Anselmo d'Aosta, santo
, Nacque nel 1033 (o 1034) ad Aosta; abate di Bec in Normandia nel 1078, arcivescovo di Canterbury nel 1093, morì nel 1109. Il nome di A. compare in Pd XII 137, dove s. Bonaventura lo presenta tra altri compagni: Natàn profeta e 'l metropolitano / Crisostomo e Anselmo e quel Donato / ch'a la prim'arte degnò porre mano. Colpisce il fatto che A. non venga caratterizzato con un epiteto e perciò il Tommaseo poté pensare che qui si intendesse piuttosto il vescovo di Lucca. Tuttavia è senz'altro da escludere ogni dubbio che si tratti dell'arcivescovo di Canterbury. Un problema è dato anche dalla serie dei personaggi tra i quali A. è presentato; forse D. l'ha voluto porre tra quelli che furono perseguitati nella tutela del loro ufficio.
La dottrina della soddisfazione. - La dottrina dantesca della redenzione è alla base di Pd VI 82-93 e si sviluppa in Pd VII 49-120.
Nel primo passo l'imperatore Giustiniano riferisce la storia dell'Impero romano. Una gloria senza pari spetta a Tiberio, al quale la viva giustizia ha concesso l'onore di far vendetta alla sua ira (attraverso la crocifissione di Cristo). Ma l'imperatore Tito corse a far vendetta de la vendetta del peccato antico (attraverso la punizione degli ebrei). La difficoltà concettuale di D., come giusta vendetta potesse essere vengiata... da giusta corte (Pd VII 49-51) viene risolta da Beatrice nel modo seguente.
Per la sua sfrenatezza Adamo, il primo uomo, ha dannato sé stesso e la sua discendenza. La specie umana giacque giù inferma e in grande errore per molti secoli. Quindi piacque al Verbo di Dio discendere e unire, a sé in persona, la natura umana per opera dello Spirito Santo. Ora la natura umana, che era stata creata da Dio sincera e buona, aveva bandito sé stessa dal Paradiso, allontanandosi da via di verità e da sua vita. Se si considera in rapporto alla natura assunta (l'umana), nessuna pena fu più giusta della morte in croce; se però si considera la persona (Cristo) che s'era unita a questa natura, non ci fu pena più ingiusta. In tal modo diventa comprensibile come una giusta vendetta sia stata vendicata da giusta corte (Pd VII 25-51).
In questa prima parte dell'esposizione di Beatrice, sono presenti già i presupposti della dottrina della soddisfazione vicaria di cui trattano i vv. 52-120. A provocarne l'esposizione è un dubbio tacito di D., il quale si chiede perché Dio ha voluto salvare l'uomo proprio per questa via. La divina bontà, spiega Beatrice, ha creato esseri sanza mezzo (cioè senza il concorso di cause seconde), i quali sono liberi e simili a Dio. L'uomo è tra questi; peccando, però, egli divenne schiavo e dissimile al sommo bene. Per riconquistare la dignità perduta, all'uomo restavano due vie soltanto: o che Dio lo perdonasse solo in virtù della sua bontà, o che egli riparasse per sé isso / ... a sua follia. L'uomo però non avrebbe mai potuto soddisfare da solo, perché non era in grado di abbassarsi tanto in umiltà e obbedienza, quanto s'era innalzato nella disubbidienza. Conveniva dunque a Dio con le vie sue / riparar l'omo a sua intera vita, con una via ovvero con ambedue. Era più confacente all'amore divino farlo con tutt'e due. Dio dimostrò meglio la sua bontà donando sé stesso per rendere l'uomo capace di risollevarsi, che non perdonandolo solo per sua cortesia. Ogni altra via non avrebbe soddisfatto pienamente la giustizia (Pd VII 52-120).
L'esposizione dantesca della redenzione è nei suoi tratti essenziali una riproduzione concisa della dottrina della soddisfazione di A., come questi l'aveva esposta nel Cur deus homo e come era stata ripresa in sostanza dalla teologia successiva. Il fatto che D. ne prenda in prestito, salvo poche eccezioni, il vocabolario, dimostra che la sua esposizione si rifà direttamente ad A. e non a un teologo che ha ripreso la dottrina anselmiana. Ma è soprattutto l'affinità del contenuto delle due esposizioni a fugare ogni dubbio sulla loro diretta dipendenza; cosa che è stata osservata anche da dantisti.
Sia in A. che in D. l'esposizione della dottrina della soddisfazione vicaria prende le mosse dal dubbio sul perché Dio abbia scelto proprio questa via per la redenzione. Nella risposta a questa domanda affiora - malgrado l'identità di contenuto - una lieve diversità nel modo di argomentare. A. dimostra con un'argomentazione a priori la necessità dell'incarnazione; ora D. dice convenia (v. 103), e A. ha un oportet, necesse est. D. dunque, attenuando il carattere di assoluta necessità, così com'è concepito da A., in una convenienza, si trova d'accordo con Tommaso e la teologia più tarda. La diversità del metodo spiega anche il diverso rilievo dei dati dell'esposizione. A proposito della redenzione dell'uomo D. parla più dell'amore e della bontà divina. Anche A. ne tratta, ma nella prima parte dell'opera dove il discorso cade sulle ragioni della convenienza che la seconda persona s'incarni. Qui egli usa le espressioni benignitas, dilectio et pietas, misericordia, ecc. Anche in Cur deus homo II XX, che non fa più parte del nucleo dell'opera, si occupa soprattutto della misericordia di Dio, che si manifesta nel modo della redenzione. Questi concetti però passano in secondo piano, rispetto alla giustizia assoluta, nella parte principale (1 XI - II XV; cfr. F.S. Schmitt, Die wissenschaftliche, Methode), che dimostra aprioristicamente la necessità dell'incarnazione e della redenzione; a suo giudizio c'è soltanto un'unica via per la salvezza dell'umanità. Qui A. dimostra che non corrisponderebbe alla dignità di Dio dispensare l'uomo dalla sua colpa " sola misericordia ", mentre D. dice che Dio mostra col dono di sé la sua generosità. Ciò nondimeno D. ha consentito con l'impostazione di A. nell'accenno finale alla giustizia.
Il prologo della Commedia e il de similitudinibus di Anselmo. - In If XV 49-54, nel colloquio col suo maestro Brunetto Latini, D. si richiama al prologo della Commedia: Là sù di sopra, in la vita serena / ... mi smarri' in una valle. Non si tratta di una pura coincidenza, anzi è risaputo che i primi versi del prologo sono stati ispirati a D. dal Tesoretto del Latini: anche quest'opera comincia infatti col racconto di come l'autore ha smarrito il cammino e si è perduto in una " selva diversa " (v. 190). Tuttavia il prologo dantesco non ha, all'infuori di questo parallelo esteriore, alcun punto in comune con l'introduzione del Latini; le loro strade prendono una direzione differente. C'è però un'opera attribuita ad A., in cui molti punti in comune col prologo di D. possono spiegarsi solamente con una diretta dipendenza di quest'ultimo (qualche deviazione è comprensibilissima, data la diversa natura delle due opere). Si tratta del De Similitudinibus (P.L. 158, 605-708).
Quest'opera, che nei manoscritti è stata generalmente attribuita ad A., in realtà è una tarda compilazione tratta principalmente da due opere di scolari di lui, che riproducono suoi discorsi, cioè i Dicta Anselmi del monaco Alessandro di Canterbury e il De Humanis moribus di un autore sconosciuto dello stesso ambiente; nel De Similitudinibus confluiscono inoltre estratti della Vita Anselmi di Eadmer. Il De Similitudinibus fu molto diffuso sotto il nome di A. fin dal XIII secolo, ed era opera perciò facilmente accessibile a D. (anche Tommaso si è occupato, in Sum. theol. II II 161 6 ad 3, dei sette gradini dell'umiltà in A.).
Paralleli esteriori. - Il luogo in cui si svolgono gli avvenimenti per A. è una valle (" vallis "). D. parla più volte di una selva; ma in If I 14 parla di valle, e così in XV 50. Questa valle (selva) per D. è oscura e per A. " tenebrosa, caligine tenebrarum densissima ". D. chiama questa selva selvaggia, A. " bestiis plena ", piena di bestie feroci, che è di significato analogo. Al termine di questa valle (If I 13-14, dove D. dice espressamente valle) si erge un'altura: colle in D., " mons " in A.; sulla cima di detto monte risplende una luce: A. vi vede una " lux non modica ", D. la luce del sole. In questa valle di A., corrispondente ai piedi del monte di D., compaiono bestie feroci che assalgono l'uomo (impersonificato da D.), corrispondente allo spirito umano in A., e gli sbarrano il cammino. Tra queste bestie, due (il leone e il lupo) compaiono sia in A. che in D;. inoltre in D. compare la lonza, in A. invece la volpe, il serpente, la rana, il cervo " e molte altre ". Per la scelta delle fiere D. si rifà senza dubbio a Ierem. 5, 6: qui tuttavia le fiere compaiono in un contesto completamente diverso, dove ciò che manca è soprattutto un loro significato allegorico di vizi. Anche il termine selva (in luogo del " vallis " di A.) dovrebbe derivare dallo stesso passo: " leo de silva ".
Paralleli nell'interpretazione allegorica. - I due autori presentano una grande affinità nell'interpretazione allegorica di queste immagini. Esse, sia in A. che in D., non avrebbero senso al di fuori dell'allegoria. A. ha dato egli stesso l'interpretazione delle proprie immagini, per D. esiste una generale coincidenza tra gl'interpreti. Che D. ammetta un'interpretazione allegorica si può chiaramente vedere da Ep XIII 20. La valle in A. simboleggia la superbia ovvero il luogo cui essa mena, il quale non si erge come un monte luminoso, ma si presenta piuttosto come una bassura, un abisso mostruoso, una sede dei vizi. L'oscurità che vi domina simboleggia la mancanza della luce di verità, la mancanza di consapevolezza. In D. la selva oscura simboleggia la condizione di peccato; il poeta vi è precipitato non appena si è allontanato dalla diritta via: il sonno lo aveva privato dei sensi. Anche qui, dunque, assenza di vigilanza e di consapevolezza (e insieme di umiltà). In A. il monte che si erge in altezza è l'umiltà che bisogna raggiungere scalando sette gradini; il colle di D. simboleggia la virtù: lo si deve ascendere dopo aver volto le spalle alla vita peccaminosa. La luce che brilla sulla cima del monte non viene interpretata direttamente da A., ma il suo significato risulta dal suo opposto: l'oscurità della 'valle. Essa è la consapevolezza raggiunta attraverso la virtù (il primo grado dell'umiltà è perciò anche la cognitio sui), è la luce della verità. La luce che in D. rischiara la cima del colle, è un raggio di speranza nella salvezza dalla paura e dall'orrore. Le fiere, che creano scompiglio nella valle, in A. sono i vizi, e sono indicati in modo preciso: il leone è il simbolo della crudeltà, della ferocia (" crudelitas "); la volpe dell'astuzia; il serpente dell'invidia (si pensi al Paradiso); la rana della loquacità e dell'ira; il cervo dell'impurità; il lupo della rapacità (" rapacitas "). Allo stesso modo le tre fiere che vogliono impedire a D. di salire sul colle sono il simbolo di vizi e passioni. Secondo un'interpretazione generalmente accettata, la lonza simboleggia la lussuria, il leone la superbia e la lupa l'avarizia. Tutte queste somiglianze si spiegano soltanto con l'ipotesi che D. si sia ispirato al De Similitudinibus.
Bibl. - F.S. Schmitt, D. und A. von Canterbury. Zum Prolog der D. C., in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Firenze s.d. [ma 1956] 651-666; ID., Die wissenschaftliche Methode in A. s " Cur deus homo ", in Spicilegium Beccense, I, Parigi 1959, 349-370; R.W. Southern - F.S. Schmitt, Memorials of St. Anselm, Londra 1968.