BENEDETTO, santo
Mentre per la data della morte di B. abbiamo - come si spiegherà in fine - un termine a quo (non prima della fine del 546), nulla di simile possediamo per quella della nascita: e papa Gregorio, nel secondo libro dei Dialogi, pressoché unica fonte nostra, nulla dice riguardo alla durata della vita di lui. Così pure, nessuna notizia o indizio possiamo addurre circa le date degli avvenimenti principali di essa vita: dobbiamo contentarci della cronologia relativa. Questa ci fa risalire con forte verosimiglianza, per la sua nascita, a 10-20 anni prima del 500: ma più di questo non si può precisare.
Si dice correntemente che B. nacque a Norcia: Gregorio però, dice genericamente "ex provincia Nursia" (o "Nursiae"): se avesse saputo che era nato proprio nella città, probabilmente avrebbe scritto: "ex urbe Nursia".
La contrada, percorsa dalla via Salaria, è montuosa: Norcia è posta a circa 600 metri di altezza, a non grande distanza dal monte Vettore (2478 m.) la cima più alta dei Sibillini. La popolazione aveva fama di rudezza montanara: la nurcina severitas che si era già voluta riscontrare nel carattere di Vespasiano (il maggior figlio "laico" della contrada), e con cui ben si accordavano adesso gli eremi e monasteri sorti fra quelle montagne, illustrati già da monaci santi e autori di miracoli.
La famiglia di B. era di piccola nobiltà provinciale ("fiberiori genere exortus"): favola tardiva è la parentela con la "gens Anicia". La famiglia, tuttavia, fu in grado di mandare B. a Roma agli studi liberali.
S. Gregorio ci dice che B. avrebbe posseduto già da fanciullo la saggezza del vecchio, e così, crescendo, non avrebbe inclinato verso "nessuna voluttà". Impossibile dire se questi tratti risalgono ai quattro discepoli da cui Gregorio attinse, o siano invece semplice schema agiografico, impiegato poi a preparare la notizia concreta che B., "quasi appena posto il piede nel mondo, lo ritrasse" e "abbandonati gli studi letterari, la casa e il patrimonio paterno, ricercò l'abito della santa conversione" .
Sarebbe un punto di qualche importanza sapere se dobbiamo prendere alla lettera questo racconto, secondo il quale la "conversione" - termine tecnico per l'abbandono del mondo e l'adozione della vita monastica - sarebbe avvenuta all'inizio della dimora studentesca a Roma. In tal caso - stando alla disposizione del Cod. Th. (XIV, 9, 1) per cui gli studenti venuti a Roma da fuori dovevano andarsene a venti anni - B. sarebbe stato poco più che adolescente. Indurrebbe a rispondere affermativamente il fatto che subito dopo Gregorio indica come informatori i quattro discepoli.
B., lasciata Roma, si stabilì, assistito dalla nutrice, nel minuscolo paese di Effide (oggi Affile) non lontano da Subiaco, entrando a far parte di una libera colonia cenobitica, in cui (a giudicare almeno da lui) ciascuno provvedeva per proprio conto alla vita materiale. E qui Gregorio registra l'episodio del crivello sfuggito dalle mani della nutrice spezzandosi a terra, e ricomposto in seguito alla preghiera di Benedetto. Ciò bastò per celebrare come taumaturgo il monaco novello, che, infastidito dallo strepito sollevatosi intorno a lui, abbandonò colonia e nutrice passando a rigorosa vita eremitica in una grotta, sulla destra dell'Aniene al disopra di Subiaco (che venne identificata dai posteri col "Sacro Speco"). Prima di chiudersi colà, B. volle compiere la professione ffirmale, e la effettuò senza curarsi della gerarchia monastica: il monaco Romano di un monastero vicino (e non l'abate) gli impose la "melote", pelle di capra portata sulle spalle dai monaci d'Oriente. Fu anche Romano a provvedere al mantenimento di B. calandogli dall'alto in un paniere un poco di cibo sottratto alla sua porzione monastica. Così, per libera ispirazione di ambedue, avvenne il passaggio di B. dalla colonia cenobítica all'eremo: seconda fase della sua vita religiosa.
Tre anni passò B. in quella grotta, in isolamento completo, salvo il contatto da lungi con Romano, senza partecipare a funzioni religiose di sorta, e anzi perdendo perfino la nozione del tempo, fino a ignorare il succedersi delle grandi feste cristiane.
Codesto suo isolamento, a giudicare dal silenzio di Gregorio - ma forse l'argumentum ex silentio è qui particolarmente azzardato - non fu tormentato, come quello di tanti monaci orientali, da allucinazioni e tentazioni; salvo il caso (in verità molto umano) di un ricordo intenso - una specie di visione dovette essere - sopraggiuntogli un giorno di una donna già da lui conosciuta: ricordo così vivo da fargli concepire per un momento l'idea di abbandonare l'eremo. La tentazione fu da lui vinta rotolandosi su un folto di ortiche e rovi vicino (l'episodio ci è riferito dal biografo Gregorio).
Alla fine dei tre anni l'isolamento assoluto di B. fu rotto dalla visita improvvisa, fattagli per suggerimento di una apparizione divina (in sogno?), da un prete venuto di lontano a fare Pasqua con lui, e da lui accolto con giubilo entusiastico prima ancora di apprendere che in quel giorno era Pasqua. Quella visita pasquale apparve a B. come un messaggio e un ammonimento celeste, producendo in lui una scossa profonda che segnò la fine deliberata del suo isolamento ascetico, e il ritorno progressivo al consorzio umano e cristiano. Dopo la visita del prete, pastori vagabondi capitarono alla sua grotta, e gli si fecero d'attorno per curiosità tramutantesi in venerazione. Parlò ad essi di religione e di morale; altri si succedettero ad ascoltarlo, e la spelonca dell'eremita diventò oracolo e santuario per i luoghi intorno. Maturò così in lui una vocazione di apostolo e padre spirituale; dall'anacoreta venne fuori l'abate.
Accadeva allora non raramente che un monastero, anziché scegliersi l'abate dal suo seno, o da un'altra congregazione monacale vicina, si rivolgesse a qualche eremita venuto in fama di santità. Nessun corpo di prescrizioni canoniche, applicato sistematicamente dalle gerarchie ecclesiastiche, si imponeva allora alle congregazioni cenobitiche, al loro tenor di vita, alla loro organizzazione. Si era nel campo di semplici consuetudini, scritte o no; e regole diverse circolavano da una congregazione all'altra, trascritte o apprese a memoria, rimaneggiate, combinate insieme.
Accadde, dunque, che i membri di una comunità monastica della regione - da secoli si ripete che fosse il monastero di Vicovaro, senza che si sia mai addotta una testimonianza vera e propria, o almeno un indizio concreto, per l'identificazione - scegliessero B. per loro abate. Questi resisté a lungo, probabilmente perché conosceva l'estrema rilassatezza di quella comunità. Alla fine accettò, e procedette nel suo ufficio con tutta l'ampiezza e il rigore del suo potere supremo, che lo rendeva responsabile dinanzi a Dio della salvezza spirituale dei suoi monaci. Non sappiamo quale regola si seguisse nel monastero, o fosse stata scelta da B.: è anche perfettamente possibile che una regola determinata e unica non ci fosse. La familiarità che più tardi B. mostra con Cassiano, e l'autorità di cui quest'ultimo godeva in Occidente, possono far congetturare che le Istituzioni e le Conferenze di lui - le une e le altre impregnate di rigido ascetismo - gli fossero di guida.
Come che sia, si generò ben presto uno stato di conflitto fra i monaci proseguenti nella loro indisciplinatezza e l'abate insistente nei comandi e nelle punizioni. Non sappiamo quanto tempo questa lotta durasse: Gregorio, biografo alquanto sui generis, non si cura di simili minuzie. Alla fine, non potendo i monaci liberarsi pacificamente dell'abate (eletto a vita come il vescovo), ricorsero a un tentativo di avvelenamento. Ma il vaso mortifero, presentato a B. all'inizio della mensa, sotto il segno di croce di lui cadde a terra andando in frantumi. B., "vultu placido, mente tranquilla", convocati i monaci, li consigliò a scegliersi un altro abate, secondo il cuor loro, e se ne andò.
Senza più occuparsi di comunità monastiche esistenti, B. iniziò adesso la sua carriera di fondatore ed organizzatore di monasteri: i discepoli accorsero a lui numerosi superando ben presto il centinaio. Egli li distribuì in dodici monasteri, ciascuno con dodici monaci, in costruzioni improvvisate presumibilmente di estrema modestia, sparse sul pendio dei monti incombenti sull'Aniene, dalle cime al ciglio del fiume (Gregorio dice "lago": si trattava di uno degli specchi d'acqua creati dalle dighe neroniane, e scomparsi con queste). Evidentemente, questo doppio "12" aveva significato simbolico e più precisamente "apostolico", in relazione con la tendenza evangelizzatrice eccitatasi in B. dopo l'incontro con i pastori e combinantesi con un residuo di eremitismo, che gli fece prediligere codesti piccoli gruppi, i cui membri potevano anche abitare in celle o grotte separate l'una dall'altra. Occorre tuttavia ricordare che una molteplicità simile di monasteri riuniti intorno a un capo aveva un suo precedente nel monachesimo pacomiano; mentre poi le condizioni della zona non si prestavano per una grande unica costruzione. B. abitava a parte, in alto sull'Aniene, con pochi giovani da lui particolarmente istruiti.
Abbiamo indicazioni sufficienti per affermare che nel quasi centinaio e mezzo di monaci probabilmente accresciutisi man mano c'erano nobili e plebei, romani e goti. Due giovani romani, resi illustri in secoli più tardi dalla leggenda agiografica, erano Mauro, che B. si tenne come suo aiutante ("segretario" diremmo oggi), e Placido, figlio del patrizio Tertullo, ancora ragazzo, probabilmente un "oblato"; ambedue soggetti dell'episodio prodigioso raccontato da Gregorio nel c. 5: Mauro che per virtù di B. salva Placido in rischio di affogare (fa pendant a questo miracolo di B. in pro di un nobile romano quello immediatamente seguente [c. 6] in pro di un goto "pauper spiritu").
Neanche per l'organizzazione monastica sublacense abbiamo indicazioni dirette circa la regola, o le regole, colà applicate da B.: ma la complessa e prolissa disputa circa le relazioni intercedenti fra la Regula Benedicti (RB, in seguito) e la anonima Regula Magistri (RM) può condurci a formulare una congettura assai probabile, di una importanza storica oltrepassante d'assai il piano filologico proprio della disputa stessa.
Delle due ipotesi fondamentali: RM posteriore a RII, RB posteriore a RM (la terza ipotesi della fonte comune è una trovata da disperati), la seconda può considerarsi oramai come vittoriosa. Non si può dire altrettanto del modo con cui la grande maggioranza dei suoi fautori concepisce il rapporto concreto fra le due, e che è quello di una appropriazione fatta a Montecassino da B. di RM per RB. Pda considerare invece come soluzione più accettabile - e potremmo dire, unica veramente accettabile - del rompicapo, durante da quasi un quarto di secolo, quella della modestissima minoranza di studiosi che sostiene l'appartenenza di ambedue le regole a B., rappresentando la prima, RM, la regola della comunità sublacense. È apriorismo puro, e cioè puramente arbitrario, sostenere l'incompatibilità delle due regole come opera della stessa persona, a causa della gran diversità di, lingua, stile, concezioni e spirito fra le due; mentre è addirittura assurdo opporre la "notevole diversità di ambiente" che emerge dal loro confronto: quando è proprio una notevole diversità di ambiente che porta alla ipotesi sublacense per la RM, di fronte all'indubbia localizzazione cassinese per la RB. In quanto alle differenze intrinseche sopra indicate, non vi è la minima ragione per negare a priori che esse si siano realizzate in B. nella successione dei due periodi, sublacense e cassinese, dal momento che la profonda diversità dei comportamento di B. nell'uno e nell'altro costituisce addirittura la trama della sua opera storica. Così pure, che lo stile di B. abbia subito una trasformazione corrispondente sia al tempo trascorso, sia, e più, al cambiamento intimo - dell'autore, è cosa che senz'altro dovremmo supporre. Né si deve dimenticare che lo stato del testo della RM non permette conclusioni sicure circa il suo tenore primitivo.
L'attribuzione di ambedue le regole a B., con un congruo intervallo di tempo fra le due, rimane dunque l'ipotesi che meglio scioglie -troncandoli - i nodi formatisi in seguito al loro incontro e raffronto; e offre anche il prezioso risultato di chiarire ulteriormente lo sviluppo della personalità religiosa e monastica di B., e la successione dei due periodi: sublacense e cassinese. Ma anche chi non ne fosse definitivamente persuaso, dovrà almeno ammettere l'estrema verosimiglianza che B. abbia conosciuto la RM fin dal periodo sublacense, e l'abbia, o adottata formalmente, o almeno tenuta presente nella direzione dei dodici monasteri; ciò che rende molto più comprensibile psicologicamente la utilizzazione (molto meno larga di quel che appare a prima vista) fattane nella RB. E così, anche in questa ipotesi ridotta, la RM dovrebbe essere assunta a strumento di conoscenza del B. di Subiaco.
I caratteri specifici di RM risulteranno dal confronto analitico che più avanti faremo tra le due. Qui possiamo dire sinteticamente che in RM c'è una spiccata tendenza oratoria dottrinale-edificante, autoritaria, una propensione ai minuziosi e lunghi svolgimenti, una scarsezza di spirito organico. Sono caratteristiche le quali si adattano al periodo di transizione di B. tra la fine delPeremitismo e l'inizio dei cenobitismo cassinese, quando nella molteplicità dei gruppi cenobitici sublacensi scarsa doveva essere l'organizzazione unitaria, e la direzione di B. doveva avere carattere, piuttosto che di governo, di alto insegnamento, quale di maestro a discepoli. Lo schema costante dei capitoli di RM è appunto quello del discepolo che interroga e del maestro che risponde: e il c. 3 è intitolato: Quae est ars sancta quam docere debet abbas discipulos in monasterio?
Nulla sappiamo di relazioni gerarchiche di B. cenobita, eremita, abate e fondatore di monasteri con le autorità ecclesiastiche. Fantasie antistoriche sono quelle di chi ha supposto, come cosa ovvia e indispensabile, trattative e autorizzazioni di autorità ecclesiastiche e laiche per la fondazione sublacense e poi per quella cassinese. Se Gregorio avesse saputo - e per saperlo, egli, pontefice romano, non avrebbe avuto bisogno dei discepoli di B. - di un concorso qualsiasi dato da un suo predecessore alle fondazioni monastiche di B., sarebbe più che inverosimile un silenzio in proposito.
È questo il momento di rilevare che non c'è nessuna testimonianza di un B. prete, e neppure diacono. Certamente, non è da credere che i monaci dei dodici monasteri rimanessero estranei alla vita sacramentale e liturgica (all'infuori delle ore canoniche in coro) come lo era rimasto B. nell'isolamento triennale. Ma per codesta partecipazione potevano servire qualche prete e qualche chiesa delle vicinanze; e non è neppure da escludere che entro l'uno o l'altro dei dodici monasteri ci fosse qualche monaco sacerdote. In fatto di rapporti fra B. e il clero romano-laziale, il primo caso che conosciamo è anche l'ultimo; ed è altresì direttamente connesso con l'esodo di B. da Subiaco. Siamo all'episodio del prete Fiorenzo; e, come sempre, è Gregorio a raccontarlo, al suo solito modo. Fiorenzo era un prete di Subiaco, preposto a una chiesa rurale prossima ai monasteri sublacensi. Probabilmente si trattava di una fondazione privata, come tante altre del tempo, ma tuttavia formante il centro di culto pubblico principale della zona. Questa specie di monopolio (con tutte le sue conseguenze, materiali e morali) venne a esser rotto dalla fondazione dei dodici monasteri, i quali, posto anche non avessero incluso nessuna chiesa officiata da sacerdoti, avevano certamente almeno oratori, non chiusi ai fedeli. Anche Fiorenzo, come i monaci della prima esperienza abbaziale di B., ricorse al veleno per sbarazzarsi dell'incomodo abate; e come quelli fallì, avendo B. gettato via la "exilogia" (pane benedetto) avvelenata inviatagli dal prete. Questi allora innanzi ai monaci più giovani che B. teneva con sé inscenò danze lascive di sette ragazze. A B. fu facile cacciarle via, ma giudicò poi non convenisse impegnarsi in una guerra combattuta con mezzi pericolosi per l'anima dei discepoli, e pertanto decise di allontanarsi. Affidati i monasteri ai loro superiori immediati, partì da Subiaco portando con sé pochi monaci: né lo indusse a ritornare indietro la notizia, portatagli dopo una diecina di miglia da Mauro, che Fiorenzo era morto.
Parrebbe questo un nuovo numero nella serie dei cambiamenti apparentemente improvvisi che hanno costituito fin qui la trama esterna della vita di Benedetto. In verità, per ciascuno di quelli precedenti abbiamo trovato facile individuare una origine non immediata e una più o meno lenta maturazione. Più difficile riesce simile individuazione per l'esodo da Subiaco. Ma, se noi consideriamo bene la diversità capitale fra i dodici piccoli monasteri di Subiaco, a non gran distanza da Roma, e il grande unico monastero sulla cima del monte soprastante alla modesta città di Cassino, saremo indotti a ritenere che B. avesse finito per non essere soddisfatto della sua fondazione sublacense, e per concludere che bisognava fare del nuovo e diverso. Ancora una volta, così, dietro l'episodio esterno e momentaneo, intravediamo un cambiamento intimo, profondo, di B., la maturazione di una nuova fase della sua esperienza, e di un nuovo programma: esperienza e programma, però, questa volta definitivi.
Il carme di Marco di Montecassino si compiace di presentare l'arrivo di B. a Cassino come effetto di indicazioni prodigiose. A probabile invece che egli, abbandonando Subiaco, avesse già scelto, se non proprio il luogo preciso, per lo meno la direzione del viaggio e la regione di sosta, nonché deternúnato certe qualità che avrebbe dovuto avere la nuova sede e di cui a Cassino trovò la realizzazione.
L'antichissima città volsca di Casinum, poi municipio e colonia romani, e nella seconda metà dei sec. V vescovado, era situata sul fiume Rapido, ai piedi di una ripida altura, ultima propaggine del gruppo di Monte Cairo elevantesi a nord della valle del Liri. L'altura di Montecassino riuniva in sé i vantaggi della prossimità alla via Latina, di grande comunicazione, dell'appartatezza conveniente a un cenobio, e di un largo spazio liberamente utilizzabile. Il terreno intomo alla sommità era incolto, boscoso e quasi impervio; vi sorgevano tuttavia ancora le mura ciclopiche dell'Arx, e un tempio di Giove, costruzione o ricostruzione del sec. II dopo Cristo, e all'intomo boschetti sacri agli dei, l'uno e gli altri non ancora deserti di frequentatori.
B. intraprese subito vigorosamente il doppio diboscamento materiale e spirituale: atterrò il simulacro e l'altare del dio, abbatté i boschetti sacri, trasformò il tempio in un duplice oratorio, in onore del Battista precursore di Cristo e di s. Martino iniziatore del monachesimo occidentale. La popolazione all'intorno fu oggetto di una intensa e fruttuosa opera missionaria. Sul monte diboscato e cristianizzato venne eretto dalle mani dei monaci (con l'aiuto - dobbiamo credere - dei campagnuoli ricondotti a Cristo) l'unico e grande monastero. Nel corso dei lavori non mancarono incidenti, che parvero diabolici.
Secondo quel che era rimasto nella memoria e nella tradizione dei discepoli cassinesi di B., si sentirono strepiti collerici di esseri invisibili, ma apparvero altresì visioni fiammeggianti: un idolo trovato nelle fondamenta e poi gettato nel fuoco sembrò avvolgere in una fiammata tutto un ambiente; massi ciclopici sbarranti la via alla costruzione opposero talvolta una resistenza prodigiosa a essere rimossi. B. non perdette mai la calma, e la trasmise ai suoi per l'alacre proseguimento dei lavoro. L'incidente più grave si ebbe per una parete in costruzione, che sfasciandosi seppellì un giovane monaco figlio di un nobile municipale (probabilmente di Cassino, ciò che testimonierebbe il successo locale immediato di Benedetto). Trattolo di sotto le macerie tramortito, questi lo richiamò alla vita e al lavoro.
Contemporaneamente e successivamente alla costruzione del monastero, il terreno intorno fu ridotto a coltivazione, ed esso costituì la prima base per la vita economica della comunità, che B. concepì come "autarchica", a differenza del complesso monastico sublacense che in tutt'altre condizioni del secondo, e altresì in diverse disposizioni dei monaci, doveva avere avuto bisogno essenziale delle offerte dei fedeli. Questo cambiamento economico aveva un grande valore religioso: i monaci non avevano necessità od occasione di uscire dall'ambito del monastero, con perdita di tempo e dispersione di spirito. Il comunismo monastico era creazione materiale e spirituale insieme: e rovesciandosi le parti rispetto alla società civile, avrebbe generato esso medesimo nuovi nuclei sociali. Evidentemente, questa autarchia cassinese non poté organizzarsi in un giorno; né anche dopo la prima organizzazione poté essere sprovvista di sussidi esterni.
La pratica delle pie donazioni era in vigore da un pezzo: la lista di possessi del monastero cassinese in Sicilia contenuta nel falso atto di donazione di Tartullo datoci dallo Pseudogordiano (la tarda leggenda di Placido) può comprendere beni posseduti colà dal monastero fin dal tempo della fondazione. Ma, anche indipendentemente da ciò, èperfettamente verosimile che il monastero abbia avuto donazioni nella contrada stessa ove si costruiva. Si integra questa verosimile congettura con l'altra (che potremmo dire piuttosto certezza) che il corpo monacale cassinese, rapidamente cresciuto al di là dei pochi giunti con B., abbia tratto una gran parte delle nuove reclute dalla popolazione intorno. Abbiamo nominato il figlio di un curiale; ma c'è anche menzione (per incidenza) di un "difensore" - altro magistrato municipale -, e di un "vir nobilis" Teopropo, il quale ultimo, però, si dette a vita religiosa senza entrare nel monastero. Al quale non soltanto si portano, sempre secondo le menzioni di Gregorio, malati da guarire, ossessi da liberare, morti da risuscitare; ma accorrono servi e coloni maltrattati, elemento sociale integrante quello delle reclute di nobiltà municipale. Affluiscono anche doni, talora cospicui e provvidenzialmente improvvisi, in momenti di estremo bisogno. Momenti dovuti anche al fatto che B. reputava obbligo naturale il soccorrere i poveri fino all'esaurimento delle provviste del monastero (abbiamo per esempio, c. 28, il miracolo dell'olio, traboccato fino a inondare il pavimento dal fiasco che B. aveva fatto gettar via perché il prudente economo non aveva voluto dame a un bisognoso).
Non c'è menzione del vescovo di Cassino, o di altro vescovo, che abbia esercitato ingerenza nel monastero: e probabilmente la testimonianza ex silentio in questo caso corrisponde alla realtà dei fatti.
Nel monachesimo occidentale anteriore e contemporaneo a s. Benedetto era frequente il caso di monasteri fondati o promossi da vescovi; ma ciò senza nessuna esclusione, neanche tendenziale, delle libere fondazioni da parte di chi si sentisse chiamato dallo Spirito alla vita e organizzazione monastica. Il principio del potere monarchico abbaziale era comunemente ammesso; B., per conto suo, lo professò in parole e in atti, con il corrispettivo della responsabilità dell'abate innanzi a Dio per tutti i suoi monaci. Un intervento del vescovo è contemplato due volte nella Regola: nel c. 62, come semplice testimonio per l'ammonizione di un monaco prete non osservante la regola; nel c. 64, per la sostituzione di un abate degno a uno indegno scelto da una congregazione corrotta. In questo secondo caso, però, lo stesso potere d'intervento è attribuito agli "abbites aut Cristianos vicinos". Vediamo invece un vescovo, Sabino di Canosa, molto rinomato per virtù e santità, venire a Montecassino ripetutamente a colloquio con B., ma come amico, e possiamo dire devoto di lui. In quanto alla celebrazione della messa e della comunione, è presupposto dalla Regola che essa avvenga entro il monastero, ciò che poteva farsi sia con sacerdoti provenienti da fuori, sia con monaci sacerdoti. La esistenza di questi è considerata dalla Regola (c. 62) come facoltativa, e non conferente al monaco nessun privilegio.
A sua volta, B. non si occupa di altri monasteri o istituti ecclesiastici, con una sola eccezione. Pregato da un pio anuniratore, fondò un monastero su una terra di lui presso Terracina (Gregorio, c. 22), disegnò il piano di costruzione, compose la prima comunità con suoi discepoli e nominò il primo abate e il suo coadiutore (o priore). Ma non pare se ne sia occupato ulteriormente: nella Regola, anzi, biasima espressamente che il priore venga nominato da altri che dall'abate medesimo. Non si può aggiungere come una seconda vera eccezione l'avere accettato la direzione spirituale di una congregazione di monache in gin paese vicino.
Se non si occupò di vita monastica al di fuori dei suo monastero, tanto meno B. si impacciò di quella teologica, ecclesiastica, politica del tempo. Né RM né RB contengono il minimo, accenno a simili materie, comprendenti fra l'altro le dispute e gli intrighi monofisiti, e l'episodio doloroso e scandaloso della rimozione di papa Silverio, sostituito da Vigilio. In quanto alla guerra gotica, con le sue vicende di riconquiste imperiali e di riprese "barbare", essa giunse almeno in un momento a sfiorare Cassino, ma si arrestò ai piedi dell'altura monastica. Salì invece l'altura Totila, prima o dopo la presa di Napoli (che è della primavera 543). Il re vittorioso volle sperimentare la chiaroveggenza metapsichica dei santo, inviandogli vestito dei suoi abiti regali un suo scudiero, che fu immediatamente pregato da B. di deporre le vesti non sue. Subentrò Totila in persona, prostrandosi a terra. Sollevatolo, B. gli disse (secondo Gregorio) che era tempo si astenesse dal commettere altro male dopo il molto già fatto, e gli annunciò che sarebbe entrato a Roma, e sarebbe morto entro dieci anni. Totila, atterrito, chiese al santo di pregare per lui, e pose fine al colloquio. "e da quel tempo" conclude Gregorio "fu meno crudele" (veramente Totila nel 542-43 aveva appena cominciato la sua carriera, mentre i pochi atti veramente crudeli di lui di cui abbiamo testimonianza storica cadono dopo il colloquio con Benedetto).
Gregorio ci attesta, nel preambolo al racconto prodigioso del fiasco d'olio, quale carestia affliggesse in quel tempo la Campania; tratto che rientra nel quadro generale della desolazione d'Italia per effetto della ventennale guerra gotica. Anche senza quel racconto, non possiamo dubitare che il nuovo monastero esercitasse una funzione di soccorso alla miseria circostante. Così come l'episodio del goto Zalla - tormentatore crudele di un contadino suo debitore, finché la condanna severa di B. non lo ricondusse a più miti consigli - ci mostra B. protettore dei piccoli contro le prepotenze dei grandi. Giustizia e carità, senza distinzioni di classe, di razza, di governo, sono i suoi criteri di fronte ai rivolgimenti politici e alle azioni di guerra del mondo circostante. E la carità di B. superò il limite della normale convivenza umana allorché egli si distese sul corpo inanimato del fanciullo "rustico" apportatogli dal padre desolato, richiamandolo a vita.
Di un sentimento romano-imperiale, ostile alla dominazione gotica, in B. non troviamo traccia. E neppure di un interesse particolare per Roma, sede del primo vescovo della cristianità e consacrata dalle tombe di Pietro e Paolo.
All'indomani dall'entrata di Totila in Roma il 17 dic. 546 salì al monastero il già ricordato vescovo di Canosa Sabino, per uno dei soliti colloqui con l'abate B., e gli riferì che si attribuiva a Totila l'intenzione di distruggere Roma. B. rispose: "Roma non sarà sterminata dai barbari: tempeste, fulmini e terremoto la sconquasseranno, e cadrà da se stessa in putrefazione". Se le sue parole sono state tramandate fedelmente a Gregorio, esse testimoniano di una intima estraneità superiore rispetto a Roma, se pure non di condanna sul tipo delle profezie d'Isaia e Geremia. Impressione che si conferma quando quella secca sentenza si confronti con il ben diverso contegno di B. in un'altra sua visione profetica, quella del monastero destinato a essere distrutto dai Longobardi, profezia enunciata dopo un lungo amarissimo pianto.
Dalla profezia su Roma al vescovo Sabino L. Salvatorelli, primo ai nostri giorni e nell'ignoranza dei precedenti lontani, dedusse che B. era ancora vivo alla fine del 546; ciò che provocò l'abbandono definitivo da parte degli storiografi di B. della data tradizionale 543 per la sua morte. Tenendo fermo alla data della commemorazione liturgica del transito, il 21 marzo 1947 è stato celebrato il 14° centenario della morte del santo. Per se stesso, il termine a quo della fine di dicembre 546 non ha a che fare con un termine ad quem 547 (21 marzo, o no, che sia). Possiamo tuttavia dire: 547 o poco dopo, considerando che dalla morte di B. alla distruzione di Montecassino avvenuta per opera dei Longobardi e anteriore, secondo l'opinione prevalente, al 580 (a circa il 577 secondo S. Brechter), si successero quattro abati, che si può ben credere abbiano coperto complessivamente almeno una trentina d'anni.
Le date, tradizionali da secoli, del 543 per la morte, del 529 per la fondazione di Montecassino, sono indicate, o ricavate, da leggende e cronache posteriori di vari secoli in combinazione anche con la cifra di 14 anni che, secondo talùna di queste "fonti", B. avrebbe passato a Montecassino.
B. aveva una sorella, di cui non sentiamo parlare prima dei periodo cassinese, Scolastica di nome, consacrata al Signore fino dall'infanzia, senza che (per quanto pare) appartenesse a un monastero: in questo tempo molte vergini consacrate a Dio vivevano in casa propria. Una sola volta all'anno - fosse ciò per misura ascetica, o per la lontananza - B. si incontrava con la sorella in un luogo appartenente alla comunità cassinese. Passavano il giorno insieme, in colloquio e in preghiere, cenavano insieme, quindi riprendevano ognuno la propria strada. Una volta B. fu pregato dalla sorella di rimanere con lei tutta la notte, per continuare a discorrere insieme delle gioie celesti. B. stette fermo al divieto della Regola. Scolastica rispose al rifiuto col pianto e la preghìera: e un uragano violento venne a rendere impossibile a B. di andarsene. Così tutta la notte trascorse in colloqui tra fratello e sorella, come Scolastica aveva desiderato. Tre giorni dopo ella venne a morte, e B. ne vide l'anima, in forma di colomba, innalzarsi al cielo.
Non sappiamo quanto tempo B. sopravvivesse alla sorella. Sei giorni avanti la morte, egli fece aprire il sepolcro in cui aveva depositato Scolastica: dopodiché fu colto da una febbre violentissima e nel sesto giorno morì pregando in piedi, nella chiesa ove si era fatto condurre. Fu deposto accanto alla sorella nel sepolcro. Il 21 marzo fu il giorno della sua commemorazione liturgica. Il sepolcro è ricomparso negli scavi fatti dopo la distruzione del monastero avvenuta nel corso della seconda guerra mondiale.
B. continuò a vivere, della più intensa vita religiosa e sociale, nella sua Regola diffusasi a mano a mano spontaneamente in. tutto l'Occidente. Merita appena menzione la congettura formulata dal Chapman che egli l'avesse scritta per incarico pontificio: congettura innalzata a certezza indiscutibile dallo Schuster, come atto di imposizione papale, attraverso B., di una regola unica a tutto l'Occidente monastico. Al silenzio di Gregorio e alla mancanza di qualsiasi altra notizia e indizio si unisce qui una concezione "ultramontana" assurdamente anacronistica. Certo essa dovette essere scritta a Montecassino, forse anche stesa a più riprese, riassumendo il risultato delle esperienze e delle meditazioni dell'abate, ma altresì tenendo presenti, insieme con l'Antico e Nuovo Testamento, Cesario d'Arles, Cassiano, la "Regula Basilii", la "Regula Pacomii", e altri testi classici dell'antico monachesimo. Recentissimamente è stata anche affermata una influenza di s. Cipriano.
La sua differenza dalla RM è tanta e tale che solo l'ipotesi dell'appartenenza di RM a B. - o per lo meno di una conoscenza e adozione precedente - può rendere comprensibile (una volta riconosciuta la precedenza di RM) che B. abpia fatto tutta quellafatica di rimaneggiamento testuale, riduzione, trasformazione, anziché stenderla direttamente e integralmente ex novo.
L'opera di condensamento e di eliminazione di RB rispetto a RM si afferma già energicamente nel Prologo, con la soppressione della lunga tirata "O homo" - contraddistinta da un tono oratorio e da una impostazione di autorità trascendente - nonché della lunga dissertazione sul "Pater Noster". Occorre tuttavia tener presente che nel prologo di RM più che altrove c'è la possibilità di interpolazioni posteriori. Alla fine, ripetuto con RM: "Constituenda est nobis dominici scola servitii", RB seguita con un inciso dei più caratteristici: "In qua institutione nihil asperum, nihil grave nos constituturos speramus". In queste poche parole è rappresentato il passaggio di B. dalla concezione monastica di Subiaco a quella di Montecassino.
I primi sette capitoli di RB, contenenti per la più gran parte insegnamenti morali e ascetici, sono paralleli ai primi dieci di RM con uguaglianza di argomento e di formule; ma su questi è stata effettuata una opera di condensazione, con omissione di tratti anche lunghi. A cominciare, poi, dall'undecimo capitolo della RM cessa completamente il parallelismo di argomenti, l'ordine di trattazione di RB risultando assai più logico e organico; e tutta una serie di capitoli di RM non hanno rispondenza in RB. Là dove rispondenza c'è, si ripresentano da parte di RM la prolissità, le digressioni, le differenze di stilizzazione; mentre per la sostanza troviamo una sistematica indipendenza di disposizioni da parte di RB. Riguardo alla lunghezza, il risultato finale è che RB è poco più di un terzo di RM.
Diamo adesso un rapido sunto di RB, che anche da solo giova a comprenderne le caratteristiche.
Dopo un prologo di esortazione religiosa, nel quale vengono indicati genericamente il valore, lo scopo e la natura della Regola, questa si apre (c. 1) con una rapìda enumerazione dei quattro generi di monaci, cenobiti, anacoreti, sarabaiti, girovaghi, concludendo ch'essa si occuperà soltanto del primo. Passa quindi immediatamente a stabilire le qualità e i doveri dell'abate (c. 2) e a indicare come questi debba servirsi del consiglio dei fratelli (c. 3). Segue la parte propriamente morale-ascetica: i precetti della morale cristiana (c. 4), le virtù specificamente monacali dell'obbedienza (c. 5), della taciturnità (c. 6), dell'umiltà (c. 7: se ne distinguono dodici gradi sulle orine di Cassiano, che tuttavia si era fermato a dieci). I dodici capitoli seguenti sono dedicati alla liturgia monastica, l'"opus dei": l'orario dell'ufficio notturno, o "Vigiliae", nei giorni feriali (c. 8), e le preghiere che vi si debbono dire d'inverno (c. 9) e d'estate (c. 10); l'orario e le preghiere dell'ufficio notturno della domenica (c. 11) e delle altre feste (c. 14); il mattutino (cc. 12-13) e le altre ore diurne (cc. 16-18); l'impiego dell'alleluia (c. 15); lo spirito con cui si deve recitare l'ufficio (c. 19). Vi si aggiunge, appendice naturale, un breve capitolo sul come fare orazione (c. 20). Vengono adesso l'organizzazione e la disciplina: dopo due capitoli sui decani dei monastero (c. 21) e sul dormitorio dei monaci (c. 22), seguono le disposizioni punitive (cc. 23-30) per le mancanze dei monaci. Si tratta quindi dell'economo e della conservazione e distribuzione delle cose del monastero (cc. 31-32, 34), inserendovi il divieto ai monaci di possedere nulla in proprio (c. 33); del servizio di cucina (c. 35), del trattamento da fare agli infermi (c. 36), ai vecchi e ai fanciulli (c. 37), dei lettore alla mensa (c. 38), del vitto e dell'ora dei pasti (cc. 39-41). Segue un'altra serie di capitoli disciplinari, sul silenzio e la lettura (c. 42), sui ritardi al coro e alla mensa (c. 43), sul modo col quale lo scomunicato può ottenere l'assoluzione (c. 44), sulle mancanze nel canto dei coro (c. 45) e nei lavori del monastero (c. 46). Dopo un capitoletto sospeso in aria e, nonostante la sua brevità, alquanto composito, sull'annuncio ai monaci delle ore canoniche e sull'assegnazione delle varie parti nel coro (c. 47), si dà l'orario delle altre occupazioni dei monaci, lavoro e lettura (c. 48); quindi si tratta dell'osservanza della quaresima (c. 49). Seguono alcune regole per i monaci occupati fuori del monastero o in viaggio (cc. 50-51) e le prescrizioni circa l'uso dell'oratorio - che deve servire unicamente per la preghiera - da parte dei monaci (c. 52). Un capitolo piuttosto lungo sul trattamento da fare agli ospiti (c. 53) è seguito da un altro assai breve sulle lettere e doni inviati ai monaci dal di fuori (c. 54). Si stabiliscono quindi le regole per il vestito dei monaci (c. 55), per la mensa dell'abate (c. 56), per i monaci artigiani (c. 57). Segue una serie coerente di capitoli sul reclutamento e l'ordinamento della comunità monastica: accettazione dei postulanti, noviziato e professione (c. 58), gli oblati (c. 59), i monaci sacerdoti (cc. 60, 62), i monaci di altri monasteri (c. 61), l'ordine della precedenza (c. 63), la elezione e i compiti dell'abate (c. 64), il prevosto (c. 65), i portinai (c. 66). A questo corpo compatto di prescrizioni organiche si aggiungono disposizioni varie sui viaggi dei monaci (c. 67), sui comandi impossibili ad eseguire (c. 68), sulla difesa e tutela, assolutamente vietate, di un monaco da parte di un altro (c. 69), sull'usurpazione e l'abuso di funzioni disciplinari da parte dei monaci (c. 70), sull'obbedienza doverosa dei monaci giovani verso gli anziani (c. 71), sull'amore e lo zelo che tutti i monaci debbono avere gli uni per gli altri (c. 72). Il c. 73 conclude la regola, esponendo come essa sia un semplice avviamento alla perfezione, sulla cui strada il monaco, una volta assodato questo principio, potrá inoltrarsi ulteriormente. Conclusione che risponde perfettamente alla premessa del prologo: "nihil asperum" ecc.
L'ordinamento di RB, assai migliore di quello di RM, non può dirsi tuttavia perfetto. Più di una volta le disposizioni sono generiche, discrezionali, incidentali. È ancora forte - anche se in misura e modo diversi da RM - il carattere di documento spirituale più e prima che legislativo; ed è pertanto da prendere "cum grano salis" l'affermazione abitualmente ripetuta del senso giuridico di B., che poco manca non sia presentato da taluni come uno scolaro del diritto romano. Una quantità di norme gerarchiche e disciplinari sono puramente generiche e discrezionali. La discrezionalità dei poteri dell'abate si manifesta in tutte le parti dell'ordinamento e della vita del monastero, e risponde alla considerazione spirituale che egli fa le veci di Cristo. Essa è temperata dal carattere sacro attribuito alla Regola, a cui egli è interamente legato.
Rimane tuttavia che, in confronto alla legislazione monastica precedente, la Regola di s. Benedetto spicca per costruttività e organicità. Le norme essenziali per una comunità monastica ci sono tutte, e talora si scende anche ai particolari. La comunità non è una semplice esecutrice passiva degli ordini dell'abate: essa deve essere consultata, e nei casi più importanti si deve ascoltare il parere di tutti, "perché sovente il Signore rivela al più giovane l'idea migliore": preziosa conferma della spiritualità regnante nella Regola. E mentre all'abate si inculca la responsabilità per le anime dei monaci (c. 63) gli si dice anche di non credere di poter fare ciò che vuole: "sappia ch'egli ha assunto cura di anime inferme, non tirannide sopra le sane" (c. 27).
È da notare l'importanza che si dà al "cellararius", o economo: egli appare come la persona più importante dopo l'abate. Ciò corrisponde al concetto organizzativo "autarchico" di B., che aveva origine religiosa, ma portava con sé importanti conseguenze econorniche e sociali.
Non possiamo fermarci qui sulle prescrizioni riguardanti l'Opus Dei, l'Ufficio divino, notturno e diurno, recitato nel "choro psallentium". Esso è per B. al centro dell'opera di edificazione spirituale. Venivano poi il lavoro e la lettura, con una ragionevole distribuzione delle ore, variando secondo le stagioni. La durata del sonno, da un massimo di più che nove ore nel cuore dell'inverno, si riduceva ad appena cinque d'estate; ma c'era allora la siesta di almeno un'ora e mezza. Il lavoro era di tre specie: assetto del monastero e preparazione del vitto, lavori agricoli, lavori di artigianato. La "lectio divina" comprendeva la Sacra Scrittura, i Padri della Chiesa, la letteratura monastica.
Tutta la Regola porta l'impronta di uno spirito che non si preoccupa soltanto di insegnare e ammonire, ma di costruire e organizzare, non secondo un ideale astratto e un piano rigido, ma adattandosi alla realtà. Questo criterio di adattamento è talora espressamente enunciato, e se ne spiega lo spirito al principio e alla fine, rilevando - come s'è visto - la mitezza della disciplina, e il carattere della regola di semplice avviamento alla perfezione.
La spiccata moderazione della ascesi nella RB (con cui ben concorda anche la temperanza graduata delle punizioni) ènota e celebrata (si veda a c. 18 quel che è detto del Salterio, che non si può più pretendere sia recitato tutto in un giorno, come facevano gli antichi padri del monachesimo; e a c. 40 circa l'impossibilità di far astenere dal vino i monaci di oggi) e molti altri esempi si possono leggere in Salvatorelli (S. Benedetto, pp. 150-153), di cui si cita la conclusione a questo proposito (p. 153): "Questa moderazione è così spiccata, nei confronti dei principi vigenti ancora al tempo di Benedetto, che essa appare come una reazione, o piuttosto una rivoluzione, perfettamente cosciente e volontaria", maturata - aggiungo qui esplicitamente - attraverso l'esperienza personale. E a questo punto appare particolarmente chiaro il valore esemplare, universale, attribuito intimamente da B. alla Regola, all'infuori di ogni teorizzazione e senza il minimo pensiero di una imposizione giuridica.
Con questo, però, siamo ancora al lato negativo, riformistico-rivoluzionario, della disciplina di Benedetto. Occorre vedere il lato costruttivo, che è l'opera storica di lui. Mentre il monachesimo precedente, anche cenobitico, era una raccolta di individui miranti unicamente, attraverso la vita in comune, alla salvezza eterna personale, nella Regola benedettina c'è una vita sociale vera, qualcosa di nuovo e di eminente che risulta dalla disciplina monacale. Dalla "vita in comune" emerge una "vita comune", così effettiva nel suo quadro come quella della polis nel quadro classico greco-romano.
Il monastero benedettino, con la sua economia chiusa, corrisponde alla massa e alla curtis della grande proprietà fondiaria contemporanea; e la comunità monastica può anche esser confrontata con le corporazionli del Basso Impero. Ma essa comunità, a differenza di quelle, è una riunione volontaria di uomini liberi e uguali, senza distinzione di casta o di razza. Vi sono indubbiamente distinzioni, vi è una gerarchia; ma i criteri per le une e per l'altra la comunità benedettina li trae dal suo spirito religioso, e le differenze scompaiono entro la vita materiale e spirituale comune realizzata. Gli stessi istituti del colonato e della servitù della gleba sulle terre del monastero fruivano di un miglioramento materiale e morale. Infine, la "lectio divina" riuscì dall'inizio uno strumento di tradizione e ricostruzione culturali.
E così, "lontano dalle città in piena decadenza, in mezzo alle campagne corse e spremute che minacciavano di tramutarsi in deserto, il monastero sorgeva, nuovo nucleo sociale traente il suo esser dal nuovo principio cristiano, fuori di ogni mescolanza col decrepito mondo che si ostinava a chiamarsi dal gran nome di Roma" (Salvatorelli, S. Benedetto, p. 170).
Fonti e Bibl. Il l. II dei Dialogi do vita et miraculis patrum italicorum di s. Gregorio Magno composti nel 593-594, (ediz. a cura di U. Moricca nelle Fonti per la Storia d'Italia dell'Istituto storico italiano, Roma 1924) è praticamente l'unica fonte per la vita e l'opera di B., poiché il carmen dei monaco Marco di Montecassino (Patr. Lat., LXXX; Poetae latini aevi carolini, in Monumenta Germ. Hist., Poetae latini Medii Aevi a cura di E. Dümmier, I, 1, Berolini 1880) - anteriore ai Dialogi, scritto nel monastero prima della distruzione longobarda - non aggiunge o modifica che qualche tratto particolare, leggendario o marginale.
Il carattere non storico-biografico, ma agiografico-episodico del testo gregoriano, è evidente, e universalmente riconosciuto: v'è tuttavia divergenza nel valutare il grado di attendibilità dei racconti fatti dai successori di B., rifugiati a Roma, a Gregorio, e della riproduzione e interpretazione di questo. L'attendibilità è spinta al massimo del Penco (v. oltre), che considera "razionalista" chiunque non accetti alla lettera i racconti miracolosi; mentre il Salvatorelli - in compagnia con la grande maggioranza degli studiosi - insiste sul carattere della materia, la mentalità del tempo. e soprattutto sul fatto che Gregorio ha raccolto le testimonianze e compilato il suo libro dai trenta ai Quarantacinque anni all'incirca dopo la morte di Benedetto. Vedi su questo argomento C. Lambot, La vie et les miracles de s. Benoît raccontés par S. Grégoire le Grand, in Revue liturgique et monastique, XIX (1933-34). Conclusione in ogni caso sicura è che il testo gregoriano non ci permette una ricostruzione organica della vita e dell'opera di B., ma semplicemente la determinazione di certi momenti e fatti maggiori visti anch'essi dall'estemo e sommariamente.
Ciò premesso, si indicano in ordine alfabetico alcune trattazioni generali recenti, sia monografiche sia facenti parte di opere più ampie. S. Brechter, Monte Cassinos erste Zerstörung, in Mitteilungen zur Geschichte des Benediktiner Ordens und seiner Zweige, LVI (1938); J. Chapman, Saint Benedict and the Sixth Century, London 1929, opera di notorietà classica ma non priva di travisamenti e di fantasticherie; G. Falco, La Santa Romana Repubblica. Milano-Napoli 1954, cap. V; I. Herwegen, Der Heilige Benedikt. Ein Charakterbild, Düsseldorf 1926 (4 ediz., 1951); G. Penco. Storia del monachesimo in Italia, Roma 1961, cap. Il; L. Salvatorelli, S. Benedetto e l'Italia del suo tempo, Bari 1929; Id., La data della morte di S. Benedetto, in Ricerche religiose, IV (1928); Ph. Schmitz, Benoît de Nursie, in Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclésias., VIII, Paris 1935, coll. 225-241; Id., Histoire de l'ordre de S. Benoît, I, Maredsous 1948; A. I. Schuster, Storia di s. Benedetto..., Milano 1946 (3 ediz., San Giuliano Milanese 1953) che accentua i difetti del Chapman.
Per la Regola (che è per la conoscenza dello spirito e dell'opera di B. fonte capitale) l'edizione critica più recente con ampia introduzione è quella di R. Hanslik, nel Corpus scriptor. eccles. latin., LXXV, Vindobonac 1960: su di essa si può vedere A. Mundò in Revue bénédictine, LXXI (1961), pp. 381-399. Edizioni precedenti utili di Ch. Butler, Freiburg I. Breisgau 1927, e di B. Linderbauer, Bonn 1928, fasc. XVII del Florilegium Patristicum. Si veda anche Chr. Mohrmann, La latinité de s. Benoít. Etude linguistique sur la tradition manuscrite de la Règle, in Revue bénédictine, LXII (1952), pp. 108-139. Particolarmente utile per il confronto fra R13 ed RM e per la storia e la bibliografia della cluestione RB-RM l'edizione dell'abate G. Penco, Firenze 190. Per un orientamento in proposito si può vedere E. Franceschini, La questione della regola di s. Benedetto, in Il monachesimo nell'alto Medioevo e la formazione della civiltà occidentale, Spoleto 1957, pp. 221-256.
Per il testo della RM (precedentemente in Patr. Lat., LXXXVIII) abbiamo adesso: Regula Magistri, édition diplomatique, a cura di H. Vanderhoven, F. Masai, P. B. Corbett, in Les Publications de Scriptorium, III, Bruxelles-Paris 1953; questo testo è riprodotto in La Régle du Maître, I-II, introduction, texte, traduction et notes par A. de Vogüé, Paris 1964; è seguito un terzo volume di Concordance, a c. di J.-M. Clément, J. Neufville, D. Demeslay, ibid. 1965, permettente lo studio comparativo analiticodelle due regole. Intanto il De Vogúé ha pubblicato Le rituel monastique chez s. Benoît et chez le Maitre, in Revue bénédictine, LXXI (1961), pp. 233-264.
Un'esposizione più dettagliata di quella parte della Regola di B. relativa all'Opus Dei, che è preghiera della comunità e, nel contempo, non annulla il lavoro del singolo, manuale o intellettuale che sia (e quindi anche musicale), che esprime un atto di adorazione verso la presenza di Dio nel mondo (cfr. Th. Merton, Il pane del deserto, Milano 1957, p. 16), si ritiene qui necessaria non soltanto per la comprensione di alcuni aspetti della personalità di B., ma anche per ravvisarvi quell'essenziale motivo d'interesse per la musica che ha reso, durante circa quindici secoli, tanto preziosa e feconda l'attività degli appattenenti al suo ordine (in senso lato) nella storia della musica. È ormai opinione comune dei migliori e più recenti studiosi che i dodici capitoli dell'Opus Dei (8-20) dovessero costituire una specie di codice redatto a parte da B., il quale lo inserì successivamente nel testo generale della sua Regola, dando ad esso tuttavia., un posto di assoluta preminenza. Nelle sue linee essenziali, l'Opus Dei corrisponde al rituale liturgico in uso nella Chiesa di Roma nel IV e V secolo e anche a precedenti consuetudini o regole monastiche orientali (di Macario, di Pacomio e specialmente di s. Basilio e di Cassiano), già altrove ricordate. Il carattere prescrizionale di questi capitoli, dalla terminologia di tipo piuttosto corrente, può rilevarsi anche dalla lingua in cui sono scritti, "dura, rustica e non adattata alle regole della grammatica" (Hanslik) e dallo stile semplice, concreto, privo di qualsiasi ornamento. Ma il vero valore dell'Opus Dei consiste nella straordinaria importanza data da B. nella vita quotidiana dei monaci alla preghiera liturgica corale, a questa solenne ufficiatura, basata soprattutto sui Salmi, cantata dall'intera comunità monastica e che èpiù perfettamente di ogni altra cosa ed esclusivamente indirizzata a Dio. In tal modo, la preghiera dei monaci diviene preghiera pubblica ufficiale e i monaci stessi cantori ufficiali della laus perennis ad onore di Dio. L'Opus Dei è, dunque, un precipuo obbligo "sociale" - come quelli della carità e del lavoro, ai quali è, però, assolutamente preposto - nella vita del cenobio, vita che B. organizza con abilità romana secondo il ritmo naturale della notte e del giorno, nel regolare succedersi delle stagioni e dell'anno liturgico, quasi ritmato anch'esso, a grandi linee, dall'avvicendarsi della preparazione e della penitenza (Quaresima), del giubilo e della gloria (Pasqua - Pentecoste).
Già prima di B., accanto alla celebrazione eucaristica della Messa, i momenti salienti della giornata dei monaci (la quale iniziava molto avanti l'alba e terminava dopo il tramonto) erano rappresentati dalle preghiere della notte, o Vigiliae nocturnae (originate dalle "veglie" dei primi cristiani nelle catacombe durante le persecuzioni), dalle Laudes, o preghiere del mattino e infine dalle suggestive preghiere della sera, o Vesperae, che venivano totalmente cantate: dalla semplice modulazione della salmodia e delle letture in principio (IV-V secolo), al più ricco ed impegnativo canto delle antifone e dei responsori in seguito.
Nell'Opus Dei, come s'è detto, B. riprende questo semplice rituale, lo ordina in diretto rapporto alla vita monastica, lo arricchisce di nuovi elementi e lo perfeziona, in modo che più tardi, adottato dalla Chiesa di Roma, costituirà la base più antica e completa della liturgia romana per quel che riguarda l'ufficio del giorno e della notte, o breviarium. Lo schema di B. (anche se nel suo complesso a partire dal XII secolo il breviario subì diverse modifiche) sostanzialmente è rimasto inalterato attraverso i secoli e anche la riforma del breviario operata da Pio X (bolla Divino affiatu, 1° nov. 1911) si riallaccia alle disposizioni di Benedetto.
Ma quello che mette conto di considerare, nel nostro caso, è il fatto che B. nell'Opus Dei conferisce al canto, alla musica sacra, un significato e una stima eccezionali, stabilendoli d'obbligo come parti integranti del sacro servizio, quasi anticipandone l'esatta attuale definizione di "munus ministeriale". B. sembra intuire e riconoscere nella musica - in quest'arte umana dalla realtà invisibile e inafferrabile ch'è propria dei suoni - il suo carattere intrinseco di religiosità e quindi la sua naturale funzione di collaborazione con il culto divino, di "corresponsabilità" .
Come è stato precedentemente accennato, dal punto di vista strutturale l'Opus Dei comprende le Vigiliae (le preghiere di notte) e le sette Horae del giorno: Laudes, Prima, Tertia, Sexta, Nona, Vesperae e Completorius (della quale ultima ora si attribuisce l'istituzione canonicale a B., poiché non se ne hanno tracce precedenti), computate secondo l'antico sistema latino, ciascuna con l'ufficio corrispondente.
Nell'orario monastico, il giorno e la notte erano divisi in parti eguali a partire dalla levata del sole al tramonto e dal tramonto all'alba. Le ore, in tal modo, venivano a subire una notevole variazione secondo le stagioni, allungandosi le diurne d'estate e raccorciandosi d'inverno, e viceversa le notturne, mentre agli equinozi di primavera e d'autunno erano pari. B. per l'ufficio notturno utilizza le ultime due Vigiliae delle quattro dei Romani e dispone ragionevolmente l'ora della levata dei monaci in modo che sia d'estate sia d'inverno le Laudes vengano celebrate quasi all'albeggiare. Stabilito così l'orario, B. dedica all'elaborato ufficio notturno (invernale, estivo e domenicale) i capitoli 9-11 e i due capitoli seguenti al primo ufficio diurno, le Laudes, nei giorni feriali. A questi seguono i brevi capitoli 14 e 15 sull'ufficio notturno dei Santi e sui periodi dell'anno nei quali si deve cantare l'Alleluja. Dopo aver precisato (cap. 16) le ore dell'ufficio diurno (e notturno), traendo il significato religioso del loro numero di sette dai versetti 164 e 62 dei salmo 118 di David (Septies in die laudem dixi tibi e Media nocte surgebam ad confitendum tibi), B. espone nei densi capitoli 17 e 18 la costituzione particolare di ciascuna di queste ore, poi ne fissa i salmi da cantarsi in tutto il corso dell'Opus Dei. Il capitolo 19 (De disciplina psallenti) riconferma il pensiero di B. circa le disposizioni d'animo dei monaci per l'Opus Dei: estrema riverenza a Dio e somma dignità nell'esecuzione della salmodia. ... "mens nostra concordet voci nostrae", poiché cantiamo "in conspectu divinitatis et angelorum". Un singolare accento sulla rnassima brevità della preghiera privata in coro (dove B. non ammette indugi "personali") è dato nel capitolo 20.
A complemento di questi capitoli dell'Opus Dei si possono aggiungere anche alcuni paragrafi del 38 e del 47 capitolo: il primo tratta delle disposizioni per il lettore di mensa ebdomadario, il quale deve essere scelto e adatto al suo ufficio, perché la funzione edificante della lettura e del canto (forse anche in refettorio si saranno cantati alcuni brani in determinate occasioni) ne esige la perfetta competenza. Gli ultimi tre paragrafi del cap. 47 sono a tal proposito ancora più interessanti: ordinata la grandissima cura dell'esattezza nel convocare i monaci per il divino ufficio alle ore stabilite, B. ammonisce: "Cantare o leggere non ardisca se non chi è atto a compiere tale ufficio in modo da edificare gli uditori", quasi a conferma di quanto ha già scritto nel capitolo 8, ove stabilisce che l'intervallo di tempo intercorrente tra la fine delle Vigiliae e l'inizio dell'ufficio diurno (Laudes) "venga impiegato dai monaci che hanno bisogno di imparare il Salterio o le lezioni appunto di tale lettura". Ciò prova anche, fin dagli inizi, l'esistenza delle Scholae cantorum accanto agli Scriptoria nei monasteri.
Aspetti assolutamente originali nell'Opus Dei sono la distribuzione del Salterio "per settimana" (cioè, esso viene recitato intero solamente una volta alla settimana e in modo che tutti gli uffici abbiano quasi la stessa lunghezza ciascun giorno della settimana) e l'introduzione degli Inni a tutte le ore canoniche. In complesso il Salterio è diviso da B. in quattro gruppi da distribuirsi nella settimana per ciascun ufficio così sommariamente ripartiti: Salmi 1-19 a Prima; 20-108 alle Vigiliae; 109-117, 128-147 alle Vesperae e 118-127 a Tertia, Sexta e Nona.
B. viene in tal modo a mitigare la fatica non lieve per i monaci dell'intera recitazione quotidiana del Salterio secondo i precedenti usi monastici, ma soprattutto ne spezza l'inevitabile monotonia, pur rispettando la tradizione che stabiliva, ad esempio, gli ultimi tre Salmi (148-150) alle Laudes e il gruppo 109-147 alle Vesperae. Nella scelta dei Salmi da assegnare alle differenti parti dell'Opus Dei B. manifesta il suo gusto estetico particolarmente sensibile ad una perfetta armonizzazione dello spirito dell'uomo con il simbolismo religioso della natura che lo circonda, così come nella struttura di ogni singolo ufficio mostra quella larghezza e venustà di linee classicamente condotte in simmetrica architettura ad espressione di un sentimento che si eleva dalla terra al cielo.
Per le Laudes, il più importante ufficio del giorno, B. dispone i Salmi (66, 50, 117 e 62, oltre i tre ultimi 148-150 alla domenica e dodici altri dal lunedì al sabato) dal particolare accento di fiducia nel perdono e nella benedizione di Dio, di lode e di speranza che invoca e saluta la Resurrezione di Cristo e il sorgere dell'aurora, indicativi, in breve, del trionfo della luce (della Grazia) sulle tenebre (del peccato), mentre per il Completorius egli prescrive tre bellissimi e brevi Salini (4, 90, 133) che implorano la protezione divina sul riposo dalle fatiche e sul sonno della notte. Un mutamento di ritmo caratterizza le ore minori di Tertia, Sexta e Nona che interrompono il lavoro giornaliero dei monaci e per le quali B. sceglie nove (119- 127) dei quindici Salmi "graduali" (o Salmi dei pellegrinaggi che "salivano" a Gerusalemme), i più brevi, cioè, i più rapidi (tali da essere - in seguito - anche recitati sul lavoro stesso), pause brevi della fatica. L'uniformità di questi Salmi è data, però, solo dal martedì alla domenica, poiché B. usa, infatti, tanto per l'ufficio di Prima alla domenica e al lunedì quanto per quelli di Tertia, Sexta e Nona alla domenica e al lunedì il lunghissimo Salmo acrostico 118 (Beati immaculati in via, esortazione all'osservanza della Legge), di cui egli divide le 22 singole strofe di ottonari, considerandole ciascuna come un Salmo da assegnare (rispettivamente in ragione di 4 a Prima e di 3 alle altre ore minori) agli uffici di questi giorni, dando loro così un significato speciaìe di comandamento, di celebrazione della Legge (domenica) e di ricerca, di speranza di salvezza nella Legge (lunedì). Per le Vesperae B., s'è visto, non si distacca dalla tradizione liturgica romana e ambrosiana che appunto assegnava a quest'ora, particolarmente appropriata alla lode e al ringraziamento per la fine della giornata, il gruppo dei Salmi 109-147, dal quale ha sottratto quei Salmi che gli sono sembrati più opportuni per altre ore (e perciò si debbono dividere tre dei Salmi più lunghi della serie per raggiungere il numero di 28 necessari per l'intera settimana). Il rimanente del Salterio, dal numero 20 al 108 (sottratti anche qui i diversi Salini utilizzati per le altre ore diurne) è così disposto da B. per l'ufficio elelle Vigiliae, il più lungo (ogni notte dovevano cantarsi, senza eccezioni, dodici Salmi, oltre i due all'inizio dell'ufficio, il 3 e il 94) e il più complesso, in armonia con le tenebre e con i pericoli di cui le tenebre sono simbolo e da cui solo Dio può liberare. Finito l'ordinamento dei Salini, B. lascia libertà ad altri superiori di disporlo secondo il loro piacimento, purché sia sempre recitato "durante la settimana l'intero Salterio di 150 Salini e alla domenica si ricominci sempre dalle Vigiliae notturne". Nella composizione delle singole ore, a elementi tradizionali B. affianca libere innovazioni, che ancora una volta testimoniano il suo gusto e la singolare cura nel perfezionare, nell'arricchire, nel variare con originalità e ad un tempo sintetizzare questi uffici dell'Opus Dei. Così, per esempio, B. inizia le Vigiliae con un versetto dei Salmo 50 (17), Domine, labia mea aperies, ripetuto tre volte, e lo fa seguire dal Salmo 3, Domine quid multiplicati sunt (salino della fiducia) che, con il Gloria finale, prelude allo stupendo Salmo 94, Venite exultemus, invito al creato perché inneggi al Signore, dopo il quale il canto poetico dell'inno ambrosiano (Aeterne rerum conditor) chiuderà questa lunga preparazione necessaria per equilibrare la recita dei primi sei Salmi con le rispettive antifone, elemento centrale dell'intero ufficio. Dopo, nella seconda parte (o secondo notturno), ancora un versetto, la benedizione, tre Lectiones (brani tratti dalle opere dei Padri o dal Vangelo) intercalate da tre responsori, due dei quali senza la dossologia (Gloria) finale, poi altri sei Salmi con l'Alleluia (cantata soltanto nelle ferie come antifona del secondo notturno da Pentecoste a Quaresima), infine una Lectio di S. Paolo, un versetto e una conclusione nuova., particolare, il Kyrie eleison, Christe eleison unito al Pater noster, che costituirà la forma veramente originale nell'Opus Dei. Alle domeniche e alle altre feste le Vigiliae si arricchiscono, dopo le Lectiones (che sono portate a quattro) e la Salmodia, di tre Cantici con l'Alleluja ("tratti dal codice dei Profeti e scelti dall'Abate") e di una novità assoluta per allora, l'inno Te Deum laudamus, cui seguono una Lectio tratta dal Vangelo del giorno e l'inno orientale Te decet laus, caro ai Padri del deserto. La novità di B., il conclusivo Kyrie eleison, è inoltre importante anche perché viene a separare nettamente l'armonioso e solido ufficio notturno dalle Laudes, che B. organizza con altrettanta elegante solennità. L'introduzione di questa ora è data dal Salmo 66, Deus misereatur nostri, e dopo il canto (invariato alla domenica e alle ferie) dei Salmi 50, 148-150 e quello dell'inno ambrosiano Splendor paternae gloriae col versetto, B. inserisce, forse per primo, il cantico di Zaccaria tratto dal Vangelo, Benedictus Dominus Deus Israel. Anche alle Laudes del sabato, nell'assegnare gli altri due Salmi intercalati invece di tre, il 142 e il cantico del Deuteronomio (cantico di Mosè: Audite, coeli, quae loquor), B. divide quest'ultimo - che non si divideva mai - in due parti, ciascuna terminante con il Gloria.
Alla semplicità e alla praticità è improntato l'ordinamento delle ore minori: B. conferisce loro una completezza, peraltro, fino allora sconosciuta così componendole: all'inizio il versetto Deus in adiutorium meum me intende, poi l'inno dell'ora, i tre Salmi (che si susseguono per Prima nel loro ordine numerico, come s'è visto), una sola Lectio col versetto e il Kyrie finale. Al Completorius i tre Salmi sono cantati senza antifona per non affaticare i monaci già stanchi e la benedizione dell'abate conclude questo ufficio al termine della giornata e della luce. Le Vesperae invece sono ufficio più importante e B. ordina nel suo svolgimento quattro Salmi con le rispettive antifone, cui seguono la Lectio, il responsorio, l'inno ambrosiano (Deus creator omnium), un versetto e il cantico della Vergine tratto dal Vangelo, il Magnificat, anche questo, sembra, introdotto per la prima volta da B. in quest'ora. Molti di questi elementi saranno adottati dalla Chiesa di Roma e così ancora rimangono nel breviario romano il versetto Deus in adiutorium meum me intende che inizia le ore diurne, il Benedictus alle Laudes, il Magnificat a Vesperae e il Kyrie eleison, Christe eleison con il Pater al termine delle ore. Quest'ultimo uso liturgico è inaugurato da B. che - secondo lo Schmitz - "avrebbe preso l'idea nelle Litaniae e nella Deprecatio fidelium del rito romano. Ma il Christe eleison è una novità. Separando questi Kyrie dalla litania, B. ha loro dato una esistenza indipendente che si presta a tutte sorta di combinazioni e di pratiche. Riunendo le due suppliche e aggiungendole al Pater, ha creato una formula caratteristica che attraverserà i secoli come una conclusione delle piccole ore dell'ufficio monastico e si piazzerà in testa a tutte le serie d'invocazione che costituiscono o imitano le antiche litanie o le Preces più recenti nel corpo dell'ufficio o anche fuori di questo" (Schmitz, II, p. 335).
Dal punto di vista musicale, l'Opus Dei interessa soprattutto per l'impiego dei Salmi e degli Inni. La Salmodia, base primaria del canto liturgico cristiano, deriva direttamente dalla tradizione ebraica (che usava porre in musica anche testi prosastici) ed è caratterizzata nella sua struttura generale dall'accentus, o stile di canto che per la sua semplicità è assai vicino ad una specie di recitazione (in ritmo oratorio) e dal concentus, canto più ornato e più prossimo ad una melodia spiegata. Il Salmo può essere cantato in tre modi diversi: in directum, cioè di seguito dal primo versetto all'ultimo (come, ad es., nell'Opus Dei il Salmo 66 iniziale delle Laudes e i tre Salmi delle ore, minori quando la comunità monastica non sia numerosa) dal solo cantore o dal coro unito, antifonico (di origine prettamente orientale), cioè alternato fra due semicori e responsoriale, alternato fra il solista (cantor) e il coro. La musica nel Salmo è costituita da formule melodiche definite, molto semplici (un semplice elevamento e abbassamento di tono), mentre maggiore rilievo musicale hanno le antifone, o versetti che li precedono, brevi melodie in prevalenza sillabiche (una nota per ogni sillaba del testo) che vengono unite al Salmo con un inizio di due o tre note quasi a guisa di preludio inscindibile dal Salmo stesso, e i responsori, di forma più moderatamente fiorita. Per le Lectiones, le Epistulae, le Orationes (testi prosastici) si ha una semplice declamazione intonata. Un particolare ricordo deve darsi anche all'Alleluja, voce ebraica passata nella Chiesa cristiana senza essere tradotta e che fu adottata da tutte le liturgie come canto di lode e di trionfo: musicalmente è il brano più complesso, più ricco di concentus e più difficile per l'abilità che richiede nel cantarlo, il cui acceso lirismo si dispiega nel melisma (fioritura melodica di note su una sola vocale, "vocalizzo", cioè) chiamato jubilus. A queste semplici forme musicali liturgiche, vanno aggiunte le composizioni su testo poetico strofico, gli Inni, che tanta parte hanno avuto nella storia musicale cristiana. L'innodia, o canto religioso non liturgico, si collega spiritualmente a quella dell'Antico Testamento, ma in sostanza e nella forma possiede una sua propria originalità.
Sorta in ambiente popolare, da questo ritrae come sue caratteristiche e la facile struttura metrica e la semplicità sillabica della melodia. Spesso infatti le parole dell'inno (che non si appoggiano più alla scansione classica a lunghe e a brevi, ma a quella per accenti tonici e per numero delle sillabe, hanno cioè ritmo omotonico) vengono applicate ad una melodia preesistente e preferibilmente già diffusa tra il popolo, affinché più rapidamente e con maggiore sicurezza possano a loro volta diffondersi e raggiungere così le loro finalità propagandistiche e di partecipazione attiva del popolo alle cerimonie sacre. Si hanno in tal modo le varie innodie: bizantina, siriaca, africana, latina, ecc. L'introduzione dell'innodia nella Chiesa può farsi risalire al IV-V secolo, prima in Oriente poi in Occidente, dove il suo maggior diffusore e rappresentante è s. Ambrogio (che s'ispira a Efrem di Edessa e a s. Gregorio Nazianzeno), autore egli stesso dì testi e di soavi, dolci melodie, meno austere di quelle della liturgia romana. Assai contrastata dalla Chiesa di Roma, l'innodia infatti appare ufficialmente accolta nella sua liturgia non prima del X secolo. Come forma metrica l'inno ambrosiano - che interessa in modo speciale per il suo rapporto all'Opus Dei - è sempre stato ritenuto un dimetro giambico, ma tale richiamo non sembra necessario e neppure opportuno, ove si consideri la natura popolaresca e innologica dell'innodia.
Infatti il ritmo dell'inno ambrosiano non si perde coll'estinzione totale del senso quantitativo nei secoli successivi, ma anzi lo si ritrova più che mai vivo e legittimo negli svolgimenti più tardi, tanto nello stesso genere innodico quanto nel genere derivato della sequenza fino nel XIII secolo. Questo fa pensare che il dimetro giambico di s. Ambrogio non abbia dunque altra concretezza che quella di una intenzionale esplicazione metrica, in termini classici, suggerita dal ritmo omotonico di preesistenti melodie. Cosi si può dire, in breve, che durante i primi secoli cristiani nella corrente del rinnovamento musicale - verificatosi proprio attraverso il rinnovamento della ritmica - l'elemento classicista non vi abbia esercitato di per sé un'azione propulsiva, ma vi abbia piuttosto costituito l'ambiente culturale nel quale agisce, anche se evolvendosi, un forte impulso orientale e popolaresco. La teoria musicale classica sopravvive infatti per molto tempo alla pratica e allo spirito dell'arte da cui era nata: essa rimane in onore presso i teorici del primo medioevo che si sforzano d'interpretare secondo i sistemi classici i vari fatti musicali che vengono da ogni parte proponendosi alla loro attenzione.
Comunque B. fa una distinzione fra "inno ambrosiano", che egli pone, come già era in uso, nelle Vigiliae, nelle Laudes e nelle Vesperae e gli "inni" da lui introdotti nelle singole ore, composizioni forse già adottate, sia pure non ufficialmente, in diversi luoghi e adattate alle ore che ne erano sprovviste. Ciò è suggerito da quel semplice accenno di B. stesso a "inno della stessa ora", che secondo il Blume starebbe a significare inno "usuale" a quest'ora (nella sua opera il Blume dà un elenco degli inni comuni del tempo nel primo periodo della liturgia innodica, esclusi gli inni di s. Ambrogio o a lui attribuiti). Non si conoscono esattamente gli incipit di questi inni introdotti da B.; essi però dovevano, come tutti del genere, essere una ingenua interpretazione dei diversi momenti, un espressiv 1 o appello a Dio per i sensi e i bisogni del momento e si può pensare che B. li abbia scelti e ordinati con finezza di gusto e proprietà, quasi a temperare con il loro semplice canto popolare la rigida austerità della cadenzata, solenne salmodia.
Così dall'organica fusione di tutti questi elementi quasi aristocraticamente tradizionali e di più popolare conio, dalla particolare euritmia che caratterizza l'Opus Dei nella totalità della Regola, ancora una volta viene a manifestarsi quel senso largo, romano della personalità di B., quell'umana apertura che attinge alla varietà stessa della vita il suo costante ed essenziale valore.
Bibl.: U. Körnmüller, Die Pflege der Musik im Benedictiner-Orden, in Wisse, zschaft1iche Studien und Mitteilungen aus dem Benediktiner-Orden.- I (1880), 1, pp. 64-90; 2, pp. 46-73; 4, pp. 3-35; 11 (1881), p. 21, pp. 209-235; 3, pp. 3-40; 4, pp. 197-236; VI (1885: Studien und Mitteilungen aus dem Benediktinerund CistercienserOrden), 3, pp. 31-40; S. Báurner, Einfluss der Regel des M. V Benedict auf die EntwickIung des rèirnischen Breviers, ibid, VIII (A87), I. pp. 1-18; 2, pp. 157-175; C. Blume, Der Cursus s. Benedicti Nursini und die liturgischen Hymnen des 6-9. Yahrhunderts in ihrer beziehung zu den sonntags und ferialhymnen unseres Breviers..., Leipzig 1908; O. Ursprung, Die katholische Kirchenmusik, Potsdam 1931, pp. 11, 17 s., 29; F. Romita, Ius musicae liturgicae, Taurini 1936; A. Lentini, La Regola, Testo, versione e commento, Montecassino 1947; Ph. Schmitz, Histoire de l'Ordre de Saint Benoít, Maredsous 1948-1956 (7 voll., rìstamp.); U. Sesini, Poesia e musica nella latinità cristiana dal 111 al X secolo, Torino 1949, pp. 65, 71, 83; F. Tack, Der kuliische Gesang der abendlándische Kirche, Kóln ìqso; F. Romita, Codex Iuris musicae sacrae, Romae 1952; R. Hanslik, Benedicti Regula, Vindobonae 1960; U. KommUcr, Lex. der kirchl. Tonkunst, Brixen 1870, pp. 47-51; Die Musik in Gesch. und Gek, en., I, coll. 1635-1639.