Callisto I, santo
Il Catalogo Liberiano dà come termini del suo episcopato il periodo dal 218 al 222. Una qualche incertezza permane sulla data di inizio, legata a quella dell'anno di morte del predecessore Zefirino. Comunque C. avrà sicuramente scontato l'ostilità di una parte della comunità, raccolta intorno all'autore del-l'Èlenchos (noto anche come Refutatio omnium haeresium o Philosophoumena) (cfr. Ippolito, antipapa, santo), la fonte principale, ancorché scopertamente ostile, sul suo episcopato: qualche disordine potrebbe aver così ritardato la sua entrata in carica.
Diacono di Zefirino, fu da lui designato a successore. Si può seguire la falsariga degli avvenimenti quali sono narrati nell'Èlenchos, avendo cura, in ogni evento narrato, di sceverare il punto di vista dell'autore, che dà di ciascuna azione di C. un'interpretazione sfavorevole, e di suggerire una plausibile ricostruzione. I fatti anteriori all'episcopato, per l'autore dell'Èlenchos, assumono particolare rilievo perché hanno permesso a C. di fregiarsi del titolo di confessore della fede sotto il praefectus urbi Fusciano (185/6-189), cosa che senza dubbio gli ha giovato sotto il profilo della carriera ecclesiastica. Ma l'autore dell'Èlenchos considera usurpata tale gloria e perciò si accinge a narrarne le circostanze, facendone in pratica una contro-versione. C. era schiavo di Carpoforo, un cristiano liberto della casa dell'imperatore. Carpoforo ne aveva fatto il suo prestanome, affidandogli una grossa somma con l'incarico di aprire una banca nella zona della "Piscina Publica" (XII regione). Per quanto riguarda l'utenza, l'Èlenchos si limita a menzionare vedove e cristiani, che affidavano i loro risparmi con fiducia a Callisto. Questi si viene a trovare in difficoltà, "avendo dissipato tutto" (Èlenchos IX, 12, 1). Temendo il rendiconto che Carpoforo gli avrebbe richiesto, fugge sulla prima nave pronta a salpare. Riacciuffato quando sta tentando un'ultima affannosa fuga a nuoto, viene messo dal padrone a girare la macina. Poi Carpoforo lo reintegra nella funzione, con la speranza, dice l'Èlenchos, che restituisca il denaro dei poveri che aveva preso in consegna. C., nuovamente in difficoltà, perché non è in grado di restituire nulla, si reca di sabato nella sinagoga, interrompendo con schiamazzi la cerimonia. L'autore dell'Èlenchos riporta la motivazione del gesto data dallo stesso C., il tentativo cioè di farsi pagare dai debitori, ma afferma che si trattava solo di un pretesto: in realtà C., secondo lui, preferiva essere messo a morte, non potendo più fuggire. I giudei, indispettiti dagli insulti, portano C. davanti al praefectus urbi Fusciano, accusandolo di volere come cristiano impedire il loro culto. Carpoforo interviene testimoniando che C. cerca la morte non in quanto cristiano ma in quanto suo debitore insolvente, però la sua dichiarazione viene interpretata dai giudei come un tentativo di difesa di C. sicché, alla fine, essi inducono Fusciano a condannarlo ad metalla in Sardegna.
Il resoconto dell'Èlenchos, in apparenza prodigo di dettagli, lascia spazio a molti interrogativi nonché a una possibile diversa interpretazione dei fatti. Inquadrata nei travagli socio-economici dell'età di Commodo e dei Severi e vista alla luce dei difficili ma persistenti rapporti fra giudei e cristiani a Roma e ai riflessi delle conseguenti tensioni nelle misure prese dall'autorità pagana, la vicenda acquista un diverso spessore ed è stata considerata illuminante ed emblematica di un'epoca (S. Mazzarino, M. Mazza). Innanzitutto bisogna riflettere sul rapporto fra C. e Carpoforo. La documentazione giuridica coeva (Ulpiano) chiarisce la responsabilità penale del padrone nel caso di mancata restituzione del deposito da parte di un suo schiavo incaricato di svolgere attività bancaria, che nel mondo romano è generalmente privata. Per un liberto della casa imperiale era d'altra parte comodo affidarsi alla gestione di uno schiavo quale prestanome. Ora il fatto che il promotore e il gestore di quest'attività, nel caso specifico, fossero entrambi cristiani, rende comprensibile la circostanza di una clientela piuttosto numerosa di vedove e comunque di piccoli risparmiatori correligionari che affidavano a C. i propri risparmi, i quali venivano reinvestiti in operazioni di credito, con elevato interesse, probabilmente riguardanti piuttosto giudei e pagani. Tutto questo spiega l'atteggiamento ondeggiante di Carpoforo, chiamato al momento del fallimento di C. a rendere conto del bilancio. Immediatamente, la sua prima reazione è di rivalsa contro lo schiavo, ma le azioni successive mirano più che alla punizione (di non lunga durata) soprattutto a sollecitarlo all'appianamento dei conti. Il prestito di forti somme di denaro da parte di C. a giudei è del tutto verosimile, così come lo è un crollo finanziario, dovuto forse, oltre che a sue previsioni od operazioni sbagliate, alla mancata restituzione di tali prestiti, in un periodo di notevole fluttuazione del contenuto di fino della moneta argentea, il denarius. Donde si spiega l'iniziativa disperata di C. nei confronti dei giudei debitori come pure l'azione sostanzialmente difensiva, da ultimo, di Carpoforo nei suoi confronti, forse per resipiscenza e per consapevolezza della propria parte di responsabilità verso lo schiavo arrestato e finito nei guai per l'incarico a suo tempo da lui stesso assegnatogli. La dura pena inflitta da un prefetto pagano si spiega perfettamente in base alle vigenti disposizioni, senza bisogno di presupporre una decisione particolarmente sfavorevole a Callisto. Non restava infatti che la condanna, una volta provata dalla confessione dell'imputato l'accusa di cristianesimo mossagli nominativamente dai giudei in base al rescritto di Traiano, oltre naturalmente alla necessità di punire la turbativa dell'ordine pubblico attuata dallo schiavo.
Il racconto dell'Èlenchos prosegue narrando l'intervento della concubina di Commodo, Marcia, probabilmente cristiana, a favore dei martiri condannati alle miniere. Richiesto di un elenco, il vescovo di Roma, Vittore, ne avrebbe escluso C., ma il presbitero eunuco Giacinto, una volta arrivato in Sardegna con la lettera di scarcerazione, si fa convincere dalle suppliche di C. e lo inserisce fra i reduci. Il vescovo Vittore non è contento dell'accaduto, ma essendo "benevolo" (Èlenchos IX, 11, 13) si limita ad allontanare C. ad Anzio, mantenendolo però con un mensile. Quest'ulteriore svolgimento dei fatti, così come è narrato, si presta a perplessità ancora maggiori: del tutto incomprensibile risulterebbe, in base al racconto, l'atteggiamento di Vittore, che si sa essere stato un uomo energico, nei confronti di un presunto ladro e spergiuro, quale l'Èlenchos dipinge C., per giunta riuscito a farsi includere surrettiziamente in un elenco di confessores, un truffaldino quindi che il vescovo manterrebbe, nonostante la personale avversione, per pura benevolenza a spese della comunità. È assai più probabile che C., una volta recuperato alla comunità cristiana, sia stato messo a svolgere qualche funzione fuori Roma, essendo stato reintegrato nella fiducia, e nello stesso tempo momentaneamente allontanato per prudenza dalla capitale, dove senza dubbio si era fatto dei nemici.
Sarebbe invece troppo azzardato inferire dal particolare tendenzioso della presunta ostilità di Vittore nei confronti di C. l'indizio di una parziale divergenza nelle vedute ecclesiastiche di Vittore rispetto a quelle callistiane. Neppure vale come indizio concomitante l'ambigua espressione degli artemoniti, i quali sostenevano che la dottrina tradizionale e veritiera si sarebbe mantenuta a Roma fino ai tempi di Vittore, ma non più con Zefirino (Anonimo Antiartemonita, in Eusebio, Historia ecclesiastica V, 28, 3), di cui C. diventerà segretario: infatti C., pur avendo notevoli doti pratiche e di intelligenza, doveva essere ancora relativamente troppo giovane all'inizio dell'episcopato di Zefirino, e tanto più al tempo di Vittore, per esercitare un peso significativo nella comunità. L'autore dell'Èlenchos scrive a distanza di almeno un quarto di secolo da quei fatti: in realtà doveva passare tutto l'episcopato di Vittore e buona parte di quello di Zefirino perché C. potesse effettivamente maturare una posizione di rilievo. Forse l'autore dell'Èlenchos legge il passato con gli occhi della sua presente ostilità verso C.: libera quindi Vittore dal sospetto di aver anche lui favorito C., guardando così al passato remoto come a un tempo migliore per la Chiesa romana, rispetto alle detestate circostanze attuali.
La notizia dell'Èlenchos è importante per documentare la situazione liminare dei cristiani, colpevoli di religio illicita, eppur vicini, in alcuni esponenti, al potere, anche a quello supremo, come è il caso di Marcia, donde una continua oscillazione delle loro sorti a Roma. Questo può valere già in questo momento per C., attraverso Giacinto. Secondo il racconto dell'Èlenchos, infatti, Giacinto, per liberare C., assicura di aver allevato Marcia, e di essere quindi nella massima confidenza con lei (IX, 12, 12). Ma C. stesso doveva essere in rapporti precedenti con Giacinto, altrimenti non si spiegherebbe un intervento così deciso di quest'ultimo in suo favore. Ancora una volta, pur attraverso l'interpretazione sfavorevole dell'Èlenchos, che attribuisce il tutto alla debolezza di Giacinto, si getta uno sguardo sulla realtà complessa delle entrature dei cristiani all'interno della casa imperiale.
Dopo la morte di Vittore, C. è chiamato dal nuovo vescovo Zefirino ad amministrare il patrimonio ecclesiastico, ed è preposto, attorno al 200, al cimitero sulla via Appia che in seguito da lui prenderà nome e che si presenta come la prima proprietà comunitaria della Chiesa romana. Nella testimonianza al proposito di Ippolito (Èlenchos IX, 12, 14), l'area in questione è definita semplicemente come "il cimitero" per antonomasia. Si tratta di un momento fondamentale per la storia della comunità cristiana di Roma: è l'atto di nascita ufficiale di un cimitero comunitario, la cui concreta e visibile specificità è nel sostanziale mutamento di statuto: un cimitero non più gentilizio o corporativo, ma della comunità, e dunque aperto alla accoglienza di tutti i fratelli di fede, indipendentemente dalla loro estrazione sociale. Non è casuale che questo carattere comunitario - nella concezione e nella prassi - emerga, nel III secolo, tra le istruzioni previste dalla Traditio apostolica (40, a cura di B. Botte, Paris 1968 [Sources Chrétiennes, 11bis], p. 122) in relazione alle norme gestionali dei luoghi di sepoltura: "Non si imponga una pesante condizione per la sepoltura nei cimiteri, perché la cosa [scil. il cimitero] è di tutti i poveri. Si paghi però il compenso dovuto a chi scava la fossa ed il prezzo dei mattoni. Il vescovo provveda alle necessità di vita di coloro che si prendono cura del cimitero e lì vivono, ed eviti che questi pesino su coloro che vengono in questo luogo". Numerose e consistenti evidenze archeologiche documentano, nello stesso periodo, la nascita di cimiteri ipogei collettivi in altre zone del suburbio, quali ad esempio la catacomba di Domitilla sulla via Ardeatina, di Priscilla sulla Salaria, di Pretestato sull'Appia.
Non è neppure casuale che anche nella documentazione epigrafica contestuale a questi primi nuclei funerari comunitari sia fortemente evidente un netto distacco dalla prassi tradizionale: gli epitaffi del defunto, in netta controtendenza rispetto alla coeva documentazione pagana, non ricordano null'altro che il semplice nome individuale (cognomen singulum). Sono volutamente taciuti tutti quei dati retrospettivi (quali il ruolo sociale, il mestiere, l'età) tradizionalmente menzionati per ottemperare alla fondamentale funzione dell'iscrizione funeraria, in primo luogo strumento per la memoria dei superstiti. La prospettiva della documentazione epigrafica della comunità cristiana di Roma in questo particolare momento della sua storia è del tutto opposta. Della vita terrena non si ricorda nulla: il defunto è accompagnato nel suo nuovo mondo, nella vera vita, da un semplice augurio di pace eterna ("in pace", o in greco "en eirene") formulato da un'altra "famiglia", la comunità dei credenti (fratres).
L'uniformità del formulario e della prassi nella documentazione epigrafica di complessi cimiteriali anche molto distanti fra loro, posti in diversi settori del suburbio (si pensi per esempio alle catacombe di Calepodio sulla via Aurelia; di Priscilla sulla via Salaria; di S. Agnese sulla Nomentana; dei SS. Marcellino e Pietro sulla via Labicana; di Callisto e di Pretestato sull'Appia), denuncia senza alcun dubbio l'esistenza di un controllo, di una iniziativa unitaria voluta dalla gerarchia ecclesiastica monarchica romana, che influenza del resto anche le scelte dei temi e delle forme della decorazione pittorica dei cimiteri comunitari, della escavazione dei complessi sotterranei (si confrontino ad esempio l'area I del cimitero di Callisto con la regione della scala minore e della scala maggiore della catacomba di Pretestato), nonché le opzioni relative alla tipologia funeraria, che trova nella esclusione programmatica delle tombe familiari (cubicula) e nell'adozione sistematica della tomba parietale a loculo l'estrinsecazione più calzante della ideologia egualitaria della comunità cristiana di Roma del III secolo, comunità di minoranza e di attiva militanza.
In questo quadro è evidente che la preposizione di C. alla cura del cimitero "ufficiale" della comunità romana, dove trovarono sepoltura gli stessi vescovi per circa un secolo, abbia avuto un peso non irrilevante, tanto da associare in futuro il suo nome a quello del cimitero papale, come testimoniato dalle ben note fonti documentarie. C., assunto a consigliere diretto del vescovo, poté consolidare la sua posizione nei lunghi anni dell'episcopato di Zefirino.
L'autore dell'Èlenchos afferma senza mezzi termini che C. operò nel tempo una circonvenzione d'incapace, fingendo di obbedire a Zefirino ma di fatto esautorandolo, visto che costui non era in grado di giudicare quanto C. diceva e faceva. La trama raggiunge lo scopo alla morte del vescovo, allorché C. viene eletto successore. Qui l'autore dell'Èlenchos si mette in scena quale antagonista di C., riprendendo e approfondendo le affermazioni che aveva fatto all'inizio della notizia, prima di cominciare la narrazione della vita di Callisto. Là (IX, 11, 2) aveva precisato che l'azione callistiana mirava, attraverso l'incapace Zefirino, a fomentare la divisione dottrinale all'interno della comunità fra i fautori della teologia del Logos e i monarchiani, onde accattivarsi le simpatie di tutti, dando separatamente ragione a ciascuna delle due parti, e potersi poi accreditare come paciere. In particolare C. avrebbe spinto Sabellio ad abbracciare le opinioni di Cleomene, rappresentante del monarchianismo patripassiano. Una volta diventato vescovo, C. opera il voltafaccia nei confronti di Sabellio, condannandolo, nonostante che Sabellio continuasse ad accusarlo di aver tradito "l'antica fede" (IX, 12, 16). La motivazione reale della condanna sarebbe stata il timore di essere accusato di eterodossia dall'autore dell'Èlenchos (IX, 12, 15). Con ogni probabilità questi era stato anche avversario di C. nell'elezione a vescovo. Guardatosi alle spalle, C. accusa apertamente di diteismo lo stesso autore dell'Èlenchos e - cosa che questi non dice ma è sottintesa - lo condanna. Dal racconto, sfrondato dai toni velenosi dell'autore, si ricava l'abilità politica di C. nel porsi in posizione mediana rispetto alle opposte fazioni, mettendo a frutto, evidentemente, un'esperienza di uomini e cose maturata in circostanze spesso avverse, e la preoccupazione di assicurare l'unità dottrinale della Chiesa. Si deduce anche, in base almeno alla testimonianza, che a Roma sembrano venuti meno il pericolo gnostico e le altre spinte disgregatrici della comunità che nella seconda metà del II secolo erano derivate dalla questione quartodecimana e da quella montanista: il confronto, all'inizio del III secolo, riguarda l'interpretazione della persona di Cristo in quanto Figlio di Dio nel suo rapporto con l'unico Dio.
L'autore dell'Èlenchos fornisce una formula dottrinale callistiana, piuttosto articolata, che sembrerebbe quasi un resoconto letterale. Lo si riporta qui considerandolo fondamentalmente autentico, ma senza escludere la possibilità di qualche rimaneggiamento da parte dell'autore dell'Èlenchos. C. dunque affermerebbe: "Il Logos è Figlio, e il medesimo è certo chiamato anche col nome di Padre, ma perché è una cosa sola lo spirito indiviso. Non è una cosa il Padre e un'altra cosa il Figlio, ma sono una sola e medesima cosa. E ogni realtà è ripiena di spirito divino, quella superiore e quella inferiore. E lo spirito che si è fatto carne nella Vergine non è altro dal Padre, ma è uno solo e medesimo. Questo significa ciò che è stato detto: 'Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?' [Giovanni 14, 10]. Infatti ciò che si vede, cioè l'uomo, questo è il Figlio, mentre lo spirito ch'è disceso nel Figlio questo è il Padre. Dunque non affermerò due dei, il Padre e il Figlio, ma uno solo. Il Padre venuto in lui e assunta la carne la divinizzò unendola a sé e facendola una cosa sola, così che si chiama Padre e Figlio il solo Dio e questa realtà essendo un solo prosopon non può essere due e così il Padre ha compatito con il Figlio" (Èlenchos IX, 12, 17-19). Qui pare che la citazione abbia termine.
La sostanziale autenticità del testo si evince dal fatto che il concetto di spirito, per qualificare la sostanza di Dio, non era stato fino ad allora valorizzato in ambito teologico (M. Simonetti, pp. 439-74, in partic. p. 450), mentre è proprio grazie a questo resoconto che entra in modo autorevole nel dibattito, con accezione stoica. La stessa identificazione, posta all'inizio, fra Logos e spirito, che può essere riguardata come una deliberata assunzione del termine Logos caratteristico dell'impostazione avversaria, a scopo nel contempo dialogico (ibid.) e di rettifica, è di origine stoica, in quanto la forza divina è nominata alternativamente Logos e spirito a seconda che si significhi la sua intrinseca razionalità o la sua attività vivificante. La suggestione data dall'evocazione del pneuma che tutto pervade e fa vivere ("ogni realtà è ripiena di spirito divino") serve a C. a preparare l'ulteriore concetto della compenetrazione di Dio (Padre-spirito) nella carne (Figlio) assunta da Maria e che viene divinizzata di conseguenza. A questo punto la carne, propriamente il Figlio, risulterebbe unita al Padre-spirito in un solo prosopon. Si tratterebbe quindi di un uso del termine prosopon in riferimento all'ambito antropologico (C. Andresen, Zur Entstehung und Geschichte des trinitarischen Personbegriffs, "Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft", 52, 1961, pp. 1-39, in partic. pp. 6-7), senza con questo voler arrivare a pensare che C. abbia anticipato in qualche modo la problematica cristologica successiva. Tale interpretazione è supportata dalla testimonianza di Tertulliano (Adversus Praxean 27, 1) per il quale i monarchiani, costretti ad ammettere la distinzione fra Padre e Figlio: "aliter eam [scil. distinctionem] ad suam sententiam interpretari conantur, ut aeque in una persona utrumque distinguant, patrem et filium, dicentes filium carnem esse, id est hominem, id est Iesum, patrem autem spiritum, id est Deum, id est Christum". Bisogna però lasciare quel margine di incertezza dato dalla possibilità che Tertulliano abbia modificato ai suoi scopi polemici le affermazioni avversarie. In realtà sul reale significato del termine prosopon nella citazione callistiana non è possibile pronunciarsi: questo infatti potrebbe anche essere inteso da C. in riferimento all'unico prosopon della divinità. Due passi interni all'Èlenchos tirano l'uno in senso contrario, l'altro in senso favorevole a questa seconda ipotesi. Si esamini quello contrario, che però è indebolito da una difficoltà testuale. L'autore dell'Èlenchos, dopo la presunta conclusione della citazione callistiana aggiunge a mo' di commento la seguente frase che contiene una corruttela nella trasmissione manoscritta: "infatti egli [scil. C.] non vuole dire che il Padre ha patito e che uno solo è il prosopon [...] fuggire, stolto e sfuggente, la bestemmia verso il Padre, lui che su e giù proferisce bestemmie, per sembrare lui solo dire la verità: non si vergogna di cadere a volte nell'errore di Sabellio, a volte in quello di Teodoto". La corruttela, come si vede, è posta subito dopo la parola prosopon e riguarda con ogni probabilità la parola o le parole che reggono il verbo "fuggire". Tutti gli editori suppliscono, con varie congetture: "così pensando di" (M. Marcovich), "ma" (P. Wendland), "così sperando in qualche modo di" (K.J. Bunsen); P. Cruice invece propone la modifica di "fuggire" in "fuggendo". Gli editori sono dunque unanimi nel dare alla frase il senso seguente: C. non vuole bestemmiare affermando che il Padre ha patito e che uno solo è il prosopon e così cade alternativamente nell'errore di Sabellio e in quello di Teodoto (Èlenchos IX, 12, 16-18). Ora, se le cose stessero così, risulterebbe molto improbabile pensare che nella sua formula di fede C. abbia inteso parlare di prosopon in senso trinitario, contestando la dottrina dei due prosopa (già evidentemente diffusa: cfr. Ippolito, Contra Noetum 14) e opponendovi l'unico prosopon della divinità, visto che subito dopo l'autore dell'Èlenchos ammette che C. non vuole predicare un solo prosopon. L'attestazione dell'Èlenchos si spiega in un contesto storico di ripetuti dibattiti e pubbliche discussioni nelle quali C. si sarebbe rifiutato di caratterizzare, alla maniera dei teologi del Logos, con il termine prosopon l'individualità sussistente e tendenzialmente separata del Padre e del Figlio nel rapporto intradivino, ma nello stesso tempo avrebbe rifiutato di pronunciarsi per un solo prosopon, affermazione decisamente monarchiana cui gli avversari nel contraddittorio avrebbero voluto spingerlo. L'autore dell'Èlenchos in effetti non avrebbe mancato di sfruttare l'incongruenza, se la professione callistiana avesse riguardato davvero il prosopon della divinità. La contraddizione viceversa non c'è se si ammette che nel caso della citazione callistiana il significato del termine prosopon non riguardi la vita intradivina, ma appunto faccia riferimento al concreto personaggio di Gesù Cristo, nel quale prosopon il Padre com-patisce. Detto questo, bisogna però notare che la corruttela segnalata nella frase dell'Èlenchos, a prescindere dalla costante interpretazione data dagli editori, indebolisce ogni argomentazione che voglia fondarsi su di essa. Si venga all'altro passo che tira nel senso opposto: in Èlenchos X, 27, 4 si dice che C. afferma un solo prosopon, "distinto per nome, ma non per sostanza". Qui C. sembrerebbe parlare di prosopon riferendolo proprio all'ambito intradivino per indicare la distinzione solo nominale fra Padre e Figlio, e non in riferimento alla persona concreta di Cristo: c'è da dire tuttavia che il dato di Èlenchos X è avanzato in un'esposizione riassuntiva e alquanto sbilanciata in senso interpretativo. Potrebbe quindi spiegarsi con la sovrapposizione in questo caso al pensiero callistiano dell'interpretazione datane dall'autore dell'Èlenchos, il quale sì, come rappresentante della teologia del Logos, riferisce il termine prosopon alla divinità del Padre e del Figlio e di conseguenza caratterizza in senso nominalistico la posizione di C., finendo per attribuirgli quello che avrebbe voluto fargli dichiarare nei pubblici dibattiti avuti con lui. In sostanza, è da ritenere che non si possa essere certi in merito all'uso specifico fatto da C. del termine prosopon nel contesto della professione di fede, mentre è ragionevolmente sicuro che comunque egli non ne gradisse l'introduzione in ambito teologico: lo stesso autore dell'Èlenchos, infatti, per evitare ogni contestazione, lascia da parte il termine nella propria esposizione dottrinale nel libro X.
Come ultimo punto, nella professione di fede di Èlenchos IX, C. afferma che il Padre com-patisce con il Figlio. Questa è un'altra affermazione senz'altro autentica perché costituisce una variazione rispetto alla coeva dottrina patripassiana. C. può avanzarla in quanto, come si è detto, per lui propriamente è lo spirito ad essere il Padre, cioè Dio, e la carne il Figlio. Forse si deve scorgere in questa affermazione un ulteriore prestito dalla filosofia stoica (R.E. Heine, p. 76) laddove essa afferma che a proposito della miscela di due sostanze diverse si può dare il caso di una reciproca compenetrazione senza perdita da parte di ognuna delle proprie caratteristiche (Cleante, in Stoicorum veterum fragmenta, I, a cura di J. von Arnim, Lipsiae 1905, p. 518).
Fatti salvi tutti i distinguo e le innovazioni della posizione espressa da C., a una valutazione complessiva questa risulta senz'altro sbilanciata in senso monarchiano, in quanto rifiuta di accedere alla visione di diverse individualità divine per il Padre e il Figlio. Di Figlio si può parlare solo al momento dell'incarnazione: questo esito accomuna C. non solo al monarchianismo ma anche a un'impostazione cristologica arcaica riscontrabile nella teologia romana quale si rileva nella lettera di Clemente ai Corinzi. Di questo tratto ha tenuto conto probabilmente anche Ippolito nel Contra Noetum quando assegna il titolo di Figlio solo al Logos incarnato.
C. si mostra pertanto in continuità con una tradizione che intende salvaguardare l'unità del Dio personale, ereditata dal giudaismo. D'altra parte è una visione, quella callistiana, che supera il primitivo patripassianismo e propone un pensiero sufficientemente articolato, avendo un preciso punto di riferimento filosofico nello stoicismo. Poteva quindi soddisfare esigenze profondamente radicate nella comunità romana e non dispiacere neppure a chi fosse educato filosoficamente. L'ironica dicitura di didaskaleion (scuola filosofica), data dall'autore dell'Èlenchos, che caratterizza così spregiativamente la comunità di C. in contrapposizione alla sua Chiesa, non è quindi del tutto usurpata dall'insegnamento callistiano, anche se il grosso dei cristiani di Roma è con lui, e la situazione è ben diversa da quella di un ristretto circolo filosofico. L'autore dell'Èlenchos non riesce in realtà a nascondere che la comunità di C. corrisponde alla maggioranza della Chiesa di Roma, mentre la sua comunità si autoemargina.
La vittoria di C. sull'avversario è ancor più evidente sul terreno dell'assetto disciplinare della Chiesa romana. Qui, ancora una volta il racconto dell'autore dell'Èlenchos è viziato dall'odio. Egli mette infatti in diretta relazione il consenso popolare nei confronti di C. con la sua posizione disciplinare rilassata: quest'ultimo accoglie ogni sorta di peccatori, è indulgente con "i piaceri", con eretici e scismatici (Èlenchos IX, 12, 20), in particolare alcuni espulsi per indegnità dalla Chiesa dell'autore dell'Èlenchos passano a Callisto. Il problema agitato è quello della disciplina penitenziale, che nel corso del II secolo si era fatto pressante per l'impossibilità da parte dei fedeli di evitare il peccato dopo il battesimo, considerato allora l'unica occasione di remissione dei peccati. A Roma lo aveva già affrontato Erma, che con il suo Pastore aveva inteso proporre la possibilità, unica e eccezionale, di perdono per i peccati post-battesimali. Il genere letterario dell'opera di Erma rientrava nei canoni dell'apocalittica e il tono visionario e profetico dell'annuncio evitava di affrontare i nodi teorici. Tanto più risulta di notevole incidenza la posizione di C., a supporto della quale viene offerto un corredo scritturistico che l'autore dell'Èlenchos non omette di menzionare, pur considerandolo non pertinente. Il vescovo avrebbe usato, in occasione di contestazioni alla sua dottrina, l'esclamazione di Paolo in Romani 14, 4: "tu chi sei per giudicare il servo di un altro?". La parabola della zizzania (Matteo 13, 29) veniva da lui applicata alla necessità di mantenere i peccatori nella Chiesa. Non mancava un'interpretazione allegorica dell'episodio veterotestamentario dell'arca di Noè, in cui la convivenza di animali puri e impuri assurge a simbolo della situazione intraecclesiale. Le citazioni bibliche delineano una concezione callistiana della Chiesa che si pone in alternativa rispetto a quella, tradizionale e spesso intesa in senso elitario, di assemblea di santi. Il vaglio e la separazione vengono rimandati, come chiarisce l'uso della parabola evangelica, al momento escatologico, in attesa del quale la posizione dei pastori deve essere improntata a sostanziale misericordia.
Il racconto dell'Èlenchos non spinge però a pensare che la pratica lassista di C., sostanziata da una visione teoricamente lucida del problema, si sia concretizzata in un provvedimento formale, quale l'"edictum peremptorium" di cui parla Tertulliano in De pudicitia 1, 6, anche perché in questo caso l'autore dell'Èlenchos non avrebbe mancato di menzionarlo. La posizione callistiana è meditata teoricamente, ma proprio per l'intrinseca logica del suo discorso non richiede formalizzazioni, quanto piuttosto una prassi di misericordia, a maggior ragione in quanto l'oggetto della discussione pare incentrarsi da un lato sul peccato più praticato, cioè su quello di carattere sessuale, dall'altro su un nodo importante di politica ecclesiastica, l'atteggiamento verso i settari. La facile accoglienza nei confronti di eretici e scismatici si configura infatti come un momento della strategia callistiana di unificazione della Chiesa romana intorno al vescovo. E non era forse estraneo a questo atteggiamento il ricordo dei problemi creati da Natalio a Zefirino. Un particolare rivela che la strategia callistiana aveva una ricaduta sulla composizione della gerarchia ecclesiastica: secondo il resoconto caricaturale dell'Èlenchos né un vescovo colpevole di un peccato mortale doveva essere deposto né vescovi o presbiteri risposatisi per due o tre volte dovevano, in base alle disposizioni date da C., essere esclusi dagli ordini sacri, né a chi fosse già presbitero era impedito di sposarsi. È difficile sceverare il vero nella prima parte della testimonianza, quella riguardante il vescovo peccatore, anche perché la portata del pronunciamento di C., se pure c'è stato, doveva essere interna alla comunità di Roma: comunque il peccato mortale dovrebbe identificarsi con abusi sessuali, in armonia col contesto. Forse la chiave corretta di lettura riguarda il desiderio callistiano di rafforzare il potere episcopale contro possibili fattori di destabilizzazione, come le accuse pretestuose, in un ordinamento monarchico della Chiesa di Roma ancora precario: la storia della Chiesa chiarisce appunto che spesso furono proprio accuse di carattere sessuale a fornire il pretesto o a far da contorno per una deposizione episcopale. La seconda parte della notizia presuppone da parte dell'autore dell'Èlenchos un atteggiamento rigoristico riguardo il clero, che egli presenta come tradizionale, ma per il quale non si possono portare fonti a sostegno coeve. Anzi, probabilmente è egli stesso che in questo caso innova, secondo una tendenza che si andrà gradualmente a imporre (R. Gryson, Les origines du célibat ecclésiastique du premier au septième siècle, Gembloux 1968, p. 31). Al massimo si può citare come appiglio per l'autore dell'Èlenchos l'opinione diffusa all'interno delle comunità cristiane che sconsigliava le seconde nozze, in forza del concetto di indissolubilità del matrimonio anche dopo la morte del coniuge. C. invece non nutre di queste remore, preferendo non limitare la possibilità di scegliere persone adatte per la costituzione del clero. Anche nel caso del presbitero che convolasse a nozze non si poteva invocare nessun decreto, in una larga diversità di comportamenti all'interno delle Chiese dei primi secoli. Solo successivamente si può parlare di una tendenza a proibire il matrimonio dopo l'ordinazione: ma forse anche in questo caso il testo dell'Èlenchos intende parlare di seconde nozze.
Si ricava ancora un'informazione dall'Èlenchos, sempre deformata dal malanimo del narratore: C. consentiva alle giovani donne di considerare alla stregua di mariti legittimi gli uomini di classe inferiore, sia schiavi sia liberi, di cui si fossero invaghite e con i quali davanti alla legge civile non potevano contrarre matrimonio. La questione riguardava la difficile condizione della donna cristiana, alla quale le gerarchie ecclesiastiche sconsigliavano il matrimonio con un non credente, anche per motivi di sicurezza personale. Il problema si faceva acuto nel caso di donne di alta condizione, che difficilmente trovavano nella loro cerchia uomini che fossero cristiani. D'altro canto, la legislazione imperiale, inasprita ulteriormente sotto Marco Aurelio, vietava alle donne di rango senatorio di sposare, pena la decadenza, un uomo di inferiori natali. Questo poneva le cristiane di fronte a un arduo dilemma: se difendere o meno la scelta religiosa a prezzo della perdita della condizione sociale. C. dispose che la relazione di concubinato fra una matrona e un inferiore avesse per la Chiesa lo stesso valore, e obblighi, di un matrimonio legittimo. Naturalmente possibili abusi potevano verificarsi qualora si volesse nascondere al contorno sociale questo concubinato legittimato solo dalla Chiesa: sicuramente si sarà verificata una certa incidenza di pratiche contraccettive e anche abortive, segnalate con enfasi dall'autore dell'Èlenchos. La posizione duttile di C. non rispondeva solo a esigenze di umana comprensione, ma teneva certo conto dell'importante apporto economico delle ricche matrone alla comunità cristiana: anche grazie ad esse C., scampato un tempo alle miniere sarde per volontà di una donna, Marcia, mise a frutto le doti di amministratore acquisite nella carriera precedente per dare un assetto sicuro alla sua comunità.
L'accusa di ribattezzare, lanciata dall'autore dell'Èlenchos a C. alla fine dell'esposizione (IX, 12, 26), è francamente incredibile alla luce delle successive controversie battesimali che vedono Roma al polo opposto di Cartagine circa l'opportunità di ribattezzare in determinate circostanze: nessuno dei fautori del secondo battesimo si appella a eventuali provvedimenti callistiani e il vescovo romano Stefano farà leva di fronte a Cipriano sulla tradizione costante di Roma. Si può congetturare, dato che subito dopo l'autore dell'Èlenchos viene a parlare della setta degli elchesaiti i quali amministravano un secondo battesimo per la remissione dei peccati, che egli voglia lanciare in forma ambigua un sospetto del genere per ulteriore screditamento dell'avversario.
Sono state sollevate nell'Ottocento e sono ancora dibattute due questioni riguardanti la possibile identificazione di C. con due personaggi presi di mira in altrettante opere del periodo montanista di Tertulliano. L'una riguarda il personaggio di Prassea, combattuto da Tertulliano come colui che introdusse a Roma il monarchianesimo e indusse un vescovo romano a respingere il montanismo. A supporto della tesi dell'identificazione di Prassea con C. si è fatto notare che il nome Prassea sembrerebbe essere un soprannome ironico ("colui che maneggia", cioè il faccendiere), il che corrisponderebbe all'immagine che l'autore dell'Èlenchos accredita di C., tanto più che fra i demeriti di Prassea ci sarebbe anche il vanto del martirio, in realtà un breve periodo in carcere (H. Hagemann, Die römische Kirche und das Dogma in den ersten drei Jahrhunderten, Freiburg i. Br. 1864, pp. 234 ss.). Una tesi alternativa è che Tertulliano, rinverdendo la lotta contro l'ormai lontano nel tempo Prassea, intenderebbe coprire l'attacco al contemporaneo C. (R.A. Lipsius, Über Tertullians Schrift wider Praxeas, "Jahrbücher für Deutsche Theologie", 13, 1868, p. 274). Queste affermazioni si trovano ripetute spesso dalla critica storica, ma vi sono forti elementi in contrario che impediscono di accoglierle: se Prassea fosse C. non sarebbe certo stato il primo a introdurre a Roma il monarchianesimo, perché il responsabile secondo l'autore dell'Èlenchos sarebbe da individuare in un certo Epigono (e infatti si è anche voluto identificare Prassea con Epigono). Non vi sono inoltre dati per considerare C. originario d'Asia, come Tertulliano dice di Prassea, né sarebbe agevole chiamare, sia pure per ironizzare, il terribile soggiorno in Sardegna "breve carceris taedium" (Q.S.F. Tertulliano. Contro Prassea, a cura di G. Scarpat, Torino 1985 [Corona Patrum, 12], p. 29). Stando così le cose è opportuno respingere l'identificazione, e considerare piuttosto Prassea un personaggio realmente vissuto e la cui importanza a Roma, dove fu presumibilmente intorno al 200, forse è stata esagerata da Tertulliano, se è vero che il romano autore dell'Èlenchos non lo nomina. È comunque indubbio che elementi della dottrina monarchiana, nella formulazione callistiana, non furono ignoti a Tertulliano.
Una parte degli studiosi, a partire da G.B. de Rossi, ha identificato C. con il "pontifex scilicet maximus, episcopus episcoporum" con cui Tertulliano se la prende in De pudicitia 1, 6 per aver emesso un "edictum peremptorium" al fine di condonare i peccati d'adulterio e fornicazione. Addirittura E. Caspar (pp. 25-8) pone la polemica di Tertulliano contro chi si arroga il potere di Pietro di sciogliere e legare alle origini dell'idea del primato petrino successivamente messo in campo dai papi. Già sopra si è detto come la testimonianza dell'autore dell'Èlenchos non induca a pensare all'emanazione di un editto da parte di C.; d'altra parte, data la solennità caricaturale del titolo con cui Tertulliano presenta l'anonimo personaggio è anacronistico riferirla esclusivamente al vescovo di Roma, tanto più perché la controversia di cui Tertulliano parla ha un sapore locale: il vescovo preso di mira sarebbe allora piuttosto Agrippino di Cartagine. Respinta pertanto l'identificazione di C. con Prassea e con l'anonimo vescovo, resta da prendere atto che nei primi decenni del III secolo simili problematiche in materia dottrinale e disciplinare in risposta a corrispondenti analoghe esigenze travagliano le Chiese più in vista d'Occidente, Roma e Cartagine.
Il Liber pontificalis (p. 141) afferma che C. nacque a Roma, da padre di nome Domizio, nella regione "Ravennatio" (la "regio XIV", cioè Trastevere), così chiamata dall'acquartieramento degli equipaggi della flotta di Ravenna, una zona di Roma dove il cristianesimo si era precocemente e ampiamente diffuso. Il nome del padre è assai dubbio, tanto più che C. era stato uno schiavo, mentre la località della nascita sembra derivata dalla salda memoria di C. in Trastevere; ad una non meglio specificata "area Callisti" (forse in Trastevere?) rimanda una targhetta bronzea di un collare servile, rinvenuto nel XVII secolo a Roma in un luogo imprecisato e conservato ora al Bri-tish Museum; l'oggetto, databile alla seconda metà del IV secolo, reca l'iscrizione: "tene me ne / fugia(m) et revo/ca me ad dom(i)nu(m) m/eu(m) Viventium / in ar⟨e>a Callisti" (Corpus Inscriptionum Latinarum, XV, a cura di H. Dressel, Berolini 1898, nr. 7193; Inscriptiones latinae christianae veteres, a cura di E. Diehl, ivi 1925, nr. 1904). "Area" potrebbe essere termine tecnico per indicare una zona funeraria (A. Bertolino), come per esempio nelle province africane, ma con un tale significato "area" non si riscontra mai nella documentazione epigrafica cristiana di Roma. Il Liber attribuisce, con palese anacronismo, a C. l'edificazione della basilica di S. Maria in Trastevere, che invece fu promossa da Giulio I nei luoghi callistiani, come dice il Catalogo Liberiano ("basilicam trans Tiberim, regione XIIII iuxta Callistum"). Inoltre attribuisce a C. l'istituzione, in base alla profezia di Zaccaria 8, 19, di un digiuno tre volte l'anno, in rapporto alla raccolta di grano, vino e olio, che, aggiungendosi quello quaresimale, fu successivamente chiamato dei quattuor tempora. La più antica documentazione su questa istituzione risale a Leone Magno. Se si guarda però ai tre digiuni inizialmente attestati, essi corrispondono temporalmente alle tre feste pagane di mietitura, vendemmia e semina: non è del tutto fuori luogo pensare che l'intuizione di cristianizzare tre momenti così importanti della vita sociale possa essere venuta a un vescovo così creativo e attento alle esigenze del quotidiano come Callisto. Tutti questi dati fantasiosi, in ogni caso, convergono nell'attestare il peso del ricordo di C. nella Chiesa romana.
Il martirio di C. è fra i pochissimi riguardanti vescovi romani a potersi considerare sicuro. La Depositio martyrum indica la sua memoria per il 14 ottobre, e stabilisce il luogo di sepoltura sulla via Aurelia, al III miglio, quindi in una sede diversa dal cimitero callistiano ("prid. idus oct., Calisti in via Aurelia, miliario III"). Nella Depositio episcoporum, nel latercolo relativo a papa Giulio I, deposto anch'egli al III miglio della via Aurelia, il medesimo cimitero è indicato come quello "di Callisto" ("prid. idus april., Iulii in via Aurelia, miliario III, in Calisti"). Il luogo è quello della catacomba di Calepodio, in cui indagini archeologiche condotte durante gli anni 60 del Novecento (A. Nestori) hanno dato puntuale conferma ai dati delle fonti documentarie, che collocano il sepolcro di C. nel cimitero sotterraneo, in contrapposizione a quello di papa Giulio nel sopratterra ("eadem via pervenies ad ecclesiam: ibi invenies S. Calistum papam et martyrem et in alter [loco] in superiori domo s. Iulius papa et martyr": cfr. Codice topografico, p. 93).
Un elemento di prova a favore della sicura pertinenza a C. della cripta venerata nella catacomba di Calepodio è una iscrizione votiva posta su una mensola marmorea rinvenuta nelle sue immediate vicinanze ("sanc[to] Callisto / Alfius vot[um] sol[vit]"), che può collocarsi tra la fine del IV secolo e gli inizi del V. Sui muri fiancheggianti la scala che conduce alla tomba di C., posta nel secondo loculo dal basso proprio di fronte all'ingresso, sono presenti iscrizioni, ormai quasi illeggibili, tracciate a sgraffio dai visitatori e alcuni lacerti di un "vasto affresco che decorava tutte le pareti del santuario, volta compresa" (così A. Nestori), nei quali è possibile ravvisare elementi caratterizzanti del racconto - databile per Verrando agli ultimi anni del V secolo - della Passio Calixti (Acta Sanctorum [...], Octobris, VI, p. 430). In uno dei frammenti dell'affresco un'iscrizione didascalica descrive l'episodio ritratto: "in puteu⟨m> / [iact]ant s(an)c(tu)m / [Ca]l(i)stum". La decorazione è stata attribuita all'VIII secolo, più esattamente all'epoca di Gregorio III, cui il Liber pontificalis (p. 419) attribuisce la ricostruzione ed una nuova decorazione pittorica del santuario callistiano ("basilicam sancti Calisti pontificis et martyris, paene a fundamentis dirutam, novis fabricis cum tecto construxit ac totam depinxit"). La risistemazione della cripta venerata deve comunque essere anteriore al papato di Gregorio IV, quando i resti di C. sono sistemati per il culto nella chiesa di S. Maria in Trastevere, dopo essere stati custoditi in una precedente sede provvisoria: erano dunque già stati traslati dalla catacomba (forse durante il papato di Pasquale I, cfr. G.N. Verrando, L'attività edilizia). La Passio (p. 430) fa responsabile della sua morte l'imperatore Alessandro Severo, quindi si tratterebbe del 14 ottobre del 222, essendo Alessandro stato acclamato a tredici anni d'età l'11 marzo di quell'anno. La data è parsa dubbia in quanto tutte le fonti riconoscono Alessandro come tollerante e simpatizzante nei confronti dei cristiani. La Passio presenta invece Alessandro come un violento persecutore, e questo è storicamente inaccettabile, ma il particolare di C. gettato giù dalla finestra di casa in Trastevere e precipitato in un pozzo con un sasso al collo sembra essere veritiero perché tale da colpire la fantasia popolare e rimanere nella memoria. Non può trattarsi quindi di condanna ufficiale, ma di un brutale assassinio, avvenuto nel susseguirsi concitato di un tumulto. Probabilmente è nel giusto chi vede (M. Sordi, Il cristianesimo a Roma, Bologna 1965, pp. 238-39) la morte di C. in collegamento con i tumulti per l'uccisione del predecessore di Alessandro, Elagabalo, che l'Historia Augusta (De Antonino Heliogabalo 3, 5, a cura di R. Turcan, Paris 1993, p. 83) dipinge favorevole ai cristiani. La folla si era accanita contro i corpi dell'imperatore e della madre e lo stesso può aver fatto in uno spontaneo linciaggio nei confronti di chi era stato oggetto del favore dell'odiato imperatore defunto qualche tempo dopo, quando Alessandro, appena assurto al potere, non aveva ancora manifestato a sua volta benevolenza verso i cristiani. Pensando alla confusione e alla paura susseguenti alla sollevazione popolare si spiega il particolare della mancata sepoltura di C. nel suo cimitero, e invece la deposizione sulla via Aurelia, nel cimitero di Calepodio, martire a lui collegato nella Passio: i seppellitori avevano trovato il posto più agevole da raggiungere rispetto al luogo della morte. È anche possibile che i lavori di sistemazione del cimitero comunitario sull'Appia non fossero ancora terminati. Gli immediati successori di C. alla guida della comunità romana non furono deposti nella cripta papale del cimitero sull'Appia. Il sepolcro di Urbano, morto nel 230, è collocato dalle fonti nel vicino cimitero di Pretestato; Ponziano, morto in Sardegna probabilmente nel 235, fu traslato nella cripta solo durante il pontificato di Fabiano, tra il 236 ed il 250; il primo vescovo romano che fu deposto nel cimitero callistiano fu Antero, soltanto nel 236, dunque a distanza di quattordici anni dalla morte di Callisto.
Si può in conclusione ben dire che l'episcopato di C. pone le premesse di tutta la successiva politica papale del III e del IV secolo, e getta le basi del futuro potere economico dei vescovi romani. Dal punto di vista dottrinale la tendenza monarchiana rimarrà caratteristica della Chiesa di Roma, e sarà confermata ufficialmente dalla presa di posizione di papa Dionigi contro l'omonimo vescovo alessandrino nella seconda metà del III secolo.
Fonti e Bibliografia
Acta Sanctorum [...], Octobris, VI, Bruxellis 1856, pp. 401-48.
Ps. Isidorus, Decreta Calixti, in P. Hinschius, Decretales pseudo-Isidorianae et Capitula Angilramni [...], Lipsiae 1863, pp. 135-42.
Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I, ivi 1885, pp. 12-3.
Le Liber pontificalis, nrr. 16, 17, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, pp. 61-3, 139-41.
Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica IV, 23; V, 28, a cura di E. Schwartz, Leipzig 1903 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller. Eusebius Werke, II, 1), pp. 500-06; VI, 21, 33, a cura di E. Schwartz, ivi 1908 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller. Eusebius Werke, II, 2), pp. 566, 588.
Ippolito, Refutatio omnium haeresium IX, 11-13; X, 27, 3-4, a cura di P. Wendland, ivi 1916 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller. Hippolytus Werke, III), pp. 245-52, 283-84.
I. von Döllinger, Hippolytus und Kallistus, oder die Römische Kirche in der ersten Hälfte des dritten Jahrhunderts, Regensburg 1853.
G.B. de Rossi, Esame archeologico e critico della storia di San Callisto, "Bollettino di Archeologia Cristiana", 4, 1866, pp. 17-33.
Id., La Roma sotterranea cristiana, II, Roma 1867.
A. Donini, Ippolito di Roma. Polemiche teologiche e controversie disciplinari nella chiesa di Roma agli inizi del III secolo, ivi 1925, passim.
G. La Piana, The Roman Church at the End of the Second Century, "Harvard Theological Review", 18, 1925, pp. 201-77.
E. Caspar, Geschichte des Papsttums, I, Tübingen 1930, pp. 22 ss., 37 ss., 45 ss. e passim.
C. Cecchelli, Tre deportati in Sardegna, Roma 1939.
Ch.B. Daly, The Edict of Callistus, in Studia Patristica, III, a cura di F.L. Cross, Berlin 1961 (Texte und Untersuchungen, 78), pp. 176-82.
K. Beyschlag, Kallist und Hippolyt, "Theologische Zeitschrift", 20, 1964, pp. 103-24.
J. Zeiller, in Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche-V. Martin, II, Torino 1972², pp. 579-81.
M. Mazza, Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel III secolo d.C., Roma-Bari 1973, pp. 288-92.
S. Mazzarino, L'impero romano, II, ivi 1973, pp. 451-69.
M. Simonetti, Il problema dell'unità di Dio a Roma da Clemente a Dionigi, "Rivista di Storia e Letteratura Religiosa", 22, 1986, pp. 439-74 (ripubblicato in Id., Studi sulla cristologia del II e III secolo, Roma 1993, pp. 183-215).
E. dal Covolo, I Severi e il Cristianesimo, Roma 1989 (Biblioteca di Scienze Religiose, 87), pp. 64-9, 88-90.
Tertullien, La pudicité. De pudicitia, a cura di C. Micaelli, Paris 1993 (Sources Chrétiennes, 394), pp. 15-38.
R.E. Heine, The Christology of Callistus, "The Journal of Theological Studies", n. ser., 49, 1998, pp. 56-91.
Per quanto riguarda la documentazione archeologica v. anche:
Codice topografico della città di Roma, a cura di R. Valentini-G. Zucchetti, II, Roma 1942 (Fonti per la Storia d'Italia, 88), pp. 16, 27.
A. Nestori, La catacomba di Calepodio al III miglio dell'Aurelia vetus e i sepolcri dei papi Callisto I e Giulio I (I parte), "Rivista di Archeologia Cristiana", 47, 1971, pp. 169-278.
Id., La catacomba di Calepodio al III miglio dell'Aurelia vetus e i sepolcri dei papi Callisto I e Giulio I (II parte), ibid., 48, 1972, pp. 193-233.
Id., La tomba di s. Callisto sull'Aurelia antica, in Atti dell'VIII Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana (Barcelona 1969), Città del Vaticano 1972, pp. 367-72.
G.N. Verrando, La passio Callisti e il santuario della via Aurelia, "Mélanges de l'École Française de Rome. Antiquité", 96, 1984, nr. 2, pp. 1039-83.
Id., L'attività edilizia di papa Giulio I e la basilica al III miglio della via Aurelia ad Callistum, ibid., 97, 1985, pp. 1021-61, in partic. pp. 1049-61.
A. Bertolino, "In area Callisti" - Contributo alla topografia di Roma tardoantica, "Rivista di Archeologia Cristiana", 70, 1994, pp. 181-90.
Dictionnaire de théologie catholique, II, 2, Paris 1923, s.v., coll. 1333-42.
Dictionnaire d'archéologie chrétienne et de liturgie, II, 2, ivi 1925, s.v., coll. 1657-754.
G. Bardy, Calliste Ier, in D.H.G.E., XI, coll. 421-24.
J. Quasten, Patrologia, I, Casale Monferrato 1980, pp. 552-53 (sulla questione dell'"edictum peremptorium" ampia bibliografia).
G. Ferretto, Callisto I, in B.S., III, coll. 681-89.
Theologische Realenzyklopädie, VII, Berlin-New York 1981, s.v., pp. 559-63.
Lexikon für Theologie und Kirche, II, Freiburg 1994³, s.v., col. 891.