ATANASIO, santo
Figlio del duca di Napoli, Sergio I, e d'una nobildonna, Drusa, A. nacque nell'832 da una delle più ragguardevoli famiglie partenopee del suo tempo. Destinato alla vita ecclesiastica, venne affidato in tenera età ai sacerdoti della chiesa di S. Maria perché, "negotii secularis ignarus", fosse da loro cresciuto nelle pratiche della fede ed avviato al sacerdozio; alcuni anni più tardi A. entrava nella casa del vescovo di Napoli, Giovanni IV, il quale lo amò d'affetto paterno e ne curò la formazione spirituale dirigendo personalmente e con larghezza di vedute i suoi studi e le sue letture sacre e profane. Non ancora diciassettenne, A. veniva consacrato diacono dallo stesso Giovanni IV, alla cui morte, sopravvenuta intorno all'849, fu scelto a succedergli - essendo ormai in fama di grande pietà - "ab universo clero omnique plebe". Ma non è affatto improbabile - e le parole dell'anonimo autore della Vita Athanasii maior sembrano anzi confermarlo - che dietro l'unanime consenso che caratterizzò questa elezione, vi fosse di fatto la volontà dei due duchi di Napoli, Sergio I e Gregorio III, rispettivamente padre e fratello dell'eletto. Ed è naturale che Sergio I, dopo aver assicurato alla sua famiglia il potere ducale associandosi il figlio, volesse avere in sua mano anche la dignità vescovile, la quale, d'altro canto, era rimasta fin allora sottoposta in Napoli al potere civile. Recatosi a Roma subito dopo la sua elezione, A. veniva consacrato vescovo da papa Leone IV, forse proprio il 15 marzo, come vorrebbero le fonti, di quello stesso 849.
Un'intensa attività apostolica caratterizzò i ventidue anni del pontificato di Atanasio I. Mirando a dare un nuovo impulso alla vita spirituale della sua diocesi, non solo riorganizzò il clero in modo da assicurare la celebrazione quotidiana delle messe in tutte le chiese della città (e a questo fine distribuì fra i diversi templi i sacerdoti, singoli o riuniti in appositi collegi, dotandoli di rendite che assicurassero loro una certa indipendenza economica); ma, dimostrando in questo anche la sua sensibilità ai valori della cultura, istituì scuole di lettura e di canto per i chierici, e di retorica per i futuri sacerdoti. Fondò inoltre un monastero che, sotto la direzione di un abate, officiasse l'antica basilica di S. Gennaro foris sita, fino allora servita da un solo sacerdote; fornì la chiesa del Salvatore "quae Stepliania vocatur" di un collegio proprio di sacerdoti e nell'atrio aprì uno "xenodochíon", un ospizio cioè per poveri e pellegrini; fece restaurare molte chiese e molte ne arricchì di opere d'arte. Intervenne a portare nuovo ordine fra gli eremiti che si erano raccolti, per condurvi vita cenobitica, nell'isoletta di S. Salvatore (l'attuale isola di Castel dell'Ovo, allora distante dalla città poco più di due chilometri); A., infatti, preoccupandosi dei costumi alquanto decaduti di questi erermti, volle renderli consoni all'ideale della vita religiosa e salvaguardarne la moralità, istituendo una "regola" e riunendoli sotto un abate; affidò loro inoltre il compito di officiare nella vicina chiesa di S. Lucia. E nel secondo sinodo Romano contro Giovanni arcivescovo di Ravenna, celebrato nel novembre dell'862, il papa Nicola I mostrò pubblicamente in qual conto tenesse il giovane vescovo di Napoli assegnandogli il terzo posto nel sacro consesso, facendogli leggere le "cautiones" presentate dall'imputato e ritenendolo superiore a tutti gli altri convenuti. Ma l'opera di A. fu all'improvviso troncata.
Morto nell'870 il duca Gregorio III, gli era successo il figlio Sergio II, che s'inserì nel complicato giuoco politico dell'Italia meridionale - allora campo di battaglìa di Greci, Longobardi, Franchi e Saraceni - scostandosi nettamente dall'indirizzo favorevole all'imperatore occidentale per ritornare all'antica amicizia dei Napoletani coi Saraceni. Quando, nell'866, Ludovico II aveva miziato la sua terza campagna contro i musulmani dell'Italia meridionale, Napoli, nonostante forti opposizioni interne, gli si era mostrata amica e gli aveva concesso il libero transito attraverso il territorio del ducato e, forse, aiuti per la guerra. Ma quando, assoggettati i principati longobardi di Capua e di Salemo, tratta a sé Amalfi, battuti i Saraceni, Ludovico Il, che aveva posto l'assedio a Bari ultimo baluardo degli Arabi, mostrò l'intenzione di voler imporre la sua autorità su tutta l'Italia meridionale, i Napoletani, per ricordare al sovrano franco l'antica posizione giuridica del ducato, cominciarono a batter nuovamente moneta con l'effige e l'iscrizione dell'imperatore d'Oriente. Tra i fautori in Napoli dell'alleanza coi Franchi e della guerra contro l'infedele fu, forse per ragioni religiose, il vescovo A., che in questi anni si recò molte volte presso la corte di Ludovico II.
Quale sia stata l'importanza delle missioni diplomatiche che A. dovette assolvere nei viaggi presso la corte di Ludovico II, e quella del ruolo politico da lui rappresentato in questi anni, ci è permesso solo intuire, basandoci sulla violenza delle reazioni che la sua attività riuscì a provocare. Certo è che A., il quale aveva dovuto esercitare un'azione direttiva nel governo dei ducato sotto Gregorio III (il che valse a quest'ultimo l'elogio, tributatogli dal biografo del santo, di aver sempre obbedito in ogni cosa al fratello), volle aver obbediente anche il nipote. Ma con l'assunzione di quest'ultimo al potere si cominciò ad osteggiare sempre più apertamente l'ingerenza di A. negli affari di stato, ingerenza che si traduceva soprattutto in ossequio alla linea politica franca. Quanti si erano opposti a tale politica sotto Gregorio III dovettero contrastare con energia anche maggiore sia l'autorità secolare che A. si arrogava, sia l'indirizzo politico che egli voleva imporre, confortati dal fatto che Sergio II, impaziente di liberarsi da ogni tutela e deciso a guidare da solo il suo stato, si vide fin troppo presto costretto a difendere il suo ducato dalle ambizioni di Ludovico Il. E poiché l'unica forza che si opponesse validamente ai Franchi erano i musulmani, è naturale che Sergio Il si buttasse dalla loro parte. Fu così che i legni saraceni ebbero la possibilità di uno scalo dove potersi rifugiare, se inseguiti, dove potersi rifornire e donde ripartire per le loro incursioni; fu così che piloti napoletani guidarono i corsari di Sicilia a predare lungo le coste italiane. Di ciò si lamentò Ludovico Il; a ciò si opposero alcuni Napoletani e, soprattutto, il vescovo Atanasio.
Scoppiò nuovamente il conflitto tra il potere religioso e il potere politico, che Sergio I aveva cercato di scongiurare facendo eleggere vescovo suo figlio e che, come quarant'anni prima ai tempi del duca Bono e del vescovo Teodoro, vide il potere religioso soccombente: il vescovo A. venne arrestato insieme a numerosi parenti e fautori sul finire dell'870, appena sette mesi dopo la morte di Gregorio III. L'energico atto provocò dimostrazioni e disordini: i rappresentanti del clero latino e di quello greco pretesero tumultuariamente il rilascio del loro vescovo. Nel timore di una sommossa popolare A. venne liberato dopo otto giorni di prigionia; ma il vescovo, rifiutandosi di accettare la situazione, abbandonò la sua città, dopo aver apposto i sigilli al tesoro della Chiesa napoletana, comminando la scomunica a chi avesse osato toccarlo senza la sua autorizzazione, e si ritirò con una parte del clero nell'isoletta di S. Salvatore, presso il monastero da lui fondato. Lì si adoperò con ogni mezzo per trarre dal carcere i suoi fratelli, che erano stati arrestati con lui, e i suoi partigiani; spedi fra l'altro un suo apocrisiario a Ludovico II per chiedere aiuti. Fu probabilmente allora che le truppe franche devastarono così selvaggiamente il territorio del ducato napoletano che lo stesso imperatore d'Oriente se ne lamentò con Ludovico II, il quale rispose minacciando le più atroci rappresaglie se Sergio II non si fosse deciso a rompere la lega coi Saraceni e a riaccettare il suo legittimo vescovo. Ad azioni di guerra il duca rispose con azioni di guerra: dopo aver intimato ad A. di rinunziare alla dignità vescovile e di farsi monaco, e dopo averne ricevuto un fermo rifiuto, investì con le sue forze coadiuvate da contingenti musulmani l'isola di S. Salvatore. Veniva tuttavia battuto in uno scontro navale da una squadra amalfitana, giunta sul posto per ordine di Ludovico II, e costretto ad abbandonare l'assedio; A., così liberato, cercò un rifugio più sicuro a Benevento, presso l'imperatore cui doveva la salvezza.
Di fronte al precipitare degli avvenimenti a Napoli, il papa Adriano II decise di intervenire; dopo i gravi episodi dell'incameramento dei beni del vescovo e delle persecuzioni contro i suoi fautori, il papa inviò una lettera in cui scongiurava il duca e il popolo napoletano a ravvedersi e ad accogliere nuovamente, pena la scomunica, "ut patrem et dominum", il loro pastore legittimo. Non ottenne, tuttavia, alcun risultato; non solo A. non venne richiamato, ma, nonostante la scomunica, a Napoli si continuarono a celebrare le messe. Poco dopo giungevano nella città ribelle due legati pontifici, Anastasio bibliotecario e l'abate Cesario (secondo alcuni studiosi, come il Capasso e lo Schipa, i quali non accettano la lezione data dai codici, il compagno di Anastasio bibliotecario in questa missione sarebbe stato invece l'abate Bertario di Montecassino, inviato e rappresentante di Ludovico II) cui non restava che rinnovare, con solennità maggiore, la scomunica papale, dopo avere cercato invano di convincere il duca ed il popolo ad obbedire ad Adriano II.
Scoppiata la rivolta dei principi dell'Italia meridionale e imprigionato da Adelchi di Benevento lo stesso Ludovico II (agosto-settembre 871), A. fuggì a Sorrento, presso il suo fratello minore., Stefano, che era vescovo di quella città; e lì soggiornò alcun tempo, tormentato dal pensiero della scomunica lanciata su Napoli, scomunica di cui si riteneva responsabile. Proprio il desiderio di farla revocare e la notizia della avvenuta liberazione di Ludovico II convinsero A. ad affrontare i disagi di un viaggio sino a Roma, dove fu accolto con i massimi onori. Né questo fu un inutile viaggio: un vescovo Domenico, inviato dal papa a Napoli sul finire dell'871, sciolse la città dalla scomunica. Agli inizi dell'anno seguente A. raggiunse sulla strada per Ravenna, a Farfa, Ludovico II - erano con lui il vescovo di Capua Landolfo e alcuni legati del papa e di Guaiferio di Salemo incaricati di invitare l'imperatore ad una nuova spedizione contro i musulmani, i quali, profittando della crisi provocata dalla rivolta dei principi, avevano ripreso le loro devastazioni nell'Italia meridionale, giungendo fin sotto le mura di Salerno. Venuto a Roma, Ludovico II s'impegnò alla nuova campagna e, secondo la preghiera del papa, avrebbe promesso anche (così riferisce l'anonimo autore della Vita Athanasii maior) di restituire "quocunique modo" il vescovo A. alla sua sede. Certo è che A. seguì l'imperatore e il suo esercito nella loro marcia verso il sud; ma a Veroli, il giorno dei ss. Pietro e Paolo, dopo aver celebrato la messa, cadeva gravemente ammalato. Trasportato nel vicino monastero di S. Quiricio, A. vi moriva il 15 luglio dell'872.
Della personalità di A. non possiamo dire se non quanto ci ha lasciato scritto di lui l'autore della Vita Athanasii maior, la cui narrazione, assai diffusa e ricca di particolari edificanti, segue pur sempre gli schemi della letteratura agiografica (cosi ad esempio la notizia della sterilità della madre di A.; il voto fatto dai genitori di A. di consacrare il loro primogenito, se Dio avesse concesso loro di avere figliuoli, al sacerdozio; la descrizione dei costumi di A., degni di un santo anacoreta), mostrandoci solo un aspetto di A., quello dell'uomo di pietà, e lasciando completamente all'oscuro la parte da lui avuta nella storia politica di Napoli. Ma anche a non volere, per reagire a una presentazione che può configurarsi in tratti convenzionali, sottolineare particolarmente quella che può essere stata, con i suoi errori, l'ingerenza di A. nel campo temporale, bisogna riconoscergli un autentico zelo apostolico, un grande senso di responsabilità nei confronti del suo popolo, un'ansia di promuovere il progresso spirituale di quest'ultimo attraverso il miglioramento del clero; di qui i provvedimenti da lui presi, di qui l'ammirazione e la stima che egli seppe suscitare e che, dopo la sua morte, non tardarono a trasformarsi in venerazione.
Fonti e Bibl.: Acta Sanctorum, Iul., IV, Bruxellis 1867, pp. 72-89; Iohannis Gesta Episcoporum Noapolitanorum, a cura di G. Waitz, in Monumenta Germ. Hist., Script. rer. Lang. et Ital., Hannoverae 1878, capp. 63-65, pp. 433-435; Vita Athanasii episcopi Neapolitani, a cura di G.Waitz, ibid., pp. 439-449; Translatio s. Athanasii episcopi Neapolitani, a cura di G. Waitz, ibid., pp. 449-452; B. Capasso, Monumenta ad Neapolitani Ducatus historiam pertinentia, Neapoli 1881, p. 96 e pp. 213-220; M. Schipa, Il Ducato di Napoli, in Arch. stor. per le prov. napolet., XVIII (1892), pp. 625 ss., pp. 780 ss.; J. Gay, L'Italie méridionale et l'Empire byzantin, Paris 1904, passim; P. F. Kehr, Italia Pontificia, VIII, Berolini 1935, pp. 444-446; Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., IV, coll. 1388-1390. Per la lettera di Ludovico II in risposta all'imperatore Basilio, cfr. Chronicon Salernitarum, a cura di U. Westerbergh, Stockbolin 1956, cap. 107, pp. 106-121, e, per quello che in essa è detto a proposito di Napoli, più particolarniente le pp. 118 s.