Santi Romano
Uno dei massimi giuristi del Novecento. Giuspubblicista, coltivò parimenti i campi del diritto costituzionale e del diritto amministrativo, fornendo contributi decisivi, nei primi venti anni del secolo, per la costruzione dello Stato liberale di diritto in Italia. Allievo di Vittorio Emanuele Orlando, a differenza del suo maestro, che fu anche avvocato e uomo politico di grande rilevanza, nel corso dell’età liberale si dedicò in modo praticamente esclusivo allo studio e all’insegnamento universitario. Al culmine del suo impegno dottrinale troviamo la monografia L’ordinamento giuridico (1918) che più lo ha reso celebre nel campo della teoria del diritto, come sostenitore delle dottrine del diritto come istituzione, ovvero come ordinamento basilare della società, in polemica con le dottrine puramente normativistiche. Con l’avvento del fascismo divenne un uomo pubblico, presidente del Consiglio di Stato, dal 1928 al 1944, e senatore del Regno, nominato nel 1934.
Santi Romano nasce a Palermo il 31 gennaio 1875. Si laurea nell’università della sua città nel 1896 dedicandosi successivamente, in modo esclusivo, nei primi venti anni del secolo, alla ricerca e all’insegnamento presso le Università di Camerino (1899-1902), di Modena (1902-1908), di Pisa (1908-1924) e, infine, di Milano e anche di Roma, dove tenne per incarico l’insegnamento di diritto costituzionale nel periodo successivo, in cui svolgeva l’ufficio di presidente del Consiglio di Stato.
L’origine palermitana è certamente decisiva per la formazione di Romano. A Palermo operava Orlando, che proprio nell’ultimo decennio del secolo aveva avviato la creazione della grande scuola giuridica nazionale, chiamando i giuristi a un impegno diretto a sostegno dello Stato nazionale. A questo fine, Orlando nel 1891 aveva anche fondato l’«Archivio di diritto pubblico», un periodico che può essere considerato la vera e propria prima rivista della giuspubblicistica italiana. Romano, come semplice studente allievo di Orlando, certamente frequentò lo studio del maestro, presso il quale si allestivano queste imprese scientifiche.
Nel 1896, data della laurea dello stesso Romano, Orlando stava peraltro smobilitando l’«Archivio» per lanciare una nuova e ben più ambiziosa impresa: il Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, con il quale si puntava a una ricostruzione organica del diritto pubblico dal lato dell’amministrazione, che era quello più in movimento in quegli anni, nei quali sempre più pressante era il problema dell’intervento dello Stato nella società, dei nuovi compiti che lo Stato stesso era chiamato ad assumere in materia sociale.
Romano aderì immediatamente al progetto, sulla scia del maestro, collaborando ai primi volumi del Trattato con alcuni saggi che costituiscono vere e proprie monografie nelle quali egli dimostra una padronanza assoluta della letteratura scientifica internazionale e, nello stesso tempo, un’acuta sensibilità nei confronti delle trasformazioni dello Stato, chiamato a nuovi compiti dalla società in fermento. Tale sensibilità accompagna tutto lo svolgimento della sua opera scientifica e trova il suo manifesto nella nota prolusione pisana del 1909 dedicata a Lo Stato moderno e la sua crisi, in cui la parola-chiave è ormai divenuta in modo esplicito crisi, nel senso che si percepisce nella società l’incedere progressivo di trasformazioni tali da mettere in crisi lo stesso Stato moderno, nella versione, a Romano coeva, di Stato nazionale di diritto.
È entro questo quadro che deve essere collocata la sua opera più nota, il saggio su L’ordinamento giuridico, del 1918, che nasce proprio dal tentativo di superare le più tradizionali concezioni normativistiche al fine di tornare a reperire il diritto nella società, proprio in quella società che si andava articolando in modo sempre più complesso, sempre meno contenuto e rappresentato dallo Stato medesimo.
Carico di tali inquietudini, Romano, all’avvento del fascismo, si pone di fronte al mutamento di regime. Diciamo subito che Romano non fu un giurista del regime, nel senso di Carlo Costamagna o di Sergio Panunzio. Non predicò cioè mai il primato dei principi politici del regime. Si mantenne sempre fedele alla sua identità di giurista, di giuspubblicista. Nello stesso tempo, proprio come giurista, ritenne possibile operare entro il regime fascista. Con una formula riassuntiva, potremmo dire che non fu giurista del regime, ma piuttosto giurista nel regime. In tale veste, operò come presidente del Consiglio di Stato, svolgendo un ruolo di primo piano sulla scena istituzionale, tra le alte cariche dello Stato. Nel profondo, agiva in lui, come in molti altri giuristi del suo tempo storico, la convinzione che lo Stato possedesse una sorta di ‘natura’ , o anche ‘personalità’, intrinsecamente giuridica, che era compito – o forse addirittura ‘missione’ – della scienza giuridica custodire e preservare, nei confronti di ogni regime politico, indipendentemente dalla sua configurazione sul piano ideologico. C’era insomma anche nel regime fascista un diritto, che non era più la legge del Parlamento in senso liberale e democratico, ma era pur sempre un diritto – specialmente quello della pubblica amministrazione, di cui Romano si occupò sempre, fino dalle sue prime monografie – che abbisognava dell’opera del giurista, ovvero di essere letto, interpretato e sistemato con gli strumenti che solo il giurista possedeva, allora come in ogni altra epoca. Questa è anche la linea che lo stesso Romano seguì nel difendersi dalle accuse che gli furono rivolte dall’Alto commissariato dopo la caduta del regime: di aver sempre mantenuto una posizione di sostanziale indipendenza e di aver conseguentemente tutelato l’indipendenza della stessa istituzione che presiedeva (G. Melis, Il Consiglio di Stato ai tempi di Santi Romano, in La giustizia amministrativa ai tempi di Santi Romano presidente del Consiglio di Stato, 2004, p. 52). Romano fece appena in tempo ad assistere al dipanarsi del percorso che avrebbe condotto alla Costituzione repubblicana. Morì infatti il 3 novembre del 1947.
Nel 1914, nel pieno del fertilissimo svolgersi dell’itinerario di ricerca di Romano, il nostro giurista completa la redazione di un’opera fondamentale. L’opera, che non potrà essere pubblicata per il precipitare degli eventi bellici – e che solo ben più tardi sarà ritrovata, ancora inedita, tra le sue carte – può comunque essere considerata il manuale per eccellenza del diritto pubblico dell’età liberale (Il diritto pubblico italiano, 1988). Vi si trovano, con chiarezza esemplare, tutti gli elementi che caratterizzano lo Stato di diritto, ovvero la forma di Stato dominante in età liberale. A iniziare dal punto di partenza dell’intera costruzione dello Stato di diritto, dato dalla grande e poderosa immagine dello Stato come persona, ripresa in Italia dalla dottrina tedesca del secondo Reich. Si tratta di una persona la cui volontà è dotata dell’attributo della sovranità che si esprime primariamente nella legge. Ma quella medesima volontà, per quanto sovrana, è nello stesso tempo limitata, ovvero disciplinata dal diritto che essa stessa ha generato con l’emanazione della legge.
È questo, in una parola, il segreto dello Stato di diritto: uno Stato la cui volontà è nello stesso tempo sovrana e limitata. Romano è pienamente inserito in questa cultura dello Stato di diritto, dominante tra Otto e Novecento, anche in Italia. Il manuale del nostro giurista è perciò, a sua volta, espressione compiuta di quella cultura, che vuole che l’intero campo del diritto pubblico si determini a partire dalla persona sovrana dello Stato e consista nella individuazione dei suoi organi, nella formazione della sua volontà e, infine – solo alla fine –, nella fissazione dei limiti alla esplicazione di quella volontà, sul punto in cui si apre lo spazio dei diritti individuali, quale spazio di risulta, che consegue alla autolimitazione della sovrana volontà della legge dello Stato.
La cultura del tempo è insomma dichiaratamente giuspositivista, e fortemente inclinata in senso statualistico. Romano non fa eccezione, ma nello stesso tempo di quella cultura rappresenta l’anima inquieta, che più è portata a interrogarsi sulle questioni di fondo e meno è disponibile a limitarsi alla semplice riproduzione delle verità dogmatiche consolidate. Leggiamo a questo proposito una pagina del manuale romaniano dedicata alle libertà individuali. Vi si afferma che quelle libertà
non possono considerarsi solo come atteggiamenti e manifestazioni dello Staatsrecht, ma si affermano in una certa antitesi a quest’ultimo, come un suo al di là, pure ammettendo che derivino da un limite che, secondo la dottrina corrente, lo Stato si sia posto da sé (Il diritto pubblico italiano, cit., p. 93).
È evidente il travaglio del nostro giurista. Da una parte, non si può e non si deve uscire dai confini della dominante cultura statualistica, secondo cui la libertà non è altro che il risultato dell’autolimitazione della potestà statuale. Non si può e non si deve perché per quella via, uscendo da quei confini, si determinerebbero le condizioni per un impossibile ritorno al diritto naturale, al giusnaturalismo del tempo delle rivoluzioni, a quel contrattualismo che aveva generato un succedersi vorticoso di costituzioni e, più in genere, un’instabilità complessiva della società e delle istituzioni. Da quel mondo l’Ottocento liberale, e la sua forma di Stato, lo Stato di diritto, hanno preso definitivamente congedo.
Ma d’altra parte, per altro verso, lo stesso Romano non può non percepire l’esistenza di un campo più ampio, anzi di un vero e proprio ‘al di là’ rispetto al diritto pubblico statale, entro cui le libertà non sono più esclusivamente riconducibili a una genesi rigorosamente statuale. Con ciò non s’intende affatto dire che Romano anche solo intuisca il tempo che verrà, e che sarà quello ben diverso dei diritti fondamentali della persona, direttamente radicati nella Costituzione come norma suprema. Il nostro giurista è lontanissimo dall’essere un precursore delle Costituzioni democratiche del Novecento.
In un’altra parte del suo manuale afferma: «Non esiste nel diritto italiano un potere legislativo superiore a quello ordinario. Il quale non soltanto è un potere supremo, ma è altresì assolutamente insindacabile da ogni altro potere, compreso il giudiziario» (Il diritto pubblico italiano, cit., p. 233). E più avanti ancora: «è da escludersi, il che ormai è pacifico, il così detto sindacato sulla costituzionalità intrinseca della legge formale» (p. 373).
In altre parole, non c’è controllo di costituzionalità perché non c’è costituzione, nel senso di norma sovraordinata, su cui incardinare le libertà, su cui costruire il giudizio sulla legge. Romano è ben dentro questa cultura statuale e legalistica, che esclude la possibilità di una norma giuridica sovraordinata. Egli rappresenta quella cultura al più alto livello, la difende e contribuisce in modo esemplare a prorogarla nel tempo.
Ma è anche vero che entro quel quadro generale di riferimento egli operò costantemente con spirito critico, andando spesso a esplorare nelle zone di confine, per tentare di offrire risposte a quesiti che la cultura dominante lasciava sistematicamente irrisolti. Ciò vale in primo luogo proprio per il problema della funzione legislativa e dei suoi limiti. Il fatto che Romano la proclami – come abbiamo visto – suprema e insindacabile non significa, per lui, che si possa lasciare irrisolto il problema dei suoi limiti. Così, già all’inizio del secolo Romano pone con decisione questo problema dei limiti della funzione legislativa, proprio perché avverte come contraddizione insanabile dello Stato di diritto la presenza di una funzione sottratta al principio generale della intrinseca limitatezza di ogni funzione pubblica (Osservazioni preliminari per una teoria sui limiti della funzione legislativa nel diritto italiano, «Archivio del diritto pubblico», 1902, 1, ora in Id., Lo Stato moderno e la sua crisi, 1969, pp. 119-50). Non interessano ora a questo proposito le soluzioni di Romano, che possono anche apparire deboli. Ma lì, in quella questione, c’è il problema storico più decisivo dello Stato di diritto, che solo i più grandi interpreti della dottrina di quella forma di Stato – tra i quali è sicuramente da annoverare lo stesso Romano – hanno osato affrontare: come fondare il limite della legge dello Stato in modo più solido di quanto possa essere garantito da una semplice autolimitazione del sovrano potere statuale, come esprimere quel limite con il linguaggio del diritto, senza per questo ritornare al tempo delle rivoluzioni e del diritto naturale. Di lì, da tale questione, inizia la ricerca del diritto nella società o, meglio, la ricerca di un ordine giuridico della società, nella convinzione che i processi di rapida trasformazione che interessavano quella società tra Otto e Novecento, soprattutto nella sua componente economica, possano risolversi in senso non distruttivo, e anzi al contrario nel senso di un rafforzamento e completamento dell’edificio storico dello Stato di diritto. Lì si può finalmente trovare un diritto positivo, espressione delle forze sociali, un diritto di cui la stessa legge dello Stato può e deve tener conto, dando a esso forma, trovando in esso finalmente il suo limite.
Di questo diritto si occupò in effetti incessantemente il nostro giurista nei primi vent’anni del secolo. Prima, con una serie di saggi nel campo del diritto amministrativo, ovvero sul terreno sempre più decisivo dell’attività dello Stato come amministrazione, dell’intervento dello Stato nella società, delle relazioni che si andavano stabilendo tra pubblica amministrazione e privati. Qui Romano fornirà una sintesi di formidabile rilevanza con i suoi Principii di diritto amministrativo (1901). Ma getterà anche lo sguardo oltre, come testimonia la prolusione pisana del 1909, già ricordata. Il tema della crisi dello Stato vi è assunto di petto. Quella crisi è indicata con precisione nella crescente rilevanza degli interessi economici organizzati, tale da minacciare l’autorità dello Stato. Ma quel che conta è l’indicazione finale: non arroccarsi, ma allargare lo sguardo, nella convinzione che dalla crisi si possa uscire in positivo, perfezionando anzi lo Stato di diritto, ritrovando nella società un ordine giuridico nuovo, ricco di presenze collettive, più ampio e complesso di quello consegnato dalla Rivoluzione francese, troppo semplice perché imperniato su due sole grandezze, lo Stato e l’individuo.
Come ben si vede, l’impegno teorico di Santi Romano si distende in una pluralità di direzioni. Ma è come se in ciascuna di esse fosse contenuto un tassello di un mosaico da comporre. Lo si percepisce bene nel 1918, quando Romano pubblica la sua opera più impegnativa sul piano teorico, L’ordinamento giuridico. Lì è contenuta la sintesi, e il mosaico si completa. Lì finalmente c’è una nuova chiave di lettura che è data dal diritto come istituzione. L’istituzione è una realtà collettiva organizzata, entro cui una molteplicità di forze trova un ordine positivo, che è in sé diritto. La nuova chiave di lettura sostituisce per Romano quella vecchia, di stampo normativistico, che vede diritto solo in presenza di un rapporto giuridico tra due soggetti da regolare con una norma di condotta. Questa visione – che Romano considera di origine e stampo privatistico – non è più adeguata al nuovo tempo storico del Novecento, che non propone più solo, o tanto, rapporti tra individui, quanto, sempre più, soprattutto associazioni e organizzazioni, di uomini e di beni. Vi sono qui i partiti, le leghe, i sindacati, e anche le imprese. Queste sono le istituzioni, nella loro propria configurazione, per quanto subordinata alla macro-istituzione, ovvero allo Stato. Lì si deve cercare il diritto. Poi, la ricerca potrà dare diverso esito. Per Romano si trattava di perfezionare lo Stato liberale di diritto, di recuperare per quella forma di Stato una base più solida. Il discorso di Romano è interno al suo tempo storico e non ha nulla a che fare con il pluralismo che verrà, che sarà proprio del tempo successivo della democrazia e della Repubblica. Nel mezzo, tra l’età liberale e la democrazia, si pone il regime fascista che dell’immagine di una realtà concatenata e disciplinata di istituzioni tenterà di dare una versione totalitaria. Romano fu giurista nel regime, in modo anche autorevole, come presidente del Consiglio di Stato. Non aderì però mai alla versione autoritaria e totalitaria del suo istituzionalismo. Lasciò il suo volume in un cassetto, e lo riprese solo dopo, quando il regime era ormai caduto, ripubblicando nel 1946 il testo inalterato.
Lo Stato di diritto di Santi Romano è dunque una realtà in trasformazione, che si osserva muovendo dalla percezione, lucida e consapevole, di uno stato di crisi. C’è però anche, in quella cultura costituzionale, uno strato ancora più profondo in cui si ritrova una fiducia forte, e quasi estrema, nella forza dello Stato, nel senso della capacità di quello Stato di riconfermare la sua autorità a fronte di una società sempre più viva, attraversata da tensioni sempre più forti, sempre più dominata dalla nuova realtà degli interessi organizzati. In questo quadro complessivo, il regime fascista è visto come uno strumento di quella riconferma, come un’occasione di rinascita per lo Stato.
Del regime non interessano tanto le declamazioni di principi, che anzi da giuristi come Romano sono poste ai margini, come frutto di una dimensione che non interessa il diritto, quanto il suo essere strumento di restaurazione dell’autorità dello Stato, e in particolare della sua suprema potestas, ora collocata nel potere esecutivo. Si dirà che uno Stato senza libertà politiche e senza dialettica democratica non è più uno Stato di diritto? Non era così nella cultura costituzionale del tempo, e anche in Santi Romano. In quella cultura, ogni Stato era Stato di diritto, per il fatto stesso di esistere come istituzione, come realtà in sé ordinata. Il fatto che lo Stato del regime non fosse più «di diritto» dal punto di vista del costituzionalismo rivoluzionario, della separazione dei poteri, e della garanzia legislativa e costituzionale dei diritti, non lo rendeva meno «Stato», e lasciava pertanto tutto intero al giurista il compito di contribuire a ordinare, a dare forma, a garantire calcolabilità e imparzialità all’azione amministrativa, e anche a fare argine nei confronti delle tendenze più estreme del regime, che predicavano la subordinazione dello Stato al partito, del diritto ai principi etico-politici della rivoluzione fascista.
C’è quindi una profonda continuità tra il Romano dell’età liberale, quello che in particolare studia e analizza il nuovo diritto dell’amministrazione, o quello della dottrina dell’ordinamento giuridico, del diritto come istituzione, e il Romano che opera entro il regime, anche come presidente del Consiglio di Stato: oggetto delle sue cure, della sua ricerca scientifica, del suo impegno complessivo come giurista, è sempre e comunque lo Stato come istituzione, come soggetto sovrano, e nello stesso tempo come ordinamento in sé regolato. Proprio per questo motivo, diviene particolarmente interessante l’ultimo Romano, che negli ultimi anni della sua vita ha modo di riflettere sulle prospettive che si aprono dopo la caduta del regime. C’è ancora spazio, nella nuova realtà che si va affermando, per lo Stato di diritto di Santi Romano? Ovvero per quella forma di Stato di cui il nostro giurista era stato edificatore e custode, prima nell’età liberale, e poi nel ventennio fascista?
C’è un testo prezioso, che può aiutarci a dare una risposta a questo quesito. È un saggio dedicato a Rivoluzione e diritto, uno dei saggi che Romano raccolse nei suoi Frammenti di un dizionario giuridico, nel 1947, anno della sua morte. Il saggio in questione indica anche il mese in cui è stato redatto: settembre 1944. È una data non indifferente nella biografia del nostro giurista. In quella medesima estate, infatti, Romano è chiamato a rispondere dell’accusa di essere un ‘fiancheggiatore’ del regime fascista. Può darsi che tutto questo abbia influito sul giudizio che lo stesso Romano formula degli eventi immediatamente successivi alla caduta del regime. Quel che però è certo è che si tratta di un giudizio liquidatorio: i partiti che conducono il processo rivoluzionario sono capaci di sole intese provvisorie, di «carattere essenzialmente politico», in sé medesime incapaci a produrre autentiche «norme giuridiche» (Rivoluzione e diritto, in Frammenti di un dizionario giuridico, cit., p. 227); la rivoluzione stessa, in nome di principi di giustizia, quasi per sua natura, diviene fatalmente ingiusta, non riesce a ordinarsi, e produce così «le uccisioni degli avversari o di chi è ritenuto avversario, le persecuzioni più crudeli, le espropriazioni di beni anche se acquistati legittimamente, le proscrizioni di ogni sorta» (p. 227); infine, vi è per Romano una «grave deteriorità tecnica degli ordinamenti che hanno per oggetto le rivoluzioni in atto» (p. 232), quasi un’incapacità dell’atto rivoluzionario in sé, in quanto tale, di produrre un adeguato livello di sicurezza e di certezza del diritto.
Più in generale si descrive la rivoluzione, e in particolare quella italiana successiva alla caduta del regime fascista, come l’aprirsi di un periodo di assoluta e permanente instabilità: «Ci si aggira così in un circolo chiuso, per cui le costituzioni che hanno un’origine rivoluzionaria determinano altre rivoluzioni» (p. 229). Insomma, la prognosi è infausta. Secondo Romano, la via dell’Assemblea costituente, che si stava imboccando in Italia, avrebbe aperto una fase di grave incertezza, essendo in sé incapace di produrre autentico ordine giuridico. Dunque, l’Assemblea costituente minacciava lo Stato di diritto. Minacciava soprattutto di collocare al di sopra dello Stato, del suo diritto, e della sua costituzione, un’altra «costituzione», che intendeva come norma suprema, in apparenza protesa a costruire un nuovo ordine, ma in realtà frutto, secondo Romano, di contingenti volontà politiche, in sé incapaci d’istituzionalizzarsi, di darsi, e di dare, ordine.
L’ultimo manuale di Santi Romano, Principii di diritto costituzionale generale, pubblicato nel 1945, è nella sua motivazione di fondo dedicato a riconfermare il diritto costituzionale della tradizione, la costituzione come «complessa e reale organizzazione in cui lo Stato effettivamente si concreta» (Principii di diritto costituzionale, cit., p. 57), contro la nuova «costituzione», che si rappresenta come il «prius del diritto» (p. 57), e che proprio per questo motivo, secondo Romano, minaccia di tradursi nel dominio di una volontà originaria ed esterna, in sé politica. Di fronte alla nuova esperienza dell’Assemblea costituente, Romano è dunque integralmente giurista della tradizione, figlio di quella cultura positivistica e statualistica che era stata dominante anche in Italia tra Otto e Novecento. Di quella tradizione Romano era stato interprete e costruttore di prima grandezza, soprattutto nel corso dell’età liberale, e anche suo severo custode, durante il ventennio fascista. L’aveva concepita come un patrimonio da accrescere continuamente, esplorando spesso problemi di vertice, o di confine, risalendo dai più minuti problemi di dogmatica giuridica al piano ultimo della teoria generale. Aveva anche messo quella tradizione a confronto con una realtà sociale in trasformazione, nella prospettiva di un allargamento dello sguardo, denunciando apertamente l’esistenza di uno stato di crisi, e la necessità di costruire una risposta. Insomma, un giurista della tradizione, ma aperto e coraggioso. Ora però l’esplorazione era terminata. Nell’ottica di Romano, la società democratica nascente conteneva infatti in sé qualcosa di esorbitante, di irriducibile al suo ideale di ordine giuridico. Non era più la «crisi» che aveva rilevato nel 1909. Era molto di più. Per lui, nel farsi della nuova Costituzione qualcosa di essenziale si stava rompendo. Anche per lui, stava iniziando un’altra storia.
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