigrafica relativa a C. v. G. Wilpert, La cripta dei papi e la cappella di Santa Cecilia nel cimitero di Callisto, Roma 1910, pp. 34-6; L. Reekmans, La tombe du pape Corneille et sa région cémétériale, Città del Vaticano 1964; C. Carletti, Viatores ad martyres. Testimonianze scritte altomedievali nelle catacombe romane, in Epigrafia medievale greca e latina. Ideologia e funzione, a cura di G. Cavallo-C. Mango, Spoleto 1995, pp. 203-04.