MARMOCHINO, Santi
MARMOCHINO (Marmochini, Marmocchini), Santi. – Originario di San Casciano in Val di Pesa, nei pressi di Firenze, le prime notizie su di lui risalgono al 27 febbr. 1490, quando vestì l’abito domenicano, e al 6 marzo 1491, quando emise la professione nel convento di S. Domenico a Fiesole, secondo la testimonianza della Chronica quadripartita conventus S. Dominici de Fesulis (Verde, La Congregazione, p. 211).
Entrato a far parte dell’Ordine negli anni della predicazione savonaroliana a Firenze, il M. ebbe modo di acquisire gli strumenti della propria formazione biblica e teologica apprendendo l’ebraico, il greco e il latino probabilmente presso il Collegium trilingue fondato da G. Savonarola a S. Marco e partecipando attivamente all’opera di riforma conventuale da lui promossa. In qualità di suddiacono, fu tra i ventisei frati inviati nel gennaio 1494 a riformare il convento di Prato.
Dopo la morte di Savonarola (1498) si trasferì nel convento di S. Romano a Lucca: il suo nome si trova fra quelli dei votanti nelle liste dei capitoli a partire dal 5 sett. 1498 e, a fasi alterne, fino al 1518. Qui si distinse per l’impulso dato a una spiritualità tipicamente piagnona soprattutto nella sua attività di confessore delle monache di s. Nicolao Novello, espletata fra il 1517 e il 1518. Le liste capitolari di altri conventi toscani testimoniano della sua partecipazione alla vita comune fino al 1523: come maestro dei novizi a Prato nel 1504, nel 1507 a Pistoia, a Siena nel 1520, a Pisa nel 1521, a San Gimignano fra il 1522 e il 1523. Le sue tracce scompaiono fra il 1523 e il 1527, anno in cui fu confessore presso l’ospedale degli Innocenti di Firenze durante la peste. È ipotizzabile che in quell’arco di tempo si sia recato in Francia, come afferma tuttavia la sola Chronica quadripartita.
Il M. fu convinto sostenitore non solo della necessità di una rigorosa riforma della vita religiosa, ma anche degli ideali profetici savonaroliani più radicali con chiari intenti apologetici. È un indizio di questa tendenza l’indice degli argomenti da lui curato per la versione latina manoscritta dell’Oracolo di rinnovatione della Chiesa del confratello L. Bettini (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Mss. lat., cl. III, 162 [=3009], cc. 9-20, relative all’indice), un testo comparso la prima volta a Firenze nel 1510 e condannato nell’Indice dei libri proibiti nel 1559. Significativa è anche l’aperta menzione del M. che fece il monaco Teodoro (personaggio controverso, la cui predicazione escatologica era stata collegata alla frangia più estremista degli eredi di Savonarola), includendolo fra i propri seguaci nella confessione pronunciata nel 1515 di fronte alle autorità ecclesiastiche fiorentine. Un’ulteriore conferma dell’appartenenza del M. a questo gruppo è la sua partecipazione alla diffusione della memoria della santità di Savonarola, contravvenendo ai divieti delle gerarchie ecclesiastiche. Il M. infatti è citato più volte sia come testimone nel Trattato dei miracoli (manoscritto formato da diversi repertori con cui furono tramandati i miracoli compiuti da Savonarola prima e dopo la morte) sia fra i possessori di reliquie e libri appartenuti al maestro. Una sua cronaca, di cui si sono perse le tracce, è annoverata tra le fonti di una tra le più note biografie savonaroliane: la Vita latina. Ulteriore prova dello strenuo impegno nel rivendicare la propria devozione a Savonarola come profeta e martire è l’intenzione «di stampare molte opere proprie e del padre frate Ieronimo di Firenze», secondo quanto riporta una nota di spesa del giugno 1536 dell’ospedale dei Ss. Giovanni e Paolo di Venezia (detto anche «Ospedaletto dei derelitti»), in cui è registrata la concessione al M. di uno stipendio di 12 ducati come insegnante di ebraico, greco e latino ai chierici preposti alla cura delle anime degli ammalati e dei poveri nell’istituto (Arch. di Stato di Venezia, Ospedali e luoghi pii, b. 910, c. n.n.).
Il M. giunse nella città lagunare la prima volta presumibilmente intorno al 1534, dopo un viaggio che aveva toccato Gubbio, Urbino, Ravenna e Chioggia; soggiornò per due mesi presso il convento domenicano dei Ss. Giovanni e Paolo per poi trasferirsi presso quello dei canonici regolari di S. Spirito in Isola, dove rimase «otto mesi a leggere la lingua hebrea e la latina» (Firenze, Bibl. nazionale, Magl., XXVIII.20: Dialogo in defensione della lingua thoscana, c. 17v). Nel 1535 si spostò a Padova, dove gli fu conferito il titolo di «magister et doctor», come conferma l’atto del 12 luglio del notaio e cancelliere del capitolo della cattedrale G. Ottinelli (Veronese Cesaracciu).
Nel 1536, tornato a Venezia, si mantenne oltre che con l’insegnamento delle lingue bibliche, anche lavorando come precettore presso la famiglia Mocenigo. L’affidamento di una cappella in Ss. Giovanni e Paolo fu per lui occasione di entrare in contatto con gli editori Giunti, impegnati nell’opera di carità e di soccorso svolta dall’Ospedaletto e legati alla chiesa assegnata all’Ordine domenicano, dove si trovava la loro tomba di famiglia. Grazie a loro il M. riuscì a pubblicare La Bibia nuovamente tradotta dalla hebraica verita in lingua thoscana (Venezia, eredi di L. Giunti, 1538, ristampata nel 1545 con una seconda emissione l’anno successivo).
Il volgarizzamento, frutto di una vita dedicata allo studio e all’insegnamento del testo biblico, nasceva dalla convinzione che fosse necessario avvicinare alla parola di Dio nella sua purezza originaria un numero sempre maggiore di persone nel cammino di rinnovamento ecclesiastico. Considerata per molto tempo una risposta ortodossa alla versione del 1532 di A. Brucioli, simpatizzante delle idee della Riforma (il primo a sostenerlo fu J. Le Long nella sua Bibliotheca sacra), la Bibia del M. è in realtà corredata da apparati di indubbia provenienza eterodossa. La Tavola seconda nella sezione degli indici è traduzione letterale di quella pubblicata da Johannes Rudelius per la Biblia edita da P. Quentel a Colonia nel 1527, utilizzata dal M. anche per la traduzione del terzo libro dei Maccabei e ripetutamente condannata nell’Indice dei libri proibiti dal 1546 per i contenuti teologici contrari alla dottrina cattolica. Attraverso i commenti inseriti a margine della traduzione, il M. ebbe ancora modo di manifestare le proprie convinzioni savonaroliane, valorizzando il carisma della profezia e condannando la corruzione ecclesiastica.
Nella traduzione il M. utilizzò, soprattutto per la parte relativa all’Antico Testamento, la versione latina nota per il rigore filologico del confratello Sante Pagnini (Lione 1527), che egli aveva avuto modo di frequentare durante i primi anni fiorentini e nel periodo trascorso a Lucca. Il risultato fu un testo per molti versi lontano dalla Vulgata, segno della volontà di riprodurre non solo il significato ma anche le strutture sintattiche e grammaticali dell’originale ebraico. Sul piano teologico-dottrinale, la conseguenza non trascurabile di questa scelta fu un avvicinamento all’esegesi rabbinica che rendeva incerta l’interpretazione tradizionale cattolica di alcuni brani veterotestamentari. Una constatazione simile può essere fatta anche per la traduzione del Nuovo Testamento, influenzata dalla critica filologica di Erasmo da Rotterdam e Lorenzo Valla.
L’esigenza di far convergere nella traduzione l’assoluto rispetto della hebraica veritas con l’intento evangelistico di predicare e diffondere la parola per coloro che non padroneggiavano il latino (elemento che rafforza l’ipotesi dell’intenzione del M. di rendere disponibile a un pubblico più vasto la versione biblica di Pagnini, punto di partenza per i traduttori europei nel corso del secolo XVI), lo spinse a comporre nell’ultimo periodo della sua vita il Dialogo in defensione della lingua thoscana. L’opera, rimasta manoscritta (Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., XXVIII.20), è redatta in forma di dialogo fra l’autore e un accademico; è ambientata nella Firenze di Cosimo I de’ Medici, dove il M. era tornato, entrando a far parte il 10 ott. 1542 della facoltà di teologia, di cui fu eletto decano l’anno successivo.
Nel Dialogo, a prova della correttezza filologica del suo volgarizzamento, il M. teorizzò la provenienza della lingua toscana dall’ebraico tramite l’etrusco. Ispirandosi alle teorie espresse dal domenicano G. Nanni da Viterbo, detto Annio, nei suoi famosi Commentaria super opera diversorum auctoribus de antiquitatum loquentium (Roma 1498), tale parentela linguistica fu motivata storicamente dal M. attraverso il recupero del mito di fondazione della Toscana a opera del patriarca Noè giunto in Italia da Oriente dopo il diluvio universale e identificato con il primo re italico Giano. A questo scopo, al termine dell’opera, presentò un piccolo dizionario composto da un curioso elenco alfabetico di etimi ebraici dai quali derivavano molti termini toscani. In polemica con le posizioni aristoteliche di alcuni accademici riguardo alle origini della lingua toscana (in particolare G.B. Gelli e P. Giambullari, i quali avevano riproposto a loro volta il mito noachico soprattutto allo scopo di celebrare il principato mediceo), nel Dialogo fu ribadita con forza l’idea che la lingua donata da Dio ad Adamo fosse quella ebraica, rimasta incorrotta dopo la confusione di Babele e dunque l’unica che potesse avvicinare l’uomo ai misteri divini. Tale punto di vista fu condizionato dalle teorie esposte da Pagnini nelle Institutiones Hebraicae (Lione 1526), di cui il M. si servì largamente per la stesura del Dialogo insieme al Dictionarium Hebraicum (Basilea 1525) di S. Münster, ebraista di origine tedesca e appartenenza protestante.
Il M. si distinse non solo per la vocazione nei confronti dell’insegnamento e dello studio della Bibbia, ma anche per i molteplici interessi in più campi, da quello storico-archeologico (egli stesso affermava di conoscere l’etrusco, che era stato chiamato in più occasioni a decifrare) a quello astronomico e cronografico, di cui fu frutto il Manus computi ciclorum ecclesiasticorum, opera rimasta manoscritta (Firenze, Biblioteca nazionale, Conv. soppr., J.IX.16 [161]), e il De exacta et festis mobilibus, della quale si sono perse le tracce.
Il M. morì nel 1548 in un ospizio a San Casciano in Val di Pesa, come narra la Chronica quadripartita, nonostante molti repertori riportino come data di morte il 1545.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Notarile antecosimiano, 1258, cc. 79-80; Mediceo del principato, 1173/8, n. 359; Roma, S. Sabina all’Aventino, Arch. generale dell’Ordine dei predicatori, IV, 22: Registrum litterarum et actorum procuratorum et vicariorum generalium… pro anni 1525-1531, c. 41v; A. Gherardi, Nuovi documenti e studi intorno a Girolamo Savonarola, Firenze 1887, pp. 83 s.; A.F. Verde, La Congregazione di S. Marco dell’Ordine dei frati predicatori, in Memorie domenicane, n.s., XIV (1983), p. 211; E. Veronese Cesaracciu, Aggiunte agli «Acta graduum acadaemicorum (1501-1550)». Dagli atti del notaio Gasparo Ottinelli. Schede d’archivio, in Quaderni per la storia dell’Università di Padova, XVIII (1985), p. 193; M. Coli, La grande et animosa impresa de Sancto Georgio. Come e perché il monastero di S. Giorgio di Lucca nacque e crebbe savonaroliano, in Memorie domenicane, n.s., XXIX (1998), p. 375; M. Poccianti, Catalogus scriptorum Florentinorum omnis generis, Florentiae 1589, p. 159; R. Badius, Constitutiones et decreta sacra Florentina Universitatis theologorum, Florentiae 1589, p. 136; Ambrogio da Altamura, Bibliothecae Dominicanae, Romae 1677, pp. 242, 531; J. Le Long, Bibliotheca sacra, II, Lipsiae 1709, pp. 128-130; J. Quétif - J. Échard, Scriptores Ordinis praedicatorum, II, Paris 1721, p. 124; G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, p. 490; P. Villari, La storia di Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi, I, Firenze 1930, p. XXII; A. Prosperi, Il monaco Teodoro. Note su un processo fiorentino del 1515, in Critica storica, n.s., XII (1975), p. 95; C. Piana, La facoltà teologica di Firenze nel Quattro e Cinquecento, Grottaferrata 1977, pp. 403-405, 454; M. Martelli, Un disegno attribuito a Leonardo e una scoperta archeologica degli inizi del Cinquecento, in Prospettiva, 1977, n. 10, pp. 58-61; Palazzo Vecchio. Committenza e collezionismo medicei. Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento (catal.), Milano-Firenze 1980, p. 22; A. Morisi Guerra, Di alcune edizioni veneziane della Bibbia nella prima metà del ’500, in Clio, XXI (1985), pp. 72-76; La «Cronaca» del convento di S. Romano in Lucca, a cura di A.F. Verde - D. Corsi, in Memorie domenicane, n.s., XXI (1990), pp. 397-400, 403, 405, 407; La Bibbia a stampa da Gutenberg a Bodoni, a cura di I. Zatelli, Firenze 1991, pp. 133 s.; E. Barbieri, Le Bibbie italiane del Quattrocento e del Cinquecento. Storia e bibliografia ragionata delle edizioni in lingua italiana dal 1471 al 1600, Milano 1992, I, pp. 131-133, 262-266; L’Epistolario di fra Vincenzo Mainardi di San Gimignano domenicano 1481-1527, a cura di A.F. Verde, in Memorie domenicane, n.s., XXIII (1992), pp. 613, 615, 639, 673, 705, 707, 723; M. Coli, La lettera su S. Michele di Guamo del maestro generale Vincenzo Bandello ai frati di S. Romano in Lucca e i rapporti fra loro ed i Lucchesi, ibid., XXVII (1996), pp. 590, 592; J. Benavent, El Tratado de milagros de fra Gerolamo Savonarola. El códice de Valencia y la tradición manuscripta, ibid., XXVIII (1997), pp. 43, 73 s., 130 s.; G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Bologna 1997, pp. 31, 33-36, 60-62; B. Luschino, Vulnera diligentis, a cura di S. Dall’Aglio, Firenze 2002, pp. 335 s.; L. Saracco, Aspetti eterodossi della «Bibbia nuovamente tradotta dalla hebraica verità in lingua thoscana» di S. M.: risultati di una ricerca, in Dimensioni e problemi della ricerca storica, VI (2003), 2, pp. 81-108; S. Dall’Aglio, Savonarola e il savonarolismo, Bari 2005, pp. 109, 131, 142; L. Saracco, Un’apologia della «Hebraica veritas» nella Firenze di Cosimo I: il «Dialogo in defensione della lingua thoscana» di S. M., in Riv. di storia e letteratura religiosa, XLII (2006), pp. 215-246.